La Voce del Popolo 2010 43

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LA VOCE DEL POPOLO 12 NOVEMBRE 2010

Opinioni

di Giuseppe Mari

Famiglia

Famiglia cristiana e vita buona I Vescovi italiani hanno pubblicato i lineamenti del prossimo decennio pastorale dedicandoli alla “sfida educativa” che il testo della Cei collega alla “vita buona” come frutto della fede in Cristo. Si tratta di una felice intuizione che prende sul serio, affronta e respinge la convinzione da cui ha preso origine il nichilismo e continua ad alimentarsi il pregiudizio anticristiano a esso correlato: che la fede in Cristo renda l’essere umano meno capace di affrontare l’esistenza. Il cristianesimo, in realtà, introduce nella “vita buona”, come avevano chiaro i primi cristiani quando chiamarono la loro fede “via”, intendendo sottolineare che recava in se stessa – oltre al dono della salvezza eterna – un concreto e fruttuoso stile di vita, capace di far fiorire la persona già in questo mondo. Sul piano educativo, quindi, il cristianesimo ha qualcosa da dire, come peraltro dimostrano i venti secoli di storia che abbiamo alle spalle. E questo vale anche per la famiglia e per la pratica educativa che – tra evidenti difficoltà – si svolge in casa. Il documento della Cei conferma il “primato educativo” della famiglia (nn. 36-38), discendente dal fatto che i genitori sono depositari della prima e fondamentale responsabilità formativa rispetto ai figli. I Vescovi invitano i genitori alla “fortezza”, virtù quanto mai indispensabile oggi quando tutto sembra fluido, quindi fragile e volubile. Ma da dove trarre la fiducia indispensabile per affrontare l’“emergenza educativa” già denunciata da Benedetto XVI? Vorrei segnalare solo una delle pregevoli indicazioni offerte dagli orientamenti pastorali per il prossimo decennio. Si tratta del n. 25, in cui – prendendo le mosse dall’incontro tra Cristo e i due discepoli di Giovanni Battista che si uniranno a lui – il testo della Cei mostra la sapienza pedagogica delle parole di Gesù. Nella tradizione educativa cristiana si è a lungo insistito sulla presenza – soprattutto all’interno del Nuovo Testamento – di insegnamenti utili alla pratica educativa. Negli ultimi decenni, quella che veniva chiamata con espressioni come “pedagogia del Vangelo” oppure “pedagogia di Cristo” è stata messa da parte non per cattiva volontà ma perché si è fatta largo una legittima domanda di scientificità. Sennonché si è caduti nell’equivoco di accreditare unilateralmente la scientificità di ciò che non reca riferimenti confessionali, proprio quando – sul piano epistemologico – è diventato chiaro che non esiste alcuna conoscenza che prescinda da una qualche fede. Forse ora si tratta, anche dietro impulso dei Vescovi, di riprendere in mano alcuni vettori educativi non per cancellare quello che si è conquistato perseguendo una pedagogia “scientifica”, ma perché ci siamo ricordati che il fine della scienza non è la conoscenza, ma la persona.

di Alberto Zaina

Beni culturali

Il memento mori dei monumenti Crolla per incuria la Casa dei Gladiatori, a Pompei e giustamente si stigmatizza il fatto. Ma, ci si può chiedere se, di fronte agli altissimi costi del “recupero” il gioco valga la candela: cioè se per opere che comunque decadranno sempre più e spariranno un giorno, non sia quasi meglio che rimangano polvere visto che il destino finale è che ogni cosa ritorni “polvere”. Non è solo una “provocazione”: la teoria-principe del restauro (elaborata da Cesare Brandi negli anni Settanta del secolo scorso) recita che anche nei casi migliori, non si può che arrestare provvisoriamente l’inevitabile processo di degrado. In passato “restaurare” significava praticamente ridipingere, o ricostruire praticamente ex-novo. Da tempo (non più di mezzo secolo), nelle tecniche del restauro si esclude il “ripristino” delle condizioni iniziali, che non si conoscono, ma si possono solo presupporre. Ci si può chiedere oggi se non sia più opportuno produrre svariate ipotesi di ricostruzione virtuale delle condizioni iniziali dei monumenti invece dei costi elevatissimi per operazioni che talvolta producono un vero “accanimento terapeutico” per il monumento, cosa che – mi sia consentito esprimere una personalissima opinione – ritengo sia accaduto per l’”Ultima cena” di Leonardo. Nell’applicazione pratica la teoria del restauro può produrre esiti differenti. Se in un dipinto c’è una “mancanza”, non si tenta di “ricostruire” la parte mancante; l’intervento del restauratore, sotto il controllo della Sovrintendenza, si limita a dipingere con colori reversibili (ad acquarello) e con il tratteggio a righe (il cosiddetto “rigatino”) le “mancanze” secondo la brandiana “teoria della lacuna”. Lo scopo è di ottenere un effetto in cui si possa ridare l’effetto di insieme, dove però le parti “ricostruite” siano distinguibili, per i toni “abbassati”. Ma è a questo punto che sorgono le controversie: non c’è preciso criterio sulla dimensione della “lacuna” e tutto diventa opinabile, soprattutto per le lacune medio-piccole; per quelle grandi si lascia un colore neutro (grigio), mentre per quelle piccolissime quasi microscopiche, il restauro viene condotto con interventi altrettanto quasi microscopici avendo come esito un insieme di segni e colori più vivi: ciò è avvenuto nel caso dei restauri degli affreschi tardotrecenteschi nella controfacciata della Pieve della Mitria a Nave; però, nello stessa chiesa, nei restauri della famosa cappella di San Francesco, anche là dove non vi sono vistose lacune, il tono del colore è stato lasciato “leggero”, sbiadito, sollevando proteste e polemiche. Frutto di diverse opinioni nell’ambito di una stessa teoria.


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