Le città degli altri. Spazio pubblico e vita urbana nelle città dei migranti

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sociali imposte dalle istituzioni finanziarie, dalle imprese multinazionali e dai Paesi che si autodefiniscono “donatori”. Vaste estensioni di terra vengono tolte con la violenza ai contadini e cedute a gruppi industriali e finanziari, o destinate a insediamenti residenziali speciali, e ovunque viene smantellata quella forma di spazio pubblico garantita dal sistema consuetudinario di possesso della terra, in base al quale i nativi potevano coltivare e vivere su un terreno anche in assenza di titolo legale di proprietà. Gli spazi pubblici che abbondavano nelle zone degli europei, dove piazze e parchi ricordavano i fasti della capitale nella madrepatria, subiscono le stesse pressioni di quelle di qualsiasi “nostra” città, e in alcuni casi è il quartiere europeo nel suo insieme a essere delimitato, sgomberato e destinato a valorizzazione turistico-immobiliare, come mostrano i progetti della Banca Asiatica di Investimento per Old Holland a Jakarta, il French Colonial Distric a Hanoi, l’Intramuros a Manila. Nelle città dell’est europeo, e in quelle dove l’organizzazione economica era regolata dallo Stato, il recinto isolava le zone riservate alle oligarchie e al potere politico, ma lo spazio pubblico era predominante. Ora, anche in queste città le aree dotate di particolare amenità ambientale, spiagge, strisce di lungomare e lungofiume vengono date a privati investitori per la costruzione di alberghi e residenze di lusso, e i quartieri residenziali di proprietà pubblica vengono demoliti e ceduti assieme alla terra su cui sorgono per aumentarne la produttività. Da Belgrado a Karachi, da Varsavia a Luanda, il fenomeno si manifesta con sfumature diverse che derivano dal modo con il quale ogni paese è stato inserito nella comunità internazionale - aggressione armata, intervento umanitario, aiuti allo sviluppo, aggiustamenti strutturali - ma con molte analogie, prima fra tutte l’atteggiamento delle locali istituzioni che fanno a gara per assicurarsi il maggior numero di recinti, dai distretti economici speciali ai quartieri olimpici. L’entità e le modalità della recinzione e privatizzazione dello spazio e in genere di ogni bene pubblico, fenomeno che alcuni definiscono la nuova enclosure dei commons, per sottolinearne le analogie con quanto è avvenuto nel periodo immediatamente precedente la rivoluzione industriale, sono oggetto di inchieste da parte di molte organizzazioni internazionali che ne denunciano le conseguenze sulle condizioni vita di milioni di persone.

Altrettanto interessanti sono le pubblicazioni promozionali delle agenzie immobiliari, delle banche, dei ministeri per il commercio e lo sviluppo dei Paesi coinvolti, dalle quali si evince che tanto più i recinti si dimostrano efficaci nell’attirare capitali a caccia di profitti e tanto più rapida e feroce è la rimozione dei loro attuali occupanti, tanto più le città si pubblicizzano come investment-friendly o good for business. E sono proprio le persone scacciate da questi luoghi investment-friendly perché superflue (ridondanti come i lavoratori licenziati per aumentare la produttività di un’impresa), che costituiscono la maggior parte di coloro che vengono nelle nostre città. In conclusione, chi giunge dalle città degli altri non solo ha esperienza di recinti, ma in molti casi all’origine del suo percorso migratorio c’è uno dei tanti recinti che, aumentando gli squilibri tra le zone di concentrazione del profitto e le zone di concentrazione della miseria, provocano lo spostamento di popolazione dalla campagna in città, da una parte di città all’altra, da un Paese all’altro. E un recinto lo aspetta anche al termine del percorso, nel quale verrà rinchiuso o nel quale si rifugeranno i nativi allarmati. Che si creino quartieri etnicamente segregati e prestigiosi insediamenti autosufficienti o si delimitino pezzi di città controllati militarmente nei quali sono vietate attività e comportamenti nocivi agli affari e al commercio, in ogni caso il suo arrivo viene usato come pretesto per rafforzare i recinti esistenti, crearne di nuovi, e, in definitiva, per accelerare l’appropriazione privata di ogni spazio pubblico. Il conflitto tra spazio pubblico e recinto ci aiuta a capire le città degli altri, per quanto riguarda non solo i modi d’uso ma anche e soprattutto i modi di produzione dello spazio urbano, e ci aiuta a capire le nostre città, dove, seppure con forme e intensità diverse, operano gli stessi meccanismi.

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