L'albero della vita
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L' Albero della vita IN COPERTINA L’ALBERO DELLA VITA
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L' Albero della Vita dello scultore Andrea Roggi
Anno 2 numero 1
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Quadro "il campanile dalla terazza" di
GENNAIO FEBBRAIO 2017
Maria Teresa Santarossa
COORDINATORE EDITORIALE Corrado Balistreri Trincanato
3a
La Memoria e Il Ricordo
4a
Editoriale: Mostri, marionette, burattini
6a
Viaggiare nella natura: l'Orto botanico
8a
Venezia: San Zaccaria... Ricordi
9a
La poesia: Emozioni
10a
Medicina: l'Influenza
12a 14
Appunti di vaggio:Toscana L'antica tragedia greca
15a
Piacere della lettura L'Icona bizantina
16a
Le Forostìde
17a
Gaetano Perusini eroe della grande guerra
18a
La novella di Re Pingù
19a
Fiorenzo Tomea: Maschere sulla neve
L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
REDATTORE CAPO Giuseppe Ragusa REDAZIONE Cecilia Barbato Gabriella Bontà Albachiara Gasparella Donatella Grespi Gabriella Madeyski Dino Santarossa GRAFICA e versione on line Dino Santarossa HANNO COLLABORATO: Paolo Baldan Michela Biscaro Lina Virginia Bonaventura Laura Busato Gian Paolo Franz Tiziana Giuliato Bruno La Rocca Daniela Manescu Marilena Marchet Raffaela Martintoni Maria Caterina Ragusa Adriana Toffoli Luigina Vanin
INDIRIZZO PER CONTRIBUIRE:
unitre@unitremoglianotv.it
Con il contributo del Comune di Mogliano Veneto
www.unitremoglianotv.it Il nostro periodico è aperto a tutti coloro che desiderino collaborare nel rispetto dell’ art. 21 della Costituzione che così recita: “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione ”, non costituendo pertanto, tale collaborazione gratuita alcun rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione autonoma.
Distribuzione gratuita
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LA MEMORIA IL RICORDO 27 Gennaio 10 Febbraio
Pannelli commemorativi affissi a cura dell'Associazione Culturale " Mojan" su due pilastri del palazzo Brandolisio in Piazza dei Caduti a Mogliano Veneto
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L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
Editoriale: Mostri, marionette, burattini La necessità per l'uomo primordiale fu quella di creare delle entità astratte per combattere le proprie incertezze e paure e per trarre forza nei momenti più perigliosi della propria vita, dalle azioni di caccia, all'attraversamento di un deserto, di un guado, di una foresta, di una montagna, di una palude, o nel combattere contro i propri simili. Queste entità furono poste in tre categorie: quelle benigne, quelle maligne e quelle volte ad allietare la comunità ed a trasmettere dei messaggi alla prole. Più di tremila entità sono presenti nella vita di popolazioni scomparse ed attualmente presenti e via, via, tutta questa moltitudine è stata incanalata anche all'interno di espressioni di fede. Non potendo perderci nell'elencazione, modesta, di alcune, si suggerisce la lettura del testo di Massimo Izzi, "Il dizionario illustrato dei mostri. Angeli, diavoli, orchi, draghi, sirene e altre creature dell'immaginario", Gremese Editore, Roma, 1989. Or dunque, nel libro suggerito, si trovano le prime due categorie, ma ciò che più facilmente ci fa comprendere la terza categoria, sono dei particolari oggetti che emergono grazie agli scavi archelogici e che si distaccano dalle figurine votive, gli oggetti realizzati per il giuoco dei minori, quelle che noi oggi indichiamo con il nome di bambole, marionette e soldatini. Oggetti realizzati con la possibilità che gli arti e la testa fossero mobili e che nella loro miniaturizzazione rappresentassero delle copie di figure familiari, trasposizione dai Lares alle bambole, da personaggi teatrali a marionette, da mitici guerrieri a soldatini. Tra le tre entità di oggetti, quelli che potevano sollecitare un ampio numero di persone, sono state e lo sono le marionette che già risultano presenti nei mondi paralleli degli antichi Egizi e degli AssiroBabilonesi, per poi giungere in quello greco e da questo passare a quello romano. Dunque le marionette, indicabili anche con l'aggettivo burattini, sono di origine antica e lacerti di documenti scritti attestano il coinvolgimento di adulti e di minori, poiché si tenevano delle distinte recite per queste due fasce di popolazione. Sia nella commedia, sia nella tragedia, venivano proposte le analogie tra i pupazzi manovrati da mani e da fili ed i destini degli uomini manovrati dal bizzarro giuoco delle divinità. La scena del teatro conteneva in piccolo la scena del mondo, dove il fato arcano regolava ogni movimento e ogni azione degli umani. La necessità della recita, oltre alla corrispondenza delle fattezze divine a quelle umane, imponeva che nei templi, accanto alle statue delle divinità, fossero presenti dei fantocci sacri che spesso riproducevano le effigi dei sacerdoti e disponevano di braccia e gambe articolate e mobili ed erano finemente lavorati. Indicati dagli antichi Greci come "neuròspasta", cioè manovrati da nervi, perché erano azionabili tramite budelli e nervi di animali in funzione di funicelle. Le giunture tra gli arti erano attuate tramite degli anellini di metallo o bronzo, che davano la possibilità di farli muovere. È noto che già al tempo di Euripide e successivamente di Menandro, v'erano ad Atene, accanto alle rappresentazioni delle tragedie e delle commedie, delle riproposizioni con piccole marionette manovrate da burattinai che allestivano degli spettacoli itineranti, in occasione di feste e di convivi, sia nelle abitazioni private, sia in luoghi pubblici. Roma ereditò tali spettacoli ed i pupazzi mobili vennero chiamati, in base al sesso: homuncoli, imaguncolae, pupae, sigilla o sigilliola, ed erano costruiti in avorio, in bronzo, in legno, in osso, in terracotta, a seconda delle disponibilità economiche dei teatranti che attuavano anche delle recite combinate con attori e marionette. 1 Euripídès, Atene, Grecia, 485 – Pella, 407 406 a. C.; drammaturgo. Ménandros, Atene, Grecia, 342 circa – 291 circa a. C.; commediografo. 2 Titus Petronius Niger, Massilia, colonia greca della Gallia Narbonense, Marsiglia, 27– Cuma, Napoli, 66 d. C.; politico, scrittore. 3 Quintus Horatius Flaccus, Venosa, Basilicata, 65 – Roma, 8 a. C.; poeta.
foto:https://pixabay.com/it/burattinonegoziodimarionette1540623/
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Petronio , descrivendo un banchetto in una casa patrizia romana, narra di uno schiavo che mano vrava una larva d’argento le cui vertebre e le articolazioni erano mobili (catenatio mobilis). Orazio , nella VII Satira, mette in bocca ad uno schiavo queste parole: "Tu che mi comandi così imperiosamente, tu pure sei il misero schiavo di altri, e sei condotto come il mobile legno, che obbedisce a fili estranei". Queste marionette erano ispirate all'aspetto di personaggi della commedia, quali:Citeria e Petreia, due comari loquaci e allegre, unitamente a Bucco, Maccus, Pappus e ad una figura spaventosa, Manducus, per il digrignare dei denti. Giovenale4 , nella sua IIIa Satira, scrive:"in gremio matris formidat rusticus infans ...", in grembo alla madre il bimbo popolano ha paura di Manducus, e l'autore tratta satiricamente anche la figura dell'Imperatore Domiziano5 ammantandolo delle vesti di Crispino, il parvenu proveniente dall'Egitto. Con il lento estinguersi dell'Impero Romano e l'affermarsi della cristianità, le marionette continua rono ad essere presenti. Vi è la documentazione che le figure fisiche delle dodici fanciulle veneziane rapite dai pirati nell'anno 944 e prontamente liberate dagli inseguitori, con l'andar del tempo vennero sostituite da fantocci. Tale scelta non fu gradita al popolino e nel 1349 queste effigi furono dileggiate da una folla urlante. Nel passaggio dal paganesimo alla fede cristiana, le marionette delle divinità mutarono nella figura devozionale della Vergine Maria. Tali Marie di legno venivano appellate Marione e riprodotte in contenute dimensioni, venivano vendute come balocchi unendo il sacro al profano. Di solito erano delle figurine di legno o di cartapesta, con le braccia e gambe mosse da fili. La corruzione linguistica ne tramutò il nome in ma rionette derivandolo dalle Marioles, statuette di Ma ria realizzate in Francia ed acquistate dai pellegrini che percorrevano la Via Francigena. Erano anche dette Mariolettes e per corruzione Ma rionettes. Questo appellativo divenne proprio dei giocattoli azionati da fili, mentre burattino, connesso all'auge di un attore fiorentino della Commedia dell’Arte, fu il nome applicato ai fantocci di cenci o di legno, ai quali si fanno muovere le braccia e la testa, introducendo la mano dentro una specie di manicotto di stoffa, che funge da corpo e da vestito. Assai interessante la descrizione di marionette di le gno, azionate da due Siciliani, da parte di Gerolamo Cardano6 . Queste, i Pupi Siciliani, sono azionate per mezzo di un ingegnoso sistema di asticelle di ferro, che grazie alla bravura dei manovratori nascosti dietro le quinte del contenuto palcoscenico, imitano ogni sorta di mosse, muovendo braccia, gambe, piedi, testa, e seguono l'andamento della narrazione coi gesti, coi passi ed un incrociar di spade. Con l'affermarsi della Commedia dell’Arte presero piede celeberrimi attori regionali che diedero vita a personaggi ed a burattini, quali: Arlecchino bergamasco, dottor Balanzone e Capitan Matamoros bolognesi, Brighella, Colombina, con le varianti di Isabella, Lucinda, Rosaura, e Pantalone veneziani, Cocozziello di Altavilla, Cas sandrino e Rugantino romani, Cassandro senese, Frappiglia e Patanello abruzzesi, Gianduja tori nese, Giangurgolo calabrese, Girolamo, Meneghin e Tartaglia milanesi, Mezzettino veronese, Peppe Nappa siciliano, Pulecinella e Scaramuzza napoletani, Capitan Spaventa genovese, Scapino e Stenterello fiorentini, Sganarello invenzione di Molière . Nel XIX secolo fu creato nel 1836 Facanappa udinese e il burattinobambino Pinocchio di Collodi, nel 1883. Un filone particolare è quello delle maschere natalizie, carnevalesche, quaresimali, presenti in tutte le regioni d'Italia, che traggono le origini dai riti pagani, quali ad esempio: gli Issohadores, i Mamuthones, i Mumutzones, i Su Maimones sardi, le Rollate bellunesi.
Corrado Balistreri Trincanato 4 Decimus Iunius Iuvenalis, Aquino, Lazio, tra il 50 e il 60 – Roma, dopo il 127 d. C.; poeta e retore. 5 Titus Flavius Domitianus, Roma, 51 – 96; imperatore.
6 Gerolamo Cardano, Pavia, 1501 – Roma, 1576; astrologo, filosofo, matematico, medico.
7 Molière, pseudonimo di JeanBaptiste Poquelin, Parigi, 1622 – 1673; commediografo, attore teatrale. 8 Carlo Collodi, all'anagrafe Carlo Lorenzini, Firenze, 1826 1890; giornalista, scrittore.
foto:https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pupi,_Catania.JPG
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Viaggiare nella natura : l'Orto botanico
L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
Un gruppo di trenta allievi molto motivati ha voluto chiudere il corso di quattro lezioni intitolato: “Cacciatori di Piante”, tenutosi quest’anno presso la Terza Età di Mogliano Veneto e concluso con una visita all’Orto Patavino, con il docente in veste di accompagnatore. Il percorso è iniziato da un'ombrosa area arborea dove esiste un platano vecchio di 330 anni, cavo alla base, che fu parzialmente incendiato da un fulmine.
La guida, la giovane dottoressa Alessandra, ci ha fatto subito notare come il sottobosco in quel momento fosse privo dei primi fiori primaverili come l’Anemone Nemorosa ed altri ormai sfioriti. Era evidente che le piante hanno un loro calendario floreale, come quello tentato da C. Linneo (1). Siamo passati poi nella zona centrale antica, Hortus Cinctus, dove lo spazio suddiviso in aiuole geometriche, presenta piante sia rare, minacciate di estinzione, sia velenose e infine quelle medicinali che, come ci è stato spiegato, svolgevano allora, come oggi, un importante supporto alla botanica farmaceutica, alla medicina e alla chimica. La gestione scientifica dell’Istituzione Patavina, tramite il suo Curatore, scambia semi con orti botanici di tutto il mondo a scopo di studio e preservazione della biodiversità naturale che ammonta a circa 300.000 specie di piante. Ci siamo soffermati presso qualche specifica pianta velenosa come Digitalis Purpurea il cui principio vegetale, posseduto anche da altre dello stesso genere, viene somministrato per il trattamento di insufficienza cardiaca. Altre si usano per fare decotti, infusi, macerati… Sull’angolo Nord abbiamo osservato un Gingko biloba, maestosa pianta di sesso maschile, vecchia di 360 anni, che è una Conifera con foglie flabellate riconoscibilissime.
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Alessandra ci ha detto che ha sessi separati e su di essa è stata innestata una fronda femminile, la cui pianta produce solo dopo 20 anni semi ricoperti di una polpa fortemente maleodorante. Fu creduta estinta, perché inizialmente si conobbero solo i suoi fossili, ma in seguito fu scoperta alle pendici dell’Himalaya. Poi ci ha portato in prossimità delle vasche con le piante della famiglia delle Nympheacee, tutte acquatiche o palustri con 7 generi e più di 100 diverse specie in natura. Con una di queste, dalle grandi foglie rotonde e pelosette, ci ha presentato l’interessante fenomeno della imbibilità della foglia all’acqua che ne facilita lo scorrimento esterno, senza pesare sulla pianta. Proprietà che ha suggerito la produzione di superfici e tessuti non bagnabili. Un interessante discorso si è aperto tra noi sull’acqua che rifornisce continuamente le vasche, estratta da pozzi profondi più di 100 metri e che mantiene quasi costantemente la temperatura di 18 °C, essendo Padova compresa nell’area termale dei Colli Euganei, permettendo la sopravvivenza delle piante nel freddo periodo invernale. A ridosso del vecchio edificio ci ha mostrato la famosa Palma di W. Goethe del 1585, Chamaerops humilis, che ispirò al poeta settecentesco la sua teoria naturalistica in “La metamorfosi della piante”. Attualmente è protetta da una serra in vetro, che recentemente è stata innalzata per dare spazio al suo sviluppo. Siamo passati poi alla nuova costruzione nel Giardino della Biodiversità, sorto due anni or sono, in uno spazio contiguo al vecchio orto, caratterizzato da cinque serre in successione, tutte
vetrate, anche queste servite da acqua termale proveniente da un altro pozzo che ha una concentrazione salina diversa. La prima è la Serra Tropicale a cui segue quella Tropicale Sub-Umida, dove abbiamo potuto vedere la pianta del Tè e del Caffè, alcune vasche per piante acquatiche, idonee allo sviluppo di zanzare che vengono
opportunamente combattute con l’immissione di piccoli pesci tropicali che si nutrono delle loro larve. Una grande varietà di Felci amanti il clima umido sorgono dal suolo. La terza presenta l’area temperata con piante appartenenti anche a continenti lontani, ma che ormai popolano anche i nostri giardini. Non ho mancato di ricordare per sollecitare il dialogo tra noi e la guida, l’importanza scientifica che i Kew Garden di Londra hanno avuto nella storia, un fatto che oggi meravigliosamente continua, sottolineando pure le vicende dell’aristocratico Joseph Banks, munifico finanziatore ed esploratore botanico a bordo dell’”Endeavor” con la prima spedizione di James Cook. Si è discusso delle principali regioni floristiche mondiali e della ricchezza della loro biodiversità, come l’area del Sud Africa che ne possiede 60.000. Abbiamo seguito con molto interesse la Serra Mediterranea con le molte piante del nostro clima del Sud e della costa tirrenica, tra cui l’olivo, le numerose aloe, i lentischi, il mirto, e il carrubo. Infine la Serra Arida che ospita le piante del deserto adattate alla scarsità d’acqua della precipitazioni.
Io credo che la coniugazione dei corsi con una specifica uscita sia un buon modo per realizzare una efficiente trasmissione culturale a carattere partecipativo. (1) Medico, Botanico e naturalista svedese del 18° secolo.
Bruno La Rocca
ALTRI PARCHI E GIARDINI GIARDINO STORICO E PARCO SECOLARE di CA’MARCELLO a LEVADA di PIOMBINO DESE(PD) www.camarcello.it Tel. e Fax 0499350340. Il Parco che si estende per irca sette ettari, venne realizzato verso la metà del 1700 e ospita alberi tra i più antichi del Veneto. “ …secoli di storia vengono eccezionalmente narrati da essenze che hanno oltre duecento anni “ GIARDINO BOTANICO ALPINO del MONTE CORNO a LUSIANA(VI) sull’ALTOPIANO di ASIAGO www.museodilusiana.it Tel 0424406458/407264. E’ un’ area situata, a 1300 metri di altitudine, su un promontorio sassoso-roccioso che comprende i principali ambienti vegetativi dell’Altopiano dei Sette Comuni. Qui si potranno scoprire oltre 350 specie erbacee, arbustive ed arboree appartenenti alla flora subalpina e montana.
LE COPERTINE DI QUESTO NUMERO In I copertina la scultura “ Albero della vita” dell’artista: Andrea Roggi, nato in Toscana a Castiglion Fiorentino. http://www.andrearoggi.it/albero_della_vita.html In IV di copertina il quadro "Il campanile dalla terazza" di Maria Teresa Santarossa, vincitrice del Concorso di pittura della “Fiera del Rosario 2016” di Mogliano Veneto.
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VENEZIA:
L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
San Zaccaria, San Giorgio dei Greci, San Giorgio e Trifone Il 20 gennaio Unitre ci ha accompagnati alla scoperta di alcuni dei tanti tesori di Venezia. Partenza di buon mattino e, dopo il trasferimento ferroviario e una lunga passeggiata tra calli e campielli accompagnati da Franco Bigaglia, siamo giunti a Riva degli Schiavoni; uno splendido sole e un forte vento, che ci faceva lacrimare e ci ghiacciava le orecchie, ci hanno tenuto compagnia. Prima di incontrare la nostra guida Gabriella, ci siamo affacciati per ammirare il bacino di san Marco e per godere della sua bellezza grazie a una luce splendente e ai non troppi turisti (cosa piuttosto rara!). Mi ritrovo ancora a meravigliarmi davanti ad uno scenario così bello e così unico! Gabriella ci ha illustrato il contesto storico nel quale è stata costruita la chiesa di san Zaccaria, i diversi stili e le opere presenti; ci ha poi guidato ad ammirare gli affreschi di Andrea del Castagno, i polittici di Antonio Vivarini e di Giovanni d’Alemagna e la grandiosa pala di Giovanni Bellini. Una brevissima passeggiata ci ha condotti quindi alla chiesa di san Giorgio dei Greci che, però, abbiamo potuto vedere soltanto dall’esterno perché, attualmente, viene aperta unicamente per la funzione domenicale; penso che prima o poi ci dovrò andare, magari visitando anche l’attiguo museo delle icone venetocretesi. Dulcis in fundo la Scuola Dalmata dei teleri di Carpaccio. Amo molto questa Scuola da quando l’ho scoperta tantissimi anni fa, quando veniva aperta, solo su richiesta, per un numero ristretto di persone. Ricordo ancora la meraviglia che mi ha suscitato la visita a questo luogo, così prezioso e insieme così intimo! Dopo la spiegazione della guida sarebbe necessario tornare da soli, sedersi e gustare in silenzio la meraviglia del luogo. Abbiamo parlato di Greci, di Dalmati, di Tedeschi, di Spagnoli e di Turchi, comunità che sono state ben accolte nella Venezia dei tempi http://www.soprintendenza.venezia.beniculturali.it/ d’oro…..perché dimenticarlo?
Michela Biscaro
Ricordi Molti anni fa, poco dopo il 1930, eravamo un gruppo di amiche vicine di casa dagli otto ai quattordici anni: Giselda (il capo del gruppo), Lidia, Elsa, Elda, Norma e Lina, che sono io. Giselda viveva con i genitori, una sorella e il nonno (Giovanni Scattolin, classe 1853) ed erano proprietari di un po' di terreno e di una stalla con una mucca ed un asino e, siccome la sua mamma era sempre sofferente e non camminava bene, lei doveva sobbarcarsi tutte le faccende domestiche. Era una ragazzina molto buona, brava ed aveva molta fantasia e, forse per una naturale inclinazione all’insegnamento, ricordo che nel tempo libero, ci faceva scuola insegnandoci a scrivere utilizzando dei piccoli libriccini da lei fatti. Nell’inverno 1932/1933, per festeggiare adeguatamente l’ottantesimo compleanno del nonno il 18/02/1933, alla Giselda é venuta in mente l’idea di organizzare una recita. Per prima cosa si é procurata, con la collaborazione della signora Fedora che lavorava nella libreria Marton di Treviso, dei libretti di commedie comiche per bambine con i quali abbiamo iniziato subito a fare le prove. Poi, utilizzando abiti dismessi, ha fatto i vestiti per tutte noi. A quel punto mancava solo il luogo, o meglio il Teatro, dove fare quella "recita" e, essendole venuto in mente che nelle sere d’inverno era usanza di suo padre e suo nonno trovarsi in stalla con i vicini a fare il "filò", decise che la stalla sarebbe stato il posto ideale. Incaricò quindi due frequentatori abituali di quelle serate, Nino Speronello e Gino Munarin, di allestire un palco secondo le sue indicazioni utilizzando cartoni, pittura ed altre cianfrusaglie; per finire ha fatto le tende utilizzando delle vecchie lenzuola. A quel punto tutto era pronto e noi eravamo ansiose ed emozionate per la rappresentazione che dovevamo fare. Alla festa di compleanno di nonno Giovanni sono venuti i nipoti, i cugini e gli zii, compresi quelli da Venezia con la Ginetta. E' stata una bellissima festa e siamo state applaudite come delle attricette. E' difficile dimenticare quegli anni anche se non avevamo niente, solo una sincera amicizia.
Lina Virginia Bonaventura 8
LA POESIA: EMOZIONI Il violino è da sempre lo strumento musicale che preferisco. Ricordo ancora l‛emozione provata al Museo del Violino di Cremona lo scorso anno quando, dopo la visita alla preziosa collezione di strumenti ad arco, sono entrata nell‛annesso Auditorium, vero gioiello per la resa sonora, per l‛esibizione della violinista Anastasiya Petryshak. Ero con un gruppo di “Amici della Musica” di Mogliano Veneto. Talento e grazia si fondevano nella giovanissima artista ucraina che suonava uno dei violini del museo: uno Stradivari del 1715 detto “il Cremonese”. Ne siamo rimasti affascinati.
foto:http://www.tempi.it/anastasiyapetryshak
Anastasiya Petryshak
A Venezia, nel maggio scorso, un concerto di violino e pianoforte, tenuto da due giovani sorelle, musiciste russe, mi ha lasciato un ricordo indelebile: in una sala dello storico palazzetto Bru Zane “Centre de musique romantique française” anche le pareti sembravano vibrare. Le mie due composizioni poetiche ricordano quei momenti.
AL MUSEO DEL VIOLINO (Cremona)
Nella sala del tempo pareti di velluto, viola. Piove la luce su fili d‛oro sottili e brillano i violini voci antiche di boschi modellati da menti: strumenti, alle soglie del sacro. Solo per te la Stradivari suona. Vibrante percorre i mille sentieri del cuore: carezza e ferisce illumina e oscura stupisce, svanisce. Libellule sul volto di Anastasiya.
CONCERTO A VENEZIA (Palazzetto Bru Zane) Accese emozioni, tensioni per suoni inattesi e tagli improvvisi di lame che affilano i sensi: irripetibili momenti. Strumenti cesello per giovani donne nel moto veloce di dita incredibili: sublimi talenti. E gli affreschi, gli stucchi immobili nel tempo e pur vibranti come la brezza di laguna all‛alba.
Cecilia Barbato 9
L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
MEDICINA: L’Influenza L’influenza (dal latino “influentia”, perché anticamente si riteneva che le epidemie fossero correlate a congiunzioni sfavorevoli degli astri) è una malattia infettiva di origine virale, a cadenza annuale, ad andamento stagionale (periodo invernale), a diffusione epidemica (cioè tra numerosi abitanti di una stessa area geografica), e talvolta con il carattere di pandemia (ossia la cui diffusione interessa più aree geografiche del mondo, con un alto numero di casi gravi ed una mortalità elevata). Si conoscono tre tipi di virus influenzali, A e B, responsabili della sintomatologia influenzale classica, e il tipo C, di scarsa rilevanza clinica (generalmente asintomatico). Il virus A a sua volta è suddiviso in sottotipi, i più comuni sono A/H1N1, A/H2N2 e A/H3N2. Una delle caratteristiche peculiari dei virus influenzali è la loro possibilità di mutare, cioè di modificare il loro patrimonio genetico, dando quindi origine a nuovi ceppi virali completamente sconosciuti al sistema immunitario umano, così da rendere un ampio numero di individui suscettibile al nuovo ceppo. Le pandemie sono attribuite alla periodica comparsa di ceppi mutanti del virus di tipo A particolarmente patogeni. Dal XVI secolo si possono contare almeno 31 pandemie d’influenza: nel XX secolo ricordiamo la Spagnola (19181920, provocò tra i 40 ed i 100 milioni di morti), l’Asiatica (19571958, da 1 a 1,5 milioni di morti), la Hong Kong (19681969, circa 1 milione di morti). Come si trasmette il virus? I malati di influenza possono contagiare gli altri nel raggio di circa 2 metri. Il virus si diffonde da persona a persona tramite le goccioline contenute nello starnuto o nel colpo di tosse di una persona infetta: penetra cioè nell’apparato respiratorio. Meno spesso, ci si può infettare toccando prima una superficie o un oggetto contaminati dal virus influenzale e poi la propria bocca o il proprio naso. L’incubazione è tra 1 e 4 giorni. Quali i sintomi? La malattia inizia con uno stato di malessere generale, sensazione di freddo, brividi anche intensi, cefalea, astenia, inappetenza, febbre fino a 38,539,5 °C, mal di gola, dolori muscolari e articolari (sensazione di “ossa rotte”), fotosensibilizzazione (cioè eccessiva sensibilità degli occhi verso la luce, con senso di fastidio e bruciore). Esistono anche le sindromi parainfluenzali, causate da altri virus, simili a quelli influenzali: i sintomi sono più lievi, e a volte si manifestano in forma gastro intestinale, caratterizzata da vomito e diarrea. Il decorso dell’influenza è quasi sempre rapido: la temperatura corporea si normalizza entro trequattro giorni, e si guarisce senza reliquati. Le complicanze sono rappresentate dalla polmonite o, soprattutto negli anziani e nei soggetti a rischio immunologico, dal deterioramento delle funzioni cardiache, respiratorie, renali, sino ad arrivare in alcuni casi anche alla morte del paziente.
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Curare e prevenire l’influenza. L’influenza richiede in genere una terapia sintomatologica, cioè l’uso di rimedi che alleviano i disturbi del paziente, ma non intervengono sul naturale decorso della malattia. Al malato si consiglia riposo a letto in ambiente ben umidificato, adeguata assunzione di liquidi (bere molta acqua o succhi di frutta), alimentazione leggera ma sufficientemente calorica per l’età. E’ naturalmente sconsigliato fumare o bere alcolici. Se necessario, il medico può prescrivere analgesici nel caso il paziente lamenti forti dolori articolari e muscolari, antipiretici nel caso di febbre elevata (oltre 38°C), antitussigeni. Sul dilemma se dare o no gli antibiotici, questi hanno indicazioni specifiche e perciò vanno prescritti solo dal Medico curante. Sono disponibili farmaci antivirali (quali ad esempio lo Zanamivir) utili sia nella prevenzione che nel trattamento delle infezioni da virus influenzale A e B: il loro uso va consigliato dal medico curante in base ad alcuni fattori ambientali. Le misure di prevenzione sono semplici: copritevi bocca e naso quando starnutite o tossite, buttate subito i fazzoletti usati, evitate luoghi chiusi ed affollati. È importante lavarsi le mani spesso con acqua e sapone o, se questi non sono disponibili, con salviettine con disinfettante. Curate la dieta aumentando l’apporto di frutta e verdura fresche. Evitate gli sbalzi termici nel passaggio da un ambiente caldo a uno più freddo. Per evitare il contagio si dovrebbe stare lontano dagli ammalati, ovvero stare a casa se siamo noi ad essere colpiti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un piano nazionale di prevenzione vaccinale da sottoporre in via preferenziale ai soggetti di età superiore ai 65 anni e agli altri soggetti a rischio, ossia coloro che hanno patologie che potrebbero andare incontro a complicanze nel caso di influenza (malattie cardiocircolatorie e respiratorie croniche, diabete, malati oncologici), gli immunodepressi, i soggetti ricoverati in lungodegenza o nelle case di riposo, ed infine le donne nel secondo e terzo trimestre di gravidanza. Il vaccino antinfluenzale può comunque essere somministrato a tutte le persone che desiderano evitare la malattia influenzale: vaccinarsi non vuol però dire sicuramente non ammalarsi, ma si può contrarre l’influenza in forma lieve o guarire più velocemente senza complicanze. L’esistenza di ceppi di virus dell’influenza diversi e capaci di dare luogo rapidamente a mutazioni rende problematica la preparazione di un vaccino che possa essere somministrato a tutta la popolazione, in modo da garantire un’immunità permanente. Infatti, il contagio da parte di un ceppo virale determina nell’organismo una risposta immunitaria specifica per quel ceppo; in presenza di altri ceppi virali diversi, il soggetto non è protetto. I vaccini vanno somministrati in un’unica dose all’inizio della stagione invernale, prima del diffondersi dell’epidemia influenzale; essi vengono elaborati ogni anno, a partire da virus uccisi appartenenti al ceppo responsabile di quella forma influenzale, e conferiscono immunità per un periodo di tempo limitato (circa quattro mesi).
Giuseppe Ragusa (L’immagine del virus dell’influenza è tratta da https://www.influweb.it/media/cms_page_media/16/flu_virus%20copy.jpg) https://pixabay.com/it/allergiafreddomalattiainfluenza18656/
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Appunti di viaggio : Toscana
L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
Ora che tutto è passato, rimane il ricordo di un viaggio pieno di emozioni e meraviglie. Certaldo, nostra prima tappa, ci accoglie col
rosso vivo dei mattoni di case, chiese e palazzi: un salto nel medioevo questo borgo rimasto intatto nei secoli, che domina la valle dove corre la via Francigena. Terra natale di Giovanni Boccaccio, ne visitiamo la casa ricostruita fedelmente dopo la distruzione della seconda guerra mondiale e che oggi ospita il Centro Nazionale di Studi a lui dedicato. Nelle stanze notiamo stampe medioevali, una raccolta di sue opere, una collezione di piatti di rame incisi con suoi versi. Dalla torre si ammira il paesaggio collinare ampio e dolce, familiare al grande poeta. Caduto sotto il dominio di Firenze nel XIII sec., il borgo ne mostra i segni nel Palazzo Pretorio che si staglia in posizione dominante sull’abitato, con la maestosa facciata adorna di stemmi gentilizi, alcuni dei della Robbia. Qui i podestà inviati dalla città amministravano il potere. Stemmi e iscrizioni dei vicari sono dipinti sulla volta dell’atrio. Le celle dei condannati a morte sono coperte dai loro graffiti e, sul soffitto, di frasi scritte con il fumo delle candele. Nella chiesa di San Tommaso, la più antica, oggi realtà museale, ammiriamo il “Tabernacolo dei Giustiziati” decorato da un ciclo di affreschi di Benozzo Gozzoli e Giusto d’Andrea, staccato nel 1957 da una cappellina che si trova sulla via Francigena nel Comune di Certaldo. Essa aveva lo scopo di confortare i condannati che passavano di lì prima di essere giu stiziati. Buia e austera, la chiesa dei santi Jacopo e Filippo
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conserva la lastra tombale raffigurante il Boccaccio e un busto marmoreo che lo mostra con il volume del Decamerone stretto al petto. Ai lati dell’altare ammiriamo la raffinatezza di due tabernacoli robbiani. Un ultimo scatto fotografico poi si riparte: ci aspetta il nostro campo base a Sesto Fiorentino. Il secondo giorno, limpido e ventoso, ci per mette di apprezzare l’incantevole panoramica di Fiesole e di visitare l’area archeologica etrusco romana tra il teatro romano, scavato sul fianco della collina, le vicine terme e le mura etrusche. L’annesso museo archeologico espone vasi greci di rara fattura e molti altri reperti, meriterebbe più tempo ma … Firenze ci aspetta. In breve arriviamo alla basilica di San Miniato, alta sulla città: il panorama anche questa volta è superbo. All’interno ammiriamo l’abside con il grande mosaico del Redentore e del Santo, il crocifisso dell’altare attribuito a Luca della Robbia, il coro, il presbiterio rialzato, lo zodiaco sul pavimen to… E’ sempre un colpo d’occhio straordinario entrare nella Piazza del Duomo: Santa Maria del Fiore con i suoi marmi policromi, il Battistero con il marmo bianco di Carrara e verde di Prato, l’immensa cupola con l’affresco del Giudizio Universale iniziato dal Vasari… le porte… l’organo… le vetrate… un concentrato di bellezza che toglie il fiato. Nella Basilica di Santa Croce si avverte la sacralità del luogo e dell’ingegno: siamo quasi intimiditi nel passare davanti alle tombe dei “grandi” nell’ampio, perfetto disegno dell’archi tettura. La Cappella Maggiore è decorata dal più grande ciclo di affreschi di Agnolo Gaddi sulla leggenda della Santa Croce, le vetrate sono realizzate su cartoni dello stesso artista. Il crocifisso appeso è opera del maestro di Figline, allievo di Giotto. Che dire delle altre cappelle? Custodi di capolavori come la famosa cappella Bardi con la storia di San Francesco dipinta da Giotto. La sacrestia è splendida e il Cristo in
croce di Cimabue porta ancora i segni dell’alluvione del ’66. Siamo al terzo giorno del nostro viaggio che ci ha proiettati ancor più nello spirito e nel passato di Firenze città che, anche attraverso le sue maestranze a livello pittorico decorativo e architettonico, ci ha mostrato tutta la sua grandezza e potenza dei secoli passati. Nella Galleria degli Uffizi ci siamo incantati e stupiti davanti a certe opere grandiose cominciando dalla sala con tavole ieratiche in foglia oro di pittori quali Cimabue, Giotto e Duccio da Boninsegna! E poi la grande tela che rappresenta la battaglia di San Romano di Paolo Uccello, con una prospettiva centrale e colori così intensi e decisi che ne fanno una pittura di grande modernità, direi attualissima! Che meraviglia trovarsi nella sala dedicata a Botticelli per poter godere di due enormi tele che credo tutti noi abbiamo visto più e più volte in riviste o libri: "La Primavera" e "La Nascita" di Venere! Di sicuro questo pittore deve aver amato molto la figura femminile per poter rap presentare attraverso queste donne fanciulle tutta la grazia, la leggerezza e la bellezza della nascita della natura in tutto il suo splendore con accenni mitologici inneggianti appunto la fertilità, la prosperità di una ninfa che, fecondata dal vento Zefiro, addirittura fiorisce ramoscelli dalla bocca e diventa Flora, Primavera, simbolo della capacità creativa della natura. La Nascita di Venere, che sembra ergersi in tutta la sua spumeggiante bellezza su una conchiglia quasi corolla, mette in risalto la purezza di questo corpo perfetto che ora si accinge a coprire con un velo mosso dal vento soffiato da Eolo: anche qui c’è una poesia, una dolcezza che anche i colori pastello, delicatissimi, mettono in evidenza pur nulla togliendo alla forza di questa figura.
Molti i volti dolcissimi di Madonne di altri grandi pittori, ma il tempo è poco e dobbiamo correre a visitare la celebre Cappella Brancacci all’interno della chiesa di Santa Maria del Carmine dove affreschi di Masaccio e Masolino, completati poi da Filippino Lippi, ci fanno chiudere in bellezza questa visita. Infine raggiungiamo velocemente la chiesa di Santo Spirito dove ammiriamo le più pure architetture rinascimentali e un crocifisso attribuito al giovane Michelangelo. L’ultimo giorno, di prima mattina, si parte per il Mugello: un territorio dove sembra che il tempo si sia fermato. Prati, alberi e ginestre si susseguono con una varietà di verdi incredibile. Superato San Piero a Sieve arriviamo a Sant’Agata dove ammiriamo una bella pieve romanica, uno dei più importanti ed antichi edifici del Mugello. Eccoci poi a Scarperia, borgo bellissimo circondato da mura con il suo Palazzo dei Vicari (un Palazzo Vecchio in scala ridotta) dalla facciata e atrio decorati con gli stemmi di tutti i Vicari che vi esercitavano le loro funzioni. I più temerari del gruppo, tra i quali io, salgono sulla torre, centodue gradini che portano alla campana: vengono premiati dalla vista di un paesaggio a 360° a dir poco bellissimo. In un’ala nuova del Palazzo ha sede il Museo dei Ferri Taglienti perché Scarperia, da sempre, ha una produzione fiorente di coltelli di tutti i tipi. Infatti non si contano i negozi che li vendono. Soddisfatti, pieni di pacchetti, andiamo a pranzo in una bellissima Villa Medicea immersa in un paesaggio magnifico: nell’accogliente sala da pranzo le chiacchiere scorrono e si fanno nuove amicizie. Dopo questo tour de force di quattro indimenticabili giorni si torna a casa con negli occhi e nel cuore le opere d’arte e i paesaggi visti… alla prossima gita!!!
Laura Busato Luigina Vanin Cecilia Barbato Marilena Marchet Raffaela Martintoni 13
L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
L'antica tragedia greca Niente scenografie costruite dall’uomo, ma uno scenario naturale; niente riflettori e luci ad effetto finchè il sole illumina la scena con i colori del tramonto e poi del crepuscolo e della sera, talvolta resa ancora più suggestiva da una brillante luna piena; niente sipario di velluto rosso e frange dorate, non comode poltrone ma duri gradini di pietra scavati nella roccia scabra. Questo è l’ambiente che accoglie coloro che intendono assistere alla rappresentazione di una tragedia greca che, seppure porti in scena un mondo lontanissimo dal nostro, risulta invece estremamente moderna per i temi che tratta e per l’insegnamento che può dare. L’etimologia del vocabolo (da τραγῳδία, canto del capro, perché originariamente si offriva in dono agli Dei un capro oppure perché i componenti del coro erano vestiti con pelli di capra) confermerebbe che la tragedia sia nata come rappresentazione di sacrifici e preghiere legati al culto del dio Dioniso, raggiungendo solo nel V secolo a.C. la sua configurazione definitiva. Il teatro per i Greci aveva una funzione di educazione morale e civile: gli attori rievoca‐ vano i grandi eventi della tradizione religiosa e patriottica, le leggende, le gesta eroiche di un tempo mitico e di personaggi che, per la loro origine spesso divina e per le loro imprese prodigiose, assumevano una statura sovrumana. Tipica della tragedia è la καταστροφή (ri‐ baltamento) finale: lottando contro le forze che gli si oppongono, che possono essere rappresentate da fattori storici (come un tiranno, un divieto, un nemico di cui vendicarsi) oppure da ragioni metafisiche (come il Fato, cioè il destino stesso a cui nessuno può sfuggire), l’eroe tragico precipita dal punto più alto della potenza e della prosperità nella sconfitta e nella miseria. La grandezza dell’eroe sta nell’affrontare una prova straordinaria, nel vivere fino in fondo le proprie passioni e le proprie scelte, nell’accettare consapevol‐ mente la propria rovina, pur di non venire meno a se stesso. La morte del protagonista, travolto dal destino ineluttabile dell’uomo, concludeva, in genere, il fatto. Le vicende rappresentate coinvolgevano emotivamente il pubblico, favorendone la catarsi (purificazione): la rappresentazione doveva suscitare un profondo sentimento di orrore per gli atti scellerati compiuti dal protagonista ed un senso di pietà per le terribili conseguenze subite; oppure doveva suggerire riflessioni sui problemi dell’esi‐ stenza, sulla responsabilità dell’individuo, sul rispetto della giustizia, sul nesso tra colpa umana e castigo divino, sulla forza
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inesorabile del de‐stino, sui doveri del singolo uomo verso la collettività. Secondo gli antichi, lo spettatore, dopo aver assistito alla tragedia, si sarebbe sentito “liberato dalle passioni” messe in scena e non ne sarebbe più stato vittima. La tragedia greca conobbe il proprio massimo sviluppo intorno al V secolo a.C., quando Atene raggiunse la massima potenza ed insieme assistette ad un intenso fervore di studi e di opere in campo letterario, filosofico e artistico; in ambito teatrale fondamentali furono le opere di Eschilo (525‐456 a.C.), Sofocle (496‐406 a.C.) ed Euripide (485‐407 a.C.). Eschilo mette in scena l’uomo‐eroe, che accetta la propria sorte in nome di un superiore principio di giustizia voluta dagli dei, per lui talvolta incomprensibile ma mai messo in discussione.
http://ladimoradelmistero.altervista.org/leantichioriginidellemaschere
Sofocle canta l’uomo che rispetta le leggi umane e divine, ma è, nello stesso tempo, vittima, suo malgrado, della colpa. Euripide accentua l’umanizzazione dell’eroe e rappresenta la lotta dell’umanità in balia delle proprie passioni. Queste le caratteristiche generali delle opere dei tre autori, ma occorre soffermarsi nei particolari relativi sia alle vicende rap‐ presentate sia alla caratterizzazione dei personaggi, tra i quali uno spazio significativo è dato ai personaggi femminili, eroine che incarnano gli stessi ideali degli uomini, ma che non possono dimenticare di essere DONNE.
Maria Caterina Ragusa
IL PIACERE DELLA LETTURA Elena Ferrante, L'AMICA GENIALE, edizioni E/O, Roma 2014 È uno dei romanzi più belli che io abbia letto in questi ultimi anni. Diviso in ben quattro volumi narra la storia di un'amicizia femminile, quella tra Lila ed Elena, dall'infanzia a Napoli negli anni cinquanta ai giorni nostri. Ma è anche un romanzo corale, con tanti personaggi le cui vicende si intrecciano fra loro e con quelle delle protagoniste. Sullo sfondo una Napoli disegnata a tinte forti, bellissima, a volte crudele. In parallelo si snoda la storia del nostro paese: il dopoguerra, il sessantotto, la lotta armata, il femminismo. Posso dire che, secondo me, Elena Ferrante è una delle più grandi scrittrici contemporanee. Curioso particolare nessuno sa chi sia, nessuno l'ha mai vista. Qualcuno la situa in una lontana isola greca, in un volontario esilio, altri pensano che sotto questo pseudonimo, perché di pseudonimo si tratta, si celino addirittura uno o più scrittori famosi. L'ultimo sospettato è Domenico Starnone che ovviamente nega. Secondo me Elena Ferrante è una donna, perché solo una donna può capire e descrivere in modo così magistrale l'animo femminile. Chiunque essa sia brava comunque. Oserei dire superlativa!
Donatella Grespi
L' ICONA BIZANTINA L'icona bizantina è un'opera d'arte antica , ma è soprattutto un'esperienza spirituale: può essere vista come una finestra sul mistero dell'invisibile aperta a tutti coloro che sono in grado di coglierne l'essenza. Affascinata da uno studio approfondito nel tempo, ho realizzato molte icone, sono stata invitata a fare diverse mostre a Treviso, a Venezia e anche a Mogliano suscitando sempre molto interesse. Ho insegnato l'arte iconografica, le sue tecniche laboriose e ho donato ricette antiche a un gruppo di pittura presso il Centro Anziani di Mogliano che ancor oggi continua a dipingere icone. Come psicologa mi sono chiesta il perché di tanto interesse tra le persone e credo che ciò sia dovuto ad una delle caratteristiche più suggestive delle icone bizantine: la “prospettiva inversa”. Mentre nelle opere d'arte occidentali le linee di forza convergono in un centro prospettico ideale posto all'interno del quadro, nell'icona bizantina le linee di forza si dirigono in uno o più centri situati davanti e all'esterno dell'icona stessa in direzione di colui che guarda perché “non siamo noi che guardiamo quel mondo divino ma è il divino che guarda noi”. Le icone sono opere durature, secolari, davanti alle quali si succedono molte generazioni ed eventi importanti di intere famiglie. Hanno un linguaggio simbolico molto ricco perché ogni linea, ogni colore, ogni gesto, ogni sguardo ha un significato profondo e molto chiaro. Danno una visione a 360° del mondo. Non sono semplici raffigurazioni, non possono essere giudicate con gli stessi parametri di un quadro, né possono avere lo stesso ruolo di un semplice dipinto. Sono un'apertura che porta nel mondo terreno un'immagine soprannaturale, uno squarcio nel tempo degli uomini del tempo eterno di Dio. foto:https://it.wikipedia.org/wiki/File:Berlinghiero_Berlinghieri_005.jpg
Daniela Manescu 15
Le Forostìde
L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
ricetta antica Questo il nome in uso nell’Alto Agordino in provincia di Belluno, ancor oggi per chi parla dialetto trasparente nel significato, ricavabile dall’equivalente locuzione della val Zoldana fuje rostide,”foglie arrostite", ad evocare natura, leggerezza, crepitio di festa. Si distanzia dunque nell’immagine dai cròstoli diminutivo da crosta, ma anche, in un certo senso, per l’occasione di impiego del dolce stesso. Se nel veneziano crostoli e galani sono connessi in modo particolare col Canevale, in queste zone dolomitiche, anche se non in modo esclusivo, li troviamo impiegati in due circostanze caratterizzanti: la festa del paese e le nozze. Di queste ultime voglio occuparmi, per la bella tradizione di civiltà cui rimandano. Le Forostide venivano alacremente prepariate in casa ‐ in casa si teneva, coi parenti stretti, anche il pranzo di nozze ‐ col concorso delle vicine. Un paio di giorni prima delle nozze se ne friggeva, nella casa della sposa, una grande quantità, che veniva poi delicatamente adagiata nelle cassette della frutta che venivano conservate con cura; per questo scopo il profumo si spandeva per la casa e per i dintorni. E' un dolce che dice comunità, condivisione, contagio di allegria. Veniva offerto innanzitutto alle amiche della sposa che si recavano a cantare la serenata, quindi la mattina della nozze ai parenti che arrivavano da lontano per la cerimonia in chiesa, infine distribuito a tutti i paesani insieme coi confetti dopo il matrimonio, al quale non seguiva allora il viaggio di nozze. Ingredienti poveri, accessibili a tutti, ma un risultato squisito, gioioso e di gala. Si tratta di una tradizione che ai matrimoni sembra ormai essersi perduta, ma che io, dopo averla vissuta per me, grazie alla mia mamma, negli anni Sessanta, ho voluto gelosamente tramandare a mia figlia, sposatasi a Rocca Pietore, nella nostra Parrocchia, alla fine degli anni Novanta. Resta qualche signora anziana a farli ancora, ma per la sagra del paese. Ed ecco la mia ricetta: ingredienti 500 gr. di farina 00 50 gr. di burro morbido ‘ 50 gr. di zucchero 2 tuorli + l uovo intero 1/2 bicchierino di grappa 1/2 bicchiere di vino bianco 1/2 bustina di lievito per dolci
http://www.ricetta.it/bugiedicarnevale
Mettete la farina a fontana sulla spianatoia e aggiungete tutti gli ingredienti. Lavorate bene l’impasto fino ad ottenere un composto omogeneo ed asciutto (se necessario aggiungere altra farina). Avvolgete il panetto ottenuto in un canovaccio e fatelo riposare per 30 minuti. Prendete una parte della pasta e, dopo averla infarinata, stendetela con la macchina tirapasta fino ad ottenere uno spessore il più sottile possibile. Con l’apposita rotella tagliate la pasta così ottenuta a rombi o a rettangoli, praticando su ognuno 2 o 3 tagli centrali. Continuate fino ad aver utilizzato tutto l’impasto. Friggeteli in abbondante olio di semi, girandoli da entrambi i lati. Appoggiateli su carta assorbente e, una volta freddi, cospargeteli di zucchero a velo.
Adriana Toffoli
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GAETANO PERUSINI EROE DELLA GRANDE GUERRA L’interessante articolo del dott. Ragusa sul morbo di Alzheimer, apparso nel primo numero di questo giornale, mi offre l’occasione per onorare i meriti dello scienziato italiano prof. Gaetano Perusini che ebbe un ruolo di grande rilievo negli studi che portarono alla scoperta di questa devastante malattia, anche se il suo nome non viene quasi mai ad essa associato. Neuropsichiatra e anatomopatologo di fama internazionale, morto a soli 36 anni durante il primo conflitto mondiale, è stato ricordato con un francobollo commemorativo emesso da Poste Italiane nell’ambito delle celebrazioni della Grande Guerra e in occasione del centenario della sua scomparsa, avvenuta l’8 dicembre 1915.
Nato a Udine il 24 febbraio 1878 da una famiglia di nobili origini e di saldi principi patriottici, si laureò a soli 22 anni in Medicina con una tesi in psichiatria. Collaborò con la Clinica psichiatrica di Monaco di Baviera diretta dal celebre clinico Emil Kraepelin e, successivamente, con il laboratorio neurologico del prof. Alois Alzheimer che lo accolse come assistente, affidandogli importanti ricerche sulle malattie della corteccia cerebrale che avrebbero portato alla identificazione, appunto, del “Morbo di Alzheimer”. Lo stesso Alzheimer riconobbe le approfondite valutazioni cliniche di Perusini che, già dal 1910, era noto nel mondo scientifico italiano e straniero, grazie alle numerose pubblicazioni che apparivano in autorevoli riviste scientifiche internazionali. In quegli anni la sua famiglia abitava nel castello di Rocca Bernarda a Ipplis di Premariacco (Udine) nei pressi del fiume Judrio al confine con l’Austria. Irredentista e patriota, allo scoppio del conflitto mondiale si arruolò volontario nell’esercito come sergente medico, divenendo in breve tempo capitano e comandante della 2^ Divisione Sanità. Il 28 novembre 1915, mentre nella zona di San Floriano del Collio, sulle pendici del Podgora, prestava soccorso ai feriti, veniva colpito dallo scoppio di una granata nemica. Soccorso e trasportato in un ospedale di guerra a Cormòns in condizioni disperate, morì l’8 dicembre 1915. Nel 1916 gli fu conferita la Medaglia d’Argento alla memoria con la seguente motivazione: “Di servizio al posto avanzato di sanità, mentre la casa ove il posto stesso si trovava era fatta segno di violento fuoco di artiglieria nemica, con mirabile sangue freddo continuava a prestare l’opera sua ai numerosi feriti, finché cadde mortalmente ferito. San Floriano del Collio, 28 novembre 1915”. Dopo solenni funerali a Cormòns, venne sepolto nella cappella di famiglia, ed alcune sue proprietà vennero messe a disposizione degli ospedali della Croce Rossa. In memoria del prof. Gaetano Perusini sono state intitolate della vie a Roma, Udine, Cividale, Ipplis, mentre a Catania il Centro diurno di Alzheimer porta il suo nome. La città di Udine lo ha recentemente ricordato all’Università e al Castello con una serie di convegni dal titolo: “Gaetano Perusini scienziato e patriota, nel centenario della morte”. Il prof. Bruno Lucci, primario emerito di Neurologia a Pordenone, ha pubblicato il libro “La memoria ritrovata: Gaetano Perusini e Alois Alzheimer”.
Gian Paolo Franz 17
L'Albero della Vita | gennaio febbraio 2017
La novella di Re Pingù Se vi capitasse di fare un viaggio nel Sud del mondo, potreste vivere un’esperienza da sogno, indimenticabile! Li conoscete, vero, i pinguini, uccelli bianchi e neri che vivono tutta la loro esistenza al freddo e sul ghiaccio? Ci fu uno studioso che si mise ad osservarli per anni e scoprì che ogni tanto migliaia di loro si riunivano, quando la stagione lo permetteva (cioè niente neve e niente gelo), per fare … che cosa di così raro ed eccezionale? Cari miei bimbi, PER BALLARE SULL’ACQUA! Che ne pensate? Una cosa così non si era mai saputa! Lo studioso voleva trovare il modo migliore per riprendere questo evento: doveva mettere una tuta per mimetizzarsi e rendersi invisibile agli occhi dei pinguini e usare un’attrezzatura tecnologica per riprendere al meglio la danza che durava per giorni e giorni, fino all’esaurimento delle loro forze. Stava finendo il grande gelo che domina da quelle parti, le acque non avevano più molto ghiaccio, ogni tanto un tenue sole si faceva vedere per qualche minuto. Un grande fermento iniziava a serpeggiare tra le migliaia di pinguini perché stava per arrivare il momento magico atteso da tempo. I piccoli erano cresciuti e seguivano i genitori ad ogni passo, mangiavano i pesci che i grandi andavano a prendere in mare, piano piano imparavano a volare. Quel giorno il sole era tiepido, luminoso, il mare tranquillo: migliaia di pinguini si stavano dirigendo foto:http://www.fuorischermo.net/Natalehappyfeet.html verso una baia ai piedi della “montagna incantata” dove, si diceva, amavano vivere tutti insieme con gioia. Lo studioso capì che era arrivato il giorno speciale che lui aspettava, si nascose dietro la “montagna incantata” e attese. Il mattino dopo i pinguini si divisero in gruppetti, con un bel berretto di lana sul capo per ripararsi dal vento, si lanciarono verso il mare iniziando il famoso ballo con salti, piroette, capriole, canti, ridendo come pazzi dalla gioia e facendo amicizia tra loro. Non avrebbero mai dimenticato quel giorno! Ad un tratto comparve da una caverna della montagna il Re Pingù che invitò i suoi amici a divertirsi, ma senza esagerare con gli scherzi! L’acqua sembrava un maremoto, ma ci fu una sosta per uno spuntino già organizzato che fu spazzolato in cinque minuti. Nel pomeriggio, dall’acqua emersero delle pinne minacciose nere come la pece: erano le terribili orche marine pronte ad avventarsi sugli uccelli ormai stanchi. Ci fu un fuggi fuggi generale verso la montagna che li accolse nelle sue grotte, ma la cosa più terribile fu che cominciò a tremare paurosamente: in realtà era Re Pingù che cercava di impaurire le orche. Infatti ben presto esse scapparono verso il mare … e la danza riprese allegramente fino alla notte che arrivò piena di stelle. Il naturalista che aveva seguito l’evento con entusiasmo, non riuscì pubblicare le imprese fatte perché, scendendo dalla montagna, la cinepresa che teneva in spalla cadde e si ruppe, non gli fu possibile recuperare il rullino della danza che era caduto in acqua. Deluso e addolorato se ne tornò a casa. Il Re dei pinguini fu il solo privilegiato nel vivere a pieno quello spettacolo che poi si diffuse in giro perché ne parlò con tutti i suoi amici, noi compresi. Che ve ne pare?
Tiziana Giuliato 18
Fiorenzo Tomea: Maschere sulla neve (1957) Fiorenzo Tomea nacque nel 1910 a Zoppè di Cadore, un paesino ai piedi del monte Pelmo e che s'affaccia sulla Val Zoldana. Di famiglia povera aiutò, fin da bambino, il padre nel suo lavoro di pastore e a dodici anni, assieme al fratello maggiore, andò a Milano a fare tutti i mestieri che gli proponevano pur di campare. Successivamente (nel 1926) si spostò a Verona e, contemporaneamente all'attività di venditore ambulante, già esercitata a Milano, frequentò l'Accademia. Ritornò poi (nel 1928) nel capoluogo lombardo, si immerse nel clima culturale di questa città e frequentò i principali pittori come: Carrà, Sironi, Tosi che qui vivevano. Del suo paese natio conservò sempre un vivissimo ricordo ed una struggente nostalgia che riversava poi nelle sue opere destinate così a diventare lontani rimpianti, ricordi, emozioni. Tomea, ovunque andasse, portava sempre con sè un pezzo della sua terra. Ciò non poteva che avvenire anche nell'opera qui riprodotta. Sembra più una processione che un'allegra sfilata, più una recita che non un corteo carnevalesco, aleggia più il senso della commedia che non di un incontro festaiolo. I personaggi ritratti indossano vestiti dai colori sgargianti, alcuni portano il cappello a cono di fata o sformati cappellacci, ma i loro volti o le maschere che indossano riflettono indelebilmente una vita fatta di solitudine, di povertà, di lunghi inverni, di una atavica diffidenza. E' un procedere triste, mesto e silenzioso verso l'incognito alla ricerca, forse, di affetti non più riscontrabili e le maschere, che privano della identità personale, rappresentano anche lo sradicamento dalla propria terra: la persona perde i suoi connotati non è più se stessa. Le maschere vere si confondono con uomini che sembrano maschere poiché i loro tratti somatici sono stati induriti, o comunque modificati dalle difficoltà della vita. Il travestimento finisce di coincidere o comunque di riflettere la realtà come ad indicare che carnevale e realtà sono indissolubilmente legati. Il carnevale è inteso come il camuffamento di fronte alla quotidianità e diventa una processione atea, una passerella che invece di nascondere rivela. Lo stile è semplice, arcaico, a volte naif, un primitivismo che riflette l'essenzialità legata ai bisogni e ai valori primari dell'esistenza.
Paolo Baldan
la foto: Casa Editrice Grafiche Antiga Cornuda (Tv)
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