Albero della vita n° 4-2 2019

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L'albero della vita


L'albero della vita L'albero della vita

1A Foto di Cristina Madeyski

Anno 4 numero 2

4A "Oiseaux immaginaires" litografia di Orlando Fasano

Aprile ­ Maggio 2019 COORDINATRICE EDITORIALE

Gabriella Madeyski REDATTORE CAPO Giuseppe Ragusa

L'albero della vita Aprile ­ Maggio

REDAZIONE Cecilia Barbato Albachiara Gasparella Donatella Grespi Dino Santarossa GRAFICA e versione on line Dino Santarossa HANNO COLLABORATO: Paolo Baldan Elsa Caggiani Mauro Cicero Renzo De Zottis Edo Guarneri Bruno La Rocca

3a Editoriale 4a Chiusura del trentennale 5a Un'occasione da non perdere 6a Donatrici di voce 8a Mille miglia: la piu’ grande corsa del mondo 9a Estate a tavola 10a MOGART – Arte a Mogliano Vto 12a Il pensiero del nulla eterno 14a Medicina: La puntura di zecca 16a Alla scoperta di Tindari 17a Il piacere della lettura 18a La Cavalcata delle Valchirie, di Richard Wagner 19a Scuola mia 20a Il Don e lo Zio 21a Diritti umani, Scienza e Progresso civile 22a La 4a di copertina 23a La Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti

Alfonso Malaguti MOGART­ CoopCulture Annamaria Scattolin Nives Stabilini Laura Tiene Marisa Toniolo

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uni­tre@unitremoglianotv.it

Michela Trabucco Nicolò Tron

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Distribuzione gratuita 2

Con il contributo del Comune di Mogliano V.to

"È tacito che, a protezione del diritto d’autore e della proprietà intellettuale, sulla base della legge 633/1941 e successivi aggiornamenti, ogni autrice ed autore è responsabile dell’autenticità degli scritti e delle immagini fotografiche inviati alla redazione dell'Albero della Vita". Ci scusiamo per eventuali, non volute, carenze od omissioni nelle indicazioni di autori di porzioni di testi non virgolettati, degli autori di immagini fotografiche, pittoriche e disegnate, delle eventuali proprietà editoriali o ©, a fronte di una carenza d'indicazioni delle stesse, o presenti su fogli volanti, o poste in siti internet anonimi.


Editoriale Gabriella Madeyski

Flaiano sicuramente era un amante dell’estate e, forse, tutti noi lo siamo, almeno un po’. Nella metafora della vita, infatti, l’estate rappresenta la giovinezza, periodo in cui non c’è ancora il peso delle responsabilità della vita adulta e l’essere umano agisce senza troppo badare alle conseguenze delle sue azioni. Sole, diverti­ mento, e tanto tanto relax: l’estate è la stagione più attesa e più desiderata, la stagione “magica” all’insegna della spensieratezza e dell’allegria, quella dove si fanno nuove amicizie e magari, chissà, sbocciano veri amori. Tuffi in acque cristalline, abbronzature dorate (senza esage­ rare!), falò sulla spiaggia, passeggiate, escursioni all’aria aperta, ma anche più tempo per se stessi, da dedicare al proprio hobby ed alle proprie passioni… l’estate regala momenti indimenticabili, che si vorrebbe non finissero mai! Eh sì…”la bella stagione” è infatti troppo breve! Ma consente comunque di staccare la spina, di ricaricarsi dopo un anno di lavoro o di studio, e di riprendere la quotidianità della propria vita temprato nel corpo e nello spirito. Con quella marcia in più che non guasta. Ma nessuna estate dura per sempre. Chi non vorrebbe essere sempre giovane? Purtroppo però la vita è fatta di tante stagioni e arriva anche l’autunno…. E con l’autunno arriva anche un po’ di stanchezza, di incapacità a vivere la frenesia dell’estate. D’estate le nostre città si spopolano, molti negozi chiudono, il caldo afoso non permette di incontrarsi all’aperto, e per chi resta in città l’estate diventa un calvario. Non vi capita mai di sentirvi soli d’estate? Non avete mai provato un senso di smarrimento in piena estate quando la città o il paese si svuota? Magari i parenti e buona parte degli amici sono in vacanza e voi siete soli in casa? Pensiamo allora a quanti anziani meno fortunati di noi vivono l’estate in solitudine e cerchiamo che la loro solitudine non sia un tabù

ma sia un modo per far cambiare lo sguardo della nostra società nei confronti degli anziani, per restituire loro una dignità uno spazio d’amore e di amicizia, uno spazio di vita. Stiamo attenti soprattutto a non ridurre il crescente invecchiamento ad un approccio esclusivamente istituzionale, pensando che il problema non si sarebbe verificato se gli anziani avessero passato gli ultimi anni della loro vita nelle case di riposo, piuttosto che a casa. Noi vediamo, attraverso i nostri anziani, che la loro solitudine è un dolore profondo ma basta poco per lenirlo. Noi non vogliamo accettare questo dolore. Una visita, una passeggiata, una parola e una maggiore stima non costano niente, ma possono guarire la sofferenza di essere soli e restituire dignità alla nostra società. L’amore non è un valore commerciale, può essere anche una cultura per il nostro mondo ricco e viziato che coltiva troppo l’indifferenza. Noi abbiamo tutti la nostra parte di responsabilità, non abbiamo forse dimenticato la nostra responsabilità? Non abbiamo forse lasciato crescere l’indifferenza per gli anziani? Non abbiamo abusato del sentimento di impotenza? Tuttavia, tutti noi possiamo avere un gesto di solidarietà o di amicizia per gli anziani che ci circondano, tutti noi possiamo preoccuparci del loro benessere. Sono i nostri anziani, e sarebbe giusto e degno non ignorare più, o nascondere, la loro esisten­ za. Non aspettiamo però solo la prossima torrida estate per andare a bussare alla porta di chi è più vecchio o di chi è più vecchia. Non aspettiamo che siano troppo soli per rendere visita ai nostri anziani. E’ un appello alla solidarietà e all’amicizia. La nostra società è troppo triste e troppo colpevole di voler fare della vecchiaia una maledizione quando dovrebbe trattarsi di una ricchezza inedita per il nostro mondo.

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UNITRE Mogliano Veneto

Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla. (Ennio Flaiano)


Chiusura del trentennale

L'albero della vita Aprile ­ Maggio

Elsa Caggiani Care amiche, cari amici, siamo giunti alla chiusura di un Anno accademico speciale: 30 anni fa (30 gennaio 1989) nasceva l’Unitre di Mogliano Veneto. Abbiamo celebrato il Trentennale con la splendida festa in sala consigliare, dove abbiamo premiato i soci fondatori e i primi docenti alla presenza del Presidente Nazionale Cuccini, del sindaco Arena e dell’assessore Minello. Abbiamo anche pubblicato un numero speciale del nostro “L’’albero della vita”; continuiamo a festeggiare questo anniversario con i numerosi appuntamenti di maggio, che vi ricorderò tra poche righe. Tanti anni fa, quando finiva l’anno scolastico, ­ mi ricordo ­ mi sentivo libera e leggera; soddisfatta del lavoro compiuto, e desiderosa di godermi il meritato lungo periodo di riposo. Anche ora, quando si arriva alla festa di Chiusura, il mio primo e immediato sentimento è la leggerezza: riconquisto ore libere della mia giornata, leggo di più, vado a passeggio.. Ma non ho più la spensieratezza della gioventù: mi rendo conto che è passato velocemente, così velocemente, un altro anno della mia vita. Mi tornano in mente per primi i ricordi di care persone che non ci sono più, i momenti belli (la festa dell’Inaugurazione, quella di Natale, quella del Trentennale, la lettura del nostro giornale, le uscite culturali, le lezioni che più mi hanno colpita, le nuove conoscenze e amicizie, gli apprezzamenti per la nostra Unitre da parte di associati o di estranei) e i momenti più gravosi (qualche critica ingenerosa, la ricerca affannosa di un docente, la cura maniacale per la riuscita degli eventi particolari, il faticoso studio della legislazione per modificare il nostro statuto e quello dell’Unitre Nazionale). Però in questi pensieri c’è anche la consapevolezza di aver compiuto un buon lavoro, l’appagante sensazione del “ce l’abbiamo fatta anche questa volta!” Ma la Chiusura ufficiale del 3 maggio, con la premiazione dei soci più costanti, non è la fine delle attività; è aperta la mostra dei laboratori fino al 5 maggio, sabato 4 maggio il consueto incontro di Burraco delle Università del Nordest sarà qui a Mogliano; poi ci sarà il viaggio culturale a Vienna e Budapest; il laboratorio di Recitazione si esibirà il 22 maggio e infine giovedì 23 maggio a Villa Braida ci sarà la nostra Assemblea, questa volta molto importante perché modificheremo lo Statuto per adeguarlo alla nuova normativa dell’Associazionismo. Lo stesso giorno concluderemo (questa volta veramente) con il pranzo sociale, offerto a tutti i docenti e i volontari, e aperto a chiunque voglia partecipare. E noi del direttivo, e i volontari intanto? Abbiamo già cominciato a progettare e lavorare per il prossimo anno! Un ciclo finisce, un altro sta per iniziare e avanza… come il passaggio da San Silvestro a Capodanno. Allora appuntamento a tutti, a settembre!

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Un’occasione da non perdere C’è un antico borgo, non lontano da Tolmezzo, incastonato tra i monti della Carnia, che offre ogni anno al visitatore una mostra d’arte straordinaria con opere provenienti da musei e collezioni private di diversi Paesi europei: è Illegio, piccolo centro del Friuli Venezia Giulia, forse la mitica fortezza di Ibligo ricordata da Paolo Diacono in una pagina di storia longobarda. Il borgo, a 576 metri di altitudine, con le sue caratteristiche architetture e l’acqua di una risorgiva che lo attraversa facendo funzionare un antico mulino, è relativamente isolato dalle grandi vie di comunicazione e custodisce le sue più radicate tradizioni. In poco tempo, grazie alle sue esposizioni, Illegio ha conquistato una dimensione di ampio respiro, richiamando migliaia di visitatori e appassionati d’arte anche stranieri, che qui si possono avvicinare a capolavori ordinariamente inaccessibili, concessi dai più importanti musei del mondo (Musei Vaticani, National Gallery di Londra, Louvre di Parigi, Prado di Madrid, Hermitage di San Pietroburgo…). Organizzatore delle mostre è il Comitato di San Floriano che propone, ogni anno, itinerari di arte e fede imperniati sulle domande più profonde dell’uomo, per un percorso spirituale davvero affascinante. La prossima mostra aprirà il 12 maggio per terminare il 6 ottobre, con 45 opere ispirate alla letteratura classica, alla mitologia greca, alla Sacra Scrittura e ai testi spirituali, che coprono una decina di secoli di storia dell’arte. “Protagonisti saranno i veri Maestri che ci hanno insegnato a vivere” ha affermato uno dei curatori dell’esposizione, che verrà in seguito ospitata in luoghi prestigiosi, come in passato i Musei Vaticani e il Palazzo Venezia a Roma, o i Musei Reali d’arte e storia di Bruxelles. E’ un’occasione da non perdere, una meta cara anche a Vittorio Sgarbi “ da sempre appassionato delle esposizioni di Illegio… borgo profondamente poetico…”

Giuditta e Oloferne di Caravaggio (esposizione 2015)

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UNITRE Mogliano Veneto

Cecilia Barbato


Donatrici di voce La Redazione

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“Il migliore riconoscimento per la fatica fatta non è ciò che se ne ricava, ma ciò che si diventa grazie ad essa.” (John Ruskin) Venerdì 29 marzo 2019, all’Auditorium Stefanini di Treviso, il Lions club di San Donà di Piave ha presentato lo spettacolo “Un’idea, un’app” e la musica per sostenerle: un evento di beneficenza per raccogliere fondi a favore del Libro parlato Lions. Abbiamo già avuto modo di lodare, nel numero precedente del nostro giornale, questa bellissima iniziativa. Permette a tutti colori che per vari motivi non riescono a godere in modo autonomo della lettura di un libro, di poterlo fare, grazie a dei donatori di voce che lo leggono per loro. L’audiolibro, infatti, è in grado di donare un’esperienza altrettanto arricchente del libro. Essere donatori di voce, però, non è facile; infatti bisogna saper fornire la corretta percezione del messaggio del testo letto, e per riuscire a fare ciò bisogna conoscerlo a fondo e interpretarne tempi e toni. Il risultato sarà la creazione di un viaggio fantastico che permetterà a chi fruirà di questo servizio di immergersi totalmente nell’opera, diventandone il narratore ufficiale. Si sa che la propria voce serve per esprimere ciò che si pensa e per comunicare con gli altri, ma, in questo frangente, si comprende anche che può essere indispensabile per aiutare chi ne ha bisogno. Come certo ricorderete, alcune nostre iscritte che seguono il Laboratorio di Lettura Interpretata hanno deciso di dedicare un po’ del proprio tempo a questa iniziativa. Sono entrate nel gruppo dei donatori dopo aver superato un esame e hanno dimostrato tanta bravura ed entusiasmo da essere più volte lodate dall’Organizzazione del Lions. Lo spettacolo di venerdì è servito anche per presentarle ufficialmente al pubblico presente. E’ stato molto emozionante il momento in cui su uno schermo è apparsa una slide con il titolo del libro e il nome di una nostra donatrice di voce, mentre nell’auditorium si diffondeva la sua voce… Musicisti, presentatore e cantante erano tutti volontari che condividevano il medesimo obiettivo e hanno dimostrato bravura e professionalità ma, alla fine dello spettacolo, il pubblico seduto accanto alle nostre donatrici si è rivolto proprio a loro per congratularsi e lodare il loro gesto. E’ bello pensare che le attività che l’Unitre offre non restano solo un arricchimento per gli iscritti ma diventano anche veicolo di benefici per altri!

Le riflessioni delle donatrici di voce Leggere un libro dando “suono” alle parole in esso contenute, e la conseguente narrazione a voce alta di quanto l’autore ha voluto dirci, fanno scoprire quanto la “storia” sia più ricca di particolari, parole, verbi, aggettivi che la compongono e fanno risaltare la ricerca, fatta dallo scrittore, di sceglierne uno piuttosto che un altro, per descrivere meglio emozioni, persone, luoghi e fatti. E la sensazione che si prova è la cosa più bella in assoluto; infatti, pur nella solitudine fisica richiesta dall’operazione tecnica della registrazione, attraverso il rimbalzare del suono delle parole lette si percepisce di non essere soli a leggere il libro ma di essere in compagnia delle persone che vorranno ascoltarlo, come se ci fossero, insieme a te, altri passeggeri su un treno che corre e che insieme si condivide quel bel “viaggio” che è il libro. Più che essere una “donatrice di voce” mi sento io, piuttosto, la destinataria di un “dono”.

Nives Stabilini 6


Dopo quattro anni di frequentazione del laboratorio di lettura interpretata devo ammettere che ne ho tratto grandi benefici. Sono riuscita soprattutto a contenere la forte emozione della lettura ad alta voce davanti ad un pubblico ed ho sviluppato una maggiore capacità di comprensione e apprezzamento dei testi. E’ stata quindi una preziosa opportunità quella offerta dall’editore Mazzanti di donare la propria voce per un’iniziativa così interessante e gratificante. Spero con il mio modesto apporto di contribuire a trasmettere un po’ di serenità, svago e piacevolezza ai fruitori di questo lodevole servizio.

Michela Trabucco

L’esperienza di registrare audiolibri, che ho da poco iniziato, rappresenta non soltanto un dono che mi sento di fare alle tante persone che hanno necessità di accedere ai libri tramite l’ascolto, ma anche una occasione straordinaria per me di esercitarmi nella lettura ad alta voce. Un dono perciò doppiamente vantaggioso.

Quando ho cominciato a frequentare il corso di “Lettura interpretata” ho scoperto la soddisfazione di imparare a “saper leggere”. Naturalmente non subito, dopo un po’… grazie alle esortazioni dell’insegnante e all’ascolto delle voci perfettamente capaci delle mie colleghe veterane. Dopo un po’ ho capito cosa significasse la lentezza, la chiarezza, l’intonazione corretta ed espressiva. Così ho deciso di accogliere l’invito del sign. Mazzanti che ci proponeva di diventare “donatrici di voce” per il Lions club. Che esperienza!! Che emozione le prime letture! Però l’idea che la mia voce potesse far trascorrere piacevolmente (spero!) del tempo a persone in difficoltà era ed è troppo bella… così continuo entusiasta, scelgo i libri che ho letto ed amato, mi impegno per dare alla mia voce la massima espressività…lo strano è che ora, quando leggo per me, sono istintivamente portata a leggere a voce alta! Mi sembra di gustare maggiormente quel che leggo… poi mi dico:” Non serve, non stancare la voce, riservala per gli altri che ti ascolteranno!”

Laura Tiene Mi è sempre piaciuto leggere per gli altri ed in passato ho spesso utilizzato la mia voce per appassionare alla lettura e all’ascolto i miei piccoli alunni. Inevitabilmente, ad un certo punto, anche la voce se ne è andata in pensione e la mia lettura si è fatta più silenziosa. Da quando però quattro anni fa, ho cominciato a frequentare il “Laboratorio di lettura interpretata” la mia voce ha avuto l’opportunità di rifarsi sentire diventando più educata e sicura. Tutto ciò non mi bastava perché mi mancava un destinatario. Molte volte avevo l’impressione che le parole, seppur ben pronunciate e interpretate, cadessero presto nel vuoto. Ecco perché ho colto con grande entusiasmo l’appello dell’editore Andrea Mazzanti di diventare una donatrice di voce! L’anello mancante che ho tanto cercato, l’ho trovato nel nobile scopo dell’iniziativa da lui stesso coordinata. Penso che donare con la voce un libro a chi non può leggere, sia una esperienza da provare: quel che si riceve è di gran lunga superiore rispetto a ciò che si dà.

Albachiara Gasparella

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UNITRE Mogliano Veneto

Annamaria Scattolin


Mille miglia: la piu’ grande corsa del mondo

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Renzo De Zottis Tra il 1927 e il 1957 le strade italiane fra Brescia e Roma furono teatro di un avvenimento sportivo epocale: la Mille Miglia. Questa straordinaria corsa automobilistica venne ideata da tre appassionati bresciani, Aymo Maggi, Franco Mazzotti e Renzo Castagneto e dal giornalista della Gazzetta dello Sport Giovanni Canestrini. Ma perché Brescia? All’inizio del secolo la città aveva ospitato diverse competizioni di auto, moto e aerei ma dal 1922, con la costruzione dell’autodromo di Monza, la capitale dell’automobilismo sportivo era diventata Milano. Così, per ridare alla “leonessa d’Italia” il suo ruolo perduto, i “quattro moschettieri”, come vennero soprannominati, inventarono una corsa che da Brescia giungeva a Roma e ritorno per un totale di 1.600 chilometri, mille miglia appunto. La prima edizione ebbe luogo il 26 e 27 marzo 1927 e vide al via 77 equipaggi. La parte veneta del I quattro fondatori della Mille Miglia percorso toccava Rovigo, Padova, Noale, Treviso, Feltre, Vicenza e Verona. Vincitori risultarono Minoja e Morandi su OM 665 Superba, una vettura costruita dalle Officine Meccaniche di Brescia. Nelle edizioni del 1934, 1935, 1937 e 1938 il percorso subì delle modifiche e la parte veneta vide inserito un controllo a Venezia raggiunta attraverso il ponte lagunare che veniva percorso in entrambi i sensi di marcia. Gli equipaggi ripartivano quindi verso Treviso attraverso il Terraglio e quindi transitavano anche da Mogliano Veneto. Le Mille Miglia anteguerra si caratterizzarono per il netto predominio dell’Alfa Romeo che si aggiudicò undici edizioni su tredici e videro le gesta di straordinari campioni come Tazio Nuvolari (vincitore nel 1930 e nel 1933) e Achille Varzi (vincitore nel 1934). L’edizione del 1939 non venne effettuata in quanto l’anno precedente un grave incidente a Bologna aveva visto la morte di dieci spettatori. Sembrava che la leggenda della grande corsa fosse destinata a finire tanto più che nel 1940, due settimane prima dell’entrata in guerra dell’Italia, si corse una edizione ridotta sul triangolo Brescia­Cremona­Mantova di 165 chilometri da percorrere nove volte. Si affermò la BMW 328 dell’equipaggio tedesco Von Hanstein­Baumer, poi la guerra spazzò via tra tante cose anche l’epopea delle grandi corse su strada. O almeno così sembrava. Infatti già nel 1947, pur tra le mille difficoltà del dopoguerra, con benzina razionata, gomme introvabili e una rete stradale disastrata, si riuscì ad organizzare la quattordicesima edizione che si corse in senso inverso rispetto all’anteguerra per cui il tratto veneto era il primo che veniva affrontato dopo la partenza da Brescia. Vinse ancora un‘Alfa Romeo ma fu l’ultima volta della casa milanese perché l’anno successivo iniziò la serie delle otto vittorie della Ferrari in questa corsa. L’edizione del 1948 venne inoltre ricordata per la commovente corsa di Tazio Nuvolari, ormai anziano e dalla salute malferma che rischiò di vincere con una Ferrari 166 che andava via via disintegrandosi lungo il percorso. Il grande campione fu costretto al ritiro a pochi chilometri dall’arrivo quando ormai tutta l’Italia era certa della sua vittoria. Negli anni Cinquanta la competizione diventò Tazio Nuvolari su Ferrari 166 sempre più imponente e il record venne raggiunto

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Estate a Tavola Donatella Grespi ANTIPASTI E PIATTI UNICI POLPETTINE DI TONNO . Ingredienti: 400gr di tonno in scatola, 300 gr. di patate lessate in precedenza, 2 uova, 2 cucchiai di farina che lievita, 1 spicchio di aglio (se gradito), un pizzico di grana grattugiato, prezzemolo, olio, sale pepe e pangrattato q. b. Passare in un mixer tutti gli ingredienti e amalgamarli ben bene, formare delle polpettine che poi vengono passate nel pangrattato. Friggerle in olio ben caldo. PRIMI PIATTI CRUDAIOLA. Ingredienti: una manciata di pomodorini ciliegino, una manciata di capperi, 2­3 acciughe a pezzetti, una manciata di pinoli, un mazzetto di basilico, qualche fogliolina di menta, aglio (se gradito), peperoncino, olio evo. Mettere in un mixer tutti gli ingredienti e preparare una salsa omogenea. Condire spaghettoni o bavette al dente. SECONDI PIATTI MELANZANE RIPIENE. Ingredienti: melanzane lunghe, 1 uovo, 1 fetta di prosciutto cotto da circa 1 etto, sale, pepe, basilico, salsa di pomodoro, olio per friggere, una manciata di grana, olio evo. Tagliare le melanzane per lungo. Scavare le metà come fossero barchette. In olio bollente friggere prima la polpa scavata e poi le barchette e adagiare tutto su carta assorbente. In un mixer mettere la polpa delle melanzane, il prosciutto tagliato a dadini, l'uovo, il grana, sale e pepe. Frullare tutto fino ad ottenere una salsa morbida, ma densa. Riempire con questo composto le barchette una a una e poi adagiarle in una pirofila una accanto all'altra. Ricoprirle con salsa di pomodoro. Metterle in forno caldo a 180 gradi per circa 20 minuti. Sono molto buone anche il giorno dopo, tiepide.

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nel 1955 con ben 521 concorrenti, cioè quasi otto volte il numero di equipaggi della prima edizione! Purtroppo le sue stesse dimensioni e l’accresciuta potenza delle vetture partecipanti decretarono la fine della Mille Miglia. Già nel 1955 la Mercedes 300SRL di Moss­Jenkinson vinse alla strepitosa media di 156 chilometri orari su comuni strade statali e sempre tra due ali di folla entusiasta. In quella occasione il grande pilota argentino Juan Manuel Fangio, giunto secondo, affermò di aver corso per tutta la gara con il terrore di investire qualcuno. Ed è quello che successe puntualmente nel 1957. Mentre stava per giungere al traguardo di Brescia, la Ferrari 290 MM di Alfonso De Portago e Edmond Nelson, un mostro da 400 CV, uscì di strada a Guidizzolo per lo scoppio di una gomma. Oltre ai due piloti morirono dieci spettatori e la tragedia provocò fortissime reazioni in tutto il paese. Così la grande epopea delle corse su strada finì per sempre. Un’epopea, per citare Giovanni Lurani che della Mille Alfonso de Portago Miglia fu pilota protagonista e storico, “emozionante, gloriosa, incomparabile e irripetibile.”


MOGART – Arte a Mogliano Vto

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MOGART­Spazi Brolo CoopCulture Il Centro d’Arte e Cultura Brolo è stato costruito nel 2000 dall’Amministrazione Comunale di Mogliano Veneto grazie ai fondi speciali per il Giubileo, con il fine di dare vita ad un luogo espositivo che potesse inserirsi a pieno titolo nell’importante e variegata offerta culturale del territorio. Fino al 2014 ha, infatti, adempiuto a questo compito ospitando numerose e prestigiose mostre d’arte a cui, però, hanno seguito alcuni anni di silenzio. Il 2 dicembre 2018 si è inaugurato il MOGART segnando finalmente la rinascita del Brolo in una nuova veste con allestimento curato da Villaggio Globale International e la gestione dei servizi al pubblico affidata in concessione a CoopCulture, società leader nel settore. Una pinacoteca permanente il cui percorso espositivo è caratterizzato da 40 illustri opere pittoriche che spaziano dal XV al XX secolo, tra i dipinti del Bergognone, Romanino, Veronese, Tintoretto, fino ai ritratti di Telemaco Signorini, Emile Bernard e Arturo Martini, solo per citarne alcuni. Tutto ciò è stato possibile grazie alla generosità del collezionista Giuseppe Alessandra che ha concesso parte della sua collezione in deposito gratuito per la durata di sette anni al Comune di Mogliano Veneto, un regalo che ha fortemente voluto fare al luogo che gli ha dato i natali e alla sua comunità. Il grandioso gesto di Alessandra parte dalla profonda convinzione che l’Arte deve essere condivisa e che deve essere concepita non come patrimonio di pochi, ma dell’intera umanità. Il MOGART come un vero e proprio ponte artistico ideale tra Venezia, la Marca Trevigiana e tutta la Regione, è capace di diffondere l’importanza dell’amore per l’arte, fonte primaria e necessaria per l’educazione e la cultura di ognuno di noi, e soprattutto la “vera MATERIA PRIMA che il nostro Paese è in grado di offrire al mondo”. Questa la speranza dell’architetto Giuseppe Alessandra. Tale idea si è consolidata sempre più nel corso del tempo, grazie anche alla vicinanza con uno dei più rinomati Storici dell’Arte del secolo scorso, curatore negli anni di grandi mostre veneziane d’arte figurativa, il Prof. Pietro Zampetti, amico, compagno di viaggio insostituibile e prezioso consigliere, in questa sua appassionante avventura nel mondo dell’arte e del collezionismo durato sessant’anni. Un’occasione, insomma, davvero unica per Mogliano Veneto di arricchire la sua offerta culturale, come dichiarano il Sindaco, Carola Arena, e l’Assessore alla cultura, Ferdinando Minello: “Ospitare una pinacoteca con una prestigiosa collezione e dare nuova vita agli Spazi del Brolo con l’apertura del MOGART è l’opportunità che siamo onorati e lieti di offrire alla Città, grazie alla generosità del nostro concittadino Giuseppe Alessandra”. Negli anni Mogliano Veneto è divenuta sempre più importante e conosciuta anche dal turismo internazionale, grazie alla sua vicinanza con Venezia. “Obiettivo dell’Amministrazione è che il MOGART oltre ad essere un tassello rilevante nella riqualificazione del centro storico, diventi un polo attrattivo sia di amanti dell’arte che di turisti. Crediamo che il nuovo MOGART rappresenti un’occasione davvero significativa di crescita culturale per tutta la nostra comunità”, continuano il Sindaco e l’Assessore alla cultura. Si può certamente affermare che, il valore artistico e storico delle quaranta opere d’arte esposte, la cui selezione è stata operata dalla Città di Mogliano,

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La sede del Brolo

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contribuiranno al raggiungimento di tale scopo. Il percorso espositivo, curato da Ettore Merkel, al quale è stata affidata anche la direzione della pinacoteca, vede la suddivisione dei dipinti per aree geografiche di appartenenza. Ordinati cronologicamente secondo tre distinti percorsi, si adattano così alle tre sale espositive che costituiscono gli spazi del Brolo. Il genere pittorico che prevale è quello della ritrattistica, che offre al visitatore l’opportunità di un’indagine di costume di notevole interesse. È proprio questa la tematica nella quale il collezionista si è specializzato dal 1956 sino ad oggi. Non mancano, tuttavia, a dimostrazione di un’ampia collezione, opere di tema religioso, come una pala d’altare, alcune sacre conversazioni, parti di dittico e polittico. Si aggiungono a questi, inoltre, un paesaggio, una natura morta, una scultura e un disegno preparatorio a matita. Al piano terra è allestita la pittura otto­novecentesca veneziana e veneta, contrapposta ad alcuni esempi di Scuola toscana e francese. Nella sala spiccano i lavori di due giganti veneziani, quali Gino Rossi e Arturo Martini, di due artisti francesi Raoul Dufy ed il neoimpressionista Emile Bernard, di Telemaco Signorini e Silvestro Lega appartenenti al gruppo dei pittori Macchiaioli. Nelle due sale superiori, invece, troviamo dipinti rinascimentali, manieristi e barocchi di ambito soprattutto veneziano e veneto, a confronto con alcuni quadri coevi di area lombarda e toscana. Nella sala maggiore si distinguono: una maestosa opera di ambito tizianesco, un’opera ricondotta a Carpaccio, una proveniente dalla bottega del Bellini e, ancora, dipinti che richiamano i maggiori Maestri della pittura veneziana e veneta del Cinquecento, fra i quali Tiziano, Tintoretto, Veronese. Il secondo itinerario si conclude con due tele di area fiamminga, una delle quali di ambito del pittore Antoon van Dyck. Le ultime dieci opere sono raccolte nella terza sala, costituendo così l’ultimo itinerario. Un viaggio fra opere rinascimentali di genere religioso, alcune delle quali riconducibili a frammenti di polittici provenienti dalla Scuola emiliana, lombarda, napoletana e toscana. Termina così un vero e proprio viaggio nel tempo fra i capolavori della Collezione Alessandra. Il MOGART non si deve intendere come un mero contenitore di opere d’arte, ma come un incubatore d’arte e cultura in continuo movimento. L’Amministrazione Comunale e CoopCulture si adopereranno per attivare in questa direzione molteplici attività rivolte ai più diversi pubblici: laboratori, pensati per le scuole e per la libera utenza, eventi a tema, visite guidate, si svolgeranno presso il MOGART in un fitto calendario nei diversi mesi dell’anno. Il bene culturale è parte integrante di un territorio, proprio per questo non può essere pensato isolato da esso, bensì deve relazionarsi con esso, diventando un’attrazione e distribuendo idee.


Il pensiero del nulla eterno

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Alfonso Malaguti Nell'anno da poco trascorso sono passati oltre 200 anni dalla nascita di Ugo Foscolo (240 anni fa) e di Giacomo Leopardi (220 anni fa), cioè di uno dei più grandi poeti italiani grazie ai suoi 12 sonetti e ai suoi Dei Sepolcri e forse del più grande poeta del mondo occidentale grazie ai suoi XLI Canti. Io, qui, mi propongo di esaminare comparativamente il sonetto Alla sera, scritto nel 1802/03 e l'idillio L'Infinito, scritto nella primavera/autunno 1819, esattamente 200 anni fa, quando i due poeti erano poco più che ventenni (22/24 anni Foscolo, 20/21 Leopardi). L'incipit foscoliano è un momento di straordinaria poesia: “forse perché della fatal quiete / tu sei l'immago”, ove la fatal quiete diventa l'immagine “cromatica” della sera come se fosse diventata un quadro nel quale l'artista cerca nella sua proposta una estrema ricchezza poetica nell'ambito del medesimo colore. In Leopardi la situazione è radicalmente diversa: “Sempre caro mi fu questo ermo colle”. Siamo in un ambiente familiare, nonostante la solitudine che il colle dà al poeta, solitudine attutita dal dimostrativo “questo”, dimostrativo che nei successivi endecasillabi tornerà varie volte (questa siepe, queste piante, questa voce, questa immensità, questo mare) contrapposto a “quella/quello” rispettivamente dei vv. 5 e 9. Il momento cromatico della sera è ancora più evidente nei vv. 3­4 laddove il poeta ha come un'esaltazione estatica per ciò che immagina concretamente: “E quando ti corteggian liete / le nubi estive e i zeffiri sereni”. La sera sembra espandersi, essere corteggiata dalle nuvole che d'estate si rincorrono e si incrociano fra loro creando sfumature tinteggiate, con venti che si stagliano serenamente. Ma la sera è, comunque, sempre appagante anche quando c'è l'aere nevoso che reca nell'universo tenebre inquiete e lunghe. E' costantemente invocata e tiene le vie del cuore del poeta (vv. 5­8). Leopardi, quando usciva di casa per fare la passeggiata a ponente, percorreva un piccolo sentiero per recarsi al colle, chiamato Monte Tabor. Il colle e la siepe precludono alla sguardo gran parte dell'orizzonte. E' qui la prima esplosione degli endecasillabi leopardiani che ci danno la più genuina ed intima interpretazione dell'idillio. Ci sono tre versi ed un emistichio (vv. 4­7) che sono di una bellezza e profondità come rarissime volte si trovano in una poesia: “Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo”. Qui ogni parola è poetica e raggiunge il più alto pierio fonte, iniziando dai due gerundi che danno il quadro della eccezionale situazione: il poeta siede e mira ciò che sta accadendo e che vede innanzi a lui. Poi la summa: le parole “spazi”, “silenzi”, “quiete” specificate e individuate rispettivamente dai seguenti aggettivi: interminati, sovrumani, profondissima. Nei due poeti v'è un diverso uso della parola “quiete”: per Foscolo è fatal, dunque legata al destino; per Leopardi è profondissima, dunque capace di dare conforto e ristoro. Peraltro la quiete leopardiana si confronta con gli interminati spazi che danno il senso di un infinito immanente e con i sovrumani silenzi che portano a voler vivere nel silenzio, ove l'uomo può meditare e immaginare (mi fingo) sulla propria esistenza; mentre quella foscoliana è sì anch'essa un'immagine, legata però ad una specificazione temporale, cioè la sera. Altri due momenti fondamentali sono, appunto, il tempo e lo spazio. Nella lettura incrociata il tempo

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acquista un valore spaziale così come lo spazio acquista un valore temporale nell'evolversi degli endecasillabi. Il momento temporale viene invocato così la sera s'impossessa delle vie del cuore. Ciò consente al poeta di vagare con i suoi pensieri seguendo le orme “che vanno al nulla eterno”. Il pensiero del nulla eterno rende possibile fuggire il reo tempo. E' proprio il nulla che ha la capacità di divenire eterno con un ossimoro di grande impatto che – come si vedrà poco più avanti ­ sarà in grado di ridare al poeta le sue capacità più caratterizzanti. In Leopardi il momento domestico iniziale assume via via un aspetto sempre più generale. Anche qui è la natura che si fa sentire con il vento che provoca un fruscio tra le foglie delle piante consentendo così di comparare quel silenzio, diventato infinito, a questa “voce” della natura. Allora al poeta “sovvien l'eterno”, ossia il pensiero dell'eternità sopraggiunge assieme al ricordo del passato e dell'età presente. L'infinito si confronta con l'immensità: quell'infinito che veniva immaginato nello spazio con il rumore del vento diventa ex abrupto l'infinito nel tempo. Dunque, da un lato il nulla eterno, dall'altro l'immensità dello spazio e del tempo. Le cose vengono viste in maniera pressoché identica. In Foscolo c'è l'annullamento nell'eternità, in Leopardi la percezione di come spazio e tempo rappresentano l'immedesimazione nell'eternità. La domanda che dobbiamo porci è la seguente: è questa una situazione stabile per così dire definitiva oppure si può e si deve pensare ad un suo superamento? Le risposte “finali” sono radicali sia per ciò che dicono sia perché si confrontano Weltanschauungen (visioni del mondo) opposte. L'uno, mentre contempla la pace della sera, sente dentro di sé lo “spirto guerrier” che l'ha dominato costantemente, pur avendogli prescritto il fato una “illacrimata sepoltura” (A Zacinto); l'altro annega il suo pensiero nell'immensità dello spazio e del tempo e il lasciarsi annegare gli è dolce perché avviene nel mare dell'infinito, ove anche la vita umana lo percorre. Le parole fondamentali sono quattro: nulla, eterno, tempo, spazio. “Nulla” è presente in Foscolo, “spazio” in Leopardi. Entrambi vivono il tempo assoluto dell'eternità. E' l'eternità che dà un senso infinito alla vita come più sopra richiamato. E' una eternità che è già nulla per Foscolo, mentre per Leopardi lo diventerà negli idilli successivi. Ché il poeta di Recanati negli anni successivi si troverà sempre più spesso a fare i conti con la perdita completa di qualsiasi felicità. Si è persa la speranza: “e tale / lascia l'età mortale / la giovinezza”. E' così che il nulla eterno diventa il pensiero leopardiano profondo nei vent'anni (1816­1836) durante i quali compone i suoi idilli. Gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la profondissima quiete, l'infinito silenzio della giovinezza aprono un portale che troverà il suo inveramento nel fuggire “la Natura (…) quasi tutto il tempo della (…) vita per cento parti della terra”, proclamando parimenti che la vita (infelicissima) dell'universo non giova e non piace giacché viene “conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono” (Dialogo della Natura e di un Islandese). Leopardi trae ispirazione da Lucrezio: “La vita dell'uomo, dinanzi agli occhi di tutti, vergognosamente stava / abbattuta in terra” (De Rerum natura, I, 62­63). La speranza se n'è andata, è diventata una mera illusione, un nulla eterno.


Medicina: La puntura di zecca

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Giuseppe Ragusa Le zecche (nome scientifico Ixodes ricinus) sono artropodi della famiglia degli aracnidi, la stessa dei ragni e degli scorpioni. Hanno dimensioni piuttosto ridotte (alcuni millimetri), sono di colore scuro e vivono in regioni umide, ombreggiate, tipiche di boschi e montagne, con vegetazione bassa ed incolta. Gli animali che fungono da serbatoio per questi parassiti sono numerosi: cervi, ricci, topi, conigli, volpi, uccelli scoiattoli, cani e gatti. La loro vita media è di circa due anni, ed il periodo di maggiore attività va tra la primavera ed il tardo autunno, all’incirca da maggio a fine ottobre. E’ pertanto probabile avere con esse un incontro… indesiderato durante le nostre vacanze estive in montagna. La zecca è ematofaga, cioè si nutre di sangue che succhia inserendo il suo rostro buccale nella pelle della sua vittima (sia animali che uomini), alla quale resta saldamente attaccata per alcuni giorni, per poi cadere da sola, dopo essersi sufficientemente nutrita. La puntura di zecca è quasi sempre indolore e passa inosservata, in quanto la saliva di questo parassita contiene alcune sostanze ad azione anestetica. La puntura di per sé provoca solo una modesta irritazione locale, in genere la zona colpita appare leggermente infiammata e gonfia. Il problema è dato dal fatto che le zecche, con la loro puntura, possono talvolta immettere, nell’organismo ospite, dei batteri o virus responsabili di alcune malattie, le più importanti delle quali sono il Morbo di Lyme e la Meningoencefalite da zecche. La zecca trasmette i germi patogeni solo quando si stacca dall’ospite: è infatti in quel momento che il parassita, terminata la fase di assunzione di sangue, effettua un rigurgito all’interno dell’ospite. Il Morbo di Lyme è dovuto alla Borrelia burgdorferi, un batterio che infetta la zecca che abbia precedentemente punto a sua volta un animale malato (in genere cervi, ricci, uccelli e roditori). Per infettare l'uomo, la zecca deve aderirvi alla cute per più di 24 ore: la trasmissione del batterio avviene attraverso il rigurgito, le feci o la saliva del parassita nell’area sede della puntura. Il periodo d'incubazione della malattia varia dai 4 ai 25 giorni, più frequentemente dai 7 ai 14 giorni. In genere il Morbo di Lyme esordisce con la comparsa, nella sede della puntura, di una lesione cutanea, detta eritema migrante o anche lesione a bersaglio per la sua conformazione: si presenta infatti come una papula eritematosa (rossastra) in corrispondenza della puntura della zecca, circondata da un alone bianco, all’esterno del quale vi è un altro anello rossastro sfumato. L’eritema si espande gradualmente e può assumere spiccate dimensioni. Possono accompagnarsi febbre, ingrossamento dei linfonodi regionali, dolori muscolari, fisico spossato, mal di testa e collo rigido. La diagnosi è clinica, supportata da test sierologici eseguiti sia in fase acuta sia in fase tardiva. Se non viene curato, il Morbo di Lyme si aggrava con la comparsa di complicanze articolari, cardiache e neurologiche, molto invalidanti. La Meningoencefalite da zecche è dovuta ad un particolare virus (TBE­virus), iniettato dalle zecche.

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Il periodo di incubazione va da 2 a 28 giorni; la malattia si manifesta con febbre alta, dolori articolari, spossatezza, ed in alcuni casi può avere conseguenze devastanti in quanto può colpire il cervello, le meningi e il midollo spinale. L’encefalite può essere prevenuta con un vaccino che può essere somministrato in ogni età ed è consigliato a chi vive in zone a rischio (in Italia: Friuli­Venezia Giulia, Trentino, Veneto). Primo soccorso. La rimozione della zecca deve essere effettuata il prima possibile, per evitare che essa effettui il pasto di sangue e quindi inietti la saliva potenzialmente infetta. Indossate guanti sterili, mai procedere a mani nude! Non utilizzate alcuna sostanza (alcool, vaselina, olio d’oliva, acetone) prima della rimozione: potreste indurre il parassita a rigurgitare aumentando le probabilità di infezione. Per asportare la zecca occorre semplicemente afferrarla delicatamente quanto più vicina alla pelle, utilizzando le apposite pinzette reperibili in farmacia o comunque una pinzetta a punta fine: la si estrae con una trazione esterna delicata e continua evitando assolutamente torsioni o strattoni. Evitare assolutamente di schiacciare, pungere, spremere o strappare il ventre del parassita. Accertiamoci di aver estratto completamente la zecca: se la testa è rimasta attaccata alla cute dovremo rimuoverla con un ago sterile come si fa solitamente con le spine oppure rivolgerci al medico. Dopo l’asportazione, disinfettiamo la cute con un antisettico, e liberiamoci del parassita bruciandolo o immergendolo in alcool disinfettante. Da evitare l’uso di antibiotici (“fai da te”) a scopo profilattico immediatamente dopo una puntura di zecca: il farmaco va somministrato solo dopo la comparsa dell’eritema migrante e su prescrizione medica. Dopo aver asportato il parassita è buona norma annotare la data della rimozione e attendere un periodo di 30­40 giorni per verificare la comparsa di eventuali segni di infezione. Misure preventive. Ecco qualche consiglio su come poter prevenire il contatto con le zecche: • Durante la camminata cercare di restare sui sentieri più battuti, evitando il più possibile le zone cespugliose con erba alta e lettiera di foglie. • Usare indumenti che coprano il più possibile il corpo: magliette a manica lunga, pantaloni lunghi e calzini sopra pantaloni. • Applicare repellenti sulla cute esposta e spruzzare sugli abiti e sullo zaino sostanze ad azione insetticida­acaricida­repellente, reperibili in commercio. • Al rientro dall’escursione spazzolare con cura i vestiti ed effettuate un controllo accurato di tutto il corpo, possibilmente con l’assistenza di un’altra persona. NOTA. Per l’uomo può rivestire importanza patologica anche la zecca del cane (Rhipicephalus sanguineus) che è in grado di trasmettere il microrganismo responsabile della febbre bottonosa. Questa malattia è più diffusa in alcune aree dell’Italia centro­meridionale, in particolare nelle regioni tirreniche, e soprattutto in Sicilia e Sardegna.


Alla scoperta di Tindari

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Mauro Cicero Se nei prossimi mesi deciderete di recarvi in Sicilia desidero suggerirvi di visitare, se non lo avete fatto, lo stupendo promontorio di Tindari, a 268 metri slm., splendida cittadina in provincia di Messina, un tratto di costa in cui arte e cultura si mescolano magicamente a miti e leggende. Si tratta di un sito archeologico unico al quale sono tornato, la scorsa estate, per riscoprire luoghi e profumi che mi ricordano l'infanzia, quegli stessi luoghi e profumi che mi hanno spinto, tempo fa, a scrivere per diletto, ma col cuore, un racconto ambientato nella Belle Époque. Il suo nome antico è Tyndaris in onore di Tindaro, re di Sparta, e fu fondata dal tiranno di Siracusa Dionisio I il Vecchio, come colonia dei mercenari che avevano partecipato alla guerra contro Cartagine. Teatro di una battaglia navale durante la prima guerra punica, fu in seguito colonia romana, divenendo un’importante base navale, conquistata anche dai bizantini prima e dai saraceni poi. Vi si può ammirare il Santuario dove è custodita la Madonna Nera, scolpita in legno di cedro del Libano, forse giunta dall'Egitto. Seduta nella posizione della basilissa che regge il Bambino Gesù, ha il volto lungo con un naso prominente tipico delle immagini orientali e africane. I resti della città antica, situati nella zona archeologica, sono discretamente conservati. L'impianto urbanistico, che risale probabilmente all'epoca della fondazione, presentava un tracciato regolare a scacchiera, articolato su tre decumani (strade principali). Sono inoltre visibili i resti delle mura cittadine e il teatro più volte rimaneggiati. Per quanto riguarda le bellezze naturalistiche, alla base del promontorio si trova una formazione sabbiosa con piccoli specchi d'acqua che varia a seconda delle mareggiate. Su come si siano formate queste spiagge è nata una bellissima leggenda. Una donna, venuta ad adorare la Vergine, resta delusa alla vista del suo colorito scuro. “Sono venuta da lontano per vedere una più brutta di me!”, esclama. Ma la sua bimba precipita dall’alto del monte e, solo grazie all’intervento della Madonna e all’improvviso ritrarsi delle acque fino a formare una culla soffice di sabbia, la piccola riesce a salvarsi dal mare tempestoso. A testimonianza del miracolo avvenuto, la spiaggia di Tindari si presenta oggi a foggia di donna con le braccia della Vergine che accolgono la bimba precipitata. Sopra di essa, nel costone, si apre una grotta abitata, secondo un’altra leggenda, da una maga che, come le sirene, col suo canto attraeva i naviganti per poi divorarli. Se non ci riusciva, sfogava la sua rabbia affondando le dita nella parete. A questo sarebbero dovuti i fori nella roccia. Tindari, un piccolo scrigno di storia, http://capodorlando.org/siciliantica/la­madonna­nera­di­tindari/ natura e favola che penso valga la pena di prendere in considerazione.

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Il piacere della lettura Donatella Grespi Barbara Costantine ­ E POI, PAULETTE... ­ Einaudi Torino 2012

Giovanni Montanaro ­ GUARDAMI NEGLI OCCHI ­ Feltrinelli Milano 2017 C'è un dipinto a Palazzo Barberini a Roma che ritrae Margherita Luzi, detta Ghita, la Fornarina, musa ispiratrice e modella di Raffaello Sanzio. Giovanni Montanaro, avvocato veneziano, narra la travagliata storia d'amore tra il famoso pittore e la bellissima ragazza che, essendo di umili origini , non potrà mai diventare sua moglie e dovrà accontentarsi di essere la sua amante. Alla morte di Raffaello, straziata dal dolore, la Fornarina rinuncia alla vita ritirandosi in convento. È un romanzo intenso, scritto in stile asciutto, senza fronzoli, ma che racconta in modo superbo e commovente una passione impossibile e travolgente.

Cathleen Schine ­ LE COSE CAMBIANO ­ Mondadori Milano 2016 Joy è un'anziana signora molto attiva. Lavora ancora, si occupa del marito, è la matriarca di una grande famiglia allargata. Ma le cose cambiano, come dice il titolo del libro, quando resta vedova. I figli, con un misto d' amore, timore, senso di protezione e incomprensioni, pretendono di gestire la solitudine e il futuro della loro madre che però, rivendicando la sua autonomia, si ribella. Il rapporto si complica quando, all'orizzonte, compare un antico corteggiatore... Cathleeen Schine, scrittrice americana, scava con grande sensibilità, ma anche con humor e ironia, nei complessi rapporti familiari e racconta con leggerezza e garbo il triste sopraggiungere della vecchiaia. È un libro che piacerà a tutti coloro che non si vogliono arrendere alla solitudine e all'età che avanza.

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Un anziano, rimasto solo in una grande casa di campagna, ospita una vicina in difficoltà. A loro si aggiungono, in seguito, un amico vedovo, due vecchiette squinternate, un ragazzo, un asino, un cane e poi... Paulette. Romanzo che tratta temi importanti come la vecchiaia, la solitudine, la morte, l'amicizia, ma lo fa con garbo, trasmettendo alla fine un messaggio positivo. Tenero, divertente, scritto in modo scorrevole, è un inno all'ottimismo e alla solidarietà.


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La Cavalcata delle Valchirie, di Richard Wagner Edo Guarneri Nella mitologia scandinava le Valchirie erano le nove figlie che Wotan (Odino), il più antico e grande degli dèi, il creatore del mondo e di tutte le cose, aveva avuto da Erda, la dea della Terra. Le Valchirie avevano il compito di scegliere i più eroici tra i combattenti caduti e di portarli nel Valhalla, il paradiso dei guerrieri, dove venivano accolti dallo stesso Wotan e preparati a quella che, secondo la mitologia, sarebbe stata l’ultima battaglia, alla fine del mondo, contro le forze del caos. Esse vengono spesso rappresentate come guerriere dai lunghi capelli biondi, che attraversano i cieli e i mari sui loro cavalli alati. La leggenda vuole che le loro cavalcature si trasformassero nei branchi di lupi che giravano tra i cadaveri dei guerrieri morti in combattimento, e che le Valchirie stesse apparissero come i corvi che volavano sopra i campi di battaglia. Secondo tale visione fantastica, i branchi di lupi e i corvi rappresentavano il mezzo per scegliere i corpi degli eroi caduti combattendo. Richard Wagner volle mettere in musica queste leggende della mitologia nordica e ne scrisse anche il libretto: creò così una tetralogia di quattro drammi musicali che costituisce una delle più sterminate creazioni della storia dell'arte (15 ore di musica!), l’Anello dei Nibelunghi. La Cavalcata delle Valchirie è un celeberrimo brano presente all'inizio del terzo atto de La Valchiria, il secondo capitolo della tetralogia, ed è senza dubbio il brano musicale più conosciuto di Wagner. Questa composizione viene spesso abbinata a tutto ciò che è attinente all'arte della guerra: pensate che veniva trasmessa tra le radio ad onde corte dei soldati tedeschi che pilotavano i carri armati prima degli assalti; era anche utilizzata come colonna sonora di numerosi documentari di guerra di produzione tedesca, e tutti ricordiamo, in epoca più moderna, la sequenza dell’attacco aereo presente in Apocalypse Now, il film di Francis Ford Coppola sulla guerra in Vietnam, nella scena in cui uno squadrone di elicotteri inserisce a tutto volume questa musica mentre attacca un villaggio vietnamita. In questa celebre Cavalcata, la scena rappresenta le Valchirie in sella ai loro cavalli alati verso il Valhalla, mentre ridono allegramente, chiamandosi continuamente tra loro: muteranno le loro risa in spavento quando vedranno la loro sorella maggiore Brunhilde, la figlia prediletta di Wotan, accorrere precipitosamente verso di loro, dopo aver disubbidito alla volontà del padre. Il tema della cavalcata, affidato agli ottoni, viene via via riproposto in tonalità diverse, per creare proprio l’impressione del volo, con i cavalli alati che si librano nell’aria in volute sempre più alte. Ai suoni dell’orchestra si aggiungono le voci delle Valchirie, con i loro “Hojotoho”, cantati con “salti” vocali di un’ottava all’insù che creano un effetto trascinante ed entusiasmante. Quale è la migliore interpretazione? Non ho alcun dubbio, quella dei Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan. Da acquistare (e poi ascoltare) a occhi chiusi! Nell’immagine: Le Valchirie, dipinto di WIlliam T. Maud. https://it.wikipedia.org/wiki/Valchiria#/media/File:Valkyries­L.jpg

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Scuola mia Ho avuto la fortuna di svolgere un’attività che mi piaceva molto: l’insegnamento ai bambini delle elementari e l’ho esercitato con entusiasmo e impegno per ventitrè anni. Ho iniziato ad insegnare giovanissima in località sperdute della Provincia di Venezia, tra San Donà e Torre di Fine, poi via via mi sono avvicinata: Caltana, Spinea, Marghera, Mestre e, negli ultimi anni, Mogliano, dove nel frattempo ero venuta ad abitare. La mia carriera ha avuto inizio nella seconda metà degli anni Sessanta e pertanto ho vissuto in pieno il cambiamento della Scuola italiana operato dai Decreti Delegati: gestione collegiale, apertura ­ anche fisica ­ al territorio, collaborazione con i genitori e con esperti operanti nei vari settori della vita lavorativa e, sul piano del metodo, apprendimento come ricerca basata sugli interessi reali dei ragazzi attraverso unità di lavoro trasversali alle varie materie. La Scuola diventava un luogo dove si poteva e si doveva anche “ascoltare”, non solo trasmettere nozioni. Ricordo, come fosse ora, le prime elezioni degli Organi Collegiali (1974) che sancivano la gestione democratica della Scuola attraverso i rappresentanti dei genitori, degli insegnanti e degli studenti. Ricordo Collegi­Docenti di fuoco dove gli insegnanti si confrontavano vivacemente sul piano ideologico oltre che metodologico, progressisti e tradizionalisti, fautori di una concezione liberante e responsabile a fronte di una visione autoritaristica, rigida, basata soltanto sul merito e sul profitto dei soliti noti. Lo scolaro veniva valutato non più con un numero (voto) ma tenendo conto della sua storia personale, delle effettive possibilità e del percorso compiuto. Insomma, come scriveva don Milani, “non si può fare parti uguali tra disuguali”. Furono esperienze ed emozioni che sarebbero rimaste impresse nella mente e nel cuore: via le pedane da sotto le cattedre, non più voti ma giudizi, il libro di testo dichiarato obsoleto, meglio le ricerche dal vivo o su più libri, gli esperimenti e la creazione di testi redatti dai ragazzi stessi. Rivedo i volti di tanti colleghi con cui ho collaborato aprendo finalmente le porte delle aule; i tantissimi bambini, i loro sguardi… le voci, le grida gioiose e i magici silenzi durante i tempi di lavoro. Rivedo le tante scuole di campagna e di città dove sono passata, i corridoi, le aule, le biblioteche… I sorrisi dei bambini e i loro pianti, le piccole mani macchiate dai pennarelli e il loro odore buono quando mi erano vicini. Insomma, furono anni importanti e belli. Certamente non fu facile coniugare l’impegno della scuola con quello della famiglia. Spesso mi ritrovavo dopo cena, quando la casa era finalmente tranquilla, a preparare la lezione e il materiale didattico per l’indomani, a correggere i compiti, a compilare i documenti, a scrivere i giudizi. L’impegno a casa e a scuola, in certi periodi, fu davvero faticoso anche se avevo dalla mia il vigore dell’età e la forza delle motivazioni. Tante volte mi sono chiesta se avessi voluto o potuto fare un lavoro diverso; penso proprio di no. La scuola mi ha dato tante occasioni di incontro e di approccio a molteplici situazioni familiari e sociali. Ho ricevuto e imparato sicuramente di più di quello che ho dato e insegnato. Anche perché ho sempre tenuto a mente che “i bambini imparano nonostante i maestri".

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Marisa Toniolo


Il Don e lo Zio

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Nicolò Tron IL “Don” non era un sacerdote cattolico. Non era una persona meritevole di riguardo, nè tanto meno un nobile spagnolo. “Don” era solo il nome di un cane. Un cane che, ancora cucciolo di poche settimane, venne portato nella grande casa di Venezia (nella contrada di San Stae), dove vivevo con mamma, i fratelli di lei e le rispettive famiglie e dove zio, in una delle otto stanze, aveva allestito un atelier di maglieria. Il cane, che era stato acquistato in vista del trasferimento dell’atelier in altra sede, doveva diventare, nell’intenzione di Zio un “feroce cane da guardia”. Era di razza Deutscher Boxer dal manto fulvo chiaro, di temperamento intelligente, allegro, giocherellone e sempre affamato. Non si è mai riusciti a sapere quale fine avesse fatto una pantofola destra vista l’ultima volta nelle fauci del cucciolo Don. Si è sempre sospettato che fosse riuscito a divorarla completamente. Dopo qualche mese divenne un animale possente nella sua muscolatura, snello, scattante ed elegante. Ma tutto divenne... fuorché feroce! Qualcuno maliziosamente insinuò che Zio lo avesse così appellato: “Don” non tanto in ricordo del placido fiume della Russia e nemmeno per onorare la patria del Comunismo, di cui Zio era fervente sostenitore, ma da comunista (e quindi per definizione di allora: “un mangia­preti”) pare che avesse appellato così il cane per dileggio nei confronti dell’antagonista... il parroco del luogo. Si perché Zio era uno dei capoccia della locale sezione del PCI ed essendo, in quel tempo, più accesa che mai la competizione tra comunisti e anticomunisti il confronto era tra i più vivaci. L’atmosfera che regnava in quel tempo fu molto ben descritta ed immortalata dal film “Don Camillo”, dove veniva raccontata in modo simpatico e divertente, la competizione tra il capo dei comunisti, Peppone, ed il membro più rappresentativo degli anticomunisti, Don Camillo. Sempre i citati maliziosi insinuarono che Zio avesse chiamato così il suo Boxer per poter dare del cane al “Don... parroco” senza incorrere in sanzioni giudiziarie. Da sottolineare che, per di più, la porta della canonica era quasi di fronte e a pochi metri dalla porta di casa e del laboratorio di Zio e che, cosa ancor più buffa, all’epoca, Zio portava due baffi alla Stalin ed il parroco, giovane ed atletico, praticava come hobby il sollevamento pesi. Il cane ancora giovane ed in piena maturità incuteva timore a chi lo vedeva per la prima volta ma, essendo rimasto un cucciolone amichevole ed affettuoso, amante del gioco e delle coccole, era benvoluto da quasi tutta la contrada ed in particolare dai ragazzini di questa che con lui giocavano… benvoluto anche quando, giocando e mordendo il loro pallone, lo bucava. Il Don (cane) amava correre! E tutti volevano farlo correre. E con tutti lui correva e poi tutti, lui seguiva scodinzolando. Chi lo conosceva, cioè tutta la contrada, sapeva che era tranquillo e mansueto e, che io sappia, solo in una occasione dimostrò che la sua forza non andava sottovalutata; fu in occasione di un piccolo lavoro di muratura, necessario all’atelier di Zio. L’operaio edile incaricato alla bisogna, ultimato il lavoro e lasciati colà gli attrezzi, andò a ristorarsi nella vicina osteria. Ritornato per riprenderseli, fu affrontato e messo a terra dal cane che, pur riconoscendolo, non permise che toccasse alcunché se non alla presenza dei proprietari. Il muratore impaurito richiamò l’attenzione di Zio che intervenne richiamando ad alta voce il Don cane, ma poi orgoglioso, per la dimostrazione da “guardiano feroce” che finalmente il suo cane dimostrò, lo premiò con un abbondante pasto. Per le mie vicende di vita e di lavoro persi ogni contatto con l’ormai invecchiato cane e quando fui informato della sua morte provai una malinconica nostalgia al ricordo dell’adorato cucciolo che con me giocava quando, ambedue, eravamo giovincelli. E poi un ricordo tornò alla mia mente… Ma che fine avrà mai fatto quella mia pantofola destra ?

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Diritti umani, Scienza e Progresso civile La Rocca Bruno In occasione della celebrazione del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani del 18 Dicembre 1948 ho creduto di interpretare tale ricorrenza legando con un unico filo tre elementi: un ascolto mattutino di Radio3 nella “Biblioteca dei diritti umani”, una trasmissione TV Canale 54 RAI Storia e la lettura del libro “La Sacra causa di C. Darwin”. Nella prima, attraverso la voce di 30 diversi intellettuali, uomini e donne, siamo stati invitati alla lettura e all’ascolto di testi che aprono spazio alla riflessione e tutela dei valori etici e civili che ogni popolo e nazione deve rispettare. In queste voci e scritti, con la profondità delle riflessioni ed il talento comunicativo espresso, mi sono reso emotivamente partecipe, con S. Weil, M. Remarke, P. Cacciari, G. Mazzini, S. Mancuso ed altri. Ho riascoltato alcuni interventi da cui ho estrapolato alcuni passaggi: Il volto della donna non ha il volto della guerra – La schiava che non ha diritto all’istruzione non sarà mai libera – L’accoglienza dei troiani da parte della regina Didone, dall’Eneide di Virgilio – Vi sono stagioni della vita in cui siamo fragili e forti – I 40 giorni del Mussa Dag, dal genocidio in Armenia – Gli emigranti nella Notte di Lisbona – I doveri dell’uomo di G. Mazzini – Annientamento del tempo e dello spazio – Sarajevo 1992 – 1995 – S. Mancuso: C. Darwin ha abolito tra i viventi il concetto di Superiore vs Inferiore. Con Internet si poteva riascoltarla tutta in Biblioteca dei Diritti umani Rai3 radio, Rai play. Il secondo ascolto rievocava la Dichiarazione con P. Mieli, assistito dai tre giovani storici e la prof. Silvia Salvatici. Insieme spiegavano le differenze tra la Dichiarazione del 26 Agosto 1789 fatta dall’Assemblea Francese e quella del 10 Dicembre 1948. La prima era una formulazione quasi fosse un’entità giuridico filosofica, dove la proprietà è un diritto inviolabile e sacro, e pur facendo riferimento ad auspici dell'Essere Supremo, manteneva le distinzioni sociali, i cui diritti sono: la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione. Il principio di ogni sovranità risiedeva essenzialmente nella Nazione. Per la genesi della seconda non dobbiamo dimenticare che le conquiste civili, sono frutto delle società occidentali e della loro storia. Comprendeva un Preambolo e 30 articoli che sanciscono i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni persona. Suddivisi in due grandi aree: i diritti civili e politici e i diritti economici, sociali e culturali. Dopo la seconda guerra mondiale una promotrice della Dichiarazione del 1948 fu E. Roosewlt. Denominata dal presidente H. Truman “First lady of the world”. Ma questa fu una pura dichiarazione d’intenti, non vincolante per gli stati e senza sanzioni. Quelle stesse parole sottoscritte da tutti parlavano facilmente di diritti ma mancavano di una verifica dei doveri. Poi gli Stati vollero darsi una legislazione superiore vincolante, tramite Convenzioni internazionali del ’59 (creazione di strumenti legali), ’66 ( diritti politici Economici, Sociali), ’79, ’89, ’97 (protezione della donna e dell’infanzia), adottate all'unanimità dall'ONU già dal 16 dicembre 1966; con sanzioni per la loro violazione, sottoposte al giudizio di una Corte Suprema dei Diritti. Nel testo mancano ancora oggi diritti “Nuovi”di protezione di Ambiente, Acqua, Vita, Infanzia, Privacy, e concreta condanna

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UNITRE Mogliano Veneto

“La gente si accontenta delle stesse parole che adoperano gli altri, come se lo stesso suono comportasse lo stesso significato” David Hume, filosofo scozzese.


L'albero della vita Aprile ­ Maggio

dell’Apartheid, nonché la difesa dei Movimenti Indipendentisti. Nel 1990 furono condotti processi internazionali per i delitti di genocidio in Jugoslavia ed Uganda. Silvia Salvatici concluse segnalando l’opera UTET “Diritti umani: Cultura dei diritti e dignità della persona”. La lettura di “La sacra causa di Darwin” è il terzo elemento che non é un’incollatura al titolo, perché vedrete un Darwin impegnato con tutta la sua colta e facoltosa famiglia, nella lotta alla schiavitù ed al razzismo “come non si era mai visto”. Aveva già visto in Brasile la crudeltà schiavista e gli sbarchi delle orride navi negriere continuando a rifiutare la crudeltà umana. Nell’“Origine delle specie” stende una trasparente spiegazione della diversità in natura, dove coglie l’esistenza di un “mirabile giardiniere” capace di mostrare il filo dell’unica genesi, prudentemente additando l’unicità dell’uomo e la sua origine. Con la sua correttezza scientifica, la massa di prove esibite, acquisì sostegno di grandi scienziati. Il movimento diffuse un cameo, dove uno schiavo chiedeva: “Am I not a man and a brother?”. Tolse qualsiasi base scientifica al concetto di “superiorità” tra le genti. Combatté contro L. Agassiz e le sue “aree razziali”, un “poligenista“ come altri che vantavano l’esistenza di dodici specie di uomini originate in luoghi diversi. Darwin fu “interpretato” da alcuni “pro e contro”, distorcendo le sue idee per ideologia, per ignoranza, perdendo gli aspetti etici e morali della sua lotta contro i frenologi­craniologi, razzisti e schiavisti del 19° secolo. Questi brutali propagandisti di falsa scienza sembravano dare soddisfazione al bisogno di sicurezza contro il pericolo di una contaminazione negra. La natura dava da tempo un messaggio che spaventa ancora oggi la nostra “esagerata” civiltà. La scienza che venne confermò “L’origine” sopra ogni ragionevole dubbio. La sua rivoluzione poneva la più potente base scientifica per sostenere uguaglianza e diritti umani e molto altro. Siamo ormai lontani dall’8 Maggio 1794 quando il terrore giacobino ghigliottinò A. Lavoisier. L’impropria frase di qualcuno diceva: “La République n’a pas besoin de savants”= “La repubblica non ha bisogno degli scienziati”. Nel 2019 c’è bisogno di sottoscrivere ancora un Patto per la Scienza? Forse ne abbiamo ancora bisogno non solo per la scienza e per la salute, ma anche per i diritti umani.

La 4a di copertina La Redazione Orlando Fasano (1915 ­ 2001) pittore, scultore e maestro vetraio, nato a Udine, è stato un originale interprete del Novecento, artista eclettico e geniale. Visse molto tempo all‘estero ed intrecciò importanti amicizie e collaborazioni con numerosi dei grandi protagonisti della cultura artistica del suo tempo, tra i quali Chagall, Matisse, Gide, Prévert, Ernst, Picasso, Cocteau, D’Annunzio, De Chirico, Guttuso, Calder e altri ancora. Gli furono tutti amici e della loro amicizia risente la sua arte: nacque così una galleria di cavalli, colombe, galli, re ed uccelli immaginari, di paesaggi, fino alle raffinatissime aurore boreali, tutte caratterizzate da un’esplosione di colori che affascina ed attrae. Fasano visse per 35 anni a Campocroce di Mogliano e fu uno dei protagonisti della Fucina degli Angeli, innovativo laboratorio veneziano della produzione artistica del vetro. E' un artista caro alla Città di Mogliano, le sue opere pittoriche furono scelte per la mostra che inaugurò l‘attività del Brolo, nel febbraio del 2000.

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La Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti

Questa “Pietà” si trova nel Museo Sforzesco a Milano ed è così chiamata perché rimase per molti anni nel Palazzo Rondanini a Roma. E’ l’ultima delle quattro “Pietà” scolpite da Michelangelo. La iniziò nel 1560 e vi lavorò fino alla morte avvenuta a quasi novant’anni, l’opera rimase incompiuta. Compaiono due sole figure: il Cristo e la Madonna ed un frammento di braccio (sproporzionato rispetto alla forma del Cristo) appartenente, forse, ad un’altra scultura di Michelangelo. Michelangelo ha vissuto con la sensibilità di artista tutti i traumatici fatti storici e religiosi del 500. La crisi dei valori umanistici è alla base dell’opera. Vicende drammatiche si erano già abbattute su Roma: i luterani che entrarono in Vaticano (1520) acclamando papa Lutero, i Lanzichenecchi che nel 1527 fecero il sacco di Roma, la fondazione dei tribunali dell’inquisizione, la censura della stampa, il concilio di Trento. L’armonia delle composizioni che caratterizzava tante opere di Michelangelo, frutto di una sintesi ideale dei valori e dei canoni rinascimentali con l’uomo al centro dell’universo padrone e dominatore del creato, lascia ora il posto all’uomo dubbioso ed angosciato. Le figure allungate e contorte, il non finito, l’inquietudine e la drammaticità che si notano in quest’opera riflettono gli stilemi tipici del Manierismo. In questa scultura la grandezza di Michelangelo sta nel saper rinunciare alla sua grande perfezione tecnica per lasciare trasparire soprattutto le passioni e la spiritualità delle figure che si manifestano nelle forme abbozzate e contorte. L’incompiuto, lo sbozzato, il non finito sono ora più rispondenti al continuo divenire della vita, riflettono con più immediatezza le tensioni dell’anima e le difficoltà del vivere, la lotta tra spirito e materia, tra ciò che si vorrebbe e quello che si è costretti ad accettare. I corpi affusolati e spiraliformi, scavati dal dolore, denotano una ricerca ansiosa sul limite tra forma e non forma, un bisogno di andare oltre le normali apparenze fisiche per capire cosa sta al di là della materia e forse per lui, già quasi novantenne il limite tra vita e morte. Michelangelo, ora più che mai comprende pienamente i suoi limiti, i limiti umani delle cose. L’opera, come già detto, rimase incompiuta e forse tale sarebbe rimasta anche se non fosse sopravvenuta la morte dell’Autore.

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UNITRE Mogliano Veneto

Paolo Baldan



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