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LA PANDEMIA COVID-19 E LE SUE CONSEGUENZE
Nei Professionisti Sanitari
di Sondra Badolamenti (in foto a centro pagina)
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Docente presso UniCamillus di Scienze Infermieristiche e di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni
La pandemia Covid -19, proclamata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) a fine gennaio 2020, si è distinta dalle precedenti per la globalità e la persistenza nel tempo. Nonostante le esperienze precedenti di pandemie, anche nella storia recente, come la sindrome respiratoria (MERS) e A/H1N1, allo stato attuale si sa ancora poco dell’impatto sociale, emotivo e psicologico che la pandemia da Covid 19 ha avuto su tutti gli operatori sanitari. Tutti infatti ne stanno ancora affrontando le sfide e rischiando le conseguenze. Secondo le stime dell’OMS, sarebbero almeno 115.000 gli operatori sanitari che tra gennaio 2020 e maggio 2021 avrebbero perso la vita a causa della pandemia. A causa dell’elevato livello di esposizione, tutti i professionisti sanitari rappresentano una categoria ad alto rischio di burnout, stress, ansia, affaticamento. Precedenti studi condotti durante lo scoppio della sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e A/H1N1 hanno confermato che gli operatori sanitari in prima linea hanno manifestato disturbi di ansia, depressione, paura e disturbo post traumatico da stress (PTSD) (Chong et al., 2004; Goulia et al., 2010). Questi studi hanno evidenziato come i fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi psichiatrici fossero legati al contatto prolungato con pazienti contagiati, ai turni massacranti e alla mancanza di supporto (Kim & Park, 2017; Jung et al. al., 2016). Sebbene la ricerca sull’attuale pandemia di COVID19 stia continuando ad evolversi, sarebbe opportuno cercare di fare una sintesi dei fattori di rischio specifici che possono influenzare la salute fisica e mentale degli operatori sanitari. Gli operatori sanitari sono infatti ancora oggi, a distanza di 3 anni dall’esordio della pandemia, una categoria particolarmente esposta a condizioni di rischio a causa della peculiarità del ruolo lavorativo che li porta a gestire situazioni cliniche estremamente complesse quali ad esempio i carichi di lavoro, la gestione di pazienti in condizioni critiche, le risorse limitate a disposizione, i tuttora elevati tassi di mortalità nei pazienti con specifiche cronicità e comorbidità (Crowe et al., 2021). Alcuni autori hanno infatti evidenziato che l’incidenza di alcuni disturbi, quali ansia, depressione, disturbi dissociativi e PTSD, sono drasticamente aumentati tra gli operatori sanitari (Chen et al., 2020). E per ciascuno esistono diversi fattori di rischio specifici, responsabili del peggioramento della salute fisica e mentale dei professionisti sanitari. Essi possono essere sostanzialmente ricondotti a 5 macro-aree: setting clinici specifici, sicurezza sul luogo di lavoro, gestione dei processi comunicativi e delle informazioni sanitarie, caratteristiche individuali, e interfaccia lavoro/vita privata. Alcuni ricercatori hanno evidenziato che alcuni setting lavorativi, durante la pandemia, abbiano rappresentato uno specifico fattore di rischio. Ad esempio alcuni reparti (quali le terapie intensive, il pronto soccorso e la rianimazioni) rappresentano aree a rischio di compromissione del benessere fisico e mentale degli operatori sanitari; l’incidenza di disturbi (quali depressione, ansia etc.) risulta significativamente più elevato, probabilmente legata a caratteristiche specifiche di questi setting lavorativi quali una costante esposizione
Gli operatori sanitari sono ancora oggi, a distanza di 3 anni dall’esordio della pandemia, una categoria particolarmente esposta a condizioni di rischio lavorativo che li porta a gestire situazioni cliniche complesse ad elevati livelli di rumori provenienti dai dispositivi di monitoraggio del paziente, la elevata instabilità clinica dei pazienti all’interno di questi setting, la continua tensione con cui si lavora, gli elevati carichi di lavoro, l’aumentato rapporto infermiere/paziente, la mancanza di personale infermieristico o altro personale di supporto non sanitario sufficiente per svolgere l’eccessivo carico di lavoro. In tali setting l’incidenza di ansia, depressione e disturbo post traumatico da stress (PTSD) si è rivelata essere significativamente maggiore (Moon et al., 2021). Altri fattori di rischio possono essere collegati al tema della sicurezza sul luogo di lavoro. In questo senso la pandemia, con la paura associata alla possibilità di contrarre l’infezione e di contagiare la famiglia e i figli, ha rappresentato uno specifico fattore di stress per tutti gli operatori sanitari (Gonzales-Gil et al., 2021; Leng et al., 2020; Heesakkers et al., 2021; Mekonen et al., 2021; Moon et al., 2021), generando uno stato continuo di insicurezza e di allerta che, da un punto di vista clinico, rappresentano già di per sé un grande fattore di rischio per lo sviluppo di problematiche di tipo fisico e psicologico (ansia, depressione, disturbi gastrointestinali, cefalea, disturbi del sonno, etc). Diversi studi hanno evidenziato che gli operatori sanitari con competenze non specifiche sulla gestione dei pazienti contagiati sono stati quelli maggiormente esposti a problematiche di tipo psicologico; essi manifestavano un rischio di depressione due volte superiore rispetto ai colleghi con maggiori competenze (Gonzales-Gil et al., 2021; Mekonen et
Diversi studi hanno evidenziato che gli operatori sanitari con competenze non specifiche sulla gestione dei pazienti contagiati sono stati quelli maggiormente esposti a problematiche di tipo psicologico al., 2021). All’inizio della pandemia, uno dei fattori che ha sicuramente giocato un impatto negativo sulla salute mentale degli operatori sanitari è stato il senso di insicurezza generato dalla mancanza di dispositivi di protezione individuale (DPI), le preoccupazioni per la loro qualità/appropriatezza e per l’accesso ad una quantità adeguata; allo stesso tempo, tutti i problemi legati al loro uso prolungato durante il turno di lavoro, all’impossibilità di toglierli e i disagi fisici ad esso associati (es lesioni sul volto). Questo ha sicuramente generato ansia e insicurezza (Havaei et al., 2021; Moon et al., 2021). Inoltre, lavorare con colleghi non adeguatamente formati o in possesso di competenze specifiche è stato significativamente associato a un aumento del rischio di ansia, depressione, PTSD; i livelli di stress tra gli operatori sanitari, erano 2,5 volte superiori rispetto a prima della pandemia, rimanendo elevati anche dopo la prima ondata (Heeshakkers et al., 2021). D’altro canto, gli operatori sanitari che non avevano una formazione specifica sulla gestione delle infezioni e dei pazienti contagiati manifestavano un rischio triplicato di avere disturbi mentali rispetto ai colleghi in possesso di una adeguata formazione (Mekonen et al., 2021). Un altro fattore di rischio che ha giocato un ruolo importantissimo è stata la gestione della comunicazione. I continui cambiamenti nelle politiche aziendali, l’enorme volume di informazioni e i contenuti spesso contraddittori, i continui cambiamenti nelle procedure riguardanti la gestione dell’ infezione sono stati percepiti come stressanti, aumentando negli operatori il senso di frustrazione e di impotenza per la mancanza di informazioni sicure e chiare (Crowe et al., 2021; Havaei et al., 2021).


Un altro fattore di rischio che ha giocato un ruolo importantissimo è stata la gestione della comunicazione. I continui cambiamenti nelle procedure sono stati percepiti come stressanti
Le informazioni contrastanti e la mancanza di un protocollo univoco hanno anche probabilmente aumentato le divergenze tra colleghi sulle attività clinico/assistenziali, aumentando il senso di isolamento e la mancanza di supporto tra colleghi (Gorini et al., 2020). Uno studio ha evidenziato che gli operatori sanitari che consideravano la gestione ospedaliera incompetente o che non ricevevano alcun supporto dai dirigenti ospedalieri, sperimentavano tassi di ansia più elevati (Gul et al., 2020). Se andiamo a guardare il ruolo dei fattori individuali emergono cose molto interessanti dalla letteratura scientifica. Numerosi autori hanno evidenziato una relazione tra sesso femminile, pre- senza di figli, età inferiore ai 40 anni, esperienza professionale limitata, bassi livelli di supporto sociale e una maggiore probabilità di manifestare disturbi depressivi e PTSD (Moon et al., 2021; Song et al., 2020; Xing et al., 2021). La mancanza di tempo libero e il riposo insufficiente hanno contribuito, insieme al mandato del distanziamento sociale, alla mancanza di tempo trascorso con la famiglia e gli amici e quindi all’isolamento sociale (Kirk et al., 2021). Quanto detto si lega alle considerazioni che possiamo fare sull’impatto che la pandemia ha avuto sulla interfaccia lavoro/vita privata. Il cambiamento di reparto (spesso richiesti dall’azienda per esigenze organizzative), l’interruzione delle normali abitudini familiari (le uscite con gli amici, il tempo passato con i figli, l’interruzione delle attività scolastiche, la DAD e le sue difficoltà) sono state altre fonti di stress (Mekonen et al., 2021). Per i professionisti la continua sfida tra la gestione del lavoro e quella degli impegni personali e familiari sono stati un fattore estremamente perturbante. Chi non poteva contare sull’aiuto di familiari (nonni, zii) ha vissuto un pauroso aumento delle proprie responsabilità e delle proprie preoccupazioni. A queste situazioni già di per sé pesanti, si è spesso aggiunto l’evitamento da parte dei membri della famiglia o della loro comunità a causa dello stigma e della paura di contrarre il COVID-19 (ad es. evitamento da parte di familiari, amici, vicini e condomini); la mancanza del sostegno sociale e dell’accettazione sociale da parte dei vicini e degli amici è stata fonte di ansia, con relazioni alterate o interrotte con gli amici, con i vicini di casa o con entrambi (Xing et al., 2021). Tutti i professionisti sanitari sono stati etichettati come una potenziale fonte di infezione e sono stati stigmatizzati a causa del loro lavoro, con notevoli ripercussioni sulla loro salute mentale. Tutti i ricercatori che hanno studiato tale fenomeno in tutte le sue sfaccettature hanno evidenziato associazioni significative tra diversi fattori di rischio e disturbi quali ansia, depressione e PTSD. Tuttavia, rimane ancora molto da approfondire poiché al momento conosciamo solo la punta dell’iceberg; di fatto non abbiamo una stima esatta dei professionisti che, nel corso di questi anni, hanno dovuto ricorrere ad una psicoterapia e gli effetti a lungo termine sono ancora largamente sottostimati.
Tutti i professionisti sanitari sono stati etichettati come una potenziale fonte di infezione e sono stati stigmatizzati a causa del loro lavoro, con notevoli ripercussioni sulla loro salute mentale.
