TrentinoMese ottobre 2012

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di Fiorenzo Degasperi

scempi ed esempi la stazione di Levico Terme: un biglietto da visita sgualcito e buttato via

I

l biglietto da visita preannuncia, idealmente o concretamente, ciò che seguirà. Solitamente una persona. È elaborato, disegnato, ricamato, affinché catturi l’attenzione. Per lo più il biglietto è sopra le righe rispetto alla realtà: simboli e segni grafici ipotizzano qualità che magari non ci sono. Il biglietto da visita è sempre lo stesso, in ogni occasione, per via del suo valore comunicativo. Il termine è stato traslato ad altri esempi similari. Si dice, ad esempio, che l’entrata in un paese o città rappresenta sempre e comunque un “biglietto da visita” per chi proviene da fuori, ospite, turista, viandante. A differenza dell’elemento cartaceo, il biglietto da visita ambientale è il termometro dei cambiamenti dei flussi umani. Prendiamo ad esempio la stazione termale di Levico ai primi del Novecento. I turisti, prevalentemente, arrivavano con il treno piuttosto che utilizzando il servizio postale della Via Imperiale e quindi il biglietto da visita era la stazione ferroviaria. Il treno, tra fischi e sbuffate di fumo nero, apriva le sue cento porte e i premurosi ferrovieri accorrevano con delle piccole pedane lignee per far scendere le signore affinché non dovessero fare movimenti inconsueti e scomposti vista l’altezza tra l’ultimo scalino e la massicciata sassosa. La stazione di Levico Terme, come quella di Roncegno Bagni-Marter e di Borgo Valsugana – e come tante altre della linea ferroviaria della Valsugana in territorio asburgico e di quella della Pusteria, – aveva delle caratteristiche stilistiche consolidate. Rigorosamente in pietra e legno, le stazioni e i chioschi adiacenti offrivano suadenti linee floreali, una sorta di liberty composto, essenziale, dolce, accattivante. Elementi in ferro battuto svolgenti la funzione di supporto delle pensiline sfoggiavano forme spiraloidi che lo sguardo si compiaceva a seguire, nella consapevolezza che quel tocco di “in più”, di barocca memoria, era il sintomo di una società che trovava nei grandi saloni dei paesi-Kurort, in cui riecheggiavano le danze sulle note dei valzer, la propria identità multinazionale e poliglotta. Ebbene oggi la stazione di Levico Terme, come tutte le

altre, è diventata prevalentemente il luogo di passaggio di quelle classi sociali che non si possono permettere l’automobile o, se ce l’hanno, visti i tempi e il costo della benzina, preferiscono lasciarla a casa. Studenti, extracomunitari, anziani, sono i nuovi habitué delle stazioni e frequentatori dei treni e hanno sostituito l’aristocrazia e la classe media di un tempo. Gente, questa d’oggi, che è costretta a viaggiare con i mezzi pubblici, che non spende perché non può e quindi da non curare e rispettare più di tanto (treni in ritardo, stipati all’inverosimile, toilettes inesistenti, ecc.). Il biglietto da visita di Levico si è spostato da diversi anni dalla stazione ai neri serpenti asfaltati: sono sorte rotatorie fiorite, fontane zampillanti, ecc., il tutto curato, coccolato. E chi arriva oggi in treno si vede di fronte sì una stazione rinnovata e automatizzata – spaesante e senz’anima, – ma circondata dall’abbandono. Così lo splendido chiosco liberty, un tempo sosta obbligata per rinfrescarsi con una buona bibita o la rinomata acqua minerale nata nelle viscere del monte Panarotta (acqua forte, acqua debole, acqua Cappuccio), è completamente abbandonato, terra di nessuno, pietosamente in via di disfacimento. Un biglietto da visita dell’incuria e della scarsa memoria storica dei responsabili. Lo stesso piazzale limitrofo è ricco di una flora selvaggia che si sta riappropriando di ciò che gli spetta di diritto. Mi sono fermato per una ventina di minuti a guardare quello che era un bar-ristorante ligneo che un tempo sprizzava vita: dalle sue assi e dalle sue decorazioni floreali, oggi, fuoriescono le note di un valzer triste invece di quelle di un can can scatenato, e inutilmente cerchiamo di immaginare scene romantiche di donne con le gonne lunghe accompagnate da cavalieri che credevano ancora che il mondo si potesse costruire con l’estetica, con il bello, il piacevole, il disincanto. Questa scena è un biglietto da visita sgualcito, bagnato e gettato in un angolo. Ma questo luogo non se lo merita, ha, nonostante tutto, un’anima e una dignità che gli amministratori dovrebbero rispettare e valorizzare. 11

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