The ArtShip

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occorre immaginare un nuovo pensiero di uso sociale dell’arte? Un pensiero che sarebbe compatibile con delle iniziative locali di solidarietà nuove, di luoghi virtuali di creazione collettiva in cui rinnovare un’intelligenza e una sensibilità “di rete”, distintive dell’urbanità contemporanea. Non sembra delinearsi ancora nessun vero modello, ma si capisce che gli schemi delle opposizioni classiche hanno fatto il loro tempo. Oggi non possiamo più porre arte e industrializzazione del simbolico, arte e comunicazione, solo nei termini dell’arte critica, o della critica delle industrie culturali ereditata dal modello della scuola di Francoforte. Anche perché esiste una capacità propria dell’industria che non può più essere ignorata e le arti contemporanee diventano, in un certo senso, anche delle arti industriali. Alle domande appena evocata se ne potrebbe allora aggiungere una terza, un po’ più suggestiva. Ovvero se l’arte, in queste città globalizzate, non possa aiutarci a vivere insieme. In che senso? Quello proposto nel XV secolo da Nicola Cusano, secondo il quale “guardare un’immagine è sempre sentire appoggiarsi sulle proprie spalle tutti quanti, nel nostro spirito, la stanno vedendo con noi”. O nel senso in cui Proust, nella Prigioniera, parla della “composizione intima di quei mondi che chiamiamo gli individui, e che, senza l’arte, non conosceremmo mai”. Deleuze dice che egli fa dell’arte un segno essenziale del nostro tempo, senza cui noi non potremo vivere. L’opera d’arte diventa così una necessità contro l’imperativo globalizzato della cultura e della comunicazione. Certo, l’opera d’arte non comunica niente e non ha niente da comunicare (e in questo paradossalmente somiglia alla comunicazione!). Una “comunicazione senza comunicazione” che è diventata una figura imposta del pensiero contemporaneo. Ma bisogna fare attenzione al rischio di una doxa dell’incomunicabile, che sarebbe come la reificazione di una modernità che comunque non finisce di reinventarsi, di liberarsi dei suoi canoni. In questo senso la modernità nelle arti cessa di essere un riferimento eterno. La comunicazione, nel bene e nel male, è anche l’“orizzonte d’attesa” dell’arte. Sarebbe vano credere che l’arte se ne possa astrarre. Per cui l’arte critica o, piuttosto, la critica nell’arte, nel senso etimoloCarstenholler, TestSite,Tate Modern, 1998

gico di “mettere in crisi”, separare, spostare i piani e approfondire le differenze, è tutt’altro che scomparsa. E in questo terreno misto si collocano delle opere interessanti. Opere che sembrano ignorare l’idea di un determinismo assoluto delle direttive del mercato. Che rifiutano l’ipotesi di una strumentalizzazione dell’arte per la sua prossimità alla moda, alla pubblicità, all’industria culturale, ma che a volte sanno addirittura conviverci. E rifiutano pure la malinconia delle avanguardie e della modernità. Jacques Rancièr afferma che non esiste arte “integrata” o arte “resistente” definibile da criteri precisi, stabiliti una volta per tutte. Esistono dei momenti in cui delle forme di oggetti, delle forme di azioni, ripopolano dei mondi differenti, dissensuali, enigmatici. C’è un gioco di scarti, un’“inadeguatezza funzionale” tra l’opera e il suo pubblico. C’è un enigma costitutivo, dato dalla resistenza che l’opera impone a un’interpretazione troppo trasparente delle sue intenzioni. Ed è qui che risiedono le possibilità di un’apertura infinita dei suoi effetti nel campo sociale e storico e della sua appropriazione, inventiva e fiduciosa, da parte del pubblico. Di un nuovo pubblico, inteso come una coalescenza di “io e noi”, che finisce per imporre le sue necessità a questo difficile “vivere insieme separatamente” diventato il destino comune della città globale. Contro l’evocato doppio determinismo in cui si è tentati di racchiudere l’arte dei nostri tempi, diverse opere testimoniano un profondo stravolgimento delle relazioni tra arte, città e pubblico. Attraverso una modernità rivisitata dalle arti della strada, città asservite a “opere aumentate”, un’arte dei media geolocalizzata, una riapertura del dibattito sulle relazioni dell’artista nel contesto di un’industrializzazione dell’arte contemporanea, o attraverso le forme della fiction cinematografica. Nel riformulare la questione dell’arte e l’estetica della città, tutto ciò apre lo spazio a quella libertà di cui le opere d’arte consistono, destinate più a permetterci di leggere dentro di noi, di capire noi stessi e gli altri, che a essere lette, capite, partecipate, “interattivizzate”.

Christo-and Jeanne-Claude, The Pont Neuf Wrapped Paris, 1975-85

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