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Keep Waiting © Copyright 2014 Tessa M. Salice Illustrazione e progetto grafico a cura di Tessa M. Salice
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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi, nomi, luoghi ed eventi citati sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice o, se reali, hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è assolutamente casuale.
Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito.. perché la lettura è un’immortalità all’indietro. (U. Eco)
24/07/1935, Prologo
«Non dovrai amarla né toccarla. Non potrà più essere tua.» Il ragazzo si portò una mano sul cuore e disegnò una croce. Poi abbassò lo sguardo, puntandolo sulle scarpe del suo interlocutore, riconoscendo la verità nelle sue parole. «Lo so.» «Se necessario dovrai dimenticarti di lei.» «È impossibile.» «Potrebbe diventare necessario.» Il ragazzo digrignò i denti. «Non ci riuscirò.» «Vuoi salvarla?» gli occhi verdi dell'uomo luccicavano. Il ragazzo annuì. «Allora fa’ come ti dico.» Gli appoggiò una mano sulla spalla e applicò una leggera pressione. «So cosa si prova, ci sono passato prima di te. Un giorno forse potrai tornare a vivere.»
Nina: Inizio
Il giorno in cui scoprii di poter viaggiare nel tempo giunse inopinatamente, sconvolgendo la mia esistenza. Qualche settimana prima l’eventualità che potesse accadere qualcosa di simile mi avrebbe sorpreso, in positivo. Quel sabato, invece, quello in cui la mia vita cambiò, mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Tutto era cominciato il giovedì precedente. Alle sette e quarantacinque mi trovavo a Molino Dorino, schiacciata in un vagone della metropolitana al fianco di un uomo che puzzava di sudore e una donna che batteva ritmicamente il piede contro la mia caviglia. E la musica che ascoltava non doveva essere classica. Scesi alla mia fermata, incamminandomi velocemente verso le scale mobili. La folla era così pressante che avrei potuto sollevare le gambe e lasciarmi trascinare. Un giorno dovrò provarci, pensai. Chissà come mai le idee migliori mi venivano quando riposavo poco. Passai la tessera sul tornello e sospirai. Piazza Duomo quella mattina era più affollata del solito. I piccioni erano riuniti in gang di dieci o venti, pronti a sferrare il loro attacco mortale di escrementi e piume. Lì, immobili sulla statua equestre di Vittorio Emanuele II, attendevano i primi turisti nella speranza che facessero delle foto con loro. Imboccai via Orefici per raggiungere il luogo dell'incontro. All’esterno di Arnold's coffee, una ragazza dalla carnagione chiara e lunghi capelli biondi batteva l'indice contro le cosce a ritmo di musica. Amelia Dono. Eravamo molto diverse e tra le due non avrei saputo dire chi fosse la più strana.
Alle superiori, Amy era arrivata in classe sventolando un diario mezzo consunto, che doveva appartenere a sua nonna, e mi aveva costretto a dormire da lei molte notti nel tentativo di decifrarlo. Purtroppo, ammesso che il diario fosse di sua nonna –era ancora un argomento tabù–, era così rovinato e le scritte così sbavate che ci eravamo dovute arrendere. Amelia era la classica ragazza sicura di sé, che sapeva quel che voleva. Non a caso era sempre lei a trascinarmi da qualche parte la sera e a organizzare i miei compleanni. Non che non ne fossi capace, sia chiaro, ma odiavo dover festeggiare qualcosa che mi avvicinava di anno in anno alla morte. Amy si tolse gli auricolari e mi lanciò un'occhiataccia. «Cosa nel periodo: domani alle otto e mezzo, ti prego sii puntuale, non ti era chiaro?» «Avanti Amelia, ho tardato solo di cinque minuti.» E per giunta il locale era ancora vuoto. Arnold era una tipica caffetteria americana, uno dei locali che qualsiasi studente, universitario e non, almeno una volta nella vita aveva provato. Non ero un’amante del caffè, avevo una strana relazione con l’espresso, ma adoravo gli intrugli. Seguii Amy all’interno, gettando lo sguardo sul menù alla mia sinistra. Avrei comprato qualcosa di ghiacciato al caramello. Adoravo i dolci, invece. Amelia mi aveva soprannominato "castorino" perché quando fiutavo zucchero, la mia faccia si gonfiava e il labbro superiore sporgeva, come per un bacio. Cariche di cibo ci accomodammo su un tavolo all'ultimo piano. Amy addentò un muffin alla vaniglia e io la osservai invidiosa di quell'appetito. La sera prima avevo costretto Dante a mangiare thailandese e il mio stomaco non doveva averlo gradito molto, se ancora rifiutava di digerire il cibo che io amorevolmente avevo comprato per lui. Sospirai, spostando lo sguardo sulla mia amica che ora mi fissava intensamente. «Come stai?»
Un paio di giorni prima mio nonno si era sentito male. Amy aveva passato quasi tutta la notte con me al pronto soccorso, mi aveva preso della cioccolata calda alla macchinetta e mi aveva costretto a berla, contro la mia volontà. Alla fine, mentre io piangevo e lamentavo la sicura dipartita di Dante, un medico si era avvicinato e mi aveva sorriso. Poi con una espressione mista, tra il divertito e il dispiaciuto, mi aveva detto: «È solo una congestione, stia tranquilla.» Persino una perfetta sconosciuta mi aveva con delicatezza accarezzato i capelli. Scrollai le spalle. «Tiro avanti.» Amy prese una mia mano tra le sue. «Sai che per qualsiasi cosa io ci sono.» Sorrisi e ricambiai la stretta. Lo sapevo, come capivo anche che il nonno non sarebbe rimasto per sempre al mio fianco. Come l’avevano capito anche tutti quelli sul mio stesso piano in ospedale, pensai. «Amelia, Nina!» Una ragazza dai capelli castani corti e le ciocche rosa aveva occupato un posto al nostro tavolo, di fronte a me. Una nostra vecchia compagna di liceo con cui talvolta ci capitava di uscire insieme. Non era mai stata una compagnia piacevole, ma a modo suo sapeva farmi divertire. Come quella volta in cui stavamo dormendo a casa di Amy e a Nice era venuta la pessima idea di improvvisare una seduta spiritica. Avevamo preparato tutto con cura: le candele, la tavola, gli incensi, ma c'eravamo dimenticate di spegnere i nostri cellulari. Fu così che nel momento in cui avevamo cominciato a sussurrare la nostra litania, il mio telefonino aveva squillato inondando la stanza con la musica di Profondo Rosso. Quando lo misi in silenzioso e guardai le mie amiche, Berenice era svenuta. «Ehi Nice» la salutai ricambiando i baci di saluto. «Non ti aspettavamo.» «Ieri, al telefono, Amy ha detto che avreste fatto colazione qui e ho pensato di raggiungervi.» Si appoggiò una mano sul cuore e sospirò rumorosamente. «Nina tesoro, ho sentito cos'è successo a Dante, sono super super super dispiaciuta. Non disperarti, ha vissuto una lunga vita.» «Berenice!» la redarguì Amy. «Perché qualche volta non colleghi la bocca al cervello?»
La ragazza si portò una mano sulle labbra e assunse un'espressione affranta. «Ho avuto poco tatto, vero?» «Tu che dici?» Decisi che non avrebbero dovuto litigare, così feci loro da paciere. «Va tutto bene Amy, non preoccuparti.» Dimentica in fretta dell’accaduto, Nice trascorse il quarto d'ora seguente a ricordarci che sabato sera aveva organizzato una festa e non potevamo in nessun modo mancare, neanche se ci scappava il morto. Sapevo che non parlava con cattiveria, eppure a volte la sua superficialità rasentava la deficienza. Ignorandola, presi il cellulare e controllai le mail, lasciando ad Amy l'arduo compito di parlarle. Un messaggio di Dante mi chiedeva di raggiungerlo prima delle dieci. Colsi l'occasione al volo. «Io devo andare, il nonno mi cerca.» Amy prese la borsa e sorrise, grata di aver ricevuto una via di fuga. Nice, invece, non si demoralizzò. «Tesoro io vengo con te, mia madre voleva un bel quadro da appendere in salotto, qualcosa di verde a puntini colorati.» «Un campo di fiori magari?» la canzonò Amy, rispondendo al mio sguardo con un'alzata di spalle che voleva dire: "È insopportabile, dai". «Esatto.» Nice afferrò il cellulare e mi sorrise. «Andiamo?» A malincuore salutai la mia migliore amica e seguii Berenice. I pedoni più tranquilli passeggiavano lungo il marciapiede; quelli di fretta cercavano di attraversare la strada prima che il semaforo scattasse e diventasse verde. I più temerari, infine, attraversavano con il rosso ancora sgargiante e minaccioso, correndo verso la salvezza per non essere investiti dai tram. Amavo quella città, ma c'erano delle volte in cui mi sentivo soffocare. Come in quel momento. Maggio era arrivato da poco, la primavera cominciava a rallegrare il grigiore della città e le temperature si erano finalmente alzate. Tutto questo aveva comportato l'arrivo spropositato di una massa di turisti da ogni parte del mondo, per lo più giapponesi.
Ero certa che scattassero tutte quelle foto per ritrovarsi un giorno, da anziani, e giocare al “celo celo manca”. Finalmente uscite da via Orefici, potevo vedere la maestosità del Duomo in tutto il suo splendore. La magnifica costruzione che sorge sulla vecchia Basilica Vetus e che ha una storia curiosa alle spalle. Racconta la leggenda che, una notte, il Diavolo apparve in sogno a Gian Galeazzo Visconti e minacciò di dannarlo. “Voglio la tua anima a meno che non tu costruisca una chiesa con la mia effige”. E così fu, poiché Gian Galeazzo si accordò in fretta per la costruzione di questo edificio sacro, di cui non ha mai visto –per ovvie ragioni secolari– la fine. Tuttavia, delle oltre tremila statue presenti, ben novantasei doccioni raffigurano esseri demoniaci. No, non vi è nulla di satanico. Ovviamente bisogna contestualizzare: la Lombardia ha subito il fascino del gotico internazionale. Il folclore, il mito e la leggenda avevano fatto il resto. Questo era ciò che avevo creduto e saputo fino a quella mattina, perché nel momento in cui alzai lo sguardo sull’imponente chiesa… li vidi. Lì, al centro della piazza, due tizi mascherati camminavano venendosi incontro. Uno aveva un paio di ali bianche, l'altro nere. Del secondo la circostanza più bislacca non erano però le sue estremità scure, ma due piccole corna porporine dalla forma caprina. Demoniaca. Mi chiesi se poteva trattarsi di un cosplay. Io e Nice ci eravamo avvicinate abbastanza da vedere gli sguardi di fuoco che si lanciavano. Guardai la mia amica con la coda dell'occhio sorpresa che non li avesse ancora presi in giro. Era così distratta che stava per urtarli. Le afferrai il braccio e la bloccai, indicando i due uomini. Lei alzò un sopracciglio. «Sì Nina, il Duomo è cinque secoli che sta lì fermo. Non si è mai mosso.» Aprii la bocca per rispondere, ma la voce si bloccò.
I due si erano lanciati l'uno contro l'altro. Quello con le ali bianche aveva afferrato un oggetto appuntito e lo aveva conficcato nel braccio dell'altro. Portai le mani alla bocca. Perché nessuno interveniva? Mi girai per chiamare dei poliziotti in divisa che avevo visto arrivare con la coda dell’occhio, ma la mia attenzione fu catturata da altro. Nice aveva ricominciato a camminare, trovandosi esattamente al centro dei due travestiti. Vidi l'uomo con le corna estrarre l'arma dal braccio e ringhiare. Un attimo dopo si mosse in direzione del suo nemico e della mia amica. «No!» esclamai, lanciandomi verso di lei e tentando, invano, di farle scudo con il mio corpo. Invano non perché fossi arrivata troppo tardi e lei giaceva morta in una pozza di sangue corposo e scarlatto, ma perché i due uomini si erano congelati nell'istante in cui mi ero fiondata verso di loro. Entrambi mi guardavano come se la pazza fossi io. Loro e la metà dei turisti in piazza Duomo. Deglutii, sentendo le guance riscaldarsi per l'imbarazzo. «Ehi, Nina, che ti prende?» Nice non li vedeva, così come il resto delle persone che la circondavano. Questa consapevolezza mi preoccupò: stavo impazzendo? Avevo letto da qualche parte che il disturbo schizofrenico era spesso associato ad allucinazioni. L'uomo con le corna scoprì un sorriso di denti appuntiti che mi diede i brividi. Mi fece cenno di avvicinarmi e io, in risposta, afferrai la mia amica per mano e indietreggiai. Il cosplayer con le ali color neve si piazzò davanti a noi. Nice mi lasciò la mano. «Nina Evans, ti sei ammattita?» «Non li vedi?» dissi tra i denti, senza distogliere lo sguardo dalle piume bianche che mi solleticavano il naso e mi accarezzavano la bocca. «Quello che io e la gente qui intorno stiamo vedendo, è una pazza che scappa dal nulla.» I due uomini tornarono ad affrontarsi.
Quello buono –o che a una prima occhiata mi era sembrato tale– aveva conficcato un coltello nelle ali dell’altro. Dalle labbra di quest’ultimo si levò l’urlo più doloroso che avessi sentito in vita mia. Come se gli stessero strappando l’anima. Chiusi gli occhi. Non posso farcela, non posso… Strinsi più forte che potevo la borsa e corsi lontano, seguita da Nice che non aveva apprezzato né lo spettacolo, né la fatica di dovermi inseguire. Soltanto quando raggiunsi piazza Fontana mi fermai a prendere fiato. Dei due esseri non vi era traccia. «Ti senti bene?» Nice mi stringeva con forza le spalle. No, mi sentivo un'idiota. «Benissimo, ho solo avuto un attacco di panico.» La mia amica sembrò accontentarsi della spiegazione e passò oltre. «Andiamo?» Raggiungemmo la bottega del nonno in completo silenzio. Lei era troppo impegnata con il cellulare per accorgersi della mia bugia, mentre io ero tanto demoralizzata e confusa da non riuscire a proferire parola. Cosa diamine era successo? Dovevo assolutamente raccontarlo ad Amy, sarebbe stata l'unica a non darmi della visionaria. Be’, almeno non subito e non come avrebbe fatto Emanuele. Salutai il nonno con un cenno del capo e mi recai nel ripostiglio per abbandonare la borsa e il maglione. Quando tornai nel salone, Nice stava descrivendo il tipo di dipinto che sua madre le aveva richiesto. Dall'espressione di Dante capivo che non vedeva l'ora che se ne andasse, anche senza acquisti. Sorrisi e mi accomodai dietro il bancone, dove c'era il computer. Avrei letto qualche e-mail, impilato le fatture del nonno e disposto i cartellini dei nuovi prezzi. Nonostante la buona volontà, però, non riuscivo a concentrarmi. Una mezzoretta dopo stavo promettendo a Nice che sarei andata alla sua festa. Il nonno aveva alzato gli occhi al cielo e aveva mimato un “assecondala o mi uccido”.
Così, con un sorriso tirato sulle labbra e gli occhi che ammonivano il nonno, salutai la mia amica. Dante finse di asciugarsi il sudore dalla fronte. «Pensavo volesse fermarsi di più…» «Nonno…» cominciai, ma lui alzò una mano per zittirmi. «Lo so, lo so. “È una mia amica non puoi comportarti in questo modo”, ma è insopportabile.» Scosse la testa. «Non è colpa mia se Amelia ha ragione.» «Veramente…» «Quella ragazza farebbe perdere la pazienza a un santo, ecco quello che volevi dire.» Alzai un sopracciglio. «In realtà volevo dirti che ha chiamato il signor Lombardi, devi andare a ritirare l’altro carico in magazzino ma…» «No, ora mi verrai a dire che ti do per scontata e sono sempre il solito.» Mi afferrò le guance e cominciò a tirarle. «Quando avevi tre mesi questo ti calmava.» Ne dubitavo. Mi allontanai, assumendo lo sguardo più tagliente del mio repertorio. «…Ma gli ho detto che saresti passato più tardi» terminai. «Oh.» Si grattò il naso. «Ti dispiace occuparti del negozio fino a pranzo?» Scossi la testa. Mio nonno aveva sessant’anni e li portava benissimo. Doveva essere stato da poco maggiorenne quando era diventato padre. Non lo sapevo con certezza perché il passato nella mia famiglia era un argomento difficile. In casa avevamo solo fotografie di quando io ero piccola. Io al parco giochi, il nonno e la nonna al matrimonio di una lontana parente… ma mancava mia madre. Vidi la camicia a quadri del nonno sparire oltre la mia visuale e mi fiondai a prendere il tablet nello zaino. Dovevo sapere se qualcuno aveva visto qualcosa. Aprii Google e indicizzai la ricerca sulla cronaca locale, senza ottenere risultati. Un rumore, come un colpo di tosse, mi riportò alla realtà. Mi stampai un sorriso gioviale sul volto e alzai la testa, pronta ad accogliere il cliente con la massima cordialità.
Ma la stanza era vuota. Lasciai il tablet sul bancone e senza esitazione mi diressi verso il locale adibito a galleria, in cui il nonno esponeva i suoi quadri. Ero sicura che il rumore provenisse da quella parte. Fermai lo sguardo sull'ultimo dipinto del nonno, un cavaliere robusto che cavalcava un cavallo dall'aria regale intento ad abbeverarsi. «Fa caldo, non potete accendere il condizionatore?» Mi voltai per vedere chi avesse parlato, ma dietro di me c'erano soltanto la parete e qualche dipinto estivo. Uno gnomo da giardino. Si trova nel settore sbagliato, pensai. Mi chinai per prenderlo e trasportarlo verso i suppellettili, quando quest'ultimo sventolò una mano e mi lanciò un'occhiataccia. Le mie mani rimasero come congelate a pochi centimetri dal suo viso. «Perché mi fissi così? Mai visto nessuno lavorare duramente? Ah, voi giovani moderni.» Sgranai gli occhi e caddi all’indietro, continuando a deglutire il nulla. Quella statuetta si era mossa, mi aveva parlato. Tentai di mettere quanta più distanza possibile tra me e quella cosa. Ora avevo la prova tanto cercata di essere matta. «Madamigella, tutto bene?» Una copia della Gioconda alla mia destra si era sporta in avanti e aveva appoggiato la mano sulla parete invisibile della tela. Il suo sguardo sembrava preoccupato. «Cielo, che brutta faccia avete. Sembrate stravolta!» Mi schiarii la gola. «Sto impazzendo.» «Gioconda, non importunarla, non vedi che è agitata?» disse lo gnomo appoggiandosi con il gomito alla sua zappa. «Voi parlate!» esclamai. «Com'è possibile?» Lo gnomo si sistemò il cappello a punta. «Non essere stupida. Dimmi: perché finora non ci ascoltavi? Era una prova? L'abbiamo superata?» «Non capisco...» mormorai. Avevo affrontato lo shock iniziale egregiamente.
Prima di tutto le gambe mi reggevano e non minacciavano di trasformarsi in gelatina, e secondo avevo sperimentato la gioia di parlare con dei colori a olio e del gesso. Il sogno di ogni ragazza, dopo quello di trovare il principe azzurro e un modo veloce per laurearsi. «Ok, ho capito, non ne hai ucciso nessuno, hai catturato il tuo primo esemplare e ci stai chiedendo consiglio. Gioconda non è mai d'accordo con me, ma su questo, come puoi immaginare, è particolarmente ragionevole: sei stata brava a dargli fiducia, speriamo solo se ne dimostri valido. Come noi.» Stavo perdendo la pazienza. Che cosa andava blaterando quel, letteralmente, “nano da giardino”? Accarezzai con lo sguardo un altro dipinto, aspettandomi che da un momento all'altro qualcosa si muovesse. Lo gnomo schioccò la lingua e incrociò le gambe. «Non pensare di metterlo là dentro, Bernie sa essere davvero antipatico.» «Bernie?» «La casa, ragazza.» Fissai il quadro che indicava con tanta energia. Una semplice fattoria in un bosco. «Hai presente la celebre saga di Sam Raimi? Ecco, Bernie è rimasto così scosso quando Dante glielo ha raccontato che si comporta in quel modo con chiunque. Sta chiuso in quel rudere tutto il tempo, sperando di poter spaventare qualcuno.» «È inquietante» aggiunse la Gioconda, sorridendomi. «Dio, fammi rinsavire e non leggerò mai più un libro fantasy» esclamai. Lo gnomo scambiò un'occhiata con il quadro, poi spostò lo sguardo su di me. «Che vai cianciando? Rinsavire? Cielo, tu non sai nulla?» Scossi la testa e mi accucciai contro il muro, raccogliendo le ginocchia tra le braccia. Dalla faccia dei due ero sicura mi avrebbero ben presto spiegato tutto. Lo gnomo, che avevo scoperto chiamarsi Andy, mi raccontò dell'esistenza di una razza chiamata "Unseelie", esseri malvagi e demoniaci che spesso istigavano suicidi o omicidi. I “Veglianti Senza Tempo di Hel” avevano il compito di ucciderli o redimerli.
Se gli Unseelie si pentivano del male che avevano compiuto, potevano essere imprigionati per lunghi periodi e alla fine, se superavano la prova, potevano diventare Seelie, fedeli alleati dei Veglianti. Andy e Gioconda si trovavano in quei quadri da più di trecento anni. «Ma il nonno vi ha dipinto…» «Tuo nonno è un Vegliante, come tale può vivere molto più a lungo di un comune essere umano. Quando ci imprigionò, aveva già i suoi trecento anni di attività. Di fatto noi siamo senza cartellino, non possiamo essere venduti.» Dante era un highlander. Ma se era una specie d'immortale, allora dovevo esserlo anch'io? Lo chiesi ad Andy ma lui si limitò a scuotere le spalle. «Un anno per gli esseri umani corrisponde a dieci anni dei Veglianti. A quest'ora, se tu avessi sangue Vegliante nelle vene, avresti alle spalle più di duecento anni di vita.» E io ero sicurissima di non essere nata nel 1813 e di avere solo vent’anni. Andy mi raccontò con orgoglio che lui aveva compiuto oltre venti omicidi, e, nonostante la gravità della rivelazione, io non riuscii a trattenere una risata isterica. Guardai la giovane donna che sorrideva con ambiguità dalla sua tela. Lei era stata più tranquilla del suo compagno, si era limitata a uccidere solo chi lo meritava davvero, come ladri e assassini, raggiungendo la modica cifra di sette vittime. I ragazzi alati in piazza Duomo. Andy aveva detto che nel momento in cui scelgono una persona, gli Unseelie non si arrendono finché essa non muore. Deglutii. Sentivo di essermi cacciata in un bel casino. Mi diressi verso il bancone e afferrai il tablet. Google stava diventando la mia enciclopedia vivente. Cercai le parole "Seelie" e "Unseelie" ma l'unica informazione che ottenni era sulle categorie del Piccolo Popolo. Il mio cuore ebbe un tuffo.
Stava succedendo davvero qualcosa o ero io a immaginare quello che in realtà non esisteva? La spiegazione più semplice è quella giusta, dice il rasoio di Occam, perciò potevo benissimo essere impazzita per la mancanza di sonno e lo stress. Trrrr. Il suono del cellulare mi riscosse. Amy mi aveva mandato cinque sms e non le avevo ancora risposto. Quella mattina ero una semplice ragazza al bar con le amiche e ora, ammesso fosse vero, ero la nipote di un Vegliante. Non era una situazione facile da accettare. Verso le tre del pomeriggio il nonno tornò e io ne approfittai per fuggire. Lo salutai frettolosamente, senza degnare di uno sguardo i quadri e le statuette della galleria. Era meglio credere di aver sognato. La migliore medicina era fingere che la pazzia non esistesse. Volevo tornare a casa, abbracciare Leo e dedicarmi all’esame di storia greca che dovevo preparare. Erano questi i pensieri che mi accompagnarono nei venti minuti di metropolitana che mi separavano dalla mia dimora. Alzai al massimo il volume della musica e lasciai che le note dei Led Zeppelin mi avvolgessero. Il tragitto di per sé non era lungo, ma ero capitata in orario di punta e questo significava due cose: mia prossima claustrofobia con rischio di svenimento e gomiti appuntiti che mi spintonavano. In realtà, l’unico spiacevole inconveniente fu un graffio sulla carrozzeria della macchina. Una bellissima, piena, lineare, perfetta smagliatura bianca. Fantastico, il nonno non crederà mai alla mia innocenza. Non glielo avrei detto, non questa volta. Arrivai a casa, pranzai velocemente e mi fiondai sui libri. Due ore dopo ero ancora ferma sulla stessa pagina, lo sguardo rivolto al soffitto e l'evidenziatore che mi aveva sporcato di giallo le guance. Leo scalpitava per uscire da un paio di minuti, così mi alzai e gli aprii la porta. Lo guardai dalla finestra segnare il territorio di ogni angolo del giardino che già gli apparteneva, mentre la mia mente tornava a perdersi tra pensieri e paure. Si vedeva
benissimo che il nonno era anziano e non aveva nulla di magico, fatta eccezione per il suo metabolismo. Quando Dante rientrò in casa quella sera, si comportò come al solito: accese la tv sui notiziari sportivi, si lavò e dopo avermi proposto una serie di piatti surgelati, decise che avremmo ordinato una pizza. Apparecchiai la tavola ricordando di disporre una bottiglia di birra per lui e una lattina di coca per me. Tutte queste piccole gentilezze erano una scusa per creare una buona predisposizione alla conversazione, giacché non era un uomo particolarmente loquace. Quando andai in soggiorno per parlargli, Dante stava aggiustando un tavolino che aveva avuto la malaugurata sfortuna di capitarmi davanti in un momento di fretta. I fatti erano andati più o meno così: io stavo accumulando minuti di ritardo a un appuntamento con Amelia. Mentre scendevo i gradini saltellando su un piede solo, cercando di infilare l’altro in una scarpa dispettosa, non mi ero accorta che il nonno aveva spostato il tavolino sopracitato, mettendolo in prossimità della scala. Purtroppo, il caso volle che avessi in bocca la fine della mia cena, un non proprio piccolo toast, così non avevo potuto urlare al nonno di fare attenzione e lui non aveva avuto tempo di fermare la mia caduta. Sistemai i capelli lunghi e ondulati di lato e intrecciai le mani dietro la schiena, inclinandomi in avanti. «Ti vedo particolarmente in forma.» Dante sorrise. «Come se avessi seicento anni.» Seicento? È il suo modo di dire preferito, riflettei. «Tutto bene oggi?» Il nonno aggrottò la fronte. «Nessuna muffa tossica in negozio, nessun giro di acidi, droghe, spaccio di cibo avariato, fughe di gas… no?» Mi feci più vicina. «Tutto regolare?» «Ti sei ammattita?» Il campanello m'impedì di rispondere.
Cinque minuti dopo ero troppo affamata per ricordarmi che dovevo fare conversazione e il nonno, che aveva mangiato la sua pizza a una velocità sorprendente, era già sparito nel suo studio. Sbuffai, appoggiando la guancia sul palmo della mano destra e lanciando un'occhiata a Leo che ancora scodinzolava, speranzoso di ricevere altre croste. Gli sorrisi e indicai il suo guinzaglio. Leo parve capire, perché cominciò a girare su se stesso. Era l’ora della passeggiata. Le giornate si allungavano, perciò avevo deciso di abituarlo a uscire sul tardi. Afferrai il guinzaglio, o forse sarebbe più corretto dire che fu Leo a tirare me, e uscii nella tiepida sera primaverile. La luna era coperta da una spessa coltre di nuvole che non promettevano nulla di buono. Mentre toglievo il collare a Leo per concedergli un momento di assoluta libertà, laddove non c’era nessun’altra anima viva oltre a noi, tornai con la mente a quella mattina in piazza Duomo. Persa nei miei pensieri, non mi ero accorta che aveva cominciato a fare buio. Guardai l’ora sul cellulare e constatai che erano passati solo cinque minuti. Rabbrividii. C’era un’aria fin troppo frizzante per essere maggio. Sentii Leo abbaiare e mi voltai nella sua direzione: non lo faceva quasi mai. Mi avvicinai per calmarlo e lui si divincolò, cominciando a ringhiare. Sentii qualcosa sfiorarmi la spalla. Mi voltai per vedere chi o cosa fosse, ma ancora una volta fu il vuoto ad accogliermi. Con la coda dell'occhio, però, scorsi un movimento. Sistemai il guinzaglio al collo del mio cane con mani tremanti, anche se lui non ne sembrava particolarmente felice, ancora intento ad abbaiare e a minacciare quella presenza estranea. Rientrammo velocemente, io con il cuore in gola e Leo che uggiolava ai miei piedi. Chiusi a chiave e mi accucciai a terra con la schiena contro la porta e il mio Labrador che mi leccava le caviglie. Gli accarezzai distrattamente le orecchie. Era arrivato il momento di capirci qualcosa di più.
Nina: Omicidio
«Tua madre mi intimorisce» borbottai, mentre con la punta del piede mi davo la spinta e cominciavo a dondolare sull’altalena. Gli occhiali mi scivolarono sulla punta del naso. Un ragazzo dagli spettinati capelli castani e una leggera barbetta sul mento, segno che nei giorni precedenti al nostro incontro non doveva aver avuto molta vita sociale, si appoggiò contro il tronco dell’albero che avevo di fronte. «È convinta che presto capitoleremo» disse Ema, «non concepisce la nostra amicizia.» Sbuffai, sistemandomi la montatura con l’indice. Se solo avessi messo le lenti a contatto… «Eppure sono quasi dieci anni che mi conosce, dovrebbe smetterla di parlare del mio corredo. Non mi piace neppure l’arancione, non potrei mai dormire con una biancheria da letto simile.» Emanuele Sartori, ventitré anni, studente di economia aziendale con il pallino dei videogiochi di ruolo. In un certo senso ci eravamo trovati. Avevo undici anni la prima volta che lo avevo incontrato. Era una afosa mattina di settembre, come le classiche che precedono il rientro a scuola. Per me il primo giorno alle medie, per lui un nuovo anno in prima. Aveva avuto dei problemi familiari che avevano causato ripercussioni sul suo andamento scolastico. Nessuno gliene faceva una colpa, ma per lui era ancora difficile da digerire. «Ti donerebbe sai? Potrei chiederle di cucire le nostre iniziali. Sarebbe romantico.» Alzai un sopracciglio. «Questa frase mi avrebbe spaventato a morte se non avessi saputo che sei tu il primo a temere una simile eventualità.» Emanuele scoppiò a ridere, poi si accomodò sull’altalena al mio fianco e cominciò a dondolarsi. «Mi mancavano queste uscite. Ultimamente era tutto più freddo tra di noi.»
Mi morsi il labbro. Avrei dovuto raccontargli degli incidenti del giorno prima, ma a differenza di Amelia era un ragazzo pragmatico. Con ogni probabilità mi avrebbe detto di dormire di più la notte. «Ho avuto molto da fare…» cominciai, ma lui mi zittì alzando una mano e scuotendo il capo. «Lo so, lo so, la paura del fuori corso. Dovresti vivere di più.» «Lo faccio» brontolai, mentre aggrottavo le sopracciglia e gonfiavo le guance, nella mia tipica espressione d’offesa. «Sì?» il suo tono sembrava scettico. «Sabato andrò a una festa. Da Berenice.» Emanuele corrugò le sopracciglia. «Non era il tipo di divertimento che intendevo.» Bloccai il mio dondolare con il tallone e lo fissai negli occhi. «Cos’hai contro di lei?» «Tutto e niente» rispose lui, stringendosi nelle spalle. «È solo molto superficiale. Ho sempre paura che prima o poi ti trascinerà in qualche cavolata.» «Se ti fa stare meglio puoi accompagnare me e Amy.» Emanuele si irrigidì. Lui e Amy avevano avuto un breve flirt, finito né male né bene. Era come se non fossero stati insieme, ma entrambi erano sempre molto imbarazzati quando uno o l’altro veniva nominato. Una cosa che mi infastidiva era che i miei due migliori amici fossero a disagio. Un tempo avevo desiderato potessimo essere un trio, ma la mia speranza si era sbriciolata come cenere. Abbassai lo sguardo e in quel momento sentii gli occhi del mio amico scrutarmi. Poi sospirò. «Ci vengo», alzai il viso radiosa ma lui mi appoggiò un dito sulla punta del naso e socchiuse le palpebre. «Ma se Berenice mi infastidisce non rispondo delle mie azioni.» «Non si toccano le donne neanche con un fiore» replicai con una nota divertita nella voce. Lui assunse una espressione di disgusto e storse le labbra. «Chi vuole toccarla. Intendevo che l’avrei chiusa in una stanza e avrei gettato la chiave.»
Scoppiai a ridere. Solo con Emanuele potevo dimenticare i drammi che mi affliggevano. Mentre con l’indice mi asciugavo le lacrime e a stento riuscivo a trattenere le risate, qualcosa sfrecciò nel parcheggio. La felicità mi si congelò sul volto. Emanuele lanciò uno sguardo alle sue spalle, cercando di intuire quali preoccupazioni avessero di colpo occupato la mia mente, ma quel che riuscì a vedere era un parcheggio buio a tratti illuminato dalla luce soffusa dei lampioni. Io però non mi sentivo tranquilla. Avevo come la sensazione di essere osservata, sentivo la gola stringersi in un nodo che non mi permetteva di respirare e le gambe paralizzarsi. Si trattava della stessa cosa che avevamo visto io e Leo la sera prima? «Nina?» Senza rendermene conto mi ero alzata in piedi. «Ho sentito un rumore.» «Sarà stato qualche topo» disse il mio amico prendendomi per mano. «Vuoi andare a fare un giro?» Annuii, appoggiandomi alla sua spalla. Mentre mi trascinava verso la moto e mi passava il casco, non riuscii a staccare lo sguardo dal punto in cui, ne ero sicura, qualcosa era fuggito. Mi portai una mano all’altezza della gola cercando di regolare il respiro. Da quando per una semplice ombra mi ero fatta così guardinga? Era come se avessi paura del buio. E una voce nelle profondità della mia mente mi diceva che sì, avrei dovuto averne.
«Non ti vedevo mangiare così di gusto da quando quel tipo ti ha mollato.» Emanuele mi sedeva di fronte, il palmo della mano sinistra contro la guancia destra e i gomiti puntellati sul tavolo. «Non mi ha lasciato, era consensuale la cosa.»
«Erano consensuali anche le lacrime che hai versato sulla mia trapunta di Topolino, suppongo.» «Esattamente» replicai, portandomi una manciata di patatine alla bocca. Erano due ore che eravamo fuggiti dal nostro parco, due ore che Emanuele continuava a punzecchiarmi. Sapevo che moriva dalla voglia di approfondire il discorso, però io non avevo intenzione di dargli spiegazioni. Non sapevo neppure da dove cominciare. «Senti…» cominciò, ma io non lo lasciai finire. «Ho sonno, per favore riparliamone un altro giorno. Okay?» Mi sentivo un mostro a trattarlo in quel modo, ma che altro potevo fare? Non avevo risposte, non conoscevo la verità. Potevo sommergerlo di dubbi o fingere che stessi bene. Salutai Ema con un bacio e mi fiondai in casa, sotto la doccia. Dovevo trovare il coraggio di calmarmi e analizzare i fatti con raziocinio. Uscii dalla doccia e mi rivestii. Il nonno era già andato a dormire e Leo sembrava poco propenso a infastidirmi, perciò riuscii a ritagliarmi un momento di tranquillità. Afferrai carta e penna e buttai giù una lista. Piazza Duomo. Ragazzi sadomaso Esseri strani. Statuette parlanti e quadri impiccioni. Aggressione in piena notte e fruscii sospetti. Possibilità di essere stati seguiti.
Mi voltai di scatto verso la finestra che dava sul balcone. E se l’ultimo punto fosse stato vero e non frutto della mia immaginazione? Chiusi la pagina internet che avevo aperto sulle allucinazioni e mi infilai il pigiama. Speravo solo di addormentarmi il più in fretta possibile. Quella notte stavo sognando Amelia che tentava di rifilarmi un reggiseno color lime regalatole da sua zia l'anno prima, con la scusa che per lei era troppo grande, quando mi sentii scuotere da qualcuno.
Aprii prima un occhio poi l'altro e strinsi il cuscino tra le braccia, come se fossi una fidanzata gelosa. E in effetti, quando si trattava del mio letto, lo diventavo davvero. «Cosa c'è?» blaterai, riconoscendo lo sguardo preoccupato del nonno, quello che di solito precedeva la frase: "Dobbiamo parlare". «Dobbiamo parlare.» Appunto. Feci mente locale sui fatti che negli ultimi tempi avevo combinato e non avevo riferito, ma non me ne venne in mente nessuno che potesse costringerlo a svegliarmi di notte. Oh no, ha scoperto il graffio alla macchina. Improvvisamente ero vigile. «La polizia è stata qui, Nina.» «Per così poco?» riuscii a dire con la voce impastata dal sonno. «C’è stato un omicidio.» Il nonno si passò una mano sul volto stanco, le sue sopracciglia scure erano aggrottate e la fronte aveva più rughe di quanto ricordassi. «Chi?» domandai, ormai completamente sveglia. «Quando?» «Damiano.» Conoscevo Denny fin da quando ero alle superiori, mi aveva aiutato in matematica e in latino e spesso s'intratteneva con il nonno in veranda a parlare di cose che io reputavo noiose. L'ultima volta che lo avevo visto mi aveva augurato buona fortuna per l’esame di filologia romanza, affermando che mi avrebbe volentieri dato una mano se glielo avessi chiesto. Denny era un amante della cultura, di storia, di arte e qualsiasi altra cosa. Sembrava sapere sempre tutto. Non potevo credere che non mi avrebbe più infastidito. «Ieri sera. La polizia è arrivata e ha parlato di un omicidio colposo, probabilmente dovuto a un incidente stradale, ma io non ne sono sicuro. Hai notato qualcosa di strano fuori?» Non particolarmente stanotte, avrei voluto rivelargli.
Guardai la lista che avevo scritto abbandonata sulla scrivania. Erano giorni che qualcosa mi preoccupava. «Leo era vivace, continuava ad abbaiare e non sono riuscita a trattenerlo.» Osservai il nonno assumere una strana espressione. «Ma non ha importanza immagino.» Il nonno non mi rispose subito, passò qualche secondo a massaggiarsi il mento e a scrutare un punto imprecisato dietro alla mia testa. «Domani aprirai tu il locale.» Era un ordine. «Devo proprio?» Avevo intenzione di andare in palestra con Amy, ma lo sguardo del nonno fu più che eloquente. «D'accordo» dissi. Il nonno uscì senza aggiungere altro e io, avendo perso il sonno, afferrai un cardigan e mi recai in cucina. Passai molto tempo seduta in soggiorno con una tazza di camomilla fumante tra le mani in attesa che mio nonno tornasse a letto. Lo capivo, apprezzava Damiano come un figlio, e forse era proprio quello che significava per lui. Tuttavia, Denny era morto in strada. Una spiegazione non sufficiente a chiarirmi cosa ci facesse Dante nel suo studio alle tre di notte. Posai la tazza in lavastoviglie e lo raggiunsi. Prima ancora che le nocche colpissero il legno della porta, Dante m'invitò a entrare, nel tentativo di rassicurare i miei sonni e accertarsi che l'indomani non avrei fatto tardi al lavoro. Anche se l’unico veramente inquieto era lui. «Nonno, qualunque cosa sia successa a Denny non è nel tuo studio che la scoprirai» gli confidai, mentre lo sguardo si soffermava su un disegno che avevo avuto modo di studiare una volta a lezione. Si trattava di un Bennu, un geroglifico egizio raffigurante un uccello dal grosso becco e, a volte, con un copricapo in testa o un disco solare. Il simbolo della rinascita. Sapevo che era un geroglifico ricorrente nei Libri dei morti, tuttavia mi sembrava esagerato. Il nonno versò del liquore in un bicchiere da cucina e lo bevve alla goccia, poi si pulì la bocca con il dorso della mano e strizzò gli occhi. «Gli volevo bene.»
Mi dispiaceva vederlo in quello stato, così gli strinsi delicatamente la spalla e abbozzai un sorriso. Non potevo fare nient'altro, lui non me lo avrebbe permesso. Se c'era un difetto nella nostra famiglia, poteva essere in tutto e per tutto l'orgoglio.
L'indomani mattina la prima cosa che feci fu mandare un lunghissimo sms ad Amy in cui le raccontavo quello che era successo durante la notte. Le confidai della strana sensazione provata mentre ero fuori con Leo, della figura scura che avevo visto con Ema e delle allucinazioni. Mi aspettavo una risposta lunga e articolata, invece scrisse soltanto: "Domani dormi da me, così mi spieghi". Di sera avevamo anche la festa a casa di Nice a cui non ero molto propensa a partecipare. Mi preoccupava lasciare il nonno da solo. Trangugiai il cornetto con così tanta foga che dovetti picchiarmi sul petto e bere un sorso d'acqua per evitare il soffocamento. Piazza Duomo si rivelò priva di qualsiasi tizio anticonformista e il mio umore migliorò, con la consapevolezza che quella giornata sarebbe stata diversa e meno traumatizzante. Aprii il negozio fischiettando una canzone dei Three Days Grace e lanciai la borsa sulla sedia alla mia destra, rallegrata dal fatto che non ci sarebbe stato il nonno a dirmi di sistemare. Chiusi la porta del ripostiglio con il fianco e, continuando a danzare, mi avvicinai al bancone. «Oggi sei di buon umore?» Con quella semplice frase tutta la mia felicità scomparve. Mi voltai verso la galleria e vidi Andy salutarmi con la mano. In un atto di disperazione mi portai le mani al viso, prendendo un sospiro malinconico ma grande, molto molto grande, in modo che l'aria mi ossigenasse il cervello.
Evidentemente non era sufficiente, perché anche Gioconda ora si era accorta della mia presenza e mi aveva rivolto uno dei suoi sorrisi. O forse non era un sorriso? «Ok, chiariamo una cosa: voi due siete frutto della mia fantasia e come tali dovete smetterla di parlarmi.» Andy alzò un sopracciglio. «Ti sei ammattita?» «Non oggi, due giorni fa probabilmente. Non capisco, bevo uno o due alcolici la settimana, non fumo, non mi drogo. Com'è possibile che stia succedendo tutto questo?» «Con chi stai parlando?» Mi girai colta alla sprovvista, tremendamente in imbarazzo per non essermi accorta dell’arrivo di un cliente, quando incontrai gli occhi azzurri di un ragazzo dall’aria famigliare. Ci misi un attimo prima di riconoscerlo. «Sei il cosplayer del Duomo!» esclamai, assicurandomi con una veloce occhiata che fosse davvero lui. Senza ali sembrava diverso. Più umano. Lui sorrise e accennò un inchino. «Al vostro servizio.» Mi voltai verso Andy che in quel momento aveva assunto un’aria incredibilmente seria. Lo vidi assottigliare gli occhi e portarsi un pugno sul cuore. L'uomo appena arrivato alzò una mano e chiuse gli occhi. «Rilassati, non sono qui per te.» «Puoi vederlo anche tu?» domandai con una nota di speranza nella voce. «Sono due giorni che credo di essere una pazza visionaria, una schizzata, e invece…» Il ragazzo bloccò il marasma di parole che avevano cominciato a uscire, come un fiume in piena, dalla mia bocca appoggiandomi un dito sulle labbra. «Io posso vederlo. Quel che mi chiedo è come tu possa sorprenderti. Soprattutto, sono duecentotrentatré anni che bazzico in questo mondo e non ti ho visto neanche una volta. Finora.» Quasi rimasi strozzata dalla mia stessa saliva. «Quanti anni hai?» «Ti comporti come se non sapessi cosa sono» continuò lui ignorando volutamente la mia domanda. «Qual è il tuo nome?»
Alzai un sopracciglio, infastidita dal suo tono. «Se non sei qui per comprare qualcosa puoi andartene.» Il ragazzo sorrise e, ignorando le parole minacciose che faticosamente gli avevo rivolto, mi porse la mano e inclinò leggermente il viso di lato per guardarmi meglio. «Ethan Green» disse. Cafone. Se speri che io… Con mio sommo stupore mi ritrovai a stringergliela, c'era qualcosa nei suoi occhi che mi costringeva a ubbidire. «Nina Evans.» Una scintilla indecifrabile balenò nei suoi occhi e un lieve sorriso gli increspò le labbra, quel tanto che bastava a rasserenargli il volto. «Evans come Linda Evans?» Annuii, ancora incatenata al suo sguardo. «Era mia madre.» I suoi occhi si spalancarono. «Tu sei la nipote di Dante Evans!» esclamò improvvisamente lasciandomi la mano. «Non può essere, non può essere. Ora ho capito…» Lo guardai come se avesse appena detto che gli ricordavo una tarantola e mi allontanai da lui. Ethan rise. Un attimo dopo era scomparso. Potevo scappare e cercare aiuto. Un piccolo balzo, Eve, solo un passo più a destra. «Fossi in te non ci proverei» sussurrò alle mie spalle. Mi voltai di soprassalto portando una mano sul cuore, che aveva cominciato a battere all'impazzata, e l’altra sulla guancia. Le mie labbra aperte disegnavano un ovale perfetto. Ethan era a meno di un metro da me. «Non farlo mai più!» strillai. Mi afferrò il viso e lo avvicinò al suo per studiarlo meglio. Sentii le mie gote imporporarsi e cominciai a sudare per l'imbarazzo. «Hai vent'anni a occhio e croce, com'è possibile? L'unica volta che ti ho visto avevi poco più di due ore. Ed erano solo vent’anni fa.»
Stavo davvero avendo quella conversazione? Il suo sguardo era duro e la mano non voleva lasciarmi andare. Si meraviglia davvero che sono cresciuta! realizzai. La porta si spalancò ed entrò il nonno. Il suo sguardo non prometteva nulla di buono e il comportamento di pochi attimi dopo ne fu la prova. Mi afferrò per il polso e mi trascinò dietro di sé, mettendo quanta più distanza possibile tra me e il mio interlocutore. «Dante, è un piacere rivederti.» «Che cosa vuoi Ethan?» Il ragazzo mi guardò intensamente, poi spostò lo sguardo sul nonno. «Capire perché questa ragazza abbia urlato in piazza Duomo mentre uccidevo un Unseelie. È una di noi. È la figlia di Linda.» La presa del nonno s'intensificò. «Nina non avrebbe potuto vederti.» «Veramente l'ho fatto» borbottai. Ethan chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. Quando li riaprì, l’intensità del suo sguardo sembrava perforarmi la pelle. «Vuoi raccontare tu a tuo nonno come ti ho visto parlare con questi quadri» indicò col pollice la parete alle sue spalle, «o preferisci che gli racconti tutto io?» Mi schiarii la voce, sentendomi improvvisamente in colpa. «Credevo di avere le allucinazioni» mormorai a mo' di scusa. Il nonno mi lasciò andare. «Nina, quando ieri ti ho chiesto se ti era successo qualcosa... io… No, se solo avessi saputo avrei potuto aiutarti.» «Come hai fatto finora, Dante?» disse Ethan saettando con lo sguardo da me a mio nonno. «Penso tu ci debba delle spiegazioni. Alla ragazza e a me. Il Consiglio non approverà.» Quella che era stata la mia vita fino a quel momento stava scivolando via, infrangendosi sul pavimento come uno specchio antico e pesante, fino a ridursi in affilati piccoli pezzettini che non avrei saputo ricomporre. Ora conoscevo una parte della verità.
Io ero una Vegliante, o almeno metà della mia famiglia lo era stata, perché al momento non potevo ritenermi tale non avendo usufruito di un'educazione che durava centottanta anni. Mia madre era l'unica figlia di Dante e nonna Rachele e come loro era nata in quella che era solitamente chiamata la “Terra delle Fate”. Hel. Era un universo al di là dello spazio-tempo conosciuto. Il nonno mi raccontò del giorno in cui sua figlia partorì e mi abbandonò, senza neanche il nome di un padre. L'unica cosa che gli chiese era di non farmi diventare una Vegliante: voleva che io vivessi il più umanamente possibile, per questo il nonno mi portò dall'Aia dei Navigli, una certa Calcobin, che faceva da intermediaria tra il Consiglio e i Veglianti. L'Aia, esperta di eugenetica, riuscì a inibire il mio gene "fatato", con l'ausilio di qualche trucchetto magico. In questo modo sarei invecchiata come un essere umano e avrei subito gli effetti della barriera che i Veglianti utilizzavano per combattere, schermando tutto ciò che apparteneva al mondo di Hel ai terrestri. Avevo l'impressione che Calcobin non fosse una persona ligia alle regole, se teneva nascosta al Consiglio la mia stessa presenza. Ora sapevo anche che la mia famiglia non veniva dalla Scozia. Secondo la versione che in precedenza il nonno mi aveva raccontato, il bisnonno era un contadino britannico e da ciò derivava il mio cognome. In realtà si era trattato solo di allenamento: il nonno era stato addestrato in Scozia, mentre la nonna e Linda in Italia. «Ho sofferto per tutti questi anni, Nina. Il pensiero di perderti in meno di un secolo mi ha reso un inetto agli occhi degli stessi Veglianti, che mi hanno rinchiuso in questa città.» Ethan si massaggiò il mento. «Al momento è umana, giusto? Invecchia di anno in anno.» Io guardai il nonno con occhi lucidi. «Perché mia madre mi voleva morta?» «Lei non... Nina...»
Ethan strinse le lunghe dita diafane intorno alle mie spalle e mi costrinse a incontrare il suo sguardo. «Ascolta, rimedieremo a tutto. Incontreremo Calcobin e ti faremo diventare una Vegliante. Poi scopriremo il resto.» «No!» Il nonno si alzò in piedi. Ethan fissò il nonno con dolcezza. «Credo che la decisione spetti a Nina.» Fu in quel momento che mi sentii improvvisamente adulta. Da un lato c’era un ragazzo sconosciuto che tentava in tutti i modi di contrastare il nonno, e dall'altro l’uomo che mi aveva cresciuto e che mi guardava come se dovessi pronunciare il verdetto di una condanna a morte. Sapevo che il nonno aveva agito in buona fede, ma non me la sentivo di rinunciare a quello spiraglio di novità e di vita che si era aperto davanti ai miei occhi. Scoprire la vera me stessa, anche se ne ero terrorizzata, o rinnegarla? «Nonno, perdonami.» Dante abbassò lo sguardo come se lo avessi colpito in volto. Ma questa volta non ci sarebbero stati i soliti silenzi tra di noi. Avevo bisogno di spiegargli le mie ragioni. «Non me la sento di seguire il volere di una donna che mi ha abbandonato. Sono sicura che avesse i suoi buoni motivi, ma non posso immaginare che sapesse cosa era, o non era, giusto per me.» Incrociai le braccia al petto e sospirai, prima di rivolgermi a Ethan. «Tu perché mi vuoi aiutare?» Ethan abbassò gli occhi. «Che tu ci creda oppure no, so di doverlo fare. Viaggi temporali e robe del genere.» Ethan e il nonno mi avevano raccontato che i Veglianti Senza tempo di Hel potevano viaggiare nelle varie epoche. Gli Unseelie sfuggiti al loro controllo nella Terra delle Fate sceglievano varie ere in cui atterrare, ed era necessario per la sopravvivenza degli esseri umani che gli stessi Veglianti potessero raggiungerli in ogni momento, in ogni tempo. Come Vegliante avrei potuto richiedere all’Aia dei Navigli una speciale magia che mi permettesse di parlare fluentemente tutte le lingue conosciute e tradotte. Se avessi immaginato, durante gli anni del liceo, di non essere completamente umana, avrei potuto utilizzare quei trucchi nelle verifiche d'inglese.
Dante si schiarì la voce. «Non posso impedirtelo, Nina, come non posso negare che da un lato la tua scelta mi riempia di gioia. Staremo insieme per molti secoli, niente più bugie. Imparerai a difenderti, ti insegnerò io. Ma tua madre era stata categorica: non dovevi assolutamente avere a che fare con questo mondo.» Il nonno si portò i palmi sugli occhi e li massaggiò. «Spero di non averti deluso, figlia mia.» Quella supplica mi spiazzò. Anche se non lo aveva mai ammesso, il nonno voleva bene a Linda.
Nina: Festa
Con rassegnata arrendevolezza preparai il borsone per quella sera. Presi una maglietta alla marinara e la appoggiai sul petto, osservando il risultato finale. Nulla di eccelso ma neppure di mostruoso, si abbinava alle mie occhiaie violacee. Durante la notte non avevo fatto altro che pensare a Calcobin e al sortilegio che mi aveva lanciato, costringendomi a invecchiare come un essere umano. In tutto questo avevo anche scoperto che il nonno non aveva idea di chi potesse essere mio padre, ma che per davvero la sua amata figlia era comparsa da un giorno all'altro con una bambina e senza tante spiegazioni era fuggita. Avrei desiderato che Linda si riscattasse ai miei occhi, ma ormai avevo perso le speranze. Avevo accennato qualcosa ad Amy e sembrava così colpita da suggerire l'idea di saltare la festa di Nice. Io, però, le avevo consigliato di andarci comunque. Avevo bisogno di distrarmi e durante la notte avrei avuto modo di raccontarle ogni singolo dettaglio. In fondo, il nonno non mi aveva fatto promettere di stare zitta. Alle otto di sera uscii e guidai fin sotto casa di Amy. Rischiai solo un paio di volte di prendere il marciapiede, ma la mia macchina non subì danni che l’occhio vigile del nonno poteva scorgere. Quando arrivai, abbassai lo specchietto e osservai il mio riflesso ricevendo il colpo di grazia: i miei capelli, indifese vittime dell’umidità, si erano increspati perdendo la dolce forma che dopo tante ore ero riuscita a dargli. Mentre mi sistemavo le ciocche ribelli, colsi con la coda dell’occhio un movimento e Amelia sbucò alle mie spalle con un sorriso a trentadue denti. La mia amica aveva dimostrato la sua poca voglia di festeggiamenti indossando una minigonna usurata e una maglietta di colore rosso, ormai sbiadita per i troppi lavaggi. «Assurdo» disse Amelia dopo qualche secondo di silenzio.
Aveva voluto lo scoop in anteprima, dicendo che in questo modo avrebbe passato la serata a rimuginarci sopra e durante la notte avremmo potuto parlarne tranquillamente. Ferma al semaforo fissai le ballerine rosa salmone che stavo indossando. «Insomma, Eve, pensaci, finalmente il tuo stare con la testa perennemente tra le nuvole ha un senso.» Amy appoggiò la mano sulla mia, che in quel momento stringeva il cambio così forte da cominciare a farmi male. «Ho sempre pensato che in te ci fosse qualcosa di speciale, è uno dei motivi che mi ha spinto a diventare tua amica.» Abbozzò un sorriso che si affievolì in pochi secondi. «Non capisco mia madre.» Amy si morse il labbro. «Forse voleva proteggerti.» Scossi la testa. «I Veglianti cacciano i mostri, non sono cacciati.» Non parlammo molto per il resto del viaggio. Amy cercò di distrarmi raccontando i nuovi litigi che affliggevano i suoi genitori. Intuivo che il reale motivo di quella conversazione fosse farmi notare che non ero l'unica che se la passava male, che dovevo comunque pensare in positivo, ma quello non era il mio modo d'essere. Perché se dovevo scegliere tra un bicchiere mezzo pieno o uno mezzo vuoto, il mio sarebbe direttamente evaporato. La villa di Nice era un'adorabile residenza con un soggiorno open space di quelli che vedevi solo nei film, segno che la sua famiglia se la passava discretamente bene. Entrando in casa avvertii che ancora una volta la mia amica non aveva capito la differenza tra una festa intima e un baccanale. C'erano così tante persone in casa che per entrare dovetti sgomitare, seguita a ruota da Amy che continuava ripetere: «Pessima idea, venire è stata una pessima idea.» Sorrisi e indicai un tavolo pieno di bevande. Ci versammo da bere del punch alcolico, Berenice era una patita di feste americane e intrugli strani, e cercammo un posto tranquillo in cui parlare. Sorseggiai lentamente la bevanda mentre una Nice su un paio di tacchi vertiginosi si lanciò verso di noi. Già normalmente superava me e Amy di una spanna ma quella sera mi fece sentire ancora più bambina. Amelia non ci faceva caso, l'altezza non era il suo cruccio.
«Ragazze, non è una festa fantastica?» urlò Nice. «Mio fratello ha invitato degli amici.» «Non conosco quasi nessuno…» risposi, lanciando un'occhiata preoccupata al resto della sala. Qualcuno aveva cambiato canzone, qualcosa di commerciale che non conoscevo, non era il mio genere, e tutti si stavano dimenando in mezzo alla sala. Alcune ragazze si gettarono sul divano e cominciarono a ridere a crepapelle. Un gruppo di ragazzi sulla destra stava in quel momento improvvisando un trenino dal quale io mi tenni a debita distanza. «È proprio questo il bello, Nina!» Mi afferrò un braccio e cercò di portarmi al centro di quel marasma. «Avanti, non fare la timida.» Mi divincolai. «Non sono di ottimo umore, Nice.» «Sei come quel tuo amico noioso» borbottò, prima di girare i tacchi e lanciarsi tra la mischia. Una volta, durante una cena di classe, mi ero lasciata convincere a provare uno dei suoi drink. Come risultato, avevo vomitato sul tappetino del locale, tra la preoccupazione delle mie amiche e lo sguardo schifato dei camerieri. «Un attimo: quale amico noioso?» domandò Amelia. «Ciao» disse Emanuele, sbucando alle sue spalle. «Che ci fai qui?» disse lei, portandosi una mano al petto e lanciandogli quello che la storia potrebbe classificare come il più gelido degli sguardi. «Eve mi ha detto della festa, ho chiamato Nice e mi ha detto che non c’era nessun problema. Perciò eccomi qua.» Amy simulò una risatina. «Lo vedo.» Mi portai il bicchiere alle labbra continuando ad adocchiarli. «Avanti voi due, perché non vi decidete una buona volta a far pace?» «Non abbiamo litigato» dissero entrambi in contemporanea. Alzai un sopracciglio, scettica. «Non vi parlate da quando vi siete lasciati.» Non seppi descrivere lo sguardo che passò tra loro due, ma di una cosa rimasi sorpresa: entrambi scoppiarono a ridere. Amelia si appoggiò alla spalla di Ema, piegandosi in due dalle risate, mentre il mio amico le circondava la vita con un braccio e si asciugava le lacrime con l’indice.
«Sei fantastica» disse Emanuele, recuperando un po’ di contegno. «Per tutto questo tempo tu hai creduto che… oh, Eve» Amelia mi circondò il collo con le braccia. «Tra noi non ci sono imbarazzi di quel genere. Ma questo genio» indicò Ema, «è… è un nerd. Ecco, l’ho detto.» Scossi la testa e mi massaggiai il collo. «Siete in imbarazzo perché è un nerd?» «Be’, una volta mi ha costretto a travestirmi da Aeris… poco prima che Sephiroth la uccidesse e urlava… e poi…» «Okay» mossi le mani in un chiaro segno di cesura del discorso. «Non mi interessano i vostri giochetti erotici.» «Non erano neppure erotici» borbottò sottovoce Ema. «Semplicemente mia madre ci ha visto e ora crede che Amelia sia un po’… particolare.» Guardai Amelia che si limitò a spiegare: «Mentre suo figlio urlava: “arriva lo spadone” e io ripetevo “oh no, non farmi del male”, sua madre è entrata e…» Scoppiai a ridere anche io. «Siete due pervertiti. Solo una parola: perché?» «Esercitazioni per cosplay» borbottò Amy sottovoce, in modo che solo io potessi sentire. Okay. Avevo bisogno di una boccata d’aria e di mettere quanta più distanza tra me e i miei due migliori amici. Non si odiavano, semplicemente si imbarazzavano. Fantastico. «La nostra canzone!» urlò Amelia non appena partì a tutto volume I just wanna live dei Good Charlotte. Mi strinse il braccio. «Andiamo.» «Vorrai dire la tua canzone» replicai, ma la mia amica mi stava già trascinando. «Piace anche a te, finiscila di fare la sociopatica e sii il mio cavaliere.» Abbandonai il bicchiere su un tavolino e mi avvicinai ad Amelia, cominciando ad ancheggiare e muovermi come se sapessi quello che stavo facendo. La mia amica sembrava divertirsi molto più di me, tanto che a un certo punto cominciò a saltare e a muovere freneticamente le braccia, incurante degli sguardi lascivi che provocava la sua minigonna. Mi afferrò le mani e cominciò a muoverle. Stetti al gioco, afferrandole i fianchi mentre si strusciava su di me.
«Ci guardano tutti» sussurrai al suo orecchio, lei si limitò ad alzare le spalle. «Se sparlano è solo invidia perché non hanno il coraggio di lasciarsi andare.» Ben presto però la musica finì. Mi spostai in giardino, dove per la pioggia e il freddo nessuno aveva avuto il buon cuore di andare, e mi sedetti sul dondolo. Avevo lasciato Amy da sola sulla pista da ballo, non dubitavo però che si stesse divertendo molto più di quanto avrebbe mai ammesso. Ebbi la sensazione di non essere sola quando i capelli sulla nuca si rizzarono, come se sopra vi si fosse posata una carezza leggera, a tratti impercettibile. Probabilmente era l’aria frizzante di quella notte a suggestionarmi, ma cominciava a salire della nebbia. Ed era maggio inoltrato. Il rumore di un ramo spezzato mi fece sussultare. «Tutto bene?» Strinsi il bicchiere di plastica che avevo tra le mani rompendolo e lasciando che qualche goccia mi scivolasse sui jeans, sporcandoli. Qualcuno mi stava parlando, solleticandomi il collo con il suo respiro. Una voce morbida e calda, che tuttavia non riconobbi. Voltandomi non trovai nessuno. «Ehi, Nina.» Dopo quelli che parvero attimi infiniti, Amelia si venne a sedere al mio fianco, muovendo il dondolo e disturbando il mio momento di confusione. «Ti ho visto qui tutta sola e annoiata e ho pensato: rompiamole le scatole.» «Ti riesce egregiamente, sai?» L’immagine di lei ed Emanuele intenti a fare qualche giochetto pseudo-erotico apparve tra i miei pensieri. Prontamente la scacciai. Lei mi fece la linguaccia. «Non ti diverti?» Controllai che Berenice non fosse nei paraggi prima di rispondere. «Per nulla, insomma saranno cinquanta persone e, fatta eccezione per te, Ema e quei ragazzi laggiù, non conosco nessuno.» «Sì, Nice ha detto che oltre alle due compagnie del fratello, ha invitato un po' di amici e qualche conoscente di Facoltà.»
Sgranai gli occhi, avventandomi sulla giacca di Amy e sgualcendola. «Ho bisogno di andarmene, tra quanto scatta l'ora “X”?» L'ora “X” era quel momento in cui potevamo filarcela senza essere accusate di asocialità o abbandono da parte della nostra terza amica. Durante la suddetta ora, Nice era troppo ubriaca anche solo per ricordarsi il suo nome e la gente cominciava ad ammassarsi sul pavimento. «Mezz’ora al massimo, l'ho vista prendere da bere con un ragazzo che aveva molto interesse per il suo décolleté. E tu sai com'è fatta lei quando sente di aver adocchiato una preda.» Si alzò, sistemandosi le pieghe della gonna. «Ne approfitto per fare un altro giro di conoscenze.» La salutai con un sorriso e tornai a guardare le mie scarpe, ripensando alla voce di prima. Che l'avessi solo immaginata? Appoggiai il bicchiere a terra e presi un profondo respiro. Non sapevo con cosa fosse stato corretto quel punch, ma l’alcool doveva avermi inebriato, perché avevo ancora la stessa sensazione. Quella che si prova quando, durante un film horror, l'inquadratura segue la protagonista di spalle e tu sai che qualcuno di lì a poco le farà del male. «Sei il suo nuovo giochetto? Finirai come l'ultima.» Adesso basta. Afferrai il bicchiere e mi avviai verso la soglia, nella speranza di potermi confondere tra la gente che in quel momento si affollava in salotto. Presi quella decisione nello stesso momento in cui due ragazzi uscivano. Passai loro di fianco e vedendoli sogghignare capii che qualcosa nella mia presenza dovesse divertirli. Be’, non avevo intenzione di diventare lo zimbello di nessuno. Rallentai la mia andatura e lanciai un’occhiata tagliente al più basso dei due, quello che per primo aveva cominciato a ridere. Cogliendo la minaccia implicita, il giovane abbassò gli occhi e fece cenno al suo amico di proseguire. Raggiunsi Amy e la trascinai via dalle braccia dello sconosciuto con cui stava avendo una sorta di flirt e le raccontai quello che era successo sul dondolo.
Omisi qualche particolare e mi limitai a descriverle la voce calda e morbida che avevo sentito. Una voce che avrebbe potuto rassicurarmi, ma che percepivo non essere buona. «Prendo la mia roba e ti raggiungo.» Fece due passi poi tornò indietro. «Non salutare Nice per nessun motivo, le manderemo un sms. Ti do due semplici parole, un articolo, un pronome e una congiunzione: camera, lei e un uomo.» Aspettai i dieci minuti stabiliti affinché Amy salutasse le nuove conoscenze, mentre con la coda dell'occhio controllavo che i miei due aguzzini avessero smesso di fissarmi. Incrociai lo sguardo dei ragazzi, quindi sorrisi e alzai il dito medio della mano destra in un chiaro, intimidatorio e volgare gesto. Come avevo immaginato, per tutta risposta i due si limitarono a gesticolare da lontano senza avvicinarsi. «Ehi, ve ne andate già?» Ema apparve al fianco di una ragazza bionda. Sorrisi, improvvisamente il mio cuore si riscaldò. Adoravo la nostra amicizia. «Sì, diciamo che concordo con te. Non è il mio genere di divertimento.» Guardai la ragazza. «E neppure il tuo, credevo.» Emanuele sorrise. «Mi fermo un altro po’» si abbassò su di me e mi schioccò un bacio sulla guancia. «A presto, Nina» e si allontanò con la ragazza ancheggiante al suo fianco. Ancora mi chiedevo come potesse un ragazzo così aperto ed estroverso essere mio amico. Certo, nonostante l’anima nerd lo influenzasse in negativo, sembrava avere un buon successo con il genere femminile. Appresi ben presto di non essere l'unica a distaccarsi dai divertimenti chiassosi del gruppo, quando incontrai lo sguardo gelido di un ragazzo di qualche anno più grande. I suoi capelli erano di media lunghezza e scarmigliati, dandogli un’aria leggermente trasandata che tuttavia non faceva che accentuare la particolarità dei suoi lineamenti quasi perfetti. Iridi verdi contro castano, una fusione quasi dolorosa di colori e di sguardi. "Wow", pensai, nello stesso momento in cui i nostri occhi s'incontrarono. Le sue labbra si schiusero, come se volesse parlarmi. «Eccomi.»
La voce di Amelia mi fece uscire dallo stato catatonico in cui ero imprigionata. Distolsi lo sguardo dallo sconosciuto per posarlo sulla mia amica. «Era ora.» Prima di uscire lo cercai un’ultima volta, ma non lo vidi più.
Ero riuscita a trovare parcheggio abbastanza vicino, quando mi accorsi che per scendere dalla macchina sarei dovuta dimagrire e assomigliare a una sottiletta. Tenendo ben salda la portiera, cercai di appoggiare il piede sinistro a terra mentre con il destro arrancavo per non perdere l'equilibrio. Quando la prima metà del mio corpo fu passata, misi una mano sulla portiera e cercai di far passare l'altra gamba con movimenti lenti e calcolati, evitando di cadere o rendere vano quel lavoro certosino che avevo fatto per non gibollare la portiera. Esultai, alzando entrambe le braccia al cielo e lasciando che la maglietta si sollevasse, facendo passare un filo d’aria sulla pancia. Amy fece dondolare le chiavi di casa e con una sospetta luce negli occhi esclamò: «A casa da sole! Ho qualcosa da farti vedere.» Trascinata dal suo entusiasmo, controllai per l'ultima volta di aver inserito l'antifurto e la seguii all'interno del palazzo. Amelia abitava al quinto piano di un condominio senza ascensore, con un impianto elettrico un po’ danneggiato e spifferi fastidiosi che, dalle finestre, mi accompagnavano per tutte le rampe. La casa di Amy era un tripudio di etnicità e oriente. Aveva grossi quadri di legno con giraffe, elefanti e donne che portavano grandi anfore in testa; incensi al gelsomino che finivano sempre col farmi venire un gran mal di testa e strane varietà di piante finte in ogni stanza. «Vuoi qualcosa?» Mi sedetti vicino al bancone della cucina, mentre lei aveva cominciato a trafficare con gli armadietti. «Nulla.»
Amy scosse la testa. «Ti preparò un tè come piace a noi così mentre parliamo possiamo mangiucchiare dei biscotti.» Avevo la tentazione di replicare che anche senza bibita avrei potuto benissimo gustare dei dolcetti, ma sapevo che quel discorso era solo un modo per tirare acqua al suo mulino. Così, mi lasciai catturare dal sapore tiepido della bevanda e affogai i miei pensieri nei friabili biscotti al cioccolato. «Ho anche un po' di crostata di fragole e crema pasticcera, l'ho fatta ieri pomeriggio.» «No, non riuscirei a mangiare nulla.» Amy si portò un po' di dolce alla bocca prima di rispondere. «È per tuo nonno?» Scossi la testa. «Tu credi a tutto quello che ti sto dicendo senza ritenerci una famiglia folle?» Amy mi fece un sorriso sghembo, sollevando il sopracciglio destro. «Ma lo vedi con chi stai parlando? Mia madre è una maestra di yoga e mio padre vive per la sua banca. La normalità è ben lontana dalla mia famiglia.» «Ho sempre desiderato che succedesse qualcosa del genere ma speravo che le cose sarebbero state più semplici» continuai. Amy si leccò la crema dalle dita. «La vita non è un libro o un film, Eve, era ora che lo capissimo.» Assottigliai lo sguardo. «Okay, perché hai usato il plurale?» «Vieni con me.» Seguii Amy nella sua stanza, anche quella addobbata da sua madre senza che lei potesse avere voce in capitolo. In questo modo si era ritrovata con un letto matrimoniale in ferro battuto, che chiamavamo "la bara dei morti”, e un baldacchino di tulle rosa. Le pareti erano state colorate di giallo, un colore che sua madre Derna adorava, ma che per la figlia era una dichiarazione di guerra. Amy prese una scatola impolverata da sotto il letto. Inserì la combinazione a tre cifre e il lucchetto si aprì, davanti ai miei occhi che scrutavano ogni singolo movimento.
Quando la vidi tirar fuori un quadernetto marrone dalle pagine ingiallite, aggrottai la fronte. «E questo cos’è?» domandai, accovacciandomi al fianco della mia amica. Cercai di prenderle il libro dalle mani, ma lei lo allontanò. «Non avrai ricominciato con quaderni che presupponi appartengano a tua nonna, vero?» Lei mi guardò in tralice e si portò l’indice alle labbra. «Zitta, fammi raccontare.» Mi misi seduta e incrociai le gambe. «Riguarda la mia famiglia da molti secoli credo, vedi? Questo è il nome di mia nonna e questo della mia trisavola. È un albero genealogico. Ci sono delle annotazioni che mi fanno supporre sia la riscrittura di qualcosa di più antico.» «E cosa sarebbe?» «Sembrerebbe un grimorio.» Amy aveva ragione. C'erano disegni di piante, strane filastrocche con e senza rima ma… Cos'erano quei disegni che ogni tanto comparivano tra le pagine, affiancati da didascalie? Lo feci notare e Amy cominciò a leggerli. «Questo sembra… no, aspetta, forse è una "e". Ma se allora quella dopo diventa una "P", no, scusa, una "B" invece di… O porca paletta nana da giardino. Sono razze!» Sgranai gli occhi. «Razze?» Amy segnò con l'indice un punto su una pagina e cominciò a leggere. «Banshee, presagio di morte. Non per forza cattiva.» Puntò gli occhi blu nei miei. «In corsivo aggiunge che sono Unseelie.» Come poteva la mia amica possedere un quaderno dove erano descritte le creature che ritenevo facessero parte del mio mondo e non del suo? «Quando questa sera mi hai raccontato di ieri, ho pensato che avresti dovuto vederlo.» Da quanto tempo Amelia conosceva quei segreti? Se non mi fossi confidata per prima, lei lo avrebbe mai fatto? Decisi che non era quello l'importante. «Riesci a farmene una copia? Vorrei mostrarlo al nonno.» Amy scosse la testa. «Eve non prendertela, ma preferirei restasse un segreto.»
Sarebbe stato troppo imbarazzante per lei se si fosse rivelato ancora una volta un buco nell’acqua. Ecco cosa sta cercando di dirmi. «Allora sarò muta.» Il resto della notte lo passammo a sfogliare il grimorio, come ci ostinavamo a chiamarlo, e a chiacchierare sui possibili sviluppi futuri. Avrei voluto che mi accompagnasse da Claudine Calcobin l’indomani, ma non ero sicura che il nonno ed Ethan avrebbero apprezzato la mia lingua lunga. Finii la confezione di biscotti che avevamo aperto e subito me ne pentii, ripromettendomi che il lunedì successivo avrei fatto un'ora di corsa sul tapis roulant. Ecco a cosa serviva la palestra: faticare al fine di mangiare tanto.