Paesaggi letterari. Le prose di Sergio Maldini nei quadri di Errante Parrino

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Sergio Maldini, prefazione a “Errante Parrino. Quadri di Viaggio, Edizioni La Bassa, ottobre 1996”

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Pittore e scrittore, questo Dodo Errante Parrino è un perenne transfuga da se stesso, tra Venezia e il Friuli, tra la grande madre adriatica e la solitudine del più estremo Nord Est. Se Venezia gli ha dato i natali, la cultura e una memoria storica dalla quale non si prescinde, il Friuli diventa una specie di patria adottiva, in cui trasalire certe domeniche invase dai rintocchi delle campane e riflettere sulle ragioni della propria esistenza. Si aggiunga che Dodo Errante Parrino è in parte sardo: di qui una tendenza all’insularità che spesso in Friuli diventa una condizione umana, se non il senso di una reiezione o una colpa. «Sono nato veneziano» confessa, «e possedendo la normale intolleranza di un adolescente non del tutto stupido, crescendo tra gondolette con la musichina, fidanzatini di vetro e falsi Guardi, ho provato disgusto per questo armamentario di cianfrusaglie create ad uso turistico». Venezia, inoltre, rivela la sua povertà dietro «vetrine fatue e luminose» e in «magazzini scalcinati, appartamenti decrepiti, impianti precari, rattoppi, negoziucci periferici». È il momento in cui Errante Parrino si sente stanco della condotta di una madre truffaldina, e allora emigra in Friuli dove il mondo è più nudo, più netto, più puro, forse più misterioso: la sua (del Friuli) malinconia non deriva da depositi culturali, da una immedesimazione storicistica del passato, ma piuttosto da una natura che ha pudore di sè. Errante Parrino compie coscienziosamente il suo petit tour, e descrive pagina dopo pagina i luoghi che dipinge: se i controlli sono ancora quelli di un veneziano colto, cresciuto fra antiquari scaltri e visitatori cosmopoliti, la materia poetica della sua pittura si direbbe provocata dalle epifanie friulane. O si tratta di un’osmosi tra Venezia e Santa Marizza, di investimenti reciproci, della necessita di un «altro da sè» per dare più forza al proprio gesto creativo? Di certo i vagabondaggi di Errante Parrino ricordano, con Ie dovute proporzioni, quelli ad es. di un Henry James sospeso fra la sua terra americana e la Parigi di Maupassant e di Flaubert, o più tardi, di un P.M. Pasinetti oscillante tra la California e il Canal Grande, con la nostalgia perpetua di un altrove in cui rinvenire un «io» più stabile e forse più felice. Ma questa non è la sola duplicità di Errante Parrino. L’altra è la concorrenza di pittura e scrittura. Anche qui si tratta di gelosi prestiti interni: sono i paesaggi da portare sulla tela a sollecitare la scrittura, o viceversa? Errante Parrino non viene mai meno a un certo estetismo nella vita (ha fatto anche l’attore e il regista teatrale), e non è escluso che un aggettivo possa fargli usare un blu di Prussia o che, al contrario, un verde Veronese susciti in lui il desiderio di descrivere una calle veneziana: lo scrittore e il pittore si ricongiungono. Comunque egli continua a dipingere paesaggi del Friuli dove «torno puntuale ogni domenica come si usava fare con Ie morose lontane». E i dipinti eccoli qui, in questa mostra coerente e organica, che indica perfettamente la parabola culturale del suo autore. In effetti Errante Parrino dipinge sempre lo stesso quadro, anche se eterogenei gli stimoli mondani e Ie suggestioni della memoria, E l’«unico» quadro di Errante Parrino rivela sempre una restituzione metafisica della realtà: pareti cieche abitate da un lungo silenzio interiore, scure masse vegetali, i cieli indistinti della laguna veneta, Ie linee geometriche di una rigorosa concezione dello spazio. Siamo fra De Chirico, Morandi, Carrà , e forse Rosai e un sospetto di Mondrian. Ma di fatto, tra lo stupore morandiano e il mistero di un De Chirico, esiste una cifra che appartiene a Errante Parrino, e a Errante Parrino soltanto. II veneziano deluso della «falsità» degli orpelli lagunari, usa tutta la propria intelligenza pittorica per darci un Friuli privo di connotati naturalistici, consegnato a quel linguaggio di muri sfumati e celesti, superfici di una dolce tinta marrone, di cui dicevamo, o alle striscie di qualche americano della pop art. I valori cromatici sono avvolti dall’antica sonnolenza degli stessi oggetti rappresentati. La carica magica, ancestrale, prototipica del Friuli più profondo, si riversa in componenti materiche di alto profilo, permeate di quella che, con un termine antiquato, definiremmo tout court poesia.

/ 00 Salvatore Errante Parrino al lavoro nel suo studio di Santa Marizza (Varmo) Foto Vinicio Scortegagna

Qualcosa di Hopper, qualcosa di De Chirico. Le considerazioni di natura estetica finiscono prima di cominciare. Chi scrive mastica di arti figurative quel tanto che il tempo libero gli permette di frequentare musei e gallerie. Chi scrive, però, condivide con il pittore Errante Parrino un’inclinazione di altra natura, quella letteraria, dove già si respira un’aria di famiglia. Inclinazione specifica: un romanzo contro un romanzo. L’autore, lo stesso: Sergio Maldini. Il romanzo – la nostra passione condivisa - “La stazione di Varmo”, 1994, nato come sequel – richiesto dall’editore Cesare De Michelis – de “La casa a Nord-Est”, premio Campiello 1992. Parrino, di Maldini amico e vicino di casa a Santa Marizza di Varmo, confessa di preferire « da sempre i suoi monologhi» e lo trova «eccezionale nel descrivere i paesaggi». Monologhi e paesaggi, ecco “La stazione di Varmo”, superiore alla sua più blasonata sorella anche per struttura narrativa. Che, oltre a rivelarsi sicura nelle ampie digressioni colte – mai fini a se stesse, sempre affini al suo autore - sta soprattutto nella novità (rispetto alla “Casa”, ma anche al più remoto “I sognatori”, premio Hemingway-Mondadori 1952) dell’io narrante, contrapposto a un alter ego che cela, dietro la maschera del personaggio Gregotti, tre persone reali. Una è Maldini – il sé sognato, avventurosamente aperto alla vita - l’altra Elio Bartolini – l’esprit de finesse insospettabile sotto una fitta coltre di prosa, la terza, appunto, Errante Parrino – veneziano con una storica camiceria in calle Vallaresso, creduto antiquario nella realtà, e pirandellianamente costretto a indossarne la maschera nel romanzo. «Per la mia passione riguardante l’antico – ci spiega Parrino - molti a Santa Marizza, e lo stesso impresario, cui avevo affidato i lavori di ristrutturazione del rustico che oggi abito insieme a mia moglie Federica, credevano che facessi l’antiquario: quando conobbi Maldini, gli raccontai le mie avventure come ricercatore di cose antiche e dissi che ero riuscito a trovare presso un raccoglitore due opere inedite di Girolamo Brusaferro, pittore veneziano vissuto tra la fine del seicento e gli inizi del settecento. Ma Maldini seppe subito della mia reale professione…». Un “tormentone” - quello del Brusaferro, nome che l’autore della “Stazione” credette a lungo frutto di uno dei beffardi divertissement parriniani - capace di restituire immediatamente quell’atmosfera – a metà tra l’allegra Accademia da gentiluomini di campagna e l’ombrosa separatezza dell’intellettuale nauseato dalla città – che, vivi Maldini Bartolini (e vegeto) Errante Parrino – fu Santa Marizza, quattro case e tre artisti sprofondati «tra il sonno e una misteriosa felicità» (“Stazione”, cap. I). Il veneziano che – ancora tra le pagine della “Stazione” - restaura una casa vicino a quella del narratore, alimentando una patologica ansia di possesso verso la stessa Santa Marizza, «piccola isola dorata nel dormiente arcipelago della Bassa» (cap. XIII), il veneziano con cui – rotto il ghiaccio di una naturale diffidenza - condividere giochi letterari e omaggi poetici di sapore alessandrino è sempre lui, Salvatore Errante Parrino che – come in un racconto di Borges –nella quotidianità paesana si trasforma paradossalmente in un alias di Gregotti: «L’identificazione Gregotti- Errante venne subito avvertita da chi ci conosceva, ma in modo esagerato e distorto, sino a pensare – Gregotti nel romanzo si ammala e giunge a essere in punto di morte - che io veramente fossi malato». Nell’ottobre 1996, due anni dopo “La stazione di Varmo”, sarà lo stesso Maldini – chiamato a prefare (il testo maldiniano è riprodotto integralmente in seconda di copertina, ndr) un altro catalogo di “Dodo”, epiteto condiviso dalla moglie Federica Ravizza – a cancellarlo pubblicamente dall’anagrafe di carta, restituendolo a una (seppur vagamente sognante) realtà biografica: «Pittore e scrittore, questo Dodo Errante Parrino è un perenne transfuga da se stesso, tra Venezia e il Friuli, tra la grande madre adriatica e la solitudine del più estremo Nord-Est. Se Venezia gli ha dato i natali, la cultura e una memoria storica dalla quale non si prescinde, il Friuli diventa una specie di patria adottiva». Ed è ancora il Friuli, quello del progetto “Terre di Mezzo”, sette Comuni che si guardano dalle due rive del Tagliamento, sprofondati nel verde e nel silenzio della media pianura, a dare asilo a questa nuova mostra di “Dodo il transfuga”, una monografica di venticinque tele appaiate ad altrettante scelte antologiche che Parrino ha tratto dalla “Stazione” e che stanno lì a dimostrare – se di dimostrare ancora si sentisse il bisogno – che tra gli alias reali dell’io narrante e di Gregotti «c’era sintonia, perché parecchi dei dipinti esposti non sono stati realizzati per questa mostra, ma coincidono egualmente con le atmosfere del romanzo». « Voleva che gli insegnassi l’uso del colore – rivela infine l’artista - e ci sarebbero stati altri bei battibecchi. Era un amico: peccato, è morto prima». Davide Lorigliola Coordinatore progetto “Terre di Mezzo”


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