Sul Romanzo, Anno 3 n. 2, apr. 2013

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L’inconfondibile tristezza della torta al limone: • in questo caso, è l’aletta a dare istruzioni di lettura: «Alla vigilia del suo nono compleanno, la timida Rose Eldestein scopre improvvisamente di avere uno strano dono [...]»; poi, dal «San Francisco Chronicle»: «Pochi scrittori riescono altrettanto bene a mescolare in maniera fluida la magia con la quotidianità». La grandissima pecca di entrambi i libri è di escogitare una premessa interessante senza essere in grado di gestirne le conseguenze. Steven Amsterdam immagina una famiglia statunitense con dei problemi e decide di inserire in questo contesto un bambino dotato del potere di cambiare il passato e di donare agli altri qualsiasi capacità soprannaturale desiderino. Aimee Bender ipotizza una bambina in grado di sentire, attraverso il cibo, le emozioni delle persone che hanno cucinato ciò che mangia (risalendo anche ad allevamenti e fabbriche). E cosa se ne fanno, tutti i personaggi, di questa iniziale e potenzialmente buona intuizione? Nulla. Gli autori non sono in grado di reggere le conseguenze della loro premessa e lasciano che il racconto affoghi l’elemento magico nella melassa dell’interazione famigliare. Rose non utilizza il suo potere in altro modo che non sia la scoperta della scappatella materna e si trascina per la sua esistenza romanzesca in fuga dalle ondate di sentimenti altrui, né ciò che sa fare le consente di venire a capo della scomparsa di suo fratello – evidentemente anche lui in possesso di capacità straordinari(ament)e (inutili). Un esempio: Com’è il manzo? Buono, risposi. Oregon? Mi sa di sì, rispose. Hai visto l’etichetta? No, risposi. Ecco. Non è che pretendessi una trama gialla in cui l’abilità di Rose fosse fondamentale per venire

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a capo del pasticciaccio, ma neanche che evitare pasticci cucinati da persone tristi fosse l’unico obiettivo della nostra protagonista: io sono disposta a seguirti, ma tu dove mi stai portando? [A margine: la mala gestio dell’intuizione narrativa è un vecchio problema della Bender: anche ne La ragazza con la gonna in fiamme (trad. di Martina Testa, Minimum Fax, 2012) ci sono abilità con scarsi esiti diegetici, come se a Buzzati venisse in mente solo l’inizio dei suoi racconti e li facesse proseguire all’allievo di una scuola di scrittura. A proposito di scuole di scrittura: la Bender le ha frequentate, lo ha detto al Festivaletteratura di Mantova, a settembre del 2012. Che sia questo il problema? La preoccupazione dello spunto efficace, creativo? L’incontro era sul racconto, con Ermanno Cavazzoni e la moderazione di Salis. Per ironizzare su Baricco, Cavazzoni non ha risparmiato le critiche alle scuole di scrittura: «è come se esistesse una scuola per diventare santi. Non si diventa santi, così come non si diventa scrittori»]. I sette membri della Famiglia con superpoteri avrebbero consentito una moltiplicazione di possibilità narrative: invisibilità, volo, resistenza al nuoto (!), telepatia, capacità di far innamorare le persone, scomparsa e riapparizione di oggetti, manipolazione del tempo. Nessuno dei personaggi, a parte il deus ex machina (il piccolo – poi grande – Alek), però, va oltre lo stupore della scoperta del proprio superpotere; neanche Alek lo sfrutta granché, se non fosse per qualche aggiustamento nelle vite dei propri parenti – e dire che solo su di lui si sarebbe potuto scrivere un intero romanzo.

1 Il proverbio è il corrispettivo inglese del nostrano «L’abito non fa il monaco», e ci sarebbe già da discutere sui bacini metaforici da cui le due culture attingono.

n° 2 • Aprile 2013

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