Lambaradan Maggio 2010

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speciale

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Anno 2 - n. 3 maggio 2010

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Rivista semestrale, n. 3, anno 2010 Iscrizione Registro Stampa Tribunale di Verona n. 1844 Direttore responsabile

Giuseppe Brugnoli - iscr. Albo Giornalisti di Venezia n. 24746

Direttore editoriale

Marianna Brugnoli

Redazione

L&A Studio Legale

Hanno collaborato Tutto lo studio L&A Un particolare ringraziamento A tutti gli amici di L&A In copertina acquerello di Davide Antolini per L&A, 2010 In quarta di copertina, da Giovanna Borgese, Un paese in Tribunale, Mondadori, 1983

Stampa Cierre Grafica via Ciro Ferrari, 5 - Caselle di Sommacampagna (Verona) tel. 045 8580900 - fax 045 8580907 - www.cierrenet.it


Presentazione

Coro misto polifonico in concerto. Quando Lamberto ci ha ricordato che nella primavera del 2010 avremmo festeggiato i 25 anni del suo, oggi nostro, viaggio in solitaria, superata l’ombra di malinconia che ogni ricordare porta dentro di sè, il problema è stato il come festeggiare. Festeggiare o festeggiarsi. Nell’ormai ampio e notorio repertorio che L|A ha sperimentato dal serio al gozzovigliante abbiamo deciso di lasciare a noi stessi qualcosa di scritto. Ed allora cosa meglio di un numero speciale di LAmbaradan, un numero tutto nostro e dei nostri vecchi e nuovi compagni di traversata. Un numero che vuole dire chi siamo oggi e chi eravamo quando siamo partiti. Chissà se si immaginava, chi è partito allora da solo, che oggi avrebbe festeggiato in compagnia, numerosa e rumorosa compagnia dentro e fuori uno studio che di strada ne ha fatta tanta. In macchina, treno, aereo e moto persino, tra Verona, Vicenza, Milano e Roma. Strada nei pensieri, nell’impegno, talvolta nelle preoccupazioni, guardando l’orizzonte e qualche volta le sole vele… “senti le onde e sotto la corrente, lo scopo è di navigare” (Shamandura, E. Finardi). Questo navigare guardando lontano e tenendo però

anche la vista sulle vele, per il puro gusto di andar per mare, è quello che ci consente oggi di festeggiarci in un modo che riteniamo un privilegio raro: ci raccontiamo in una storia collettiva ed in piccoli pezzi individuali, diversi tra loro, ciascuno a suo modo. Il tema era comune ma i risultati che leggerete sono apparentemente diversi: in realtà, per chi conosce o pensa di conoscere i colleghi autori, non poi così diversi nel sentire una professione che è per chi lo sa volere un pezzo di vita e non solo un mestiere. Voci di un coro polifonico misto in concerto: che è la forza del nostro essere uno studio che va dal basso al soprano, di personalità molto diverse, di competenze complementari, di umori che si sanno compensare anche nelle giornate in cui il vento non soffia nelle vele. O quando soffia contrario. Alle nostre voci, che speriamo vi giungano davvero alla fine come un canto corale, si sono aggiunte quelle di tanti nostri amici vecchi e nuovi che ci hanno onorato dei loro auguri. Grazie a tutti, allora, per essere qui oggi con noi a festeggiarci, grazie a chi ha mollato gli ormeggi quella primavera del 1985, con tanta felice imprudenza.

Marianna Brugnoli

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sommario  Presentazione di Marianna Brugnoli

 Zirichiltaggia

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 Cicerone di Gianluca Negri

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 Ravani per naoni. Ovvero i nostri ultimi venticinque anni Anonimo

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 Auguri da... Laura Cattaneo

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 Auguri da... Maurizio Cimetti

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 Il cadetto di Alberto Grigolo

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 Auguri da... Giovanni Alberti

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 Mixed but not di Giovanni Aquaro

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 Avvocato associato mezzo salvato di Lamberto Lambertini

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sommario

 Auguri da... Giuseppe Portale

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 L’asticella di Giovanna Renna

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 Auguri da... Laura Pernigo

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 Auguri da... Franzo Grande Stevens

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 Signorina dottoressa di Marianna Brugnoli

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 Catene affettive di Daniele Maccarrone

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 Auguri da... Paolo Emilio Ferreri

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 Auguri da... Francesco Benatti

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 Gioventù previdente di Diego Mangano

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 Bareta fracà di Debora Cremasco

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 Auguri da... Dario Donella

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 Papè Satan di Alberto Negri

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 Ballerina di Chiara Pigozzi

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 Auguri da... Pietro Rescigno

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 La sfida di Federico Cena

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 Riflettendo di Davide Pachera

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 Auguri da... Piero Ostellino

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 Auguri da... Giuliano Urbani

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 Da dove veniamo di Marzia Meneghello

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 Un milione di dollari di Arianna Segala

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 Auguri da... Stefano Troiano

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 Auguri da... Francesco Abate

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 Nuove competenze di Nicola Grigoletto

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 Lasciapassare a 38 di Francesco Stocco

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 Avvocatite di Alessia Barbalace

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 Auguri da... Giovanni Tantini

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anonimo

Ravani per naoni. Ovvero i nostri ultimi venticinque anni Il 1985 è stato un anno importante per Verona ed anche per il nostro studio. La squadra di calcio cittadina (allora unica, militando il Chievo in promozione) vinceva lo scudetto. Il giro d’Italia, che sarebbe stato vinto da Bernard Hinault, partiva dall’Arena. Il 6 maggio un pezzo d’intonaco cadeva sulla scrivania di un cancelliere del nostro Tribunale, lui provvidenzialmente assente, e cominciava la ricerca di una nuova sede, con l’abbandono definitivo dei Palazzi Scaligeri. Dal gennaio il nostro studio aveva imboccato grazie a Giovanni la propria autonoma strada, originandosi da una costola dello Studio Donella, l’associazione legale più numerosa nel Veneto ed il cui socio anziano stava già allora offrendo intelligenza e fatica alla riformata Cassa di previdenza. Allontanando un po’ la prospettiva, ci si rende conto del tempo passato: Reagan governava l’America, Pertini stava lasciando la Presidenza della Repubblica a Cossiga, Silvio Berlusconi era il presidente della Edilnord, impegnata a costruire Milano 2, mentre Milano era da bere e stava cedendo la propria supremazia morale. Alla televisione c’erano “Quelli della notte” e tutti cantavamo con Neruda che di giorno si suda. Gli avvocati italiani erano meno di quaranta mila e quelli veronesi meno di cinquecento; i praticanti crescevano a bottega; gli studi più importanti, a livello nazionale e locale, erano composti da pochi professionisti, non sempre legati da un rapporto associativo. I contatti con l’estero erano pochi e si poteva felicemente (quasi) ignorare l’inglese, che il giorno del giudizio non sarebbe servito, (noi comunque) felici di rappresentare nel Nord una maison parigina, con connessi viaggi di lavoro (?) nella capitale francese. Le specializzazioni cominciavano ad affacciarsi, ma spesso tutti facevano tutto. Noi non facevamo eccezione: eravamo contemporaneamente impegnati in Assise, per un processo indiziario che appassionava la città e oppositori a Trieste della scalata finanziaria alla Tripcovich, centenaria società di trasporti navali, che di lì a poco sarebbe stata portata ad un fallimen-

to rovinoso dallo spregiudicato scalatore Della Zonca; difendevamo la Tiberghien, da alcuni impiegati alla caccia della qualifica di dirigenti, dopo che il Comune aveva ceduto la proprietà al gruppo Mazzocchi; ci appassionavamo alle iniziative di GianBattista Rossi per la cooperazione e la finanza solidale; aiutavamo il vecchio patron Garonzi a recuperare soldi dalla vendita del Verona Hellas. La frequentazione di codici e processi diversi, pur faticosa, arricchiva nel contatto personale e dava l’impressione di un’esperienza professionale completa. Ma nel rapporto con gli esperti, che spesso il cliente affiancava (Vincenzo Stanchi nel lavoro, Luigi Devoto o Giuliano Spazzali nel penale, Piergiusto Jaeger nel commerciale) risultava evidente la superiorità di un’organizzazione specialistica del lavoro che faceva meglio risaltare anche le capacità personali, spesso di per sé straordinarie, dei grandi specialisti citati. L’invito a cercare una prevalente attività era nelle cose e superava la paura di rinunciare ad una parte delle soddisfazioni, anche economiche, che si ricevevano dal fantuttismo. Così, coniugando l’interesse scientifico ad una valutazione (molto alla buona) di quello che ancora non si chiamava mercato della professione, ci si decise per il commerciale e, all’interno di questo vasto mare, per il societario. A quel tempo non esisteva ancora il telefax, pochissimi usavano la telescrivente, le macchine da scrivere avevano una memoria di due righe (se ci si poteva permettere l’Olivetti 121), per fare copie si usava la carta carbone, il telefono aveva filo e cornetta. Dunque I ritmi lavorativi e la pressione dei clienti erano tollerabili e consentivano ampi spazi per studiare e per formarsi un bagaglio di conoscenze adeguato alla difficoltà della materia di specializzazione prescelta. Ci eravamo dati tre anni e ne servirono diversi in più, ma ci stupimmo allora (e continuiamo a stupirci ancora oggi) della scarsità numerica di professionisti specializzati in questo settore. La scommessa è stata vinta ed allo studio è stata riconosciuta una competenza nella specializzazione.

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Non sappiamo, oggi, se definire questo percorso un successo. Di fatto però è stato, ed è tuttora, appassionante possedere e cercare di mantenere una conoscenza approfondita di norme e procedure strettamente legate all’andamento economico dell’area geografica in cui si vive ed in cui si esercita la propria attività: la funzione professionale non è solo ancillare, ma può diventare un contributo alla formazione ed al rispetto di regole di comportamento razionali nell’agire economico. Peraltro eravamo e siamo convinti che il mestiere di avvocato richieda una partecipazione attiva alla comunità, non solo cercando di comprenderne le dinamiche economiche e sociali, ma favorendo la cultura delle regole e della legalità. È nostra ferma convinzione che questa partecipazione non si realizzi dandosi direttamente alla politica: le schiere di avvocati, da sempre in Parlamento, non hanno migliorato l’amministrazione della giustizia in Italia. Ci sembra invece necessario partecipare alla vita delle associazioni e delle istituzioni forensi, per comprendere e per svolgere meglio il proprio ruolo, all’interno della società, per raccogliere gli elementi vivi della tradizione, per farsi sentire con la forza necessaria. Per questo militiamo oggi come allora in una associazione nazionale, ne abbiamo diretto, a suo tempo, l’organo di stampa; per questo abbiamo contribuito al nostro ordine e abbiamo molte perplessità a credere che il futuro dell’avvocatura stia nella soppressione degli organi di autogoverno. Mentre il mondo cambiava (la caduta del muro di Berlino dava il colpo di grazia alle ideologie politiche e preparava la fine del sistema di governo del dopoguerra italiano; la dimensione dei commerci cresceva e diveniva mondiale; l’industria cedeva al terziario; il computer, il telefono portatile, Internet, la posta elettronica stravolgevano il modo di vivere di ciascuno di noi), anche la professione andava mutando nel suo farsi e nei suoi protagonisti. Arrivarono negli anni ‘90 gli studi stranieri, non solo al seguito delle multinazionali, ma per occupare spazi italiani, importando nuovi strumenti di acquisizione e finanziamento delle imprese, nuovi prodotti finanziari, una contrattualistica autoreferente ed in lingua inglese, il distacco dal contenzioso, la tariffa oraria, il patto sul compenso. Si richiedeva una figura professionale diversa e cominciarono le fusioni tra studi per raggiungere livelli dimensionali adeguati ad operazioni di grande complessità (Telecom suonò la sveglia). Gli avvocati d’affari (termine desueto, dopo la condanna definitiva di Previti) non erano soltanto Bisconti o

Chiomenti, così come le grandi questioni non erano più appannaggio di pochi professori universitari. Anche noi allora coltivammo un rapporto di amicizia con uno studio nazionale ed imparammo a pensare un po’ più in grande (grazie Claudio!), soprattutto per la necessità di implementare la conoscenza in settori nuovi: il diritto pubblico nella fase di privatizzazione, la proprietà intellettuale nella fase di sviluppo delle nuove tecnologie, i finanziamenti strutturati alle imprese, come altre specializzazioni settoriali sono state le materie di cui si appropriavano i giovani professionisti di dieci anni fa, che hanno trasformato lo studio in un gruppo coeso ed indipendente dalle singole persone. Con nuove basi e nuove motivazioni, ci sentivamo in grado di allargare l’area del nostro lavoro, anche per le opportunità che i nuovi strumenti tecnologici (portatili e tuttavia sempre collegati al centro) ci offrivano. Ci fu più facile mantenere i rapporti lavorativi che avevamo instaurato a Vicenza con professionisti autorevoli e capaci, e cominciammo ad accarezzare l’idea di stabilirvi una sede autonoma. E così è stato ed oggi siamo lieti di lavorare in una delle realtà economicamente più vivaci del nostro paese, ricevendone sollecitazioni professionali di grande interesse. E, con lo stesso spirito, fu poi la volta di Milano e ben presto di Roma, alla ricerca di una dimensione adeguata alle necessità di coloro a cui rivolgiamo il nostro lavoro. E qui dobbiamo rivelare un piccolo segreto: coloro ai quali da venticinque anni ci rivolgiamo sono i professionisti che ci associano nella gestione di una pratica, ritenendoci competenti ed affidabili. E questa nostra preferenza si spiega facilmente: al professionista (sia esso avvocato o commercialista) non si può raccontare la fava e la rava, non si possono offrire illusioni, non si può mentire sulle proprie conoscenze, non si possono propinare parcelle rapinose. Di più: dal contatto con il professionista amico si esce arricchiti di esperienza e di conoscenza, cosa che non sempre avviene con il cliente comune. Questo nostro prezioso avviamento è dunque basato su di un rapporto di stima reciproca (che dura spesso decenni), nel quale tutte le parti sono impegnate a dare il meglio per integrare le proprie competenze, per realizzare la propria professionalità in amichevole e proficua competizione. Questi rapporti profondi non pesano sull’organizzazione dello studio: il gruppo di lavoro si forma di volta in volta, a seconda delle questioni trattate e delle problematiche da affrontare. Questa è da sempre la nostra risposta alle aggregazioni professionali troppo numerose e quindi troppo rigide e costose.


Di certo siamo e siamo considerati numericamente pochi per qualche operazione di grande rilievo. Pazienza! Con questi numeri però abbiamo affrontato questa negativa congiuntura economica senza rinunciare alla nostra indipendenza, alle collaborazioni interne, alle nostre sedi, alle nostre comodità organizzative, alla nostra tranquillità di guadagno. Non siamo sicuri che sia successo così a tutti. Peraltro la crisi economica ha dimostrato che il lavoro va affrontato in modo organizzato e dunque in associazione tra professionisti è solo condividendo spese e guadagni, speranze e progetti, che si può pensare di comprendere la complessità delle questioni giuridiche, di offrire un servizio costante, in parte almeno, indipendente dalla nostra singola

persona, dai raffreddori, dai periodi di ricostituente vacanza. Solo un gruppo coeso può accettare, come spesso avviene, incarichi particolarmente scomodi, anche se giuridicamente interessanti ed eticamente commendevoli, non fosse altro perché combattono la tendenza alle scelte così comode da assomigliare all’ignavia. Solo in gruppo ci si può mantenere indipendenti ed autonomi e, quando la paura (così quotidiana, non fosse altro per l’incertezza di risultato insita in questa professione) bussa, si può aprire insieme la porta, non trovando più nessuno. Per questo In venticinque anni, pur diversi per numero, organizzazione e specialità, non abbiamo cambiato idea sul modo per essere avvocati. Insomma, come si dice a Verona siamo partiti ravani e siamo ancora naoni.

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auguri

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lamberto lambertini

Avvocato associato mezzo salvato

Sono stato associato ad uno studio legale 33 anni fa, ed ero il professionista più giovane. Oggi sono associato con altri avvocati e sono, di gran lunga, il più vecchio. Probabilmente non conosco un metodo di lavoro diverso da quello di mettere in comune clienti, speranze, reddito. Dunque non possiedo un’esperienza sufficientemente vasta per poter parlare con competenza dei modelli alternativi di organizzazione della professione: il lupo solitario ed il legalificio sono due realtà che non ho vissuto e che, vedendole praticare in concreto, non riescono a convincermi Lavorare da solo è certamente affascinante, ma per lo meno scomodo: un raffreddore, una vacanza, una pratica molto impegnativa vanificano le possibilità di assistenza professionale, rendono schiavi del ritmo altrui (sia esso cliente, giudice o collega), limitano le possibilità di accrescere competenze e aggiornamento. Forse il lupo solitario ha ragione di esistere solo in situazioni molto particolari: l’assistenza penale e la consulenza ad elevatissima specializzazione. D’altro canto, la spersonalizzazione totale delle fabbriche del diritto limita una qualche diversificazione nella conoscenza, un trattamento fordista del cliente della pratica, un forte distacco dalle dinamiche della comunità in cui si opera. Probabilmente i grandi studi hanno ragione d’essere per operazioni straordinarie di grandissima rilevanza: operazioni assai limitate in Italia e peraltro ben presidiate da pochissime realtà.

A mio modo di vedere, il lavoro condiviso da un gruppo non troppo numeroso è il modo in cui, nelle condizioni in cui opera oggi l’avvocato italiano, si conservano valori fondamentali, quali la solidarietà, il confronto dialettico, lo scambio umano e professionale. La mia esperienza e la mia lode per l’associazionismo non significano però approvare il modo in cui, nel nostro paese, sono regolate queste realtà. E ciò è tanto vero che, nel gruppo di lavoro in cui attualmente mi trovo, non abbiamo scritto regole per circa dieci anni, considerando che solo la reciproca fiducia consentisse di operare con serenità e senza restrizioni. Perché, in realtà, il nostro ordinamento positivo tarda a prendere atto della situazione economica e sociale in cui si opera. E come spesso succede, è la giurisprudenza a regolamentare una realtà mutata. Così la decisione n. 2860 del 9 febbraio 2010 emessa dalla Corte di Cassazione ha affermato la liceità del trasferimento a titolo oneroso di uno studio professionale comprensivo non solo di elementi materiali e degli arredi, ma anche della clientela, essendo configurabile, con riferimento a quest’ultima, non una cessione in senso tecnico (attesi il carattere personale e fiduciario del rapporto tra prestatore d’opera intellettuale e cliente e la necessità, quindi, del conferimento di un nuovo incarico dal cliente al cessionario) ma un complessivo impegno del cedente volto a favorire – attraverso l’assunzione di obblighi positivi di fare (mediante un’attività promozionale di presentazione e di canalizzazione) e negativi di

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non fare (quale il divieto di riprendere ad esercitare la medesima attività nello stesso luogo) – la prosecuzione del rapporto professionale tra vecchi cliente ed il soggetto subentrante”. Si è riaperto così un dibattito sulle condizioni di esercizio delle professioni cosiddette liberali, anche se il principio sopra ricordato non è nuovo, poiché la stessa Corte, già con la sentenza n. 370 dell’8 febbraio 1974, aveva precisato la liceità della cessione di tutti gli elementi che compongono uno studio professionale, anche in relazione alla clientela, in base al principio dell’autonomia contrattuale: il principio era stato successivamente confermato con la sentenza 12 novembre 1979, n. 5848 e trova sistemazione normativa, nel disporre il novellato art. 54, comma 1 quater Testo Unico dell’imposta sui redditi “concorrono a formare il reddito (di lavoro autonomo) i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale”. Il dibattito investe, in modo critico, la timidezza del legislatore nel prevedere la società tra avvocati (D. Lgs. 2 febbraio 2001 n. 96) e la società tra professionisti (D.L. 4 luglio 2006 n. 223) in forme certamente legate alla tradizione, ma altrettanto certamente impermeabili al tessuto sociale in cui l’attività professionale si inserisce. Così si lamenta il mancato riconoscimento della legittimità della partecipazione alle società professionali del socio esclusivamente finanziatore, si lamenta inoltre il ritardo nel prendere atto che, in modo situazioni, lo studio professionale organizza mezzi e strutture con una propria rilevanza strutturale e funzionale, che si impone al di là delle personalità del singolo professionista. Ora, il dibattito sul socio di capitali è francamente stucchevole: si teme che i finanziatori dello studio professionale possano essere la famiglia mafiosa o l’istituzione finanziaria particolarmente rilevante. Non ci si avvede che ciò che si teme è già successo: gli avvocati che accettano tariffe miserabili per recuperare i crediti bancari e quelli che sposano l’organizzazione criminale sono lì a dimostrare che non è certo la previsione delle società di capitali per i professionisti a determinare questi comportamenti. Peraltro basterebbe chiedersi dove i professionisti attingano i denari necessari per far fronte ad alcuni momenti finanziari ciclici (il pagamento delle imposte e della Cassa, i periodi in cui gli incassi ritardano, i periodi di prolungata crisi economica – come quelli in cui viviamo).

E si scopre così che vi è sempre un socio i capitali (il sistema bancario) che esige una remunerazione assai elevata del proprio finanziamento. D’altra parte, la penuria di mezzi finanziari spesso costituisce un ostacolo serio allo sviluppo dell’organizzazione di studio: uffici, attrezzature, collaborazione divengono sempre più costosi e possono essere affrontati razionalmente solo con investimenti di rilievo che un socio di capitali ben potrebbe fornire, senza per questo incidere sulla libertà dell’avvocato, ma semplicemente ricevendo una buona remunerazione per il proprio investimento. Si osservi poi che il mancato riconoscimento di un’organizzazione che superi la personalità del professionista determina ulteriori criticità. In concreto il problema riguarda il conferimento del mandato (alla struttura o al professionista?) con la conseguente responsabilità professionale: sul punto è stata negata l’autonomia strutturale o funzionale dello studio, che non può sostituirsi ai suoi aderenti e non assume la titolarità dei rapporti con i clienti, continuando la stessa a gravare sui singoli associati (Cass. 10 luglio 2006, n. 15633, in Danno e responsabilità, 2007, p. 538 e segg. con commento di D. Covucci). Questa timidezza (diciamo così) a riconoscere l’esistente e a regolarlo sul piano normativo ha conseguenze non secondarie. Non sarà un caso che le società tra avvocati fossero a cinque anni dalle legge solamente 67 e che solo il 15% degli avvocati iscritti alla Cassa di previdenza eserizi la sua attività in forma associata. Il fatto è che, per funzionare, una struttura professionale collettiva necessita di una regolamentazione aderente alle esigenze interne ed esterne: le prime riciedono di contemperare il rapporto organizzativo, con l’affectio societaris che lega i professionisti tra loro. Perché allora non si può associare un giovane aziendalista per consegnargli l’organizzazione dello studio, ove la dimensione dello stesso lo imponga? Con le regole di oggi si dovrebbe associare un avvocato o un commercialista per fargli svolgere quelle mansioni, confidando in capacità organizzative dilettantistiche. Con il che si crea l’equivoco: quando gli studi di grandi dimensioni nominano un avvocato a mananging partner o si condannano all’inefficienza o fanno uso di un avvocato privo delle qualità tipiche della professione. Questo problema può trovare una soluzione, se entrerà in vigore il nuovo art. 4 della riforma dell’ordinamento forense e se il conseguente regolamento permetterà la presenza di una figura professionale in grado di gestire uno studio.


La norma in discussione offre indubbiamente qualche elemento pratico, in grado di migliorare la situazione attuale: le associazioni possono essere multidisciplinari, se ammettono forme di collaborazione nella veste di contratti di associazione in partecipazioni ai sensi degli art. 2549 e segg. del c.c.; si prevedono i casi di esclusione dall’associazione (cancellazione o sospensione dall’albo). Ben altre esigenze interne di una attività professionale associata richiederebbero soluzione: ad esempio una regolamentazione normativa minima ed inderogabile per tutelare gli associati più deboli, in caso di risoluzione del rapporto per esclusione. Nessuno ha raggiunto i vertici del notaio veronese che prevedeva un risarcimento iperbolico (5 milioni di euro) a carico del praticante che avesse abbandonato lo studio. Ma certo è opportuno che il giovane, che viene obbligato ad andarsene, possa contare su di una dote minima, che contrattualmente non potrebbe mai sperare di ottenere. La soluzione è in linea con l’obbligo deontologico di remunerare il lavoro dei collaboratori e potrebbe costituire una remora agli allontanamenti di massa a cui la crisi economica ci costringe ad assistere. Allontanamenti spesso preceduti da strane remunerazioni minime, da restituirsi in condizioni potestativamente decise dallo studio. Occorrerebbe prendere atto che uno studio professionale ha un avviamento da valorizzare in caso di cessione, eliminando così quell’incertezza che ha dato origine alle sentenze sopra ricordate. E poi occorrerebbe dare un sostegno concreto ai professionisti per le associazioni fiscalmente fedeli, con-

sentendo lo sgravio fiscale delle attività legate alla professione: il costo integrale dell’autovettura (come avveniva in passato); il costo integrale dell’aggiornamento; il costo integrale delle pensioni alternative; qualche maggiore spesa di rappresentanza (non si dice, naturalmente, iscrizione al club del golf, ma forse per l’organizzazione di qualche convegno sì). E poi sovvenzioni per l’acquisto di immobili strumentali, facilitazioni fiscali ed organizzative per le società di servizi a supporto dell’attività professionale e così via dicendo. Peraltro, se è vero, come è vero, che l’attività dell’avvocato è costituzionalmente prevista e protetta quale funzione essenziale, forse si dovrebbe prevedere un’imposizione fiscale meno aggressiva, sia in tema di imposte dirette, che in tema di imposte indirette. Con il che peraltro si raggiungerebbe anche il non secondario obiettivo di indurre alla fedeltà quell’ampia fascia di professionisti che spesso giustifica l’evasione come forma di autodifesa di un reddito incerto e spesso ben poco gratificante. La strada per dare vera regolamentazione ai bisogni concreti dell’organizzazione professionale sembra ancora lunga. Molto più lunga di quei 30 anni e più passati da chi scrive in associazione con altri colleghi. Ma la si dovrà percorrere se si vuole che l’avvocato continui a rappresentare nella società un’autorità indipendente da qualunque potere, un regolatore indispensabile delle dinamiche sociali, il necessario compositore del conflitto. Lamberto Lambertini

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auguri

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giovanna renna

L’asticella

Un anno e mezzo fa i primi colloqui. Tra tavoli d’ebano, arazzi e poltrone in pelle di fantozziana memoria, occhi sgranati su facce bianco – basìte mi chiedevano con sgomento: “dottoressa, ma è proprio sicura?”, “dottoressa, ma… ci ha pensato bene?”. A seguire, dettagliato pronostico su quanto avrei dovuto faticare nei successivi due anni per ottenere in cambio un bel paio di occhiaie da panda in prossimità dell’esame (“ah sì, lo sa che l’anno scorso è passato solo il 20% degli iscritti, vero?!”). Decisa a non cedere così presto alla tentazione di fantasticare su come sarebbe andata se avessi fatto architettura (cit.), mi rifugiavo nell’entusiasmo di mia madre, generato dalla somma mentale di due granitiche convinzioni: quella per cui ogni avvocato sarebbe una specie di creatura mitologica per metà uomo e per metà Perry Mason e quella per cui probabilmente un piccolo esemplare di questa leggen-

daria chimera si aggirava per casa sua ciondolando da diversi anni. Nei mesi successivi, mentre mi guardavo girare come un derviscio tra udienze, lezioni e pagine sfogliate furiosamente, a tratti avvertivo – non senza meraviglia – che a poco a poco sembrava prendere forma la strana giostra su cui avevo deciso di salire. E allora quale momento migliore – direte voi – per rispondere a quelle insidiose domande di un anno e mezzo fa che ora incombono minacciose dalle prime righe? Vero! Ma non appena ci avevo provato, ero stata a mia volta presa da una inaspettata sensazione: forse che in quella specie di scala su cui ognuno, in gran segreto, fissa il livello di ciò che si aspetta da se stesso, io da allora avevo – ahimè – irrimediabilmente alzato l’asticella? Giovanna Renna

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auguri

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auguri

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daniele maccarrone

Catene affettive

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Scrivo queste righe con l’imbarazzo che mi deriva dall’avere partecipato, seppure per gli ultimi dieci anni, alla storia dello Studio e dal dovere, per gli altri quindici, parlare bene di una persona ancora in vita, giocandomi anzitempo tutti gli argomenti che pensavo di utilizzare, quando tra cent’anni, deciderà di affidarci soltanto il suo ricordo. Ma l’anniversario è troppo importante per fermarmi davanti a questi dettagli. Parlo di me prima che dello Studio. Nel 1985, anno di fondazione (i bene informati raccontano che corresse il mese di gennaio), non avevo ancora compiuto dodici anni, frequentavo – col buon profitto di chi non vuole noie a casa – la seconda media di una disastrata scuola della Provincia di Catania, ma, ed in questo sta forse lo snodo della mia vita professionale, in primavera venivo in gita scolastica a Verona. Devo dire che ricordo poco di quella settimana: le bandiere esposte ai balconi per la gioia che a breve l’Hellas avrebbe regalato ai propri tifosi (ignari, per fortuna, dei dispiaceri che la storia sportiva della squadra avrebbe loro riservato per i venticinque anni successivi) ed il continuo ed innocente pellegrinaggio da una stanza all’altra dell’albergo, al tempo in cui la massima concessione all’erotismo era vedere le compagne nascoste dentro i pigiamoni rosa, rigorosamente felpati. Perché, si sa, per le mamme del sud, al nord fa sempre freddo, d’inverno come d’estate. Non mi sono accorto mentre ascoltavo annoiato la storia del “balcone di Giulietta e Romeo”, che adesso so essere il più evidente abuso edilizio della città di Verona, che il mio socio fondatore si stesse rendendo professionalmente autonomo, dando vita a quella che, dopo

quindici anni, sarebbe diventata la mia casa professionale. Anche se l’avessi saputo però, avrei potuto fare poco. Per me quelli erano gli anni della piena inconsapevolezza. I fatti di cronaca della mia terra, tutti colorati di rosso sangue, mi lasciavano ancora sostanzialmente indifferente. Ricordo solo il brivido che mi percorse la schiena nel vedere i corpi del Generale Dalla Chiesa e della moglie Emanuela riversi all’interno della loro A112; era il settembre del 1982, provai un brivido e nient’altro. Ricordo ancora i discorsi preoccupati dei miei genitori che, davanti alla lunga e minacciosa eruzione dell’Etna del 1983, manifestavano l’intenzione di vendere la nostra casa, inopportunamente costruita alle pendici di quel vulcano. Ricordo pure la mia battuta, che trovavo divertente ma non venne mai apprezzata, sull’estrema difficoltà di trovare un acquirente diverso da Satana, l’unico che con il fuoco poteva avere una certa dimestichezza, come avevo imparato in quegli anni al catechismo. Dopo la scuola media venne il liceo classico, come da buona tradizione di famiglia: il pranzo del 4 dicembre per la festa della Santa patrona, i carciofi alla brace il lunedì di pasquetta, la vendemmia l’ultima domenica di ottobre ed appunto gli studi classici. Poteva andarmi peggio, non c’è dubbio. I boati, i crateri, le macerie e le immagini crude della Sicilia bombarola degli anni ’90 hanno affrettato la crescita e reso quasi inevitabile l’iscrizione a giurisprudenza, benché la mia fosse una famiglia di medici. La mia terra però a quel tempo (ma il tempo dalle mie parti fa fatica a passare) non aveva bisogno di medici e di medicine. Alle bombe non si sopravvive, dopo le bombe non si va certo in ospedale, non c’è motivo per farlo.


La mia terra aveva bisogno di legalità e quindi di diritto. Da qui le ragioni di una scelta che fu di studio, ma non solo. Cominciò infatti, il tempo dell’impegno sociale, le iniziative a sostegno del disagio giovanile, le occupazioni quasi abusive di spazi lasciati all’incuria del tempo, le apparizioni televisive nazionali, in quelli che ancora non si chiamavano talk show, a sostegno di idee e progetti frutto di un’utopia ubriaca ed irrispettosa del torpore dei più. Come da peggiore tradizione del nostro Paese, arrivò presto il tempo degli scontri con le istituzioni civili e religiose, delle minacce, delle denunce anonime, delle prime laceranti delusioni. Insomma, sono stati anni molto intensi, non ci siamo fatti mancare nulla. Sul piano professionale, la scelta per il diritto amministrativo è stata la logica conseguenza di quel ritrovato impegno sociale. In una Regione nella quale l’Amministrazione non è solo la (cattiva) erogatrice dei servizi essenziali, ma incide molto sulla realtà socio-economica, triste come le reti dei pescatori di quel film di Troisi, il rapporto tra la stessa ed il cittadino assume certamente un ruolo centrale. In Sicilia più che altrove, l’erogazione di un contributo, la partecipazione ad un concorso pubblico, l’affidamento di un appalto, rappresentano occasioni irrinunciabili dalle quali spesso dipendono le sorti di una famiglia. Conseguita la laurea nel tempo strettamente a ciò necessario, la scelta della palestra nella quale esercitare l’attività professionale fu assolutamente accidentale, ma – come tutte le cose occorse per caso – si rivelò particolarmente azzeccata. Il 31 luglio del 1993 infatti, con un provvedimento assolutamente ingiusto (in considerazione delle tante porcherie che il mondo del calcio di lì a poco ci avrebbe svelato), il Calcio Catania venne radiato da tutti i campionati, per non avere presentato entro il termine perentorio del 30 luglio ore 19.00, la somma necessaria per l’iscrizione. A nulla valsero gli sforzi dell’allora Presidente Cavaliere Angelo Massimino, uomo noto ai più per avere dichiarato guerra alla lingua italiana, che il giorno dopo si presentò in Via Allegri a Roma, presso la sede della FIGC, mettendo sul tavolo dell’allora Presidente Matarrese (a dimostrazione che il tempo non solo in Sicilia fa fatica a passare) una valigetta con due miliardi delle vecchie lire, in tagli piccoli (probabilmente per sembrare di più). Il Calcio Catania affidò allora la propria legittima e purtroppo infruttuosa difesa all’Avv. Andrea Scuderi, noto amministrativista cittadino, che divenne di lì a poco il mio maestro professionale. Ad Andrea Scuderi,

tagliente interprete e precursore della complessa realtà amministrativa in evoluzione, devo riconoscere il merito di avere consolidato definitivamente in me la propensione per il diritto amministrativo e di avermi dimostrato che è possibile operare in una terra particolare come la nostra con grande senso pratico ed assoluto rigore scientifico e morale. Dopo oltre cinque anni di intensa e proficua formazione, alcune faccende affettive mi hanno portato a Verona dove ho avuto la fortuna professionale di prendere parte attivamente alla storia dello Studio del quale oggi, con un pizzico di orgoglio, festeggiamo il venticinquesimo. Devo dire onestamente che non è stato facile il contatto fisico con la città: ho trascorso il primo anno cercando alla mia sinistra l’Etna con la sua quasi perenne “fumarola” ed alla mia destra il mare. Ho capito a fatica, dopo mesi, che non sempre un bel panorama si perde nel mare e che il lago non è il surrogato, insipido, del primo, benché ancora oggi io mi rifiuti di mettervi piede. Per questo motivo ho trascorso gran parte delle mie giornate a Palazzo Canossa, dove le soddisfazioni professionali, l’affetto dei miei tre soci, con le annesse complicità divertite, hanno supplito al resto. Col tempo ho imparato a conoscere ed apprezzare il territorio: ho capito che le granite siciliane le sanno fare in Piazza San Zeno di fronte alla Basilica, che i veri arancini si trovano dallo zio Ciccio in via Tombetta, che i cannoli di ricotta, dopo la chiusura della Pasticceria Rosa di Via Garibaldi, si possono mangiare solo da Carollo in Borgo Venezia, che le vere arance tarocco polpa rossa si trovano nell’ortofrutta di Francesco, in Piazza Vittorio Veneto. Perché i terroni siamo fatti così: possiamo andare in capo al mondo, ma abbiamo bisogno di quei tre-quattro punti di riferimento che ci fanno sentire a casa, pur essendo – sostengono alcuni – in terra straniera. D’altra parte come scrive Pino Caruso, bravo attore e scrittore, “noi siciliani abbiamo tutto, è il resto che ci manca”. Col tempo sono arrivate le amicizie vere, le scelte affettive importanti e la piccola e chiassosa Matilde, per alcuni doveroso riconoscimento al palazzo che mi ha ospitato. La scommessa professionale che abbiamo fatto non era semplice e la riuscita dell’iniziativa tutt’altro che scontata: sono venuto a fare diritto amministrativo in una struttura che storicamente veniva riconosciuta dedita, quasi esclusivamente, al diritto commerciale. L’evoluzione del diritto amministrativo con la riforma del processo, la privatizzazione degli enti ed in parte dell’attività, le tendenze federaliste lasciavano tuttavia intravedere territori di intervento comune. In ef-

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fetti sempre più spesso abbiamo dovuto inforcare sia le lenti del civilista che quelle dell’amministrativista, per riuscire ad avere una visione nitida del caso giuridico che ci veniva posto. La storia di questi dieci anni dimostra come quella intuizione, la cui paternità spetta esclusivamente al mio socio fondatore, restando a me soltanto l’incoscienza di averci creduto, fosse perfettamente corretta. Ricordo ancora il primo ricorso al Tar del Veneto avverso un giudizio di non ammissione alla prova orale di un concorso pubblico; a questo seguirono diverse questioni in materia edilizia, le impugnative dei Piani Regolatori; ben presto arrivarono gli appalti, i problemi delle società a partecipazione pubblica, le questioni delle concessionarie autostradali, gli impianti di distribuzione di carburante, le vicende legate ai centri commerciali e tutto quanto ruota attorno alla Pubblica Amministrazione. Oggi una parte dello Studio è quasi esclusivamente dedicata a questioni di diritto amministrativo. A quelle nelle quali riteniamo possibile che la pretesa del cliente, sia esso un privato o un ente pubblico, sia conciliabile con l’esigenza di giustizia vera alla quale, secondo me, la nostra professione deve restare al servizio. Non credo, per parlare con metafore, che l’avvocato sia l’autobus di linea, più o meno accessoriato, che il cliente prende per raggiungere un determinato scopo. Credo al contrario, che l’avvocato debba interpretare l’esigenza del cliente dando alla stessa la giusta veste giuridica. Per fare questo però, è necessario che l’avvocato pesi e condivida le ragioni del cliente. Solo così, potrà scrivere ed argomentare in modo vivo, dando un’anima ed un volto alle “carte” e lasciando trasparire dietro di queste la vicenda umana grande o piccola che sia. Perché, non dimentichiamolo, ogni vicenda andrà decisa dai Giudici che, benché seduti su uno scranno, sono uomini. Per questo, vado quasi orgoglioso della volta in cui ho rifiutato l’incarico di un Comune che mi chiedeva di impugnare il diniego regionale comminato ad una variante allo strumento urbanistico generale che prevedeva una edificazione esasperata in danno di un territorio già abbondantemente compromesso e ricordo con lo stesso piacere la volta in cui la condotta di una gara d’appalto non mi è sembrata così lineare da meritare l’intervento del nostro Studio. Se al mio dominus catanese devo il merito di avermi avviato seriamente al diritto amministrativo, al mio socio fondatore veronese devo indubbiamente riconoscere il merito di avere consolidato in me un’idea della professione come strumento per la corretta composizione dei conflitti, senza equivoci o condizionamenti di sorta. Ma

ha fatto di più. Mi ha avviato al mangiare ed al bere bene. Mi ha indicato il miglior camiciaio di Verona. Mi ha condotto professionalmente dove volevo andare, anche se – prima di partire – non lo sapevo ancora. Non è stato facile, spesso le sue intuizioni non sono state immediatamente capite e sono sembrate delle imposizioni. È dell’altro giorno la mia e-mail con la quale, neanche troppo scherzosamente, evidenziavo che “il principio dell’autodeterminazione (nel senso illuministico del termine: “incapacità di servirsi dell’intelletto senza la guida di un altro”) a volte non trova spazio nel nostro studio”. Mi ha risposto immediatamente in maniera icastica: “reciproche catene affettive”. In questo sta il nostro studio. Le quattro sedi effettive, la doppia sede veronese, i tanti rapporti di amicizia costruiti in questi anni in ambito nazionale per dare un respiro diverso al nostro quotidiano, le tante iniziative formative, gli incontri coi “vecchi” del diritto, l’appuntamento fisso sulla nostra terrazza romana, la nostra rivista di studio sono soltanto alcune di quelle intuizioni. Per dieci anni non ci siamo dati regole scritte, perché abbiamo ritenuto che non ce ne fosse bisogno; nelle occasioni in cui abbiamo parlato di denaro, abbiamo discusso solo perché qualcuno voleva dare di più all’altro. Solo quest’anno, dovendo istituzionalizzare un modello da proporre all’esterno, ci siamo dati delle regole scritte. Io stesso che pure ho pensato e redatto lo statuto, ritengo di gran lunga migliori le regole precedenti, che appunto non avevamo. Questo modo di fare la professione ci ha sottratto tempo, abbiamo compresso le nostre vacanze fino a renderle una finzione per chi ci sta accanto, abbiamo aumentato le ore dedicate al quotidiano, sottraendo spesso tempo ai nostri affetti. Non so quanti altri anniversari riusciremo a festeggiare, non solo perché l’infarto ha deciso di dimidiare il nostro albo portandoci via nell’ultimo mese stimati colleghi, ma perché sinceramente non credo nei rapporti eterni di qualunque natura questi siano. So per certo che l’attuale esperienza professionale mi è constata fatica, ma mi ha dato tanto. E di questo sono sinceramente grato ai miei primi sodali Lamberto, Marianna e Debora, come agli altri, soci fidati, colleghi bravi, collaboratori valenti, segretarie devote. Se Lamberto, ripete spesso che “siamo partiti ravani e siamo tornati naoni”, io posso dire nel mio dialetto “iunciti cu lu megghiu e perdicci li spisi”, ben sapendo che per farlo capire agli italiani del continente devo tradurlo in inglese “mix with best people, even if it involves some efforts”. Daniele Maccarrone


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debora cremasco

Bareta fracà

Quasi due decenni di professione, di cui la metà come socia di L|A, a trattare conflitti societari, acquisizioni e vendite di aziende e quote sociali, finanziamenti alle imprese e crisi delle medesime, consentono di auspicare che nell’economia entri più diritto. In un’epoca di abolizione di controlli sugli atti e sulle strutture societarie, mi piace pensare che in qualche modo il nostro fare la professione possa servire un po’ anche a garantire quella legalità per una base più solida delle imprese del nostro territorio, ove vige ancora spesso il concetto che le norme siano lacci e lacciuoli che limitano l’impetuoso crescere degli spiriti animali, per evitare la dannosa creatività finanziaria in cui sono incappati aziende ed enti territoriali, per cambiare le regole e per regolare il cambiamento di una società basata sul denaro, dimentica dei valori di rispetto e solidarietà. Il denaro è divenuto, infatti, simbolo di valore per antonomasia: per convenzione sociale cristallizza valori, li compara, li fraziona, li ricompone, li permuta, li mette in circolo. Ma proprio per questo, sullo sfondo è necessario si stagli una vocazione a maturare una realtà che integri il perentorio materiale con lo sviluppo dei valori che ognuno di noi, nella sua singolarità, porta con sé. Nella sua stessa etimologia la parola economia (da oikos e nomos) racchiude il concetto di “norma”o di “legge” e, se la politica vuole le Banche, la società vuole serietà e rigore nell’economia e nella finanza. È attraverso la neutralità solo apparente del denaro che si gioca lo schema della possibile libertà delle persone, sia di chi organizza la produzione e il commercio, sia di chi presta la propria forza lavorativa.

Il modo di strutturare la distribuzione del capitale sociale così come la governance societaria, i rapporti finanziari o le funzioni dei singoli, non fanno altro che restituire relazioni possibili, dipendenze, autonomie e opportunità. Viceversa la stasi nelle relazioni economicopatrimoniali e negli assetti gestionali può soffocare la libertà di espressione sia in campo professionale che personale. Forse l’economia ha bisogno di porre dei limiti alla propria crescita, sicuramente non il professionista alle sue capacità professionali. Tra le possibili specializzazioni giuridiche quella del diritto societario e della corporate finance è stata una scelta quasi obbligata dopo una laurea in economia ed una approfondita esperienza nell’affrontare rapporti economici complessi. Mi sono, però, resa conto nel corso di questi anni di professione, che anche occupandomi di società, aziende e patrimoni, è la qualità dei rapporti personali che scorre fra le righe di ogni realtà. Le aziende risentono direttamente dello stile di chi le ha fondate, il benessere delle persone che contribuiscono alla loro crescita è strettamente in relazione alla “visione” del loro fondatore. Le società e le organizzazioni produttive o finanziarie hanno molto spesso una vita più lunga di quella di coloro che le hanno costituite e i periodi di transizione e di passaggio da una mano all’altra comportano il rispetto di equilibri che non sono solo di carattere tecnico economico, ma anche e soprattutto relazionale. La migliore organizzazione dei rapporti patrimoni ha un peso determinante sia sull’andamento economico

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degli organismi produttivi sia nella vita di tutti coloro che in queste attività sono implicati, anche in modo indiretto. Sento sempre di più che la qualità della nostra comunità sociale passa attraverso i fili del tessuto economico e che la chiarezza guadagnata in una buona organizzazione societaria, la correttezza e la serietà nei rapporti economici e nelle relazioni che ne derivano, rimangono guadagnati anche su altri piani. Mi piace pensare che obiettivo individuale e collettivo del nostro studio sia l’eccellenza e non il successo, l’indipendenza e non la scalata sociale, l’autorevolezza e non la protervia della conoscenza e che nel settore apparentemente arido dell’economia, sappiamo elaborare il valore della responsabilità. La fiducia reciproca, il metodo comune di lavoro e la comunione di intenti ci consentono di mettere al centro dell’attività l’etica della responsabilità personale. La scelta condivisa del nostro studio si discosta da un sistema volto alla crescita dimensionale o ad un approccio disinvolto quali leve strategiche di sviluppo e

di posizionamento di mercato. Crediamo nella cultura della professione, nella consapevolezza che sono le competenze, l’esperienza e le capacità di comprensione e di intervento il nostro vero vantaggio competitivo. Forse per questo in un anno di crisi come quello trascorso, in cui molti grandi studi hanno subito battute d’arresto derivanti da una strutturazione complessa ed una vocazione alle grandi operazioni finanziarie, abbiamo constatato la capacità attrattiva della competenza e l’efficienza della flessibilità. Ogni giorno di lavoro porta, quindi, in sé l’aspirazione a lavorare bene, guadagnando la fiducia, ricevendo il rispetto dei clienti, dei professionisti, dei magistrati; la soddisfazione di crescere nell’esperienza e nelle capacità, senza guardare indietro se non per apprezzare qualche miglioramento. “Quanto manca alla vetta? “; “Tu sali e non pensarci!” (F.W. Nietzsche), che in veneto equivale a “testa bassa e bareta fracà”. Debora Cremasco


alberto negri

Papè satan

Avevo da pochissimo finito di scrivere la mia pregiatissima (!) tesi di laurea in diritto commerciale, quando venni aggredito dai mille dubbi che assalgono i laureati/praticanti. “E ora? Praticantato o scuola per le professioni forensi?” “Dove trovo uno studio legale serio?” “Ma io voglio fare il magistrato, e non l’avvocato! Se però mi mandano alla Procura di... ?” E, a volte, dubbi ancora più alti e impossibili mi attanagliavano la mente: “E se provassi il dottorato di ricerca in materia di diritto ambientale?!”. “No dai, si tenta il tutto e per tutto... Notariato!” La reazione fu una sommossa interiore contro quegli assurdi pensieri… Giorni senza risposte nonostante fossi stato disponibile ad un qualsiasi lavoro servile tanta era la voglia di evadere dalle aule sorde e grigie dell’Università. Decisi per il praticantato. Individuai lo Studio Legale e dopo alcune settimane di trepidazione ero a colloquio con il Dominus. Stavo camminando verso lo Studio per il fatidico colloquio. Non ero teso, ma sentivo il nodo della cravatta stringere il mio collo agonizzante dal caldo, che in quei giorni imprigionava la città. Con la mente mi stavo preparando un discorso per l’eventualità che il Dominus mi avesse fatto la fatale domanda: “Per quale motivo Lei ha scelto questa Professione?” Mi ero preparato. Avrei tirato fuori una citazione a sorpresa. Una di quelle citazioni che mai nessuno aveva sentito prima, lasciando così l’interlocutore stupito e ammaliato.

Sì, avevo trovato una frase di Iperide, tratta dalla sconosciuta Orazione per Eussenippo. A quella domanda avrei risposto fiero e altezzoso: “Sa, Avvocato, questa Professione è la più nobile e alta di tutte… Anzi, per usare le celebri parole di Iperide ‘fra le istituzioni molto belle della nostra Atene ne esiste qualcuna più bella e democratica dell’assistenza nella difesa? Se un individuo si trova invischiato in un processo pericoloso e non è capace di difendersi, chiunque lo voglia tra i cittadini può salire alla tribuna e aiutarlo, e può fornire alla Corte gli strumenti per giudicare il caso conforme al diritto’ ”. Caspita!!! Forse era troppo colta!!! Intanto, percorrevo le strade della mia città e mi veniva in mente quella canzone degli U2, Where the streets have no name. Il fatto è che quando i tuoi pensieri sono diretti altrove, anche le strade della tua città non ti parlano più, semplicemente perché non presti più attenzione a nulla. Ma così era. Non ritrovai la piazza dove i “grandi”, con quel surrogato di coraggio dato dal gruppo, ti avevano fatto capire – con materiali argomenti – che preferivano non averti con loro; o quel ponte lungo il quale eri riuscito, finalmente, a trovare le parole per la tua prima dichiarazione; o l’incrocio dove, fiero possessore di foglio rosa, avevi distrutto la vettura paterna, con grave vulnus per il tuo amor proprio, in via principale, e pesanti conseguenze per il conto corrente di papà, in via subordinata. Giunto finalmente allo Studio mi accorgevo che sulla mia camicia azzurra si stagliavano delle grandi chiazze di sudore.

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Accidenti... e adesso? Non potevo tirarmi indietro proprio ora. Suonai il campanello dello Studio Legale, ma nessuno mi sentiva. La porta era tuttavia aperta. Allora entrai quatto quatto, sibilando un timido “Permesso”. Niente. Allora entrai in reception e con tono risoluto ripetei “Permesso!”. Una segretaria alzò lo sguardo e vedendomi capì subito che ero l’aspirante praticante. “Buon giorno, l’Avvocato l’aspetta... Mi segua!” Passammo da un lungo e interminabile corridoio, dove faceva bella mostra una biblioteca vertiginosa del Settecento, con i soliti grossi volumi, il Digesto, le riviste giuridiche. Insomma, tutti gli armamentari necessari per le battaglie legali. Le macchie di sudore si allargavano sempre di più, finché non divennero un’unica grande macchia. Però mi facevo coraggio. Avevo trovato, dopo ore e ore di ricerca, la frase di Iperide imparata a memoria. Non potevo sbagliare. La cultura avrebbe prevalso sul mio sudore (!!!). Giunsi nello studio dell’Avvocato. Si cominciò a parlare del più e del meno. Poi si passò alle domande vere. Cominciò a chiedermi il motivo

della mia scelta, per poi iniziare a tempestarmi di quesiti sul diritto commerciale, su cavilli di procedura civile... Il colore della mia pelle in quel preciso momento cambiò e, se già ero sudato per via del caldo, cominciai probabilmente a collassare. Non mi veniva più in mente la citazione imparata a memoria e pronta per recitarla. Anzi, in quell’istante mi accorsi che, davanti alle dotte dissertazioni dell’Avvocato, continuavo ad annuire facendo cenno con il capo a mo’ di approvazione e sentita partecipazione, ma senza capire in verità quello che mi diceva. Come in un incontro onirico, le dotte parole dell’Avvocato si trasformavano, ai miei orecchi, in frasi senza senso: “Papé Satàn, papé Satàn aleppe; Penitenziagite, la mortz est super nos; Aga magra difura natun gua mesciun; Agonou dont oussys von denaguez algarou….”. Seguitai ad annuire e ad approvare quello che il Dominus mi diceva. L’unica cosa che tuttavia rammento è che la lunga chiacchierata finì con “l’aspetto lunedì alle ore 9.00. Arrivederci e a presto”. Alberto Negri


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davide pachera

Riflettendo

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Dopo anni di studio, esami interminabili, ecco raggiunto il traguardo. La meta che sembrava così lontana sembra essersi avvicinata in un attimo. Anche l’ultimo esame è superato e la laurea è un traguardo raggiunto. La proclamazione del titolo conseguito e la soddisfazione per il risultato acquisito è finalmente realtà. Ma il giorno dopo arriva altrettanto velocemente, ed ecco che, catapultati in una nuova dimensione, il mondo reale, quello lavorativo-professionale, inizia a prendere forma davanti a sé. Tutto diventa più serio, più rigoroso; inizia un nuovo percorso, che oltre a costruire e modellare la propria professionalità, permea anche la propria maturazione personale e il proprio modo di rapportarsi agli altri. Con l’esercizio della professione si concretizza quella che ai giorni dell’università rappresentava la propria aspirazione futura e, soprattutto, si assume la consapevolezza di ciò che davvero significa fare l’avvocato: quali difficoltà? quali implicazioni? La professione diventa un modo di essere, che si contraddistingue per un preciso approccio alle cose e alle persone; richiede grande coesione con il proprio gruppo di lavoro ed umiltà scientifica. È, in particolare, quest’ultima che permette di garantire i migliori risultati operativi e allo stesso tempo consente di vivere con maggior sicurezza le proprie scelte. Dietro un buon atto processuale e un buon parere c’è sempre un’attività di ricerca alacre e completa che costruisce quella consapevolezza scientifica indispensabile ad assicurare il compimento delle scelte più opportune. La professione rappresenta un percorso paragonabile ad un corso di studi, il quale, però, non ha fine ma è in continuo divenire ed unisce in sé lo studio e l’ag-

giornamento con la pratica, con i fatti della vita reale. È un momento di apprendimento continuo che non cessa mai, ma che si sviluppa, in nuove forme e dimensioni, che insegna ad avere una particolare attenzione per i fatti e le questioni che vengono sottoposte al proprio esame, che permette di riscoprire quanto sia prezioso il confronto dialettico con i propri compagni. Guardando all’esperienza quotidiana, devo dire che alcune volte sembra quasi che la professione viva di vita propria, o meglio, che sia slegata da ciò che è lavoro e guadagno e che si appaghi da sé per la ricchezza che porta in seno a chi la esercita. Dopo una ricerca, uno studio specifico di un istituto piuttosto che di un caso concreto, si avverte una maggior consapevolezza circa ciò che ci circonda, di come funziona il mondo esterno e si ha una sensazione di controllabilità, che seppur limitata, è avvertita come il conseguimento di qualcosa di palpabile che può essere apprezzato e replicato: la consapevolezza che ad ogni cosa c’è un perché e che tale perché può essere scovato e modellato. L’esercizio della professione significa anche responsabilità; alle volte è proprio questa che spaventa e che può privarci della serenità occupandoci la mente di pensieri ed ansietà. Ecco perché credo sia necessario imparare a controllare le proprie emozioni e i propri sentimenti, affrontando sempre con lucidità ed obiettività ogni situazione. Ora io sono all’inizio di questa professione, sto cercando di costruire una mia identità di professionista e, con l’aiuto di chi mi accompagna in questo cammino, spero di riuscirci al meglio, provando quella soddisfazione che, un tempo, accompagnava il superamento di ogni esame. Davide Pachera


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Domanda da un milione di dollari: cos’è per me la professione? Al momento attuale direi... un mondo da scoprire! Ho iniziato da pochi mesi e l’unica cosa che veramente ho imparato è, detto socraticamente, “So di non sapere!” Il passaggio tra l’università ed il mondo del lavoro è piuttosto brusco: serve veramente poco per scoprire che tanti anni sui libri non offrono certo la soluzione ai problemi pratici, nemmeno ai più piccoli. “Non c’è scuola migliore del­ l’esperienza” mi ripeteva sempre la nonna dall’alto della sua saggezza ed ora, col senno di poi, come darle torto? Impossibile! La professione per me, in questo periodo di apprendistato, è un percorso ad ostacoli in cui il ruolo più importante che devo

sostenere è quello dell’osservatore. Ho il compito di guardare i miei compagni di avventura con occhio profondamente critico per apprendere le strategie in grado di condurmi alla fine della gara, per capire quando è opportuno affrontare l’ostacolo di petto e quando è più conveniente aggirarlo, quando spremere ogni energia e quando conservare il fiato. In fondo, dall’elementari all’università, è sempre stato così: i consigli migliori sono costantemente venuti dai compagni di banco e dai professori, mai dagli asettici libri. E allora, buona corsa a me, ma soprattutto a tutti voi, sicura che dalla vostra esperienza potrò carpire i segreti migliori per raggiungere la meta! Arianna Segala


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In occasione del 25° anno dello studio Lambertini & Associati, di cui ho il privilegio di far parte, ci è stato chiesto di scrivere un breve articolo intitolato “Cosa è per me la professione?”. Bella domanda! Mille pensieri si sovrappongono subito nella mente…che risposta dare? Una risposta seria e ragionevole, scrivendo quanto ci si aspetta di leggere, oppure esprimere quello che penso, andando, forse, anche un po’ controcorrente? Credo che opterò per il secondo genere di risposta, sperando di non incorrere in censura! Appare ovvio che quando si pensa alla figura dell’avvocato si immagina subito una persona ingiacchettata, impostata e, forse, (ahimè) anche un po’ “monotematica”. Ebbene – e al riguardo spero di non essere presa in giro per il resto dei miei giorni – quando da piccola sbirciavo tra i libri di diritto ormai ingialliti di mio nonno non era di certo questa la figura che avevo in mente. Anzi, mi immaginavo come una piccola paladina della giustizia, un mix tra Lady Oscar, la Stella della Senna e Perry Mason, mi rappresentavo come colei che avrebbe aiutato persone e animali in difficoltà, colei che, piena di passione, avrebbe, pur se nel suo piccolo, fatto qualcosa di lodevole. Credevo che in quei libri avrei trovato la soluzione per ogni problema, piccoli trucchetti e magie per ordinare il mondo. Sono passati gli anni e ho conseguito la laurea in legge nella mia solare Reggio Calabria, dove il profumo della zagara si sposa con quello del gelsomino, dove l’odore della terra richiama quello del mare, dove la

qualità della vita non è tanto collegata ai servizi resi al cittadino, bensì è caratterizzata da ritmi un po’ più lenti, dal tempo – parola sacra – che lì si è ancora in grado di possedere e da cui ci si riesce ancora a farsi rispettare. Il tempo, in fondo, dovrebbe essere convenzione dell’uomo, oggi pare essere il contrario e si rischia, se non si sta ben attenti, di vivere solo un rantolo di vita. Questo è uno dei prezzi dell’essere “uomo-professionista” e, nel nostro caso, dell’essere “uomo-avvocato”… Oggi, dopo aver mosso i miei primi passi da praticate coi miei primi domini Lillo e Daniela, dopo aver girato qualche città ho la fortuna di far parte di un team di successo; sono cresciuta sotto le ali di “mamma” Marianna, che mi ha insegnato a far l’avvocato cercando di mantenere sempre una coerenza interiore e una propria etica, tenendo sempre a mente che prima di essere professionisti siamo uomini e donne. Siamo una squadra che è abituata molto bene perché è abituata a vincere. Per me fare l’avvocato è una missione, è cercare la verità dei fatti e avvicinarla ad una posizione di diritto; è da qui che il cliente deciderà cosa fare. Sennonché mi rendo conto che oramai sono un avvocato non tanto come titolo ma proprio come persona: mi esprimo, ragiono e mi comporto da avvocato. Così capitano cose buffe… Ad esempio il bed & breakfast che sta sotto il mio appartamento, senza chiedermi alcun consenso, aveva posizionato nell’androne del palazzo una tele-


camera che mi perseguitava con la sua lucetta rossa ogni qual volta entrassi o uscissi di casa; infuriata mi precipitai dal titolare sbraitando che così violava la normativa sulla privacy e che non mi andava assolutamente che lui o chiunque altro sapesse quando, come e con chi entrassi e uscissi da casa. Al che lui mi ha risposto dicendomi che non stavo per nulla bene, che la telecamera era finta e che serviva unicamente come deterrente. Avrei voluto essere inghiottita dal terreno ma ho ribattuto (da avvocato!) dicendo che forse aveva ragione, che forse non stavo per nulla bene ma che ero un avvocato e che volevo vedere la documentazione che attestasse quanto affermava! Il giorno dopo il titolare del bed & breakfast mi fece trovare tutto nella cassetta delle lettere… Altro esempio, stessa comica storia: mi chiamò al cellulare un’agenzia che voleva farmi un’intervista telefonica circa i miei gusti musicali. A quel punto, al posto di limitarmi a dire che non ero interessata, iniziai a chiedere come avessero avuto il mio numero, di cancellare i miei dati ai sensi della legge, ecc., ecc. Tralascio le conclusioni della telefonata. Ora, però, non mi chiamano più! E ancora: dopo aver lasciato un bigliettino alla signora addetta alle pulizie del palazzo dove vivevo appena giunta a Verona mi resi conto, solo mentre ero già per strada verso lo studio, di essere stata col-

ta da “avvocatite”, ovvero scrivere sempre in modo complicato! Lascio all’immaginazione cosa abbia potuto capire una signora straniera che conosce poco o nulla dell’italiano leggendo quanto segue: “Gentile signora Le scrivo la presente per chiederLe la cortesia di non rimuovere e non spostare quanto trova sul mio pianerottolo poiché trattasi di oggetti che dovranno essere portati al più presto in cantina. Grazie, un caro saluto”. E così via… largo alle risate! A ciò va aggiunto che rifuggo la figura dell’avvocato noioso e “monotematico” e che mi ripeto ogni giorno come monito quanto scriveva il saggio Neruda: “Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi chi non cambia la marca chi non rischia e cambia colore dei vestiti…” e, di conseguenza, provo a non essere una mera esecutrice, obbligandomi, talvolta e nei limiti del possibile, a fermarmi ed a ricordarmi di me stessa, di quello che mi piace fare, della musica che mi piace ascoltare, dei libri che mi piace leggere, di quello e di chi mi circonda, perché credo, come del resto mi è stato insegnato, che un avvocato “vivo” ed appassionato abbia un valore aggiunto. E poi, d’altronde, come cantava Ian Curtis, “Existence well what does it matter? I exist on the best terms I can”. Alessia Barbalace

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zirichiltaggia

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gianluca negri

Cicerone

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L’argomento è senz’altro molto vasto e si potrebbero toccare una varietà di argomenti, da quelli prettamente scientifici ad aspetti più squisitamente umani ed etici, con il rischio, forse, di banalizzare i concetti. Da una recente rilettura del de oratore di Cicerone mi sono imbattuto in una definizione molto simpatica e divertente di ciò che la professione di avvocato non dovrebbe essere. Si tratta di una spiegazione ancora attuale, dalla quale emerge una critica rappresentazione della figura del leguleio: “Imperversare nel foro, star sempre piantati in tribunale e attaccati alle tribune dei pretori, sentenziare come giudice privato su questioni di grande importanza su cui spesso non si discute su un fatto particolare ma sulla giustizia e sul diritto, catapultarsi sulle cause centumvirali, in cui si dibatte di usucapione, di tutela, di relazioni gentilizie, di consanguineità in linea maschile, di mutamenti di estensione dei terreni dovuti a depositi alluvionali e alla formazione di isole, di obbligazioni di compravendita, di servitù di muri, della luce e delle acque di grondaia, di testamenti annullati o convalidati e di tutte le altre innumerevoli questioni, senza sapere assolutamente cosa sia il proprio e l’altrui, a quale titolo, infine, uno sia cittadino o forestiero, schiavo o libero, è segno di grande sfrontatezza”. Ho ritenuto di riportare il testo tradotto del dialogo di Crasso perché in esso si ritrovano, a mio giudizio, tutti i principi a cui quotidianamente dovrebbe ispirarsi l’attività del professionista. Si tratta, per la verità, di canoni di condotta presenti anche nel Codice Deontologico Forense, quali l’imparzialità dell’avvocato, l’importanza della specializzazione, dell’approfondimento

e della preparazione continua e costante, del rispetto per i clienti e per i colleghi avversari. Canoni forse scontati ma che credo debbano costituire motivo di riflessione ciclica. Non può naturalmente mancare un breve cenno al senso di gratificazione che la professione dà. Senza dubbio l’essere ricercati dalla clientela per contribuire alla soluzione dei loro problemi rende estremamente gratificante il lavoro. Una gratificazione che trascende l’aspetto meramente economicistico per diventare motivo di orgoglio e appagamento, ma anche di responsabilità. La clientela che si affida per complicate operazioni societarie piuttosto che per dirimere le controversie in un confronto trilaterale con la Magistratura costituisce il momento dinamico della professione forense. Il successo di un lavoro ben riuscito, di una consulenza mirata o di un contenzioso conclusosi positivamente sono la migliore remunerazione. Con ciò non voglio naturalmente dire che il compenso economico congruamente parcellato al cliente non sia un ulteriore motivo di soddisfazione. Ma in questo gli avvocati sono estremamente abili. Infine non posso tralasciare il fatto che la professione dell’avvocato, per l’importanza delle questioni che vengono trattate e per il livello degli interessi tutelati, appare molto simile alla figura dell’oratore. Cioè di colui che deve eccellere nell’orazione e che possiede la capacità di trovare sempre argomenti appropriati, di organizzarli e di declamarli allo scopo di conquistare e convincere il proprio interlocutore. È una sfida quotidiana che non può prescindere da una impeccabile


conoscenza della materia trattata e che coniuga ragionevolezza, equilibro e buon senso. Poiché queste brevi riflessioni vogliono costituire anche un momento di autoironia, desidero concludere con il quesito che Crasso ci ha tramandato: “colui che ignorando queste e altre analoghe leggi del proprio stato, se ne va in giro per tutto il foro con un grande seguito,

a testa alta e impettito, gettando occhiate a destra e a manca con espressione animosa e scontata offrendo con ostentazione protezione ai clienti e soccorso agli amici e la luce del proprio ingegno e del proprio senno a tutta quanta la cittadinanza o quasi, non è da considerare il colmo dello scandalo?”. Gianluca Negri

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alberto grigolo

Il cadetto

Sin da prima di raggiungere l’età della ragione – non so peraltro se ciò sia già avvenuto – ricordo che, o per induzione o per precoce vocazione, proferivo a tutti la mia volontà di fare l’avvocato. Avevo capito sin da bambino che era più conveniente scaricare la colpa di qualche marachella su qualcun altro, ed era molto appagante quando ciò mi riusciva con successo. Mi perdoni mia sorella……. Il tempo mi ha aiutato a non perdere l’allenamento e mi ha dato varie occasioni per affinare le tecniche di persuasione, sia orale che gestionale, variabili dal fingere stupore o incredulità o dal negare l’evidenza. Memorabile quella volta che la professoressa di latino, a cui avevo chiesto un consiglio sull’interpretazione di un termine a dizionario aperto, aveva scoperto alcune “minute” che mi ero appuntato tra le righe dei termini, e con freddezza l’ho convinta che si trattava di un vocabolario, non mio, ma preso in prestito da un fantomatico cugino più grande che, oltre a maglioni, scarpe, borsoni e quant’altro mi aveva trasmesso pure gli strumenti su cui aveva formato il suo sapere. Oggi, eccomi qua, ad esercitare dopo averla agognata, la professione. Direi che è un lavoro molto avvincente ed entusiasmante, che, ovviamente, oltre ad un piglio di predisposizione professionale ai rapporti interpersonali, ha chiesto e richiede tuttora un’approfondita preparazione. A fronte delle responsabilità che ci si addossa nella risoluzione dei problemi dei clienti, rimane il premio della soddisfazione di aver individuato una strategia vincente o di essersi arricchiti di nuove esperienze,

soprattutto per le tematiche affrontate per la prima volta. La sfida che ci contrappone ai nostri avversari non è tuttavia ad armi libere e spesso il campo di azione è delimitato da vincoli che impongono di adottare mosse o espressioni ben precise. In altri termini, non basta sapersela cavare con le parole o dimostrare freddezza di fonte agli ostacoli. Bisogna calibrare i mezzi utilizzati. La minima leggerezza nell’utilizzo di una parola dal significato equivoco potrebbe far scattare l’allarme della sensibilità avversaria con rischio di essere coinvolto, anche per questioni bagatellari, in un procedimento disciplinare: la penna dell’avvocato è sensibile come la lama del fioretto, che nello scherma può portare ad accumulare penalità a seconda dell’impatto che ha sull’avversario. Ecco allora che gli slanci di passione, la foga dei pensieri e l’impeto nelle azioni molto spesso devono o “dovrebbero” essere frenati in ossequio a norme comportamentali che, in virtù di un’etica e di un decoro professionale, aspirerebbero a ricondurci tutti a dei paladini della giustizia senza macchia. Senza la presunzione di poter essere colui che scaglia la prima pietra, mi è capitato in più di qualche circostanza di assistere a comportamenti di miei colleghi non prettamente connotati da fair play. Non si pretende certo che tutti gli iscritti all’albo emulino il comportamento di quei professionisti che prediligono ancora l’utilizzo di accorgimenti che ormai hanno assunto il sapore di un galateo intriso di squisita raffinatezza: sto pensando alla comunicazione al

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procuratore avversario di aver assunto la difesa della parte evocata in giudizio. Ma senza pretesa che i colleghi siano tutti dei cadetti in divisa, sarà senz’altro capitato a molti di noi di dover trattare con dei professionisti votati alla scorrettezza. Penso al caso in cui un collega ha prodotto in giudizio della corrispondenza riservata o comunque contenente proposte transattive, incurante della norma deontologica che vieta tale comportamento, e privilegiando, evidentemente, la scelta di influenzare la decisione del Giudice. Ma ancora più abile, e sottilmente diabolico, è chi formalmente si attiene al rispetto dei vincoli deontologici utilizzando altri espedienti finalizzati a mettere in difficoltà l’avversario. Sto pensando a quanto recentemente capitatomi in una vertenza nella quale avevo assunto l’incarico di

promuovere un pignoramento presso terzi nell’interesse della società da me assistita. Fonti collegate al mio cliente mi hanno riferito che il legale avversario stava contattando i terzi pignorati per organizzare, nell’interesse della debitrice, delle dichiarazioni negative da rendere in vista dell’udienza di assegnazione. L’azione dell’avvocato avversario è stata però mascherata attraverso l’espediente di far comunicare direttamente dalla debitrice notizie false in merito ad una intervenuta sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo per cui si era proceduto ad effettuare il pignoramento. Non so dirvi come questo collega si comportasse con la sua insegnante di latino, se avesse un cugino maggiore o piuttosto un’intera famiglia… Alberto Grigolo


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giovanni aquaro

Mixed but not stirred

Era un sabato di aprile, ed iniziava a fare decisamente caldo. Ero arrivato in studio da meno di mezz’ora e sedevo alla scrivania senza alcuna vera voglia di lavorare; e con la ferma intenzione di andarmene al più presto. La settimana era stata molto lunga e volevo solo che finisse. Dopo, sarei andato – con tutta calma – alla libreria del corso a cercare un nuovo romanzo da leggere per la sera. Magari, verso mezzo giorno, sarei anche andato a farmi un giro al Campanile. Mi sarei seduto al solito tavolino traballante e avrei aspettato che mi venisse preparato un Gin and Tonic. Quattro parti di Bombay Sapphire e sei di acqua tonica – molto variabili, a dire il vero, secondo l’umore del momento – e uno spicchio di lime. Una vecchia abitudine presa – e trapiantata di peso da Russel Square a Piazza dei Signori – in una vita ormai lontana in cui, finito più o meno il dottorato di ricerca, pensavo che l’avvocato l’avrei per sempre fatto indossando blue pinstripe e lawyer shoes. Nella penombra e nel più totale silenzio – tranne una giovane praticante, non ho collaboratori fissi a Vicenza e la mia segretaria ha, da che mondo è mondo, il privilegio della settimana corta – avevo allora sfogliato la cronaca locale, controllato la posta, riordinato l’agenda e qualche fascicolo in disordine, controllato infine le scadenze in vista delle, poche, udienze della settimana successiva. Avevo pure fatto qualche breve telefonata, puntualmente rimandata nel corso della settimana. Insomma. Avevo fatto tutto quanto necessario ad attenuare – o a nutrire – quel vago senso di provvisorietà tipico di chi, libero professionista, stenta ancora a di-

ventare sino in fondo, per età o per carattere, un professionista libero. Capita puntualmente, parlando del più e del meno con qualche amico, che questo – spesso con tono vagamente ammiccante – si confessi un po’ invidioso: – “voi avvocati, gente fortunata: macchina sportiva e nessun orario da rispettare.”. Capita puntualmente che, di fronte a tale convinzione – che peraltro mi guardo bene dal deludere – mi venga da sorridere; e da pensare che la maggior parte di noi è invece fatta di disgraziati, seppure in fuoriserie. Conosco colleghi che, lontano dai corridoi del Tribunale, ormai evito accuratamente: non riescono a conversare su nulla che non sia la causa che hanno appena concluso, l’eccezione che hanno appena sollevato, il cliente nuovo di palla che hanno appena acquisito. C’è, nei loro discorsi, qualcosa di candido e, al contempo, di terribile. Sono persone disperate, e spesso neppure lo sanno. Quanto a me, mi consolo ogni volta pensando che, proprio perché amo profondamente il lavoro che faccio, riesco anche ad odiarlo: almeno un po’; almeno per quel tanto che mi serve a staccarmene e a cambiare – giusto per restare in metafora – marcia. Comunque. A questo – più o meno – pensavo quando, esaurita ogni plausibile scusa con me stesso, mi ero finalmente alzato dalla scrivania e, in procinto di chiudere lo studio e la settimana, mi ero acceso una sigaretta, pregustando il mio Gin and Tonic all’ombra del Campanile. Non ero nemmeno arrivato a fumare metà sigaretta quando squillò il telefono.

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Era la linea interna, e si trattava di un cliente. Uno dei tanti che frequentano con certa soddisfazione – e, mia convinzione personale, anche con certa sospetta assiduità – il nostro studio. Diceva che era urgente. Anzi, urgentissimo. I clienti – sia ben chiaro – telefonano all’avvocato quando hanno problemi molto seri e molto urgenti; o almeno pensano di averli: il che è, ovviamente, la stessa identica cosa. Ciò che è peggio, è che non c’è sabato che tenga: soprattutto se sono i responsabili di qualcosa e il lunedì mattina devono rendere conto delle grane nelle quali si sono puntualmente ficcati, a un passo dal fine settimana, a qualche presidente di società giustamente preoccupato. Dissi alla segretaria di Verona – lì le segretarie ci sono, anche di sabato – di passarmi la telefonata; pregando però prima di chiarire che, comunque, avevo decisamente poco tempo da dedicare alla questione, quale che fosse, dal momento che da lì a qualche minuto sarei dovuto uscire per recarmi – diciamo – ad una importante riunione fuori studio. Gli avvocati – sia ben chiaro – sono gente che lavora e hanno sempre riunioni importanti, spesso fuori studio. Altro che fuoriserie e aperitivi. – “Buon giorno dottore.”. L’incipit telefonico, con tono gioviale e squillante, mi era tutto sommato riuscito benone; soprattutto per via di quel dottore: piazzato un po’ a memoria, un po’ a caso. Una mia specialità, confesso. – “Mi dica tutto”.

– “Buon giorno avvocato, la signorina mi ha detto che sta uscendo ma sa, qui, abbiamo veramente un problema. Adesso le spiego.”. Chiusi gli occhi e feci per concentrami. La cronaca che stava iniziando la conoscevo, comunque, a memoria: c’era un contratto, una fornitura bloccata, una clausola compromissoria per la quale si era già attivato – unica vera novità – un piccolo studio che, a giudicare dall’indirizzo stampigliato sulla carta intestata, si doveva trovare dalle parti di Canary Wharf. – “Avvocato, è ancora lì?”. Certo. Sono ancora qui. Sono il tuo avvocato e, con tutta probabilità, per i prossimi giorni sarò anche il tuo migliore alleato; con tutta la calma, la lucidità e il buon senso che probabilmente ora ti mancano. Mentre abbassavo la cornetta del telefono – non prima di avere dato le istruzioni di rito: – “mi porti subito tutti i documenti; no, non importa, porti in studio tutto quanto, che poi decido io cosa serve e cosa non; stampi su carta bianca e faccia timbrare e firmare i mandati che le ho appena inviato; no, non si preoccupi, al corrispondente di Londra ci penso io” – intrecciai le mani dietro la testa, le gambe stese sotto la scrivania. Ecco fatto. Se non altro, domani a quest’ora, se tutto va come deve, il Gin and Tonic lo ordino al Tempus, in Russel Square. Mixed but not stirred, of course (with a slice of lime in the bottom of the glass). Giovanni Aquaro


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marianna brugnoli

Signorina Dottoressa

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Qualche tempo fa anche signorina. Poi, si sa, gli anni passano e a dirsi che siamo sempre gli stessi ci crediamo solo noi. Signora o signorina, statisticamente e dopo quasi vent’anni di paranoico rilevamento, lo usano di solito le persone semplici, il piccolo imprenditore, quello insomma non tanto studiato. Quello per il quale, però, la donna è sempre signora: ed allora un po’ lo perdoni e quasi ti commuovi, sapore di tempi passati. Quello mezzo studiato vira sul dottoressa: in fondo laureata si dev’essere laureata se l’avvocato, quello maschio, se la tiene in studio e lei siede in una stanza in cui puoi girare in pattini. Quando entra la segretaria e dice “scusi avvocato…”, “buongiorno avvocato…” “eccole avvocato…” di solito quello si guarda attorno, che per caso non ce ne fosse uno, di avvocato, dietro i pesanti tendoni del salone di palazzo canossa. Quando si accorge che l’avvocato sei tu, proprio tu, quella lì seduta con la faccia da avvocato, si lancia in un “ma si dice avvocata o avvocatessa?”, così, tanto per recuperare un po’... Allora spieghi, se sei di buona, che dottora non esiste,

quindi per la proprietà transitiva dell’uguaglianza avvocata, a parte l’avvocata nostra, non è bello; difficile convincerlo che siccome si dice dottoressa, in effetti, perché non si può dire avvocatessa? E lì rimani, come dire, incastrata: perché poi quando ti chiama avvocatessa provi un lancinante rimpianto per il dottoressa, anzi quasi quasi il signora, se poi si potesse un signorina... Va detto, ad onor di cronaca, che avvocato qualcuno ti chiama: quelli studiati, i giudici, ed i figli quando ti dicono mamma non fare sempre l’avvocato. Vi chiederete il senso di questo andare: potremmo parlare interi LAmbaradan di come è in Italia e più ancora nel mondo la vita di un avvocato che porta un nome di battesimo al femminile: se è diversa, e se lo è perché, da quella di un avvocato, quello sì, avvocatO. Debbo agli avvocati con cui ho condiviso il mestiere, passati e presenti, un non così scontato esempio: aver sempre risposto alle richieste di consigli “fai tu, sei tu l’avvocato”. Eccoci qui, ogni tanto, per cortesia, un signorina... Marianna Brugnoli


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diego mangano

Gioventù previdente

…e vecchiaia sorridente! “…lo scopriremo solo vivendo, comunque adesso ho un po’ paura ora che quest’avventura sta diventando una storia seria…” – Con il Nastro Rosa, Lucio Battisti. Quale miglior colonna sonora per noi giovani avvocati che ci prepariamo ad affrontare una nuova fase della professione se non quella interpretata dal grande cantautore? Noi giovani, divisi tra i nuovi regolamenti previdenziali e la prossima riforma dell’avvocatura, guardiamo al nostro futuro in modo positivo, certi che entrambe le novità, unite alla consapevolezza di vivere la professione seriamente, contribuiscano a far crescere le nuove generazioni di avvocati. A tal fine, è doveroso conoscere le iniziative legislative promosse dagli organi che gestiscono il nostro futuro. La “IX Conferenza Nazionale della Cassa di Previdenza e Assistenza Forense”, tenutasi a Baveno/Stresa dal 15 al 17 aprile 2010, mi consente di riprendere il discorso pubblicato nel secondo numero della Rivista in “Crisi del diritto e crisi economico – finanziaria: le risposte del mondo dell’avvocatura”: Sì, perché in occasione dell’incontro organizzato dalla Cassa Forense non si è solo discusso della riforma previdenziale in vigore dal 1° gennaio 2010, bensì anche della riforma dell’avvocatura, attualmente all’esame dell’aula del Senato. Entrambi i temi meriterebbero un’analisi approfondita e separata, con particolare riguardo non solo al risultato finale, ma anche alle esigenze che hanno portato alla riorganizzazione del sistema pensionistico ed alle proposte di rinnovamento della professione forense.

In questo breve articolo, mi propongo di trattare, insieme e di seguito, l’uno e l’altro tema in quanto, a mio avviso, riforma della previdenza e riforma dell’avvocatura non possono che andare di pari passo: garantire il futuro ai giovani avvocati di oggi non può far dimenticare un presente fatto di crisi del professionista del diritto e, più in generale, di crisi del diritto. Procedo con ordine. Come emerso in occasione della tre giorni previdenziale organizzata dalla Cassa, la modifica del sistema pensionistico previgente è nata dall’esigenza di centrare due obiettivi: il primo di derivazione legislativa, il secondo di “equilibrio della categoria degli avvocati”. La legge finanziaria 2007 ha previsto che “la stabilità delle gestioni previdenziali private [dovesse necessariamente] ricondursi ad un arco temporale non inferiore ai trenta anni” ed ha conseguentemente imposto agli enti previdenziali privati l’adozione dei “provvedimenti necessari per la salvaguardia dell’equilibrio finanziario di lungo termine, avendo presente il principio del pro rata temporis in relazione alle anzianità già maturate tenuto conto dei criteri di gradualità e di equità fra generazioni”. Al fine di garantire la sostenibilità del sistema previdenziale per il tempo previsto dalla legge, il Comitato dei Delegati della Cassa ha mantenuto il sistema di finanziamento a ripartizione basato sul calcolo retributivo delle prestazioni, apportandovi, però, alcune correzioni sia dal lato dei contributi sia dal lato delle prestazioni. E così i due regolamenti attualmente in vigore (quello

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delle prestazioni previdenziali e quello dei contributi), tra le altre novità, prevedono: (i) l’elevazione graduale dell’età pensionabile fino a settanta anni ed il contestuale aumento dell’anzianità contributiva da 30 a 35 anni; (ii) l’aumento del contributo integrativo dal 2% al 4% sul volume d’affari dichiarato ai fini IVA; (iii) l’aumento di un punto percentuale dell’aliquota del contributo soggettivo di base (calcolata, quindi, al 13% del reddito professionale netto); (iv) l’aumento progressivo del contributo minimo soggettivo ed integrativo; (v) l’introduzione, con decorrenza sui redditi prodotti dall’anno 2010, di una ulteriore quota di contributo soggettivo modulare, in parte obbligatorio (nella misura dell’1%), in parte facoltativo (dall’1% al 9%). Proprio la quota modulare è la vera novità della riforma previdenziale e, con la sua introduzione, la Cassa si propone di raggiungere il secondo obiettivo, ovvero quello che ho definito come “l’equilibrio della categoria degli avvocati”. La consapevolezza che la quota base (seppur corretta con le modifiche sopra indicate) fosse insufficiente a garantire un trattamento pensionistico commisurato al tenore di vita sostenuto in età lavorativa ha fatto sì che venisse individuato un sistema previdenziale che consentisse ai professionisti di rinforzare la prestazione base. E tale consapevolezza in ragione del forte squilibrio e della disparità di reddito (stando ai dati reddituali per classi di età riportati dalla Cassa) che sussiste all’interno della categoria anche in ragione dei mutamenti demografici, economici e professionali. La quota base, calcolata sul metodo retributivo, garantisce all’avvocato un trattamento pensionistico adeguato al reddito prodotto nel corso della vita professionale e all’anzianità contributiva, secondo criteri rigidi ed uguali per tutti e, quindi, senza alcuna possibilità di incidere volontariamente su tale sistema. L’introduzione della pensione modulare, calcolata sul metodo contributivo (“tanto verso, tanto mi viene restituito”), consente a tutti gli avvocati di costruirsi il proprio futuro. In che modo? Aumentando, su base volontaria, la propria aliquota contributiva da uno a nove punti percentuali al fine di ottenere una pensione più elevata. Il montante contributivo (obbligatorio nella sola misura dell’1%) costruito dall’avvocato è rivalutato annualmente con la garanzia di ottenere un rendimento minimo. All’atto del pensionamento, la somma dei contributi

modulari rivalutati è trasformata in rendita vitalizia per mezzo di specifici coefficienti attuariali corrispondenti all’età raggiunta (art. 6 Regolamento per le prestazioni previdenziali). Questo, in sintesi, il quadro della riforma previdenziale di cui ho evidenziato (senza alcuna pretesa di esaustività) gli aspetti fondamentali e le esigenze ad essa connesse. Passando poi alla prossima ed auspicabile riforma della professione forense – anch’essa oggetto di dibattito nel corso dell’incontro piemontese –, inizio affermando che si è discusso e scritto molto in passato, ma fatto poco o nulla. Perché mai oggi dovrebbe concretizzarsi una nuova e moderna fase dell’avvocatura? Intanto, perché si tratta di un intervento condiviso dalla maggioranza della categoria (se ho udito ed ascoltato bene gli umori dei colleghi intervenuti al convegno di Stresa su tematiche diverse). In secondo luogo, la crisi economico finanziaria che ha colpito il settore della professione forense, da sempre privo di ammortizzatori sociali, con danni soprattutto per i professionisti più giovani, ha di fatto reso l’esercizio della professione sempre più difficile ed insicuro. A ciò si aggiunga l’elevato numero di iscritti all’albo che non ha contribuito a migliorare la situazione; con la riforma “Bersani” si pensava forse di poter migliorare la qualità del servizio offerto al cliente attraverso l’abolizione delle tariffe minime e l’introduzione del patto di quota lite. Tuttavia, gli obiettivi non sono stati del tutto raggiunti se è vero, come in effetti si è verificato, che a beneficiarne sono stati gli studi da sempre organizzati in più dipartimenti ad alta specializzazione. Se l’obiettivo era quello di favorire la qualità di tutti i professionisti, organizzati e non in strutture di grandi, medie o piccole dimensioni, allora il risultato non è stato conseguito ed, anzi, credo di poter serenamente affermare che, complici altri fattori economico-sociali, ne ha risentito proprio la qualità della prestazione professionale. E allora una riforma dell’avvocatura non solo è necessaria, ma è quanto mai attuale. Il ministro della giustizia Alfano, intervenuto alla conferenza, ha illustrato le linee guida del governo sul ddl di riforma dell’avvocatura il cui obiettivo dovrebbe essere quello di coniugare l’organizzazione dell’attività professionale sempre più orientata alla specializzazione con gli strumenti di garanzia della collettività circa l’indipendenza e la qualità della prestazione offerta dal giurista. Per raggiungere tale obiettivo, il ddl prevede, tra le al-


tre disposizioni (reintroduzione delle tariffe minime, riconoscimento della specializzazione, aggiornamento professionale continuo e costante), una serie di norme sull’accesso alla professione. Senza entrare nel merito di quanto proposto nel ddl, ritengo che una professionalizzazione dell’insegnamento universitario, un inserimento nel mondo del lavoro sin dall’ultimo anno del corso di laurea, oltre a favorire il raccordo fra l’università e il mondo delle

libere professioni (consentendo ai giovani una scelta più consapevole), contribuisca a favorire la specializzazione del diritto e, di conseguenza, la qualità del professionista del diritto. Mi riservo, quindi, di aggiornare le mie valutazioni una volta che il testo sarà definitivamente approvato. Sempre accompagnato dalle note del grande Lucio! Diego Mangano

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auguri Studio legale Donella

Associazione tra professionisti

37122 Verona - Via Scalzi, 20 - Tel. (045) 594377 - Fax (045) 8036588

e-mail: posta6@studiodonella.it

Avv. Dario Donella * Avv. Claudio Donella * Avv. Donatella Gobbi Avv. Marina Rebesani Avv. Giorgio Bariani Avv. Barbara Bissoli Avv. Alessandra Ferroli

Verona, 7 maggio 2010

52 Egregio signor avv. Lamberto Lambertini Corso Cavour VERONA

Avv. Walter Bissoli Avv. Veronica Donella Avv. Elena Corsini Avv. Gianandrea Bottaro Avv. Marta Bussola Avv. Sara Uboldi Avv. Ilaria Benico Avv. Matteo Zanoni * Revisore Contabile

Il tuo invito a partecipare con un mio scritto alla interessante e prestigiosa rivista, che da qualche tempo tu stai curando, mi ha reso una volta di più consapevole di quanto passi velocemente il tempo. Sono passato 26 anni da quando hai cessato la tua collaborazione nel nostro studio e ne sono passati 25 da quando hai fonato la tua associazione. Anche tu sei invecchiato! Però di strada ne hai fatta, perché sei certamente tra gli avvocati più affermati ed io ne sono molto lieto, perché avevi mosso da noi i primi passi. Avrei voluto accogliere il tuo invito per scrivere qualche cosa per la rivista, ma mi è mancato il tempo. Tra Cassa di previdenza e direzione della rivista della Cassa, partecipazione alla commissione consultiva del CNF per l’ordinamento professionale ed un po’ anche di professione, mi sarebbe mancato il tempo di fare qualche cosa di dignitoso, all’altezza dei contributi pubblicati. Avrei scelto il tema delle società e delle associazioni professionali, che tuttora si presta a molte discussioni, perché indeterminata ne è la disciplina. Se ne parla anche nella bozza di riforma dell’ordinamento forense, con l’approvazione del quale la struttura della società o dell’associazione tra professionisti farebbe progressi. Per la società, sarebbe da analizzare perché non sia decollata. Io credo che in parte sia dovuto alla mancanza di una disciplina specifica del regime fiscale ed in parte all’infelice indicazione che una società tra avvocati può costituirsi “esclusivamente” nella forma della STP, come disciplinato dalla legge.

_________________________________________________________________________________________________________________ In caso di non corretta ricezione, siete pregati di contattare il n. 045/594377. Il presente documento trasmesso via telefax è confidenziale e riservato esclusivamente al destinatario sopra precisato. Siete pregati pertanto di avvisarci immediatamente al numero telefonico indicato qualora riceviate la presente trasmissione per errore. In ogni caso, a chi non sia il destinatario precisato, è fatto divieto di copiare, divulgare od utilizzare in tutto o in parte il contenuto del presente documento (L. 196/2003). _________________________________________________________________________________________________________________

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auguri Studio legale Donella

Associazione tra professionisti

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segue lettera

Per il regime fiscale, è pernicioso il generico richiamo alle norme delle società in nome collettivo, perché ciò potrebbe comportare l’esigenza del bilancio di competenza e non di cassa. Sarebbe stato molto utile che la legge, oltre a chiarire il regime fiscale, consentisse maggiore elasticità organizzativa della società e consentire anche la forma della società semplice. Per l’associazione, è certamente insufficiente la legge del 1939 e non è facile colmare la lacuna ricorrendo alla analogia con le associazioni non riconosciute o con le società semplici. Il fenomeno associativo si sta molto diffondendo ed una chiara disciplina normativa sarebbe molto utile per stimolare il lavoro collettivo che appare essere una soluzione ottimale per l’organizzazione del lavoro di avvocato sempre più complesso e difficile, che richiede uno sviluppo anche delle specializzazioni. Per un prossimo numero della tua rivista, potrei preparare un articolo sugli argomenti ora accennati, che sono stati oggetto della conferenza organizzata dai dottori commercialisti e nella quale noi siamo stati relatori. Auguri vivissimi per il futuro della tua associazione e cordialissimi saluti a tutti i suoi membri. (Dario Donella)

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chiara pigozzi

Ballerina

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Risale più o meno a venticinque anni fa la mia decisione di intraprendere la professione di avvocato, quando, al secondo anno di scuole elementari, abbandonai definitivamente prima il sogno di fare la ballerina, visti gli esiti non proprio brillanti delle lezioni di danza classica che avevo iniziato a frequentare, poi quello di diventare pompiere, nato da un’assidua visione del cartone animato “Grisù”. Nella mia mente di bambina, che iniziò a non perdersi un episodio di “Perry Mason” e ad essere affascinata da tutti i film e telefilm ambientati in aule di Tribunale, immaginavo che questa professione fosse avventurosa, divertente e piena di soddisfazioni. Riuscivo, insomma, a figurarmi solo il lato piacevole e quasi ludico. Con il passare del tempo ho dovuto, ovviamente, rivedere la mia positivissima e personalissima visione, mantenendo però assolutamente ferma la mia decisione. In realtà, come credo avvenga per tutti i lavori, riesci a capire com’è questo lavoro solo svolgendolo. E così nel luglio 2001 quando, a distanza di neanche dieci giorni dalla laurea, iniziai la pratica professionale, cominciai a comprendere davvero cosa significhi “fare l’avvocato”. Devo dire che molta della poesia che faceva da contorno all’idea che mi ero fatta si è immediatamente dissolta a contatto con la realtà, ma in breve tempo ho scoperto che – anche se molto diverso da come l’avevo sognato – questo lavoro mi affascinava sempre di più. Ho capito subito che l’impegno richiesto era notevole, ma ciò non mi spaventava. Quello che mi spaventava – e contemporaneamente mi

stimolava – era la prospettiva di veder finalmente tradotto in concreto quanto fino ad allora solamente studiato. L’Università, si sa, prepara dal punto di vista teorico, ma nulla insegna dal punto di vista pratico. Sono l’impegno, quotidiano e costante, la voglia di imparare ed una discreta dose di determinazione che ti consentono di arrivare a svolgere – quanto meno in modo decoroso – la professione di avvocato. Moltissime sono le cose da apprendere e tanti, sarebbe ipocrita negarlo, gli ostacoli da dover superare. Personalmente ho sempre faticato a chiudermi la porta alle spalle dopo una giornata di lavoro senza “portare a casa” pensieri e preoccupazioni. In realtà sto riuscendo a farlo solo ora, a distanza di anni e con notevoli sforzi, anche se mantengo l’(insana) abitudine di tenere un block notes aperto in cucina, sul quale appunto i pensieri e le idee (ovviamente legati a questioni lavorative) che mi sovvengono nel cuore della notte turbandomi il sonno. Il fatto di tener il blocco degli appunti in cucina, e non più sul comodino di fianco al letto come facevo anni fa, se non altro denota lo sforzo che ho compiuto di limitare il ricorso a tale strumento a ciò che è a tal punto necessario da giustificare il fastidio di doversi alzare dal letto quando mancano ancora molte ore al suono della sveglia. Ormai mi sono abituata alle emergenze, ai colloqui fiume con clienti che spesso hanno solo bisogno di sentirsi rassicurati, alla necessità di fare molte cose contemporaneamente cercando di non scordare nulla, alle serate ed ai week-end passati a scrivere atti.


Mi sono dovuta anche abituare, mio malgrado, all’atteggiamento non sempre corretto e professionale di molti colleghi – devo dire con dispiacere soprattutto giovani – che purtroppo fanno spesso apparire questa professione, agli occhi di un osservatore esterno, diversa da quella che è o che comunque dovrebbe essere, ovvero un’attività nella quale davvero la probità, la dignità ed il decoro dovrebbero imperare, anziché essere relegati a vuota formula di stile del codice deontologico. Non mi sono invece abituata – e spero di non farlo mai, perché se accadrà vorrà dire che avrò perso il piacere di svolgere questo mestiere – alla sensazione che si prova nell’ottenere un risultato o nel sentirsi dire dal

cliente che è soddisfatto del lavoro svolto. A volte ciò non accade, ma per sentirsi soddisfatti è sufficiente – e non è poco – la consapevolezza di aver fatto il meglio possibile. Posso davvero dire che, se tornassi indietro, non farei nessun altro lavoro se non questo: l’avvocato. Ringrazio quindi la mia insegnante di danza che, con i suoi continui rimproveri quando sbagliavo i passi e gli esercizi alla sbarra, mi ha fatto precocemente capire che quella non sarebbe stata la mia strada, e Perry Mason che, altrettanto precocemente, ha insinuato nella mia mente un’idea che poi non mi ha più abbandonato.

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federico cena

La sfida

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La domanda “cosa significa per te la professione” è difficile da affrontare. Specie se la propria esperienza professionale è solo agli inizi. Il rischio è quello di perdersi all’interno di essa, di ritrovarsi in luoghi comuni stereotipati e retorici. Credo, per la mia personalissima esperienza, che la professione sia una sfida, una sfida che si rinnova ogni giorno: sempre diversa, mai scontata. Una sfida alle proprie abilità, una sfida al proprio ingegno, una sfida alla propria volontà. Un’attività che, per un giovane, nasce come aspirazione ad un preciso traguardo, ma che poi, diviene il punto di ripartenza verso un confronto quotidiano con se stessi e con la realtà che si è chiamati a vivere e, tal volta, ad interpretare.

Un momento di impegno intellettuale, un’occasione per concentrare in un’attività, complessa ed intrigante, quella passione che ciascuno sente di dover dedicare ad un obiettivo, per realizzare se stesso, per offrire un contributo alla realtà cui si è chiamati a partecipare, per dimostrare la propria capacità di essere autorevolmente indipendenti. La professione credo possa quindi essere definita come la sfida a se stessi, alle proprie capacità ed alla voglia di appassionarsi e di confrontarsi con la società che si è chiamati a costruire. Federico Cena


auguri

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marzia meneghello

Da dove veniamo

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“Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?” Non è solo il titolo di un noto ritratto di Paul Gauguin, ma è uno spunto di riflessione stimolato dalla ricorrenza che oggi si festeggia: il venticinquesimo anniversario di Studio. Le origini: il 1985. Avevo all’epoca poco più di cinque anni e la mia memoria giunge all’abbondante nevicata che ancora oggi si ricorda come la “la nevicata del secolo”. Ho dovuto attendere sino alla scuola media inferiore prima di realizzare che “da grande” avrei esercitato la professione d’avvocato, non perché fosse tradizione di famiglia, ma per una vera e propria vocazione, che mi accompagnò, senza esitazioni, sino al momento dell’iscrizione all’università. Conseguito il diploma di laurea all’età di ventitré anni, iniziai immediatamente la pratica forense. Non tutti hanno invero la fortuna – ed il merito – di apprendere il rigore, l’ordine e la dedizione che a me sono stati insegnati. Fu una formazione tecnica e morale, che costituisce ancora oggi motivo di vanto. Appresi che professionalità vuol dire anche deontologia; che i requisiti morali sono importanti quanto quelli tecnici. Mi classificai dodicesima tra gli ammessi all’orale dell’esame d’avvocato e conseguii, superato l’orale, l’abilitazione. Che sono quindi? “Sono” avvocato, non “faccio” l’avvocato. Distinzione questa, cui tengo particolarmente. Si manifestò, già negli anni della pratica forense, la passione per il diritto amministrativo, ereditata dal mio maestro professionale.

Diritto per pochi, visto con diffidenza dagli studenti universitari, per il tecnicismo che lo connota. È in realtà una vera e propria arte. Non è però della mia storia che scriverò. Preferisco intervenire, con pochissime ma – mi auguro – efficaci parole sulle caratteristiche principali che connotano o dovrebbero connotare la professione d’avvocato. L’avvocato deve anzitutto avere una cristallina integrità morale e respirare il diritto in ogni sua forma e manifestazione. L’avvocato immagina una spiegazione giuridica per ogni questione, al pari dello scienziato, del fisico del matematico. Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Ebbene sì, ad ogni fattispecie della vita quotidiana corrisponde una spiegazione giuridica. Chi “è” avvocato deve vivere la collettività forense, occuparsi di politica forense, non subire le scelte, ma prendervi parte. La giustizia non è, come disse Calamandrei, uno “svogliato disbrigo di pratiche burocratiche, ma impegno religioso di tutta la vita”. È devozione. Convinta di ciò, ho sempre partecipavo attivamente alla vita associativa forense e siedo da qualche anno alla tavola del Consiglio Direttivo dell’Associazione Nazionale Forense di Verona, “sindacato” storico (così si chiamava un tempo) nel nostro Foro. La professione d’avvocato è una “funzione pubblica”, come aveva evidenziato la Cassazione torinese nel lontano 1913. Peccato che, in quell’occasione, la stessa Corte avesse escluso che tale funzione potesse essere esercitata dalle donne, “per ragioni di indole morale e sociale, non


meno che per l’interesse della famiglia che è la base della società”, e confermò la sentenza della Corte d’Appello che aveva revocato l’iscrizione di Lidia Poët all’albo degli Avvocati di Torino. L’avvocato, uomo o donna, deve esser anche indipendente; non deve rappresentare uno strumento con il quale il proprio cliente possa trarre un vantaggio, con una caratterizzazione più o meno giuridica, ma deve essere interprete delle esigenze di costui. L’avvocato è il demiurgo, plasma, trasforma e ordina. Lo stesso deve, quindi, astenersi dal proporre liti che, per accontentar un capriccio del cliente, possano in futuro nuocere. Allo stesso tempo, un avvocato probo non si arrende mai all’ingiustizia e deve sempre levarsi e combatterla in ogni circostanza, con le armi della sua tenacia, della sua preparazione della sua onestà. L’avvocato deve astenersi dall’adoperare parole enfatiche per esprimere concetti semplici. Deve cioè “parlare per dire” come insegnò, prima ancora della mia

nascita, Enrico De Nicola. Dove andiamo? Certamente verso una necessaria – e doverosa – specializzazione della professione. Il ritmo dell’attività economia e le conseguenze di un errore esigono risposte pronte e convincenti che solo con una preparazione specialistica possono essere date. È necessario esaltare quindi, anche la consulenza stragiudiziale, per evitare rischi di illegittimità di comportamenti e conseguenti procedimenti giudiziari. L’avvocato non interviene solo quando l’equilibrio si è spezzato, ma ancor prima, per creare un equilibrio stabile. Questo è – tra i tanti – il grande merito dello Studio, che offre attività di consulenza, prima ancora che di assistenza, nelle rispettive materie di specializzazione. Amministrativisti, civilisti, esperti di diritto societario, finanziario ed industriale protagonisti di una convivenza che festeggia oggi venticinque anni. Marzia Meneghello

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auguri

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auguri

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nicola grigoletto

Nuove competenze

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Nel 1985, anno di nascita del nostro Studio, la professione legale era incentrata sull’assistenza giudiziale e all’avvocato era richiesto di intervenire prevalentemente per risolvere situazioni di conflitto. Oggi, sempre più spesso, i nostri clienti ci richiedono di assisterli in una attività da un lato preventiva rispetto all’insorgere di controversie e da un altro lato propositiva rispetto all’individuazione di nuove opportunità. Qui di seguito, riportiamo le linee essenziali di un progetto sulle c.d. “sperimentazioni gestionali” in sanità. Si tratta di forme di cooperazione innovative tra soggetti pubblici e privati che si potrebbero attuare in molti ospedali per diminuire la spesa sanitaria e aumentare l’efficienza. Il nostro Studio è impegnato, con primari operatori del settore e studiosi, a offrire il proprio contributo tecnico per la realizzazione di questo ambizioso progetto. I DATI SULLA SPESA La prima attività per la realizzazione di progetti complessi di questo tipo è l’analisi dei dati. Secondo il rapporto della Corte dei Conti sulla gestione finanziaria delle regioni nel periodo 2006/2007 utilizzato a base della nostra ricerca, due sono i dati più eclatanti. Il primo riguarda la crescita dell’indebitamento: nel 2006 l’esposizione di Asl e ospedali ha raggiunto la cifra record di 51,4 miliardi, con un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente. Il secondo dato fa invece riferimento al peso della spesa sanitaria sulla spesa regionale complessiva: nel 2007 ha rappresentato l’83,5% del totale, contro l’81,4% del 2006 e l’80% del 2005. A completare il quadro, il fatto che dietro la spesa sanitaria si annidano sprechi e inefficienze da capogiro.

Luca Ricolfi, analista dei dati e studioso autorevole degli sprechi nella pubblica amministrazione, ha stimato che se tutte le regioni adottassero gli stessi standard di Lombardia e Veneto, considerati i territori più virtuosi, la sanità costerebbe il 18,4% in meno e si potrebbero risparmiare 15,8 miliardi di euro l’anno (Profondo Rosso, 2008; Il sacco del Nord, 2010). I VECCHI OSPEDALI Spese e debiti di questa entità potrebbero risultare giustificabili se almeno le strutture sanitarie fossero efficienti e ben funzionanti. E invece i 2/3 degli ospedali italiani sono stati costruiti prima della seconda guerra mondiale e andrebbero riammodernati, ristrutturati, in molti casi addirittura ricostruiti. Il dott. Claudio Zanon, direttore di Chirurgia Oncologica alle Molinette di Torino e medico in prima linea, in una accorata lettera di qualche mese fa al Sole 24 Ore, diceva: “Lavoriamo in strutture vecchie (...). Quando leggiamo di nuovi ospedali di futura costruzione sorridiamo, mestamente convinti che veti lobbistici incrociati e interessi vari ne impediranno la realizzazione o che al massimo avverrà a nostro pensionamento avvenuto”. Lo stato di fatiscenza di una struttura ospedaliera è spesso causa di cattive prestazioni sanitarie e incentiva i pazienti a scappare dalla propria regione in cerca di strutture migliori (nell’ultimo anno il fenomeno è aumentato dal 44 al 51%). Senza contare che la realizzazione di nuovi ospedali sarebbe motore di sviluppo per ampie zone del Paese. Pur tuttavia, l’attuale congiuntura di risorse pubbliche decrescenti rende impensabile per lo Stato investire capitali adeguati per finanziare la costruzione di nuove strutture.


IL PROJECT FINANCING La mancanza di risorse pubbliche per la realizzazione di opere infrastrutturali non è tuttavia una novità e già da una ventina d’anni si incentivano anche in Italia le c.d. collaborazioni pubblico/privato (publicprivate partnership). Il project financing è l’esempio più noto. Funziona così: l’amministrazione individua le infrastrutture che hanno carattere prioritario e stabilisce gli standard di qualità; il privato progetta, realizza e “gestisce” l’opera assumendosene in tutto o in parte i rischi e ottenendo dalle banche i relativi finanziamenti; i flussi di cassa derivanti dalla gestione garantiscono il pagamento del debito e la remunerazione dell’investimento. Gli interventi di edilizia ospedaliera realizzati in project financing hanno registrato, nel periodo 20022007, un incremento medio annuo del 10,9% (Finlombarda, 2008). E tuttavia il percorso è a ostacoli e l’utilizzo di questa tecnica in sanità presuppone, a differenza di altre opere come le autostrade, che lo Stato intervenga con capitali ingenti (sempre secondo i dati Finlombarda, il contributo pubblico per ospedali il cui costo è superiore a 50mln di euro, si attesta attorno al 55% del valore dell’opera). Per uscire dal cortocircuito, bisognerebbe strutturare su basi nuove la collaborazione tra soggetti pubblici e privati. Bisognerebbe cioè fondare il rapporto su basi contrattuali che permettano ai privati spazi più ampi nella gestione e che, come contropartita, ne richiedano un maggiore impegno finanziario. LE «SPERIMENTAZIONI GESTIONALI» Ad oggi, il ruolo del privato nella gestione della strut-

tura ospedaliera pubblica realizzata in project financing è limitato ai servizi di contorno (gestione dei parcheggi e degli esercizi commerciali all’interno della struttura, delle camere a pagamento, dei servizi di pulizia e smaltimento rifiuti, ecc.). Rimangono invece da esplorare tutte le possibilità di collaborazione nei servizi medicali, dalla diagnostica (laboratorio, radiologia, ecc.) alle prestazioni specialistiche. La legge già prevede la possibilità di “sperimentazioni gestionali” tra pubblico e privato, ma finora gli operatori, e i loro consulenti legali, ne hanno fatto un uso troppo timido sfruttandone scarsamente le potenzialità. Ad oggi, gli ospedali assorbono circa il 50% della spesa sanitaria (oltre 50 miliardi l’anno), impiegano più di 650 mila addetti, servono 12 milioni di pazienti. Dei 260.000 posti letto totali, più di 4/5 sono pubblici. Nel Libro Verde della Commissione Europea sui “partenariati pubblico-privati” si auspica che lo Stato, sempre di più, passi da un ruolo di operatore diretto ad un ruolo di organizzatore, regolatore, controllore. Attuare con vigore le sperimentazioni gestionali, coinvolgendo i privati anche nella prestazione dei servizi medicali all’interno di strutture pubbliche, significherebbe imboccare la strada della lotta agli sprechi, dei risparmi di spesa e di una maggiore efficienza. Il compito, in parte nuovo, del professionista legale è di contribuire a elaborare e mettere a punto gli strumenti tecnico-giuridici che consentano di realizzare questi progetti. È una sfida che richiede continua preparazione, studio, e volontà di mettere in discussione l’esistente per cercare di migliorarlo. Nicola Grigoletto

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FRANCESCO STOCCO

Lasciapassare a 38

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(Milano, ore 14. Un avvocato seduto alla scrivania. Lavora. Squilla il telefono e risponde.) “Pronto?” “Avvocato, come sta? Eh... oggi a Napoli una giornata bellissima. Le mando i final terms dell’emissione 16-bis, se può farmi avere i suoi commenti... così procediamo alla sottoscrizione”. “Senz’altro, li vedo subito!”. “Grazie”. “Saluti”. (Chiude il telefono e parlando tra sé) “Tredici, quattordici, quindici, sedici... e diciassette... perché emettere una serie sedici bis? avranno mica diviso il portafoglio? Ne avranno parlato con Banca d’Italia? Hanno parlato con il rappresentante degli obbligazionisti? E Consob?” Qui la cosa è complicata, meglio chiamare Londra…” (Chiama Londra) “Hallo? Pronto? Marco! Ciao cercavo te, vogliono emettere una serie 16 bis, ne sai niente?” “Sedici bis? Ma cosa è successo all’emissione della serie 16?”. “ E io che ne so! Era andato tutto liscio”. “Cerca Salvatore a Roma, lui aveva seguito le prime dieci”. “Ok. Ciao”. “Ciao”. (L’avvocato inizia a essere intimorito) “Salvatore? Ne sai niente della serie 16 bis?” “Eh?” “Si, della serie 16 bis” “No, cavolo, non ne so niente, hai provato a vedere nei documenti se hanno già fatto emissioni della serie bis?” “Serie bis?!” “Serie bis!” “Ne sei sicuro?!” “No, ma è pur sempre un tentativo, se no chiama New

York e vedi cosa ti dicono da lì gli obbligazionisti”. “Va bene vedo”. (L’avvocato inizia a essere intimorito e perplesso. Ad alta voce.) “Alla ricerca della “Serie bis” (guarda sedici faldoni di emissioni e niente da fare. La “Serie bis” non esiste. Pensando) “È un’invenzione di Salvatore, ma una buona idea per il nome di un gruppo rock”. (Intimorito, perplesso e con la certezza di non cavarne un ragno dal buco, chiama New York) “Hi, Philip. Did you know anything about series 16 bis issue?” “16 bis?” “Yes” “No. We never heard this bis series”. (Pensando) “Che peccato, il loro ultimo album è davvero bello”. (L’avvocato adesso è intimorito, perplesso, senza ragni dal buco e senza santi a cui votarsi. Squilla il telefono.) “Pronto?”. “Si. Pronto”. “Avvocato, scusi per il disturbo è che domani è San Gennaro e noi finiamo prima”. “Ah, già vero” (pensando) “San Gennaro pensaci tu!” “È riuscito a vedere i final terms?”. (Un lampo di luce attraverso il viso dell’avvocato che pensa) “ Milano, Londra, New York, Roma... Napoli... San Gennaro... Ci sono! Solo scaramanzia! La maledizione della Serie 17”. (Ad alta voce) “Si, certamente! ho perso un po’ di tempo con alcune telefonate, Le mando subito i miei commenti! Buon ponte e mi stia bene!” “Grazie Avvocato, anche a Lei”. (Pensando) “Quanto è vero che nel fare finanza quel che conta è un santo a cui votarsi e un po’ di buona fortuna”. Francesco Stocco


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Avvocato in Corte d’Assise


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