Uniti nella diversità

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stato possibile se il modello di sviluppo del capitalismo oligopolistico (multinazionali e cartelli di banche d’affari) non fosse diventato il pensiero unico del nostro tempo. È una truffa perché è ormai evidente che ci sono bianchi e bianchi (gli slavi, i greci e i napoletani sono considerati meno bianchi degli altri bianchi; i bianchi sotto la soglia di povertà sono grigi) e diversi colorati sono “meno colorati” degli altri e fanno di tutto per mostrarlo, diventando più bianchi dei bianchi (più realisti del re). Moltissimi bianchi sono relegati ai margini e, negli Stati Uniti, vengono chiamati white trash (pattume bianco). Non esiste un analogo epiteto per neri, latini e musulmani, in quanto sarebbe superfluo, una ridondanza. Anche le donne bianche sono chiaramente subordinate. Per molti il fatto di trovarsi comunque un gradino al di sopra dei colorati pare sia sufficientemente consolante: una sorta di contentino simbolico di qualche efficacia psicologica. Una cromocrazia/etnocrazia in cui ciascuno sa qual è il suo posto e cosa ci si aspetta da lui, secondo la logica di un assessore alla cultura tedesca e ladina della provincia di Bolzano, Anton Zelger (1914-2008) che proclamava: Je klarer wir trennen, desto besser verstehen wir uns (“Quanto più ci separeremo, tanto meglio ci comprenderemo”). Alexander Langer rispose con un più umano, costruttivo e saggio: “quanto più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, tanto meglio ci comprenderemo”. Se le idee ed i sentimenti di Langer – la curiosità, la voglia di conoscere e capire, di mettersi nei panni altrui – fossero prevalenti non sarebbe stato possibile chiamare democrazia una società piramidale, fortemente oligarchica, che opera come una tirannia nei confronti di chi si trova alla sua base: una “democrazia” bianca, appunto. Invece siamo come dei giganti monocoli e miopi, come il Polifemo dell’Odissea: grossi bestioni in grado di fare molti danni a causa della loro cronica incapacità di vedere e comprendere la realtà, dettata dall’egocentrismo e dai preconcetti. Forse siamo tutti menomati, alcuni più degli altri, e vediamo il mondo solo per dissociazione, notiamo soprattutto ciò che distingue, e solo sporadicamente ciò che accomuna. Siamo naturalmente faziosi, settari, appendici di una logica del marketing, del capitalismo e della politica che cancella una tradizione all’insegna di ciclicità, organicità e comunità, prediligendo linearità, atomizzazione, individualismo. Siamo circondati da falsi significati che ci mandano in mille direzioni sbagliate e ci impediscono di focalizzare la nostra attenzione su come si può cambiare lo status quo. Come ci ricorda Goethe: non c’è persona meno libera di quella che crede di essere libera. Un carcerato può essere più libero da tabù, ignoranza, pregiudizi, paura, schematismi di molte persone a piede libero. La differenza è che lui le pareti della cella le può vedere e toccare, noi non ci accorgiamo che sono nella nostra mente. L’elettore americano di colore potrà forse trarre conforto dal fatto che un meticcio di ottima famiglia sia arrivato a diventare presidente e quello tedesco di origini asiatiche può felicitarsi con se stesso che il ministro dell’economia e vice-cancelliere federale sia nato a Khanh Hoa, in Vietnam; ma il suo nome è Philipp Rösler ed è stato adottato da una famiglia tedesca all’età di nove mesi. È figlio di un ufficiale dell’esercito tedesco e di asiatico ha solo i tratti somatici. Magrissima consolazione.


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