Bartolomé de las casas avvocato dell'umanità

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suo modo di porsi nei confronti dei popoli oppressi. Ancora ragazzino, era presente al momento del ritorno trionfale di Colombo dal Nuovo Mondo e rimase colpito dai sette Tainos che l’Ammiraglio delle Indie portava con sé. Nel 1493, suo padre, Pedro, assieme ad alcuni dei suoi zii, s’imbarcò per il Nuovo Mondo con la seconda spedizione di Colombo. Pedro rientrò in patria solo nel 1498 recando un regalo per suo figlio, un giovane servo taino, di nome Juanico. Aveva fatto fortuna e poté garantire al figlio un minimo di istruzione. Nel 1498 accompagnò suo padre nel Nuovo Mondo assieme a Colombo, ritornando a Cadice nel 1500. Nel 1502 vi ritornò per restarci, al seguito della spedizione di Nicolás de Ovando, che doveva assumere il titolo di governatore di Hispaniola. La sua partecipazione gli valse il conferimento del diritto di sfruttare un lotto di indigeni nella forma dell’encomienda. Nel 1507 fu ordinato sacerdote a Roma. Una volta tornato nelle Americhe, pur vestendo l’abito talare, acquistò terreni e schiavi e condusse una vita prospera ed apparentemente serena, senza nutrire particolari remore per il fatto che il suo benessere derivava dallo sfruttamento di altri esseri umani. Nella sua autobiografia ricordava quel giorno ad Hispaniola (le odierne Haiti e Santo Domingo), quando un frate domenicano si rifiutò di confessarlo. Gli chiese ragione del rifiuto e procedette poi a confutare gli argomenti del frate, fornendo contro-prove frivole e contenenti, a suo dire, solo una parvenza di ragionevolezza e verità. Ad un certo punto il frate lo interruppe dicendo: “sono arrivato alla conclusione, padre, che la verità ebbe sempre molti nemici e la menzogna molti aiuti”. Las Casas ricorda che “il chierico [Bartolomé] subito gli diede ragione, per la riverenza e ossequio che gli si doveva, perché il religioso era una veneranda persona e uomo molto dotto, più del prete; ma per quanto riguarda liberare gli indios non si curò della sua opinione” (Historia). Eppure, con il passare del tempo la sua prospettiva comincò a cambiare, per via dell’accumularsi di esperienze che segnarono profondamente la sua coscienza, non ultima la partecipazione come cappellano militare alla conquista di Cuba, che si risolse in un bagno di sangue del tutto gratuito, visto che la maggior parte degli indigeni non era intenzionata a ricorrere alla resistenza armata. Las Casas riferì poi di aver visto “crudeltà su una scala che nessun essere vivente aveva mai visto o si aspettava di dover vedere”. Dopo aver assistito a questi insensati massacri, si risvegliò in lui una sensibilità sopita. Fu un kairos, un intervallo di crisi e presa di coscienza, che l’avrebbe condotto ad una tappa radicalmente nuova della sua esistenza. Ne nacque un sentimento di rigetto nei confronti del sistema e di ciò che comportava l’accettarlo così com’era, passivamente. Si rese quindi conto che l’unica scelta moralmente decente era quella della difesa degli indigeni contro i suoi compatrioti e correligionari. Così l’encomendero Las Casas si convertì nella nemesi degli encomenderos e la storia della sua vita si confuse con quella della lotta per l’emancipazione degli indiani. In questo fu assistito dal buon Pedro de la Renteria, un laico con l’animo di un monaco: solitario, generoso e benevolo, contemplativo al punto da essere quasi completamente indifferente alle brame del materialismo. La svolta decisiva – non la conversione di un peccatore, ma la rivelazione della sua vocazione di profeta – giunse con la lettura di un passo del Libro del Siracide (34, 18-22) in preparazione del sermone pentecostale: “Sacrificare il frutto dell'ingiustizia è un’offerta da burla, i doni dei malvagi non sono graditi a Dio. L’Altissimo non gradisce le offerte degli empi e per la moltitudine delle vittime non perdona i peccati. Sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri. Il pane dei 37


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