Sa 113 marzo

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Stefano Solventi

r e c e n s i o n i

Halls - Love To Give (No Pain In Pop,2014) Genere: pop, cantautori, electronica Halls, all'anagrafe Samuel Howard, in un certo momento, durante il 2012, sembrava poter essere uno dei possibili nomi da classifiche di fine anno. Questo momento è rintracciabile nei giorni che seguirono la release del singolo White Chalk - dopo un promettente Fragile EP -, capace di lasciare i più a bocca aperta dinanzi a un'ottima sintesi epico-malinconica. Ciò nonostante, il pur valido album di debutto Ark passò praticamente inosservato, finendo per tranquillizzare le acque attorno al giovane londinese e relegandolo al solitario dimenticatoio fino al recente e silenzioso annuncio del secondo capitolo intitolato Love To Give, pubblicato nuovamente via No Pain In Pop. Ark era tetro, claustrofobico e un po' macchinoso. Immaginatevi un'opera imperfetta creata da un automa invece programmato per realizzare l'opera perfetta. Piuttosto che cercare di perfezionare il meccanismo, Howard ha preferito andare oltre i freddi solchi dell'abbattimento emotivo, trovando linfa vitale in un approccio meno legato all'elettronica (che si muoveva tra il glitch e il post-Blake) e maggiormente free-form, soprattutto sotto l'aspetto strumentale. Certo, ci sono ancora episodi in cui il Nostro si siede al pianoforte e si lascia sopprimere da un mare di echi, sulla scia del precedente capitolo (You Must Learn To Live Again, la titletrack), ma è altrove che il progetto Halls sembra acquistare una nuova – e non necessariamente definitiva – dimensione. Registrato in un teatro, Love To Give fa leva su una strumentazione di varia estrazione (fiati compresi) che colora paesaggi nordici capaci di rievocare l'artwork del Fragile EP: è il caso di Forelsket (in norvegese significa "innamorato"), in cui troviamo alcune improvvissazioni al sax di derivazione jazz. Altrove, è il lavoro

m a r z o

lato scenario emotivo e culturale. Vedi infatti come la opening Taglialegna mediti sulla latitanza di riferimenti ideologici sostanziali alludendo alla pulsione suicida di Cobain perciò costruendosi come una parafrasi di My My, Hey Hey di Neil Young (con un verso della quale – "It's Better To Burn Out/ Than To Fade Away" – il leader dei Nirvana scelse di congedarsi dal mondo). Oppure vedi come la title track indossi con disinvoltura il piglio generoso e trascinante dei R.E.M. anni Ottanta, mentre ne Il Fruttivendolo con la maglietta dei Metallica si bazzicano spigoli funky e atmosfere jazzy sulla scorta di un bel sax. Certo, con Le donne del trentunesimo secolo e Fotografie (forse il testo più bello in scaletta, con passaggi quali "è un trucco tipico del digitale/ confonder l'anima con l'animale") il pensiero corre rapido a un De Gregori, che graziaddio non si è limitato a volersi figlioccio di Dylan ma si è fatto strapazzare ad esempio dal Paisley (come è ancora evidente nella rabbiosa Gorizia). Al netto di un paio di passaggi fuori fuoco come L'ultimo nato (troppa epica da mondo antico gucciniano) e una Neve che tenta l'impasto fiabesco/visionario rischiando il pasticcio, stupiscono non poco le pennellate atmosferiche quasi eniane di Strisce pedonali e soprattutto colpisce Terra, un quarto d'ora di folk blues laconico e struggente che manda il De André altezza Anime Salve sulla spiaggia desolata di Young, meditazione espansa che procede per sequenze componendo un affresco amaro e solenne, insomma se non è il capolavoro di Frigieri poco ci manca. In ultima analisi, Distacco è un disco che sa di margini, quelli da cui ha preso vita, ma che per lunghi tratti è capace di farli sembrare l'unico luogo in cui le cose acquistano un senso forte e reale. 7/10

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