17 - Natale musulmano

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CIÒ CHE DIRÒ ALL’ALTRO Maps of Alterity

Sofia Barbieri, Simone Cerea, Andrea Corsini, Alessandro Pedriali, Anna Maria Spada


Questo racconto nasce da una conversazione con le mie figlie durante il pranzo di Natale di qualche anno fa. Mi chiesero infatti perché festeggiassimo il Natale anche se siamo musulmani. Questa domanda ha dato il via ad una serie di altre domande, mosse dalla loro curiosità per la nostra terra di origine, che non hanno purtroppo mai visto, ma a cui sentono di appartenere. Ho deciso di raccogliere alcune delle domande più interessanti che mi hanno posto e di mettere per iscritto le mie risposte, perché non vadano perse e possano rileggerle quando vogliono, e magari farle leggere anche a chi vorrà sapere qualcosa di più della nostra cultura, della nostra storia.


Perché festeggiamo il Natale se siamo musulmani? Anche tu da piccolo lo festeggiavi? Come sapete, papà viene da Dakar, in Senegal. Sono nato nel 1966, pochi anni dopo che il nostro paese ottenne l’indipendenza. I miei genitori, i vostri nonni, sono entrambi musulmani, ma di due famiglie diverse. Il mio papà era stato a lavorare in Francia da giovane e al rientro avrebbe dovuto sposarsi con un’altra donna. All’epoca i matrimoni decisi dalla famiglia erano la normalità. Lui però si rifiutò, perché amava la nonna e decise di andare contro il volere della sua famiglia pur di stare con lei. Così si trasferirono a Dakar.



Fin da piccoli abbiamo sempre festeggiato il Natale, perché è una tradizione che è diventata parte anche della nostra religione. In Senegal coesistono diverse religioni, originariamente ogni gruppo etnico aveva la propria. Le colonizzazioni hanno poi portato il cristianesimo e l’islam. La nostra religione è il risultato dell’incontro delle diverse culture: siamo musulmani, ma festeggiamo alcune feste cristiane e di fondo manteniamo vive molte delle tradizioni proprie del nostro popolo, dei nostri avi. In Senegal c’è grande rispetto per le tradizioni delle altre culture. I musulmani partecipano alle celebrazioni cristiane, così come i cristiani partecipano alle tradizioni musulmane come il Eid al-Adha.


Ricordo sempre con il sorriso il Natale in Senegal , la città si riempiva di addobbi e mangiavamo e festeggiavamo tutti insieme.


Lì non è come qua, la nostra era una famiglia molto numerosa, come lo erano quelle dei nostri amici. Ai pasti ci si riuniva tutti insieme ed era un momento di condivisione. A tavola ci dividevamo tra bambini, donne e uomini e mangiavamo i piatti che vi preparo nel weekend, come la Thieboudienne che tanto vi piace. Lì in realtà è considerato un cibo da poveri, mentre qui a Milano lo fanno pagare molto, perché a base di pesce.



Dove è adesso la nostra famiglia? Li senti ancora? La nostra famiglia è in giro per il mondo, ognuno ha preso la sua strada. Quando sono venuto in Italia, come sapete, vostro zio venne con me, ma forse non sapete che portammo anche la nonna. Abbiamo vissuto tutti insieme all’inizio, poi dopo qualche anno lei è tornata in Senegal, dove era rimasta gran parte della nostra famiglia. Ma come vi ho detto, non sono l’unico a non essere tornato, un altro vostro zio ora vive in Canada e ha una famiglia lì. La distanza però non ci ha mai separato. Non passa settimana che io non scriva o telefoni ai nostri parenti e ai miei amici d’infanzia. Quando posso poi gli do anche un mano mandando qualche soldo; se hanno bisogno, sanno che possono contare su di me. Ho anche aiutato degli amici quando si sono trasferiti qui in Italia, mettendo una buona parola per loro e dandogli il supporto che io non ho potuto avere quando sono arrivato. Non conoscevo nessuno infatti all’epoca; a dire il vero non conoscevo nemmeno la lingua. Non sapevo nulla dell’Italia, volevo solo andarmene dal Senegal e lasciarmi alle spalle il passato, riniziare.


Come mai te ne sei andato se il Senegal ti piaceva così tanto? Dovete sapere che non ho passato poi così tanto tempo della mia vita in Senegal. Da ragazzo, infatti, finiti gli studi, ho avuto la possibilità di trasferirmi in Belgio per un anno per frequentare l’università. Il mio sogno era quello di entrare in politica e così mi iscrissi a Scienze Politiche. È stata un’esperienza fantastica e ho avuto la possibilità di lavorare in un’organizzazione non governativa che si batteva per la tutela dell’ambiente. Era la fine degli anni ’80 e già ci preoccupava la questione climatica. Eravamo avanti! Purtroppo la gente sembra esserci arrivata soltanto ora.


Presto però sentii l’esigenza di tornare in Senegal e cercare una maggiore stabilità economica, così trovai lavoro all’aeroporto internazionale di Dakar. Ero l’addetto al controllo delle merci importate dall’estero. Purtroppo non era un ambiente piacevole e a un certo punto non vidi altra soluzione che andarmene per cercare fortuna altrove, così da quello stesso aeroporto presi 3 biglietti per Roma, con scalo ad Algeri, feci i bagagli e partii, portandomi dietro la nonna e lo zio. Avevo 23 anni all’epoca.


Come era la tua infanzia a Dakar? Come vi ho detto sono arrivato in città molto piccolo. Abitavo in una zona abbastanza centrale, in una casa con tutta la mia famiglia, però non ho mai perso l’occasione di andare al mare, perché sì, sapete, Dakar è sul mare; è come una piccola puntina che si lancia in mezzo all’Oceano, e così ci divertivamo a giocare tra le barche dei pescatori che stavano sulla riva dopo aver pescato. Eravamo tanti fratelli e giocavamo tutti insieme.



Solo da grande ho scoperto che non tutti erano effettivamente miei fratelli, magari erano cugini, ma ci chiamavamo tutti così e per noi era come se lo fossimo. C’era un grande legame che ci univa, affetto e valori veri, che purtroppo ho come l’impressione stiano andando perdendosi nelle nuove generazioni, non soltanto qui in Italia, ma anche in Senegal. I giovani che ho conosciuto, sia i ragazzi trasferiti qui, che quelli cresciuti lì, sembrano avere perso molte delle nostre tradizioni. C’è un attaccamento sempre più forte al benessere economico, piuttosto che a quello spirituale. Da piccoli eravamo felici anche senza macchine e altri lussi, perché eravamo una comunità.


I valori si trasmettevano di padre in figlio. Gli anziani avevano un ruolo molto importante all’interno della famiglia, erano molto stimati per la loro saggezza e tutti i membri più giovani gli si rivolgevano con rispetto per chiedere consigli.


La sera ci raccontavano le favole, come io le racconto a voi per trasmettervi almeno in parte le nostre radici. Il mio stesso nome deriva da una favola. Samba è infatti il protagonista di un racconto molto amato in Senegal, tanto che quasi in ogni famiglia c’è un Samba! Non credo di avervelo mai raccontato. In un villaggio c’era un ricco re, pieno di ogni bene materiale, e con una bellissima moglie e una altrettanto bella figlia, in età da marito. Un giorno un leone cominciò a terrorizzare il villaggio e allora il re decise di indire un’assemblea per decidere come sconfiggerlo. All’assemblea partecipò anche Samba, un forte ragazzo del villaggio, che, desideroso di porre fine alle tirannie del leone, si propose come volontario per ucciderlo. Così, la notte partì per la foresta per cercarlo. Lì sentì il suo ruggito e seguì il suo suono. Il leone non vide arrivare Samba, né sentì il suo odore perché, essendo il leone di fronte a Samba e lui controvento, il suo odore non arrivava al leone, che gli dava le spalle e non si accorse della sua presenza. Samba tese l’arco e scagliò una freccia, che però non andò a segno. Ciononostante, grazie alla sua incredibile velocità, riuscì a rincoccare l’arco e colpire sia il leone che la leonessa che era con lui con una seconda freccia. Samba tornò dunque al villaggio vittorioso con i corpi del leone e della leonessa appena sconfitti. Il villaggio lo accolse con gioia e il re ricompensò Samba dandogli in sposa la figlia. Il villaggio diede una lunghissima festa e scrissero canzoni per Samba. La morale è che il leone era venuto a mangiare la gente nel villaggio perché aveva fame quindi se non rispettiamo la natura gli animali poi si troveranno cacciati dai loro ambienti naturali e tutto andrà a rotoli. Il coraggio e la forza di Samba hanno salvato il villaggio, ma l’uomo deve imparare a rispettare gli altri abitanti della Terra. La fiaba è attuale oggi più che mai, purtroppo, e probabilmente è anche grazie a quella che ho intrapreso la strada della difesa dell’ambiente da giovane.


Quindi ci sono anche delle canzoni dedicate a Samba? Proprio così, alcune canzoni tradizionali. A cantarle erano i Griot, poeti e cantastorie presenti in tutta l’Africa occidentale. In passato erano i giullari dei re; il termine “Griot” in lingua Wolof, la lingua che parliamo in Senegal, è “Guewel” e vuol dire “crea un cerchio”. Questo perché i Griot richiamavano e riunivano le persone, i re, i capi villaggio o famiglia li chiamavano affinché raccontassero storie e cantassero canzoni in occasioni importanti. Sono loro a conservare la tradizione orale degli antenati e si trasmettono il ruolo di generazione in generazione.


Quando raccontavano le loro storie si accompagnavano con vari tipi di strumenti, dai tam tam, alla kora, al balano, ma soprattutto lo xalam, una specie di chitarra di legno e pelle con corde di cotone.


I Griot hanno un talento naturale per la musica, se lo tramandano di padre in figlio. Non è un caso che molti di loro hanno avuto successo anche al di fuori dell’Africa, venendo spesso chiamati a suonare in America. I più famosi sono Thione Seck, Youssou N’Dour e Mory Kante.


Ma dovete sapere che ho avuto la fortuna e l’onore, non solo di conoscere, ma anche di essere amico di uno dei più famosi cantanti senagalesi: Baaba Maal. Io e Baaba vivevamo nello stesso quartiere a Dakar e, anche se lui è un po’ più grande, avevamo stretto un legame. Ora è un musicista di successo, acclamato in tutto il mondo. Una sua canzone è stata addirittura usata nella colonna sonora del film Black Panther. Non sapete che emozione quando al cinema ho sentito la sua voce! Ha portato la cultura senegalese in tutto il mondo e io sono davvero fiero di lui.


A proposito di film, quando eri piccolo c’era la tv? Sì, avevamo la tv in quegli anni, ma soltanto un canale e solo fino alle 22. Però andavamo spesso anche al cinema Al Karim, che si trova a Pikine, un quartiere vicino a dove abitavo da piccolo, dove ai tempi davano solo film indù, quelli che ora chiamiamo Bollywood.


Li trasmettevano in lingua originale e senza sottotitoli, ma in qualche modo capivamo lo stesso. I miei preferiti erano Sholay, Fakira, Dharam Veer e Nagin.


I miei attori preferiti erano Amithab Bacchan e Dharmendra e Sashi Kapoor. Ancora oggi, ogni tanto, mi capita di cercarli su Internet e riguardarli, mi riportano immediatamente alla mia giovinezza.


Non ti sei portato nulla dal Senegal quando ti sei trasferito? Purtroppo, come vi ho detto, è stato un trasferimento abbastanza inatteso e improvvisato, non ho avuto modo di portarmi granché. Ma d’altra parte, non so se avrei portato molto di più. Ci sono molti oggetti tradizionali che mi ricordano casa, ma proprio per quello è giusto che restino lì. In Senegal diamo molta importanza agli oggetti, ognuno ha il suo valore e alcuni hanno poteri magici secondo la tradizione. Li chiamiamo Gris-Gris e sono delle specie di amuleti, ognuno con la sua funzione specifica. Degli amici, per esempio, ne appesero uno in camera quando non riuscivano ad avere figli e dopo poco lei rimase incinta. Purtroppo oggi è pieno di Gris-Gris falsi.


In ogni caso, un oggetto, qualunque esso sia, non può farti davvero sentire in Senegal, e lo stesso sfortunatamente vale anche per la maggior parte dei locali di ritrovo senegalesi che potete trovare qua a Milano, per quello non li frequento più e non vi ci ho mai portato. Lì dentro continui a sentirti a Milano, mentre dovresti poter respirare l’atmosfera senegalese, dimenticarti di essere in Italia. Dovrebbero essere luoghi dove conoscere la nostra cultura, ma non solo per noi, anche per gli italiani, che potrebbero scoprire qualcosa in più, avere un confronto che li renda umanamente più ricchi. Invece i locali etnici qui sono principalmente una moda, propongono soltanto certi aspetti della nostra cultura, i più superficiali. In generale, ho sempre fatto fatica qua a Milano a sentirmi parte di una comunità, anche perché qui la cultura è diversa. Non ci si conosce tra vicini di casa, per esempio, non ci si riunisce tutti insieme. È tutto più isolato. E anche con gli altri senegalesi trasferiti qui non mi sono mai sentito parte di un legame come quello che mi lega a parenti ed amici in Africa.


Ma quindi che lingua parlavate in Senegal? Dipende. A casa parlavamo il Wolof, mentre a scuola il francese, che è la lingua ufficiale, ma studiavamo anche l’inglese. Infatti, so parlare il Wolof, e tutt’ora mi ritrovo spesso a pensare in Wolof, ma non ho mai imparato a leggerlo, per questo quando mio nipote mi scrive dal Senegal faccio molta fatica a capirlo! In generale in Senegal si parlano un’infinità di dialetti, perché ogni gruppo etnico aveva il suo, e il francese e l’inglese sono stati portati solo con la colonizzazione.


Devo dire però che io sono contrario alla tendenza degli ultimi anni ad insegnare i vari dialetti nelle scuole, invece del francese, perché è grazie ad esso che i diversi gruppi si sono riuniti sotto una lingua comune. Ha permesso una maggiore unione, un maggior dialogo. Penso che più che la lingua, sia importante mantenere e tramandare i valori della nostra cultura.


Quali sono questi valori del Senegal di cui parli? È difficile riassumerli in poche parole. Per esempio, da noi è fondamentale il “Teranga”, che è una parola intraducibile in qualsiasi altra lingua, e rappresenta uno dei valori più alti del nostro popolo. “Teranga” non si traduce con la semplice parola “ospitalità”, ma esprime molto, molto di più!


Accoglienza, rispetto,attenzione, gentilezza, allegria ed il piacere e l’onore di ricevere un ospite nella propria casa. In suo onore verranno preparati i piatti più squisiti dell’antica tradizione culinaria senegalese con gli ingredienti più ricercati.


Oltre a questo, c’è il rispetto per gli antenati e per gli anziani di cui vi parlavo. Come disse lo scrittore Amadou Hampâté Bâ “in Africa quando un vecchio muore, brucia una biblioteca”. Un suo libro si intitola Petit Bodiel, è una raccolta di racconti, miti, fiabe e storie tramandate dai Griot relativi all’Africa ancestrale. Non è un caso se entrambe avete come secondo nome Bodiel, che è anche il nome di vostro nonno, voleva essere un piccolo omaggio a un grande uomo. Grazie al suo libro, parte della nostra tradizione è salvata dall’incendio metaforico dello scorrere del tempo.


Quella della biblioteca in fiamme è un’immagine molto bella e molto vera, anche per questo ho sempre piacere a raccontarvi del Senegal, ma voglio che siate voi a interessarvi, non voglio imporvelo. E sono felice che mi abbiate fatto tutte queste domande! È parlando che si mantiene viva la cultura e si costruiscono i legami umani, quelli veri. E come dice uno dei detti africani più belli: Nit nitay garabam. “L’uomo è il rimedio dell’uomo” ovvero, nessun uomo è un’isola. Non dimenticatelo mai.


Questo racconto è liberamente ispirato alla storia di Samba, un migrante senegalese arrivato in Italia più di 30 anni fa, che ha avuto il piacere di raccontarci la sua vita e la sua esperienza. Il dialogo fittizio nasce come espediente narrativo all’interno del progetto “Una nave per il Mediterraneo” e come approfondimento del tema dell’Alterità per il corso di Semiotica del Progetto. Il progetto si pone l’obiettivo di raccontare il paese e la cultura di origine di un migrante. Abbiamo deciso di impostare il progetto in questa forma dialogica e intima al fine di mettere in risalto i lati più umani del racconto, la visione soggettiva del singolo, così che sia egli stesso a raccontare la sua cultura in prima persona. L’Altro a raccontare la sua Alterità. Il nostro compito è stato quello di tradurre questo dialogo in una forma fruibile a un pubblico ampio, arricchendolo con una parte iconografica in grado di rendere anche visivamente gli eventi narrati. Le immagini, inoltre, parlano un linguaggio che supera le differenze linguistiche e può così aggiungere una componente importante al racconto e aiutare a farsi un’idea più precisa dei tanti dettagli riportati, a cogliere le varie sfumature di una cultura estremamente ricca e affascinante. Ringraziamo di cuore Samba per la sua gentilezza e la sua disponibilità nel renderci partecipi della sua storia. Il suo aiuto è stato fondamentale per orientarci e permetterci di immergerci in una cultura di cui non sapevamo nulla. Speriamo che il suo racconto possa arricchire i lettori come ha arricchito noi e che possa essere il pretesto per approfondire in seguito la propria conoscenza a riguardo. Gli Autorə



A rescue Ship for the Mediterranean Semiotica del progetto a.a. 2021/2022 Prof. Salvatore Zingale PhD candidate Daniela D’Avanzo


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