Ciò che dirò all’altro
mappe dell’alterità Antonio F. Brunetti
Andrea Molteni
Maria Nardi
Elisabetta Vignali
Laura Zani
Davide Zoppi
Ciò che dirò all’altro
mappe dell’alterità Antonio F. Brunetti
Andrea Molteni
Maria Nardi
Elisabetta Vignali
Laura Zani
Davide Zoppi
INTRODUZIONE
Oggi che le culture non sono più limitate ai confini geografici, come le persone esprimono l’identità individuale a partire dalle proprie origini? La globalizzazione ha sicuramente messo in crisi quella definizione di identità legata a un luogo o a particolari tratti, ma era riduttiva ancor prima che venisse messa in discussione. Siamo in continuo contatto con realtà e culture differenti dalla nostra e sappiamo bene quanto tutto questo ci costituisca: l’individuo oggi può trovare appartenenza in ogni tipo di connubio culturale purché trasmetta valori condivisibili con la propria visione e il proprio giudizio sulle cose. Abbiamo deciso di raccontare il tema della diaspora africana, analizzandolo attraverso una particolare prospettiva: il lavoro si è concentrato su quei tratti culturali a cui le persone che arrivano dall’Africa occidentale non vogliono rinunciare in quanto costitutivi della propria identità. A partire da questo attaccamento alla propria cultura e dal modo in cui questa trae forza e vitalità dalla terra che la forma, abbiamo cercato di rintracciare le persone che hanno raccontato di sé, avendo questo come punto nevralgico. Acconciature e abbigliamento non sono riducibili soltanto a questioni estetiche o rituali, ma costituiscono un mezzo comunicativo all’interno di un contesto sociale. Nel momento in cui più culture si incontrano, i vestiti e le pettinature diventano un simbolo di appartenenza culturale, un atto comunicativo dei propri valori. A sinistra: Yuqi Wang, Empire Returns. Babacar Top, NY, Stati Uniti, 2021
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15 5 14 Mali . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 Nigeria . . . . . . . . . . . . . . . 2 Togo . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 Costa d’Avorio . . . . . . . . . 4 Senegal . . . . . . . . . . . . . . . 5
Burkina Faso . . . . . . . . . . 6 Niger . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Benin . . . . . . . . . . . . . . . . 8 Ghana . . . . . . . . . . . . . . 9 Liberia . . . . . . . . . . . . 10 Sierra Leone . . . . . . . . . 11 Guinea . . . . . . . . . . . . . 12 Guinea Bissau . . . . . . . 13 Gambia . . . . . . . . . . . 14 Capo Verde . . . . . . . . . . 15 Mauritania. . . . . . . . . . 16
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ACCONCIATURE
«Protective styles are often seen through the lens of cultural appropriation, but celebrating their rich history is key to cultural appreciation.» Del Sandeen
In questa sezione tratteremo dei cosiddetti protective hairstyles, le acconciature tipiche della cultura africana. Un tratto identitario a cui poche persone riescono a rinunciare, dopo aver lasciato il paese d'origine. In questo particolare utilizzo delle acconciature, donne e uomini trovano un mezzo per raccontare le proprie origini in una dimensione sociale. La ricchezza di questo tema è data dalla lunga storia: sin dagli anni Settanta fotografi e artisti hanno trovato nelle acconciature un punto di riflessione e un oggetto per raccontare il mutamento di una caratteristica estetica in simbolo culturale e identitario. A destra: Nybe Ponzio, fotografia della serie Afro Hair, Mali, 2019-.
OKHAI OJEIKERE HAIR STYLE
YOUSSUF SOGODOGO LES TRESSES DU MALI
J.D. Okhai Ojeikere (1930-2014) è stato uno tra i fotografi nigeriani più influenti. Negli anni ‘70 ha ritratto oltre 1000 acconciature raccolte in Hair Style, lavoro che lo ha reso noto: una ricerca sull’evoluzione sociale postcoloniale che narra la diversità tra gruppi etnici, la complessità ed i simboli intrinsechi alle acconciature delle donne nigeriane.
La serie fotografica Les Tresses du Mali, iniziata negli anni ‘50 parla poeticamente della bellezza dei capelli afro e dell’arte dell’intreccio tipico delle donne del Mali. Si è concentrato sull’elemento dei capelli, ingrandendo e ripetendo le immagini - finché non ha sentito che traducevano più onestamente la vita che vedeva di fronte a lui. Il processo è diventato anche un metodo di conservazione per l’artista, spinto dall’osservazione che la crescente predominanza di negozi di parrucche in tutto il continente sta minacciando questo mestiere, erodendo così importanti elementi del patrimonio maliano e africano. Un evento tradizionale e domestico, il processo catturato da Sogodogo, offre una visione di un momento intimo sia per il soggetto che per l’artista. Come agricoltore e figlio di un agricoltore, la macrofotografia riflette anche un inseguimento all’interno dell’estetica geometrica e grafica delle trecce, paragonate dall’artista a passaggi, o percorsi, che si intersecano per creare incroci. La serie viene esposta per la prima volta dalla piattaforma artistica Black Shade Projects, un collettivo che si concentra sulla fotografia da tutta l’Africa e la diaspora.
Sopra: J.D. Okhai Ojeikere, fotografie dalla serie Hair Style, Nigeria, anni 70.
Sopra: Youssuf Sogodogo, serie fotografica Les Tresses du Mali, Mali, ca 1950.
HALLY BARA, L’ARTIGIANA DEL MALI Hally Bara è un’artigiana maliana che produce i tradizionali copricapi Songhai e Tuareg. Questi, immortalati dal fotografo Joe Penney in un suo reportage erano tradizionalmente indossati nel nord del Mali da figure elitarie in occasioni speciali. Tuttavia, severe limitazioni sono state poste sul loro uso durante i nove mesi di dominio degli islamisti radicali a Gao, finito solo nel 2013 con l’arrivo delle truppe francesi e maliane. L’attività di Hally Bara ha subito un colpo quando il gruppo islamista MUJAO (Movimento per l’Unità e la Jihad in Africa Occidentale) prese il controllo di Gao e cercò di impedire alle donne di indossare questo tipo di copricapo, perchè non abbastanza islamico.
Joe Penney, Balkissa Maiga, 17 anni, indossa un copricapo tradizionale Songhai realizzato dall’artigiana Hally Bara a Gao, Mali, 2013
Sopra: Youssuf Sogodogo, serie fotografica Les Tresses du Mali, Mali, ca 1950.
Joe Penney, Madinatou Soumailou Toure, 15 anni, indossa un copricapo tradizionale Songhai realizzato dall’artigiana Hally Bara a Gao, Mali, 2013.
NYBE PONZIO AFRO HAIR La passione per la fotografia di Nybe Ponzio, nato in Mali, si è velocemente materializzata in carriera professionale quando ha combinato i suoi studi di marketing e comunicazione con la sua arte visiva. Ponzio è un creator artistico il cui lavoro sente dell’influenza di arte, cultura e nuove tecnologie. Nella sua intervista a StockX afferma ad Herby: N: «Da Parigi a Bamako, passando per Compton o Marrakech, la fotografia di Nybe Ponzio è l'elemento che gli ha permesso di stringere legami e discutere appassionatamente sulle opere di Malick Sidibé, Seydou Keïta, Gordon Parks, Jamel Shabazz.» H: «Il tuo account Instagram ci fa scoprire le tue esperienze di vita a Parigi, New York, Marrakech, Montreal, Los Angeles, Bamako... Quanto è importante per te viaggiare?»
N: «Bamako è la mia seconda casa! Ho un legame molto forte perché i miei genitori e i miei amici vivono lì. Recentemente un amico mi ha detto: «Ho girato molte città in Africa ma Bamako è la città che mi fa davvero sentire come se fossi in Africa». Interpreto questa citazione dal fatto che Bamako mantiene il suo tradizionalismo africano. La città rappresenta l’autenticità di Mandé.» H: «Ero particolarmente legato alla tua serie Afro Hair che mette in risalto i tagli di capelli delle giovani ragazze afro-discendenti in Mali. Come hai pensato e sviluppato questa serie?» N: «Per me la rappresentazione è molto importante perché ti permette di identificarti e trovare le tue origini. Ho realizzato questa serie di foto per combattere la discriminazione nei confronti dei capelli afro e, allo stesso tempo, per ridare orgoglio ai capelli afro.»
N: «Per me, viaggiare significa scoprire nuove culture, diversi modi di vivere e di pensare. Viaggiare ti permette di avere una mente aperta, vedi il bene e il male, ti dà nuove idee. Ho sempre amato imparare e penso che viaggiare renda più facile l’apprendimento. È importante per me cambiare il mio ambiente. All’interno di una città, si può viaggiare. Se si lascia il 16° arrondissement per andare al 18° arrondissement, si viaggia, si scoprono cose.» H: «Da quasi un anno possiamo seguire il tuo viaggio a Bamako, in Mali. Cosa rappresenta per te questa città?»
Sopra: Nybe Ponzio al Haiidesigns Le Studio, Bamako, Mali, 2021
Nybe Ponzio, foto tratte da Afro Hair, Mali, 2019.
LAETITIA KY CAPELLI COME DENUNCIA SOCIALE Laetitia Ky è una giovane giovane artista ivoriana famosa per le straordinarie sculture che crea con la sua capigliatura afro: un modo per celebrare le sue radici e affrontare temi spesso delicati e scomodi, soprattutto nella realtà africana. I capelli come strumento per esprimere punti di vista e prese di posizione, spingere alla riflessione e stimolare il dibattito: Laetitia Ky è una stella nascente di quella che potremmo chiamare body art impegnata, un’attivista e femminista che ha trasformato le sue capigliature, acconciate con fil di ferro e corde, in un simbolo e in un potente strumento di comunicazione.
«Come mi piace dire, la natura ha messo tutto ciò che ha messo sul nostro corpo per un motivo. Amo e celebro i miei peli pubici perché mi ricordano che sono una donna adulta. Tutti hanno il diritto di radersi o meno, ma nessuno ha il diritto di giudicare un’altra donna per aver deciso cosa vuole fare del suo corpo».
I temi trattati sono i più disparati, dal patriarcato al #metoo passando per body acceptance, lotta agli stereotipi e libertà di espressione. Ha firmato un dipinto in cui si è ritratta mentre acconcia i peli del pube per stimolare una riflessione su quella che è ormai diventata una norma sociale, e cioè la depilazione:
Sopra: Laetitia Ky
Sopra: Laetitia Ky, foto di denuncia alla violenza sulle donne, Costa d’Avorio, 2020.
Laetitia Ky, fotografia sul tema della parità dei sessi, Costa d’Avorio, 2019.
EMILIE REGNIER HAIR Emilie Regnier è una fotografa canadese che ha vissuto la maggior parte della sua gioventù nell’Africa centrale per poi spostarsi a Parigi, nel 2014 mentre viveva in Costa d’Avorio sviluppa il progetto Hair. Una raccolta fotografica di ritratti femminili che pone l’attenzione sulle acconciature delle donne ivoriane con lo scopo di indagare le complessità rappresentate dai capelli delle donne tentando di spiegare l’influenza afro-americana, la parte dovuta alla globalizzazione e quella relativa al modo in cui l’Africa decodifica le informazioni viste in televisione. L’artista ha scattato i ritratti con la tecnica utilizzata dai fotografi locali:
no, da Yopougon, Adjamé o Marcoury, non lesinano soldi o mezzi al fine di rendersi belle: pedicure, manicure, prodotti schiarenti e specialmente le parrucche. Le acconciature sono il privilegio della donna go-choc. Queste sono donne che investono i propri risparmi in colpi di luce, extension, capelli naturali o sintetici. Quasi tutte le donne che ho intervistato a proposito dei propri gusti in fatto di capelli mi hanno detto di voler assomigliare a Beyonce, Rihanna e, a volte a tutte e due assieme. Hair è stata in mostra al Bronx documentary centre di New York nel 2017.
«Siccome non possono permettersi una macchina fotografica digitale, la maggior parte di loro usa ancora la pellicola. Vanno in giro con la macchina fotografica al collo e quando vedono donne con acconciature particolari, le fotografavano da varie prospettive». Le foto vengono poi stampate, e spesso per risparmiare sui costi, su una stessa stampa, sono messe due foto della stessa acconciatura, ma ripresa da due punti di vista diversi. Al prezzo di massimo un dollaro, le stampe sono poi rivendute ai parrucchieri, che le usano come proposte per le loro clienti. Emilie Regnier ha inoltre intervistato molte delle donne ritratte capendo così che il modo in cui portano i capelli è una forma d’espressione. In Costa d’Avorio, le donne fanno di tutto per essere go (ragazze di bell’aspetto). Una donna go è una donna che ondeggia le spalle! Gli uomini si girano a guardarla quando passa. Beve champagne e accetta solo la compagnia di uomini influenti. I giovani squattrinati sognano il giorno in cui saranno più maturi e si potranno permettere una go. Indipendentemente da dove vengo-
Emilie Regnier, foto tratta da Hair, Costa d’Avorio, 2014.
Emilie Regnier, foto tratta da Hair, Costa d’Avorio, 2014.
Emilie Regnier, foto tratta da Hair, Costa d’Avorio, 2014.
MEDINA DUGGER CHROMA: UN’ODE A J.D. ‘OKHAI OJEIKERE Chroma è una serie che celebra le acconciature delle donne in Nigeria attraverso l’obiettivo fantasioso e contemporaneo della fotografa Medina Dugger. Tutte le immagini sono ispirate dai colori dei capelli delle donne di Lagos e prende ispirazione dall’opera del defunto fotografo nigeriano J.D. ‘Okhai Ojeikere. L’approccio di Ojeikere nelle sue fotografie è stato di natura documentaristica, e questo lo ha portato a fare l’inventario di oltre mille stili su un periodo di oltre 40 anni. Mentre il mondo diventa sempre più connesso, sorgono nuove opportunità, influenze e comprensione, tuttavia le pratiche sociali e culturali che contribuiscono al carattere di una civiltà e della sua gente rimangono una componente essenziale della comprensione del nostro passato e del futuro. Chroma mira a preservare e incoraggiare un’antica pratica nigeriana, presentandola in una prospettiva contemporanea. Mettendo in evidenza sia gli stili tradizionali che quelli contemporanei la serie ha un approccio più stravagante rispetto allo stile documentaristico di Ojeikere, per evidenziare i motivi attuali dei capelli, celebrando l’arte della cultura nigeriana del braiding. Medina Dugger descrive la sua esperienza nell’approccio a questi scatti dicendo: «Poiché vengo da una cultura molto diversa da quella in cui vivo ora, mi approccio a fotografare un soggetto che coinvolge una diversa identità con grande rispetto, responsabilità, apertura e considerazione. Faccio ricerche prima di iniziare una serie e spesso coinvolgo i soggetti nel processo decisionale quando si tratta di decidere come rappresentarli, così il processo e la fotografia sono collaborativi e non solo il mio sguardo.»
A destra: Medina Dugger, Chroma: An Ode to J.D. ‘Okhai Ojeikere, Lagos, Nigeria, 2017.
MODA TRADIZIONI
«Senza vestiti, noi africani, non possiamo giocare la nostra parte nel mondo.» Kofi Ansah
In questa sezione trattiamo dell’ampio scenario stilistico dell’Africa occidentale. Il racconto parte da un breve excursus storico su quelle che sono state le personalità locali che hanno trattato il tema della moda africana sia a livello fotografico che produttivo dagli anni ‘80, per poi passare a quelli che sono i tessuti tipici della tradizione occidentale africana e sulla loro funzione simbolica. Poi la narrazione si sposta su designer e stilisti che hanno deciso di rimanere nel proprio paese offrendo una personale visione della loro cultura stilistica in chiave contemporanea. A sinistra: Dan Beleiu, Fotografia di capi di Romzy, Madeleine D’Arabie, Sigil, Fara, Neroli, Bélya, Accro Baobab in Nguekhokhe, Senegal 2020
MALICK SIDIBÈ L’OCCHIO DI BAMAKO Il fotografo Malick Sidibé nasce nel 1936 nel villaggio di Soloba, in Mali, e scompare nel 2016, a 80 anni, a Bamako, dove ha creato e scattato la maggior parte del suo lavoro. Rimasto cieco da un occhio per un incidente d’infanzia, Sidibé era conosciuto come l’occhio di Bamako. Ha iniziato a scattare le sue famigerate fotografie in bianco e nero nel 1956, dopo aver lavorato come assistente di studio per il fotografo francese Gérard Guillat, ed è stato presto all’avanguardia della fotografia di ritratto nel Mali post-indipendenza. Fin dall’inizio, Sidibé ha incarnato l’aspetto resistente ma spensierato della stessa gioventù di Bamako che ha catturato sulla macchina fotografica. Non era lo strumento di Guillat, o una pedina della fotografia coloniale - ma un fotografo a pieno titolo «Lui [Guillat] non mi ha insegnato a fotografare, ma l’ho guardato e ho capito come fare fotografie.» Sidibé apre lo Studio Malick nel 1958, che presto acquista la reputazione di luogo creativo. Rinomato per la sua fotografia documentaria, se Sidibé non stava facendo festa, la stava seguendo - eventi sportivi, nightclub, concerti e corteggiamenti. Eppure, la presenza pervasiva di Sidibé nelle sue fotografie non ha mai sovrastato le azioni dei suoi soggetti - la spontaneità istantanea e il fascino non sono mai stati sacrificati.
Da in alto a sinistra: Malick Sidibé, 1.I falsi agenti dell’FBI, Mali, 1974 2. Uno Yé-yé in posizione, Mali, 1963 3. Un giovane gentiluomo, Mali, 1978 4. La gazzella/Con il mio cappello e le zampe d’elefante, Mali, 1974 5. Il falso cow-boy su un motorino, Mali, 1974 6. Malick Sidibé, Guardami, Mali, 1962
SEYDOU KEYTA IDENTITÀ FOTOGRAFICA Seydou Keyta nasce nel 1921 a Bamako, nel Mali. Figlio di un falegname, era destinato a seguire la strada del padre fino a quando lo zio, nel 1935, di ritorno da un viaggio in Senegal, gli regala un rullino da otto pose e la sua prima macchina fotografica, una Kodak Brownie Flash, introducendolo per sempre al mondo della fotografia. Lo sviluppo dei suoi primi scatti avviene nei laboratori di Pierre Garnier e di Mountaga a Bamako, dove impara egli stesso i processi dello sviluppo. Nel 1949 riesce finalmente a dedicarsi completamente alla sua passione, e apre il suo studio fotografico che diventa il punto di riferimento per chi vuole farsi ritrarre e per chi vuole ridefinire la propria identità attraverso la fotografia.
Sopra:Seydou Keyta, Untitled, Bamako, Mali, ca 1940-1950.
L’idea di poter trascendere il proprio status sociale attraverso un ritratto è quindi estremamente forte nelle sue fotografie. I soggetti sceglievano gli abiti (a volte indossano tessuti tradizionali, oppure sfoggiano outfit di ispirazione chiaramente occidentale), così come i props che si trovano nel laboratorio del fotografo. Ogni scatto è una vera e propria mise-en-scène in cui si percepisce la collaborazione tra il fotografo e il soggetto fotografato ed è questo a rendere uniche le fotografie di Seydou Keïta. Per la prima volta, il popolo africano ha l’opportunità di scegliere come apparire e di costruire liberamente la propria immagine. Keïta è dunque un fotografo a disposizione della gente e i suoi ritratti non sono frutto di ambizioni artistiche, ma di un naturale senso di partecipazione per la storia della sua comunità.
Sopra:Seydou Keyta, Untitled, Bamako, Mali, ca 1940-1950.
Sopra:Seydou Keyta, Untitled, Bamako, Mali, ca 1940-1950.
Sopra:Seydou Keyta, Untitled, Bamako, Mali, ca 1940-1950.
INDIGO LA RICCHEZZA DEL CONTINENTE L’indaco (indigo) è il fondamento di tradizioni tessili secolari in tutta l’Africa occidentale. Dai nomadi Tuareg del Sahara al Camerun, i vestiti tinti con l’indaco stavano ad indicare ricchezza. Una tecnica di stampa molto diffusa è il tie and dye (legatura e stampa) a riserve bianche. Il tessuto è annodato, spesso sotto forma di piccoli coni, una volta essiccato si slegano i coni per fare apparire in negativo il motivo bianco sul fondo blu indaco. A seconda della qualità della legatura e della quantità dei nodi che preservano il tessuto dal colore si ottengono dei motivi e degli effetti geometrici di diversa gradazione. L’uso dell’indaco ha giocato un ruolo fondamentale nelle tecniche di stampa africane, in quanto è il solo colorante naturale efficace a bassa temperatura sulle fibre vegetali. Da sempre i colori utilizzati nell’abbigliamento hanno permesso agli esseri umani di differenziarsi dai loro simili fornendo un linguaggio cromatico, un codice identitario. In riferimento all’indaco un proverbio del Ghana recita: «Un tessuto senza blu è come l’Africa senza palme da cocco». La sua valenza, oltre che meramente estetica, è spirituale, magica. In Togo i tessuti indigo vengono acquistati come doni famigliari in occasione delle feste di Pasqua, mentre in Benin sono indossati durante le danze cerimoniali vudù.
Sopra: Nybe Ponzio, fotografie di bancarelle di tessuti indigo, Bamako, Mali, 2021.
ADINKRA E I SUOI SIMBOLI
ADINKRAHENE simbolo di gratitudine, carisma e leadership AKOFENA simbolo di coraggio, valore ed eroismo
FOFO simbolo di gelosia ed invidia
GYE NYAME simbolo della supremazia di Dio
HYE WON HYE simbolo di incorruttibilità e resistenza MPATAPO simbolo di riconciliazione e pace
NSAA simbolo genuinità e autenticità
NSOROMMA simbolo di apprensione NYAME DUA simbolo della presenza e protezione di Dio
SESA WO SUBAN simbolo della trasformazione della vita WO NSA DA MU A simbolo di governo partecipatorio, democrazia e pluralismo
Sopra: significati di alcuni dei simboli Akan.
L’Adinkra è un panno di cotone prodotto in Costa d’Avorio su cui sono stampati i tradizionali simboli Akan. Essi rappresentano proverbi e massime popolari, registrano eventi storici, esprimono atteggiamenti o comportamenti particolari legati alle figure raffigurate o concetti legati a forme astratte. La storia narra che i numerosi simboli contenuti della stoffa Adinkra siano originari di Gyaman, un antico regno residente nella Costa d’Avorio moderna. Il popolo abitante aveva sviluppato abilità significative nella tessitura nel XVI secolo anche se l’utilizzo era un diritto esclusivo dei reali e dei leader spirituali e veniva utilizzato solo per cerimonie importanti come i funerali o le festività religiose. Nel corso del tempo le popolazioni svilupparono ulteriormente la simbologia adinkra incorporando le proprie filosofie, racconti popolari e cultura. Il tessuto Adinkra è oggi utilizzabile da tutta la popolazione e più ampiamente disponibile, l’inchiostro tradizionale utilizzato per lo stampaggio si ottiene facendo bollire la corteccia dell’albero Badie con scorie di ferro. Poiché l’inchiostro non è fissato, il materiale non deve essere lavato. I tessuti autentici e locali come l’Adinkra sono pieni di significati nascosti o proverbi locali, consentendo agli utilizzatori di fare dichiarazioni particolari con il loro costume.
AISSA DIONE REINTERPRETAZIONE DEI TESSUTI MANJACK In Senegal esiste una tradizione tessile basata su alcune tecniche di tessitura manuale del popolo Manjack, emigrato dalla Guinea-Bissau. Un’artista e designer franco-senegalese, ha avviato un laboratorio con uno degli ultimi gruppi rimasti di questi artigiani e un solo telaio proveniente dal popolo Manjack; dando vita così all’attività Aissa Dione Tissus. Per farlo ha applicato dalle conoscenze tecniche acquisite attraverso i suoi studi in belle arti, alla tessitura tradizionale a mano, riuscendo ad adattare questo sistema tradizionale ai macchinari moderni, rendendolo così adatto alla produzione industriale. Inoltre Aissa ha adottato una tavolozza di colori sofisticata e sviluppato nuovi modelli per il tessuto, rielaborando elementi grafici tipici della cultura africana, e migliorando la qualità delle materie prime tradizionali come il cotone e la rafia, conferendo alla tessitura Manjack una maggiore nobiltà, luminosità e sfarzo. Aissa Dione Tissus utilizza i migliori materiali, le competenze e le conoscenze originarie dell’Africa occidentale, ma allo stesso tempo si adatta alla natura industrializzata del mondo occidentale, lavorato attivamente con il governo del Burkina Faso e del Togo per sviluppare e salvare le culture di tessitura esistenti creando disegni sofisticati, migliorando la qualità e formando i tessitori per spingere queste arti tradizionali di tessitura ai vertici del tessile per l’uso commerciale, mantenendo l’unicità che ogni cultura ha.
Sopra: Fotografia dell’atelier di Aissa Dione Tissus Dakar, Senegal, 2021.
IL BAZIN IL TESSUTO DELLE CERIMONIE ll bazin, un tessuto di cotone pesante con una lucentezza particolare, è estremamente popolare in tutta la regione del Mali ed è indossato in quasi tutte le occasioni formali. «Se ti presenti ad un matrimonio senza indossare il bazin, potresti anche non presentarti affatto» ha detto Baba Sereme, uno stilista noto per i suoi abiti bazin da uomo, tinti a mano con colori elaborati. L’annuale Festi’Bazin, che si tiene nella capitale fluviale Bamako, mette in mostra il tessuto e vede la partecipazione di designer provenienti da Senegal, Mali, Niger e Marocco. Tuttavia l’obiettivo è tanto il miglioramento della vita delle persone in uno dei paesi più poveri del mondo quanto la moda. «L’industria bazin è fantastica perché non c’è bisogno di andare a scuola per essere un designer o uno stilista o un tintore o un sarto. La creatività è qualcosa che non si impara. È qualcosa con cui si nasce», ha detto Aminata Bocoum, fondatrice di Festi’Bazin. Il fotografo dell’agenzia Reuters, Joe Penney, ha fatto del bazin il tema del suo reportage a Bamako.
In alto a destra: Joe Penney, Il modello Darhat Diallo e la modella Oumou Soumare, in look bazin realizzati dal designer Barros Coulibaly a Bamako, Mali, 2015.
Sotto: Joe Penney, la modella Coumba Soumare indossa una gonna del designer maliano Tawati, mentre si prepara a salire sulla passerella del Festi’Bazin a Bamako, Mali, 2015.
OUMOU SY MODA E IMPEGNO SOCIALE
In una intervista da lei rilasciata racconta della sua infanzia e del suo approccio al mondo della moda, sicuramente diverso da quello di molti altri: «Le donne della mia tribù hanno un solo scopo: sposarsi, essere graziose e stare in silenzio. Quando mio padre è morto, ho sentito tutta la sua forza entrare in me. A cinque anni non ero più una bambina, a 9 anni ho rifiutato un matrimonio combinato, a 13 anni mia madre mi ha comprato la mia prima macchina da cucire e ho iniziato a cucire usando tessuti di recupero. Volevo essere indipendente perché se sei una donna, finanziariamente autosufficiente e puoi provvedere ai tuoi genitori, sarai rispettata.»
Nata nel 1952 a Podor e autodidatta, Oumou Sy vive a Dakar, in Senegal, dove insegna all’École de Beaux Arts e dirige gli Ateliers Leydi, una scuola che svolge anche un importante ruolo di salvaguardia delle tecniche tradizionali. Fashion designer e propagatrice di cultura, Oumou Sy è senza dubbio una delle esponenti più interessanti della scena della moda in Africa, attività alla quale affianca un profondo impegno politico e sociale.
Sopra: Toby Coulson, Oumou Sy x Document journal, Senegal, 2020.
Sopra: Toby Coulson, Oumou Sy x Document journal, Senegal, 2020.
Centro del suo impegno è comunque la ricerca sartoriale: immagina e realizza capi di haute-couture, prêtà-porter, disegna gioielli e accessori. Esperta nelle tecniche di tessitura, tintura e ricamo, utilizza materiali di varia natura – prodotti naturali come cipolle e zucche, ma anche metallo e vinile – combinando stoffe e motivi decorativi africani con elementi e pattern occidentali. Le relazioni tra Europa e Africa sono da sempre basate su un modello che prevede l’individuazione in terra africana, da parte degli europei, di tutto ciò da cui si può ricavare un profitto. Questo anche se l’Africa è perfettamente in grado di costruire elaborazioni della propria cultura, rileggendola e modificandola secondo le necessità di un gusto estetico che muta di continuo. Oumou Sy si pone in questo solco, reinterpretando la tradizione, assorbendo le sollecitazioni esterne, componendo materiali diversi – cotoni stampati e stoffe batik, pesanti damaschi e sete cangianti, rafia e plastica. Crea abiti molto eleganti, teatrali, che in qualche modo possono essere considerati un suo commento ironico alla visione esotica e occidentale dell’Africa – maniche gonfie, tournures, copricapi eccentrici. Parlando del modo in cui si esprime, Oumou dice: «Non ho mai imparato a leggere e scrivere, e così la mia moda è il veicolo più importante per esprimere la mia creatività.»
A destra: Toby Coulson, Oumou Sy x Document journal, Senegal, 2020.
MODE SENEGAL UNA RIVISTA PER RACCONTARE LE REALTÀ LOCALI La rivista Mode Senegal nasce dalla volontà del Goethe-Institut del Senegal. L’obiettivo, come espresso dalle prime righe dell’editoriale, pone l’accento sulla necessità di raccontare realtà locali rompendo il confine geografico, rappresentandosi globalmente: «Il punto di partenza di questa rivista di moda è stata quindi la domanda su come il Goethe-Institut Senegal possa rendere visibile la moda senegalese oltre confine, in stretta collaborazione con professionisti della cultura e della creatività.» «Il Senegal e il suo patrimonio incredibilmente diversificato, le innumerevoli influenze moderne, le tradizioni locali e il potere di un intero continente sono il punto di partenza per una scena della moda che per anni è sfuggita al radar, ma che sta costantemente guadagnando slancio.» Le immagini mostrano la collezione Baobab Forest che racconta il rapporto radicale della visione stilistica senegalese con il paesaggio circostante. I colori dei capi, le texture, i tessuti spiccano come elementi fondamentali per raccontare l’identità culturale.
A destra: Dan Beleiu, Fotografia di capi di Romzy, Madeleine D’Arabie, Sigil, Fara, Neroli, Bélya, Accro Baobab in Nguekhokhe, Senegal 2020
TONGORO ARTIGIANATO LOCALE E MADE IN AFRICA
I: In che modo il marchio promuove l’artigianato locale e investe nella formazione artigianale? S: «La sartoria è una parte enorme della cultura dell’Africa occidentale. Tutti hanno un sarto personale. Eppure, quando ho iniziato a tornare regolarmente in Senegal, ho scoperto che la maggior parte del reddito annuale dei sarti era realizzato intorno alle celebrazioni religiose. Molti di loro non hanno mai frequentato la scuola di moda ma hanno ereditato le loro abilità da un anziano e non sapevano bene come lavorare con i modelli. La bellezza nascosta di tutto ciò è che l’identità sartoriale del Senegal dipende dai suoi sarti, sono agenti culturali. Creano le tendenze, vestono la gente e sono i custodi di un know-how che si tramanda di generazione in generazione. Il mio obiettivo quando ho lanciato Tongoro non era solo quello di creare un marchio, ma di evidenziare questa incredibile risorsa che abbiamo e strutturarla.»
Il brand di Sarah Diouf, Tongoro Studio, il cui nome deriva dal soprannome che sua madre le ha dato, Tongoro, che significa stella in Sango. Localizzando il talento, i materiali e le tradizioni, Diouf mira a promuovere lo sviluppo economico e sociale degli artigiani dell’Africa occidentale infatti il brand si concentra su pezzi unici realizzati da sarti africani con tessuti tradizionali locali. Uno dei suoi obbiettivi è quello di sconfiggere l’idea che Made in Africa sia sinonimo di bassa qualità. Per conquistare il mercato globale, quindi, era necessario che le persone fossero invogliate a conoscere i loro prodotti, che fossero quindi accessibili a tutti.
Tongoro assume e forma dei sarti per produrre i capi rispettando gli standard internazionali delle taglie, assicurandosi che i clienti sappiano qual è la realtà dietro ai loro acquisti. Un altro evento che ha aiutato il brand a farsi conoscere è stato il video Sprit di Beyoncé, nel quale la cantante indossa ben quattro look selezionati dalle loro collezioni.
A sinistra: Erik Henriksson, frame dal video «Spirit» di Beyonce in cui indossa Bamako Suit di Tongoro Studio, Dakar, Senegal, 2019.
Sopra: Fotografia della collezione TongoroTribe Summer 2019 di Tongoro Studio, Dakar, Senegal, 2019.
Sopra: Fotografia della collezione MBËGEEL di Tongoro Studio, modelli Obree Daman e Amy Faye, Dakar, Senegal, 2021.
MODA
CONTAMINAZIONI
«My work is inspired by a vision I have for Africa and Africans. A vision of an Africa that shelters and respects individualism and for Africans, that the world’s opinion of us is redirected.» Oroma Elewa
A partire dalle parole di Oroma Elewa ci siamo voluti soffermare sul lavoro di chi si è impegnato a portare al di fuori dei confini la propria cultura, cercando di dare una visione dell’Africa differente da quella dell’immaginario comune. Stilisti che hanno portato i colori ed i tessuti della moda africana all’interno dell’alta moda e stilisti di seconda generazione che, non solo non hanno rinunciato all’appartenenza culturale della propria famiglia ma ne hanno tratto la loro cifra stilistica caratterizzante. La contaminazione di culture ed il rapporto che si instaura tra peculiarità nazionali porta questi lavori a trattare solo dell’essenziale, di ciò che vale la pena trattenere in quanto essenza e simbolo di valori irrinunciabili.
A destra: Olga de la Iglesia, Kalaag, Costa d’Avorio 2021
OROMA ELEWA POP’AFRICANA, UN MAGAZINE INDIPENDENTE B: Perché hai lasciato la Nigeria? O: Il trasferimento in America per la mia famiglia è stato in qualche modo un esilio economico. Abbiamo lasciato la Nigeria per una migliore qualità di vita attraverso opportunità accademiche e di lavoro. B: Cosa senti che manca nella comprensione americana della cultura africana? O: La comprensione della diversità della nostra cultura e delle nostre tradizioni.[...]. È abbastanza difficile comprendere appieno o sapere come rappresentare pienamente chi siamo come individui al mondo. B: Qual è la tua principale ispirazione, in altre parole, cosa ti spinge a creare? O: Il mio lavoro è ispirato dalla visione che ho dell’Africa e degli africani. La visione di un’Africa che protegge e rispetta l’individualismo degli africani. L’opinione del mondo su di noi deve essere reindirizzata.
Sopra: Jamie Nelson, How Pop can you go? in Pop’Africana Issue 1, Senegal, 2010
TOGO YEYE «NUOVO TOGO» Togo Yeye è una pubblicazione concettuale di due amici: la fotografa londinese e art director di Nataal Delali Ayivi e l’attivista di moda di Lomé Malaika Nabillah. Creata per il progetto di laurea di Ayivi al London College of Fashion, lei e Nabillah hanno deciso di sostenere i giovani creativi della moda del Togo, contribuire ai dibattiti sulla definizione di un’autentica identità contemporanea per il paese e sognare il suo fantastico futuro. Il duo ha trascorso diverse settimane a Lomé collaborando con studenti di fashion design, star dello street style, stilisti, scrittori, truccatori, modelli e artisti per creare una serie di storie edificanti per il libro. Unendo tutti questi talenti ed esplorando insieme influenze come l’upcycling, lo streetwear americano, l’afro-utopia e le pratiche di abbigliamento storiche del Togo, Togo Yeye propone un manifesto estetico del tutto originale, coraggioso e fantasioso. Di seguito, Nabillah e Ayivi rivelano la loro visione per il Togo Yeye. Togo Yeye si traduce in un nuovo Togo, ed è dedicato alla generazione di artisti e pensatori di domani e di oggi. Il suo obiettivo principale è documentare e celebrare coloro che spingono i confini creativi, in particolare nell’industria della moda di Lomé.
«Speriamo anche che attraverso la collaborazione possiamo rafforzare la nostra comunità e colmare il divario tra la diaspora togolese e le persone a casa.»
Sopra: Delali Ayivi, Fotografie per Togo Yeye, Lomé, Togo 2019.
LAGOS INCONTRA PARIGI. KARL LAGERFELD X KENNETH IZE COLLECTION Appena lanciata online da Browns, Farfetch e Karl Lagerfeld e nei principali negozi del marchio, la collezione unisce Lagos e Parigi sia in termini di ispirazione che di fabbricazione. Kenneth Ize, giovane designer con base a Lagos afferma: «Karl voleva reinventarsi, quindi per me questa sembra un’opportunità unica per fondere la mia visione della moda con l’atteggiamento parigino-chic di Karl. Ad esempio, ci siamo ispirati alla tribù Igbo in Nigeria con la stampa del tatuaggio Uli Body che abbiamo aggiunto alla maglieria. Puoi vedere l’artigianato africano in un modo diverso, e questo è qualcosa che è molto importante per me.» «Vorrei che il mio marchio parli della provenienza africana e che sia nella casa di tutti. Non si tratta solo del marchio o del mio nome: è più grande di quello. È un lavoro duro che nutre le famiglie, che supporta le donne a fare cose belle, quindi voglio vedere il successo nel mio lavoro perché viene tutto dal cuore.»
In alto a destra: Maison K. Lagerfeld, K. Lagerfeld x K. Ize SS21, NY, Stati Uniti, 2021
In basso: Maison Karl Lagerfeld, Karl Lagerfeld x Kenneth Ize SS21, NY, Stati Uniti, 2021
LAURENCE CHAUVIN BUTHAUD LAURENCEAIRLINE Il progetto Laurenceairline nasce nel 2011 dalla mente della designer Laurence Chauvin Buthaud con lo scopo di fornire un reale riscatto al proprio Paese d’origine – la Costa D’Avorio – in un periodo buio dal punto di vista politico e umano, dopo la guerra civile. Qui l’educazione è ancora inaccessibile alla maggior parte della popolazione, così il workshop africano organizzato da Laurence diventa un centro di scambio e di apprendimento per imparare le tecniche del cucito, i segreti della couture e della produzione di moda etica. Divisa tra Parigi e Abidjan, la stilista stabilisce l’incontro di due mondi distinti: quello sontuoso e patinato della moda e quello della ricerca culturale e della sostenibilità sociale. Laurenceairline, infatti, non è solo un progetto etico, ma promuove attivamente lo sviluppo professionale degli abitanti di Koumassi e investe i proventi delle vendite nello sviluppo del progetto stesso.
In alto: fotografie delle collezione Laurenceairline, Parigi, 2013-2021.
La prima collezione presentata è quella uomo SS12, interamente dedicata alla camicia e allo short e ispirata ai forti contrasti etnici. Lo stile fastoso delle grafiche e la semplice eleganza dei diversi pattern uniti insieme, genera un gioco di colori e richiami retro-futuristici nei tagli geometrici e nelle sovrapposizioni delle forme, che diventano il leitmotiv del marchio. La designer lo definisce un incontro tra moderno e tribale «un design intelligente che riflette un’odissea culturale attraverso la moda». Con l’utilizzo di tessuti locali come il popeline, lo chambray e il batik, le collezioni diventano una rivisitazione contemporanea dell’estetica dandy. Quando la moda va oltre la solita frivolezza. Laurenceairline è un brand interessante, innovativo e consapevole, attento ai trend contemporanei e con una spiccata ricercatezza di stile, trasforma l’uomo moderno in un’elaborata rivisitazione tra moda e gusto etnico.
In alto: fotografie delle collezione Laurenceairline, Parigi, 2013-2021.
KOUDIEDJI SYLLA SARAKULÉ SARAKULÉ è una storia raccontata da Koudiedji Sylla, giornalista, regista, e viaggiatrice che ha deciso di sostituire la macchina fotografica e la penna con i tessuti. Il suo obiettivo è quello di divulgare, valorizzare, demistificare e far rivivere le storie che contano: tintura, annodatura, tessitura, cotone, ricchezze e saperi che hanno resistito nel tempo. I tessuti degli abiti che lei realizza sono fatti in Mali da tintori di Ségou, Bamako e Mopti che usano indaco naturale. Tutto è lavorato a mano ed è per questo che le sfumature di blu possono variare da un prodotto all’altro rendendolo unico. «Perché il tuo marchio si chiama SaraKulé?» «SaraKulé, Soninké o Maraka, sono tutti termini che indicano la stessa comunità, nota per portare la sua cultura ovunque con sé. I SaraKulés sono noti per essere uno dei primi popoli dell’Africa occidentale ad aver tentato l’avventura all’estero. SaraKulè era termine che trasmetteva molti pregiudizi, non è moderno, ho chiamato il mio brand così per dissolvere tutti questi pregiudizi. È ricordare i valori che mi accompagnano e mi portano quotidianamente: l’importanza del viaggio, la trasmissione, la conservazione della cultura, l’assunzione di rischi, il coraggio. [...] Sono stata immerso nei tessuti fin da quando ero molto giovane. Tagliare i tessuti, aiutare mio padre a compilare fatture, scegliere i colori, tutti questi gesti facevano parte della mia vita quotidiana. Oggi, come una coreografia ripetuta da quando ero giovane, eseguo questi stessi gesti. Mio padre, arrivato in Francia negli anni ‘80, ha avuto diversi lavori e ha viaggiato molto.»
Jean-Claude Nazarii, la modella Helvy Nestor posa indossando la gonna Tunka di Sarakulè della designer maliana Koudiedji Sylla, Namibia, 2021
SOJI SOLARIN JOURNEY JUST COME
«Il mio nuovo obiettivo sarebbe un’eredità che ispiri altre eredità e che il mio lavoro faccia parte delle storie delle persone.»
La collezione SS21 di Soji Solarin, Journey Just Come, è ispirata al suo personale viaggio di vita attraverso tre continenti, così come da quelli della sua famiglia e degli amici del suo paese d’origine, la Nigeria. Il titolo è una versione dello slang pidgin nigeriano Johnny Just Come che descrive tutte le persone che improvvisamente e ingenuamente si trovano a Lagos o, nella sua concezione, in qualsiasi posto nuovo. Questa nuova collezione vuole riflettere sulle sue idee nostalgiche dello stile nigeriano attraverso una lente streetwear contemporanea. Il designer intende ricordarci la speranza ansiosa, la goffa stravaganza e l’intensa pressione che tutti gli immigrati sentono quando arrivano in una nuova terra. Questo è ciò che ricorda di aver provato 14 anni fa, quando è arrivato per la prima volta negli USA. Solarin stesso afferma: «All’inizio della pandemia, una delle prime mosse dell’America è stata quella di vietare a tempo indeterminato i visti e l’immigrazione dalla Nigeria, il che mi ha infastidito perché non riuscivo a vedere alcuna correlazione con la pandemia né una causa. I nigeriani sono uno dei gruppi minoritari di maggior successo negli Stati Uniti.» Questo lo ha portato a dare la caccia alle fotografie di famiglia e altri scatti di famiglia da persone care che hanno poi ispirato i suoi disegni. Lavorare attivamente in questo modo è il suo modo di essere ottimista e creare un cambiamento positivo. Vuole crescere e svilupparsi promuovendo l’identità nera. Alla fine, però, Solarin vuole che i suoi pezzi diventino preziosi cimeli che si intrecciano nella vita di chi li indossa.
In centro a destra: Matias Alfonzo, Fotografie Collezione SS21, Berlino Germania 2020
In alto e in basso: Maxim Adejumo e Hugo Giacchi, video SS22, Berlino, Germania 2021
ANTA E ASNA KAALAG «Kaalag significa «amuleto» in wolof: noi riteniamo che ogni pezzo della collezione sia un amuleto che, si spera, porterà gioia alla persona che lo indosserà.» Affermano Anta e Asna, le sorelle dietro questo marchio di moda effervescente. Lanciato nel 2019, Kaalag è un’esplorazione dell’educazione multiculturale del duo e dei viaggi attraverso la vita. Sono nate in Costa d’Avorio da genitori senegalesi, hanno viaggiato per studiare, Anta in Francia e Asna in Marocco. Quest’ultima collezione, realizzata in parte in collaborazione con artigiani ivoriani, vede la loro visione pienamente sbocciare, come espresso attraverso questo scatto edificante con la fotografa Olga de la Iglesia. I: «Perché avete deciso di lanciare Kaalag?» A e A: «La Costa d’Avorio è un’ex colonia francese e la cultura tende a essere impressa con cose che sono state riportate dall’estero. Questa è un’arma a doppio taglio perché siamo cresciute in una cultura che non è necessariamente la nostra e a volte possiamo perderci in standard che non ci si addicono, specialmente come donne africane. Quindi Kaalag fa parte di un’esplorazione di chi siamo e di come ci identifichiamo nella società. Usiamo la moda e il design per esprimerci. Nel corso del tempo, penso che abbiamo integrato il fatto che siamo formate da diverse culture e creiamo il nostro standard, ciò che ci definisce.»
A destra: Olga de la Iglesia, Kalaag, Costa d’Avorio, 2021
I: «Come descriveresti l’estetica?» A e A: «È un ibrido, come noi. Riteniamo di essere in costante cambiamento e Kaalag lo riflette. Possiamo sentirci minimalisti oggi e extra domani, quindi non abbiamo davvero un’estetica, tutto riflette il cambiamento... Siamo due donne, con la testa tra le nuvole, in un viaggio verso l’accettazione.» I: «Che umore trasmette questo servizio?» A e A: «Quando vivi in Africa, vestirsi in modo colorato è la norma. Quindi è naturale che siamo stati attratti dal lavoro di Olga con il colore, che è fantastico. Ci ha aiutato a creare questa storia intorno ai gioielli. Vogliamo che ogni persona che indossa un capo Kaalag si senta speciale e bella a modo suo.»
In alto e a destra: Olga de la Iglesia, Kalaag, Costa d’Avorio, 2021
Sotto i post sul profilo Instagram del brand troviamo questa frase, che racchiude in sé tutta la coscienza delle due sorelle in ciò che costituisce la loro identità: «Questo idealismo ci suggerisce che l’umanità non è intrinseca alla mia persona in quanto individuo; la mia umanità è concretamente conferita dall’altro a me in un rapporto dialogico. L’umanità è una qualità che dobbiamo all’altro. Siamo noi a creare l’alterità e abbiamo bisogno di sostenere questa creazione inevitabile per la nostra definizione. E se ci relazioniamo, partecipiamo alle nostre creazioni: noi siamo perché tu sei e, poiché tu sei, sicuramente io sono.» Michael Onyebuchi Eze
A destra: Olga de la Iglesia, Kalaag, Costa d’Avorio, 2021
ACCONCIATURE
MODA
J.D. OKHAI OJEIKERE
MALICK SIDIBÈ
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YOUSSOUF SOGODOGO
SEYDOU KEITA
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A RESCUE SHIP FOR THE MEDITERRANEAN | SEMIOTICA DEL PROGETTO, A.A. 2021/2022, PROF. SALVATORE ZINGALE, PHD CANDIDATE DANIELA D’AVANZO