5 - Racconto di un popolo

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Benin

Racconto di un popolo Marta Coppola - Tazio Furiani - Francesco Ricciardi Camilla Romano - Stefano Romano - Alessio Sirigu


La città sull’acqua clima è paludoso e l’acqua quasi stagnante; la terra si dirada per dare spazio a piante acquatiche e a distese

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nale motoscafo turistico costituiscono la colonna so-

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Scorcio della città di Ganvié


tutto ciò che ho potuto sulla storia del paese di cui sono meglio le persone che mi circondano e che mi hanno

Uomo appartenente agli Edo, circa 1970


Il Benin tale denominazione iniziò ad essere utipiato dai portoghesi durante la colonizdella Repubblica del Benin potrebbe esca (origini e nascita del Regno del Benin -

come “un posto ricco di palazzi suntuosi proporzioni tali che il tratto di mare da Ma tutto cambiò nel momento in cui l’imprima assunse il protettorato sul regno di -

È importante sottolineare non sono la sono direttamente responsabili della stoQuando nel 1485 i primi esploratori porno immediatamente buoni rapporti con

territorio dell’Africa Occidentale France-

Nel 1960 ottenne la piena indipendenza te instabile a causa dei problemi econo-

1553 giunsero anche i britannici e anche -

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In alto: Grande Moschea di Porto-Novo, Febbraio 2016 In basso: Taneka Koko/Taneka Berni village, Febbraio 2016


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guono poi i cristiani cattolici ed i musul-

sta cercando ancora una soluzione ai

la popolazione non ha accesso al sistema

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sparità tra i molti gruppi etnici si aggiunquasi integrale dipendenza economica -

idrici

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peculiarità del sistema politico e socio-e-

ferenti (il maggiore è quello dei Fon – cir-

In alto: una piccola sezione a lato della strada del mercato di Cotonou, 1 Febbraio 2021 In basso: una venditrice al mercato di Cotonou, 8 Gennaio 2021


Il territorio e Ganvié te a una sezione del penepiano guinea-

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nezia d’Africa” e rappresenta un simbo-

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nonostante un’organizzazione inesistenrimane una destinazione turistica unica -

luppo completo ed equilibrato del terri-

Scorcio della città di Ganvié


Djimon Mi ritrovavo seduta in questa tavolata tra il vociare e le risate dei miei familiari, il mio sguardo si posò su una foto appesa alla parete. Incuriosita bussai sulla spalla di mio padre Djimon, seduto alla mia destra, lui si girò verso di me con fare interrogativo: “Che succede Oba?”. bisbigliando, quasi per non farmi sentire, gli domandai “Chi è quella donna nella fotografia?” Si voltò così nella direzione in cui puntavano i miei occhi, e dopo aver dato una rapida occhiata si rigirò immediatamente verso di me: “Quella è Hawa, un’antenata della nostra famiglia” vedendomi incuriosita continuò: “È stata una guerriera del regno di Dahomey, combattente valorosa tra le Amazzoni, una sezione del potente esercito che contribuì all’espansione e allo sviluppo del regno del popolo dei Fon”. Ora che ci penso, avevo già sentito parlare dei Fon in effetti. La mia famiglia ha un grande senso di appartenenza rispetto al nostro gruppo etnico e anche riguardo quelle pratiche che si radicano nel passato, ma che ancora oggi vivono e risuonano dentro di noi.

Dahomey’s amazon circa 1930


Il mio sguardo era ormai rapito da quella donna e continuai a fantasticare sulle storie incredibili che quell’amazzone poteva aver vissuto. D’un tratto però mi accorsi che mio padre stava ancora continuando il suo racconto, così io, con la stessa espressione di chi si risveglia improvvisamente da un sonno profondo, mi voltai velocemente verso di lui così da non perdermi le sue parole: “… in Benin c’è ancora una forte presenza di Fon, gente che come noi fa difficoltà a distaccarsi dalle proprie radici. Molti di loro non parlano nemmeno il francese, ma il fongbe, il linguaggio delle nostre origini, che ancora oggi è una lingua ufficiale di una gran parte del popolo dei Fon. Grazie ad essa hanno tramandato pratiche di convivenza sociale, la loro religione e i tratti della loro cultura. Grazie al Fongbe i tuoi antenati hanno scritto i loro miti per spiegare il mondo che li circondava.”

Fon kids of Dahomey Circa 1930


Con un’espressione appagata annuii e distolsi temporaneamente lo sguardo concentrandomi sul mio piatto, pensando ingenuamente che la conversazione fosse giunta alla fine, quando mio padre esordì dicendomi “Oba ma non ti ricordi il mito di Haido Hwedo? Quello che ti raccontavo quando eri piccola?” non ricevendo una risposta e solo un’espressione perduta da parte mia continuò “Haido-Hwedo è il serpente cosmico servitore di Mawu-Liza, divinità creatrice dall’identità ambigua che veniva trasportata nella bocca del serpente attraverso tutto il cosmo. Quando Mawu-Lisa creò la terra Haido-Hwedo si attorcigliò intorno ad essa e dentro di essa. Ancora oggi il serpente cosmico custodisce la Terra e la mantiene in equilibrio. Haido-Hwedo è invisibile, ma talvolta possiamo vederlo anche noi: quando la luce del Sole attraversa l’acqua, appare all’uomo sotto forma di arcobaleno.” Rimasi totalmente folgorata da questi tratti di storia, al contempo molto vicini, ma anche molto lontani. Mi domando come mai io non abbia conosciuto così a fondo la storia della mia famiglia fino ad ora.

Scultura di Aido Hwedo nella Foresta Sacra di Kpasse


Cultura Fon La popolazione Fon, anche chiamata Fon nu, Agadja o Dahomey è appartenente al più vasto gruppo etnico dei Gbe. La storia dei Fon è collegata al regno di Dahomey, un regno ben organizzato presente nel XVII secolo le cui radici sono più antiche. La loro scoperta risale agli inizi del XIX secolo quando un gruppo di commercianti li notò particolarmente per la loro pratica N’Nonmiton o Amazzoni del Dahomey - pratica che prevedeva l’impiego di donne soldato con importanti ruoli all’interno dell’esercito, il cui contributo risultò fondamentale nel combattere le forze coloniali francesi nel 1890. La più famosa tra le città costruite dai Fon è Abomey, storica capitale del regno di Dahomey, eretta su quella zona che è stata storicamente definita dagli europei come la Costa degli Schiavi. In passato la cultura Fon era fortemente patrilineare e permetteva la poliginia e il divorzio, dove un uomo con più mogli viveva in un complesso con ciascuna moglie e i suoi figli; un insieme di composti formava un villaggio, solitamente guidato da un capo ereditario. In tempi contemporanei, la vita tradizionale basata sui clan patrilineari e le pratiche associate sono rare. I membri della popolazione Fon al giorno d’oggi rappresentano il più grande gruppo etnico del Benin; attualmente infatti sono stimati intorno ai 3.5 milioni di persone presenti soprattutto nel sud del paese, dove la maggior parte di loro vive in villaggi o piccole città, in case di fango coperte da un tetto di ferro ondulato.

Il popolo Fon parla la lingua omonima Fon, o Fongbe, che fa parte del gruppo linguistico delle lingue Gbe orientali. Questa lingua rappresenta una lingua veicolare ed è utilizzata nelle scuole, nell’amministrazione, nei servizi religiosi, negli affari e nei giornali e nelle stazioni radiofoniche e televisive del Benin. Viene anche utilizzata nei programmi di educazione e alfabetizzazione degli adulti. Nonostante ci siano oltre 50 dialetti correlati la diffusione della lingua Fon standard è l’obiettivo principale degli sforzi di pianificazione linguistica del Benin. La cultura della popolazione dei Fon la cui trasmissione fu principalmente orale, possedeva uno sviluppato sistema religioso politeistico. A causa di questa trasmissione orale, una delle poche divinità che conosciamo nella mitologia Fon, e di cui vengono venerate ancora oggi le gesta è Aido-Hwedo, il grande serpente arcobaleno. Il serpente teneva in bocca la divinità duale Mawu-Lisa, mentre dava inizio alla creazione del mondo, e assistette le due divinità primeve nella loro opera di creazione, modellando la terra con le sue spire e arrotolandosi sotto e intorno ad essa per mantenere le terre emerse fuori dalle acque. Dalla mitologia, e da questo racconto in particolare, deriva il Vodun la religione principale praticata dal popolo dei Fon, meglio conosciuta come Voodoo.

In alto: Un giovane lavoratore posa con una maschera tradizionale In basso: Una giovane ragazza trasporta legna da ardere lungo la Foresta Sacra di Kpasse, a Ouidah


Un gruppo di Amazzoni del Dahomey

Illustrazione del mito di Aido-Hwedo


Kato Tra le risate e discorsi risaltava però la voce del nonno, quella che da giovane tuonava nelle piccole chiese si faceva sempre più docile con il passare del tempo, ma nonostante questo, ogni volta che il nonno parla gli altri ascoltano, e così io feci quella sera. “Ho delle immagini molto vivide delle serate in spiaggia, ricordi Adah?” domandò alla nonna, ma poi proseguì senza aspettare la risposta “erano i momenti migliori: felici, rumorosi, pieni di spirito e gioia.. Sai Oba, son quelli che mi mancano di più” mi disse con uno sguardo perso nel vuoto, quasi come se riuscisse a rivedere quelle immagini dello “spirito danzante” di fronte a se. Ho cercato varie volte di parlare a scuola della religione del nonno e del fatto che lui fosse un vuduista, ma penso di non esser stata capita fino in fondo; i miei compagni, ma più in generale la cultura occidentale, ne sanno poco e niente e spesso prendono queste storie come un gioco, come se si parlasse di magia e di favole. Il nonno ci ha sempre raccontato le più svariate storie e ci ha sempre insegnato a condividerle con gli altri.

Abomey, Benin 2015 (Lucia Perrotta)


Ce n’è una che ogni volta che la sento mi emoziona e si da il caso che sia proprio quella che lui raccontò quella sera. “Adah abbiamo ancora la foto di quel coloratissimo costume delle divinità?” chiese alla nonna, che in quel momento stava sfogliando il libro delle foto, porse al nonno la foto di quello che sembrava almeno, un costume coloratissimo realizzato in paglia. “Oba, Idame, guardate!” continuò il nonno “questo costume veniva indossato dalla divinità durante il rito per accompagnare verso la pace lo spirito di una persona defunta. Ricordo bene il magico silenzio prima dell’offerta alla divinità, la ritualità attenta nel porre questa sul terreno e l’ansia nell’aspettare che la divinità l’accettasse. Vi era una concentrazione tale che tutti rimanevamo immobili, come se ci fosse un palloncino che sta per scoppiare; e quando la divinità raccoglieva l’offerta, dal silenzio tutto si trasformava in un’enorme festa. Che gioia vedere tutti ballare! Io, lo ammetto, non sono mai stato un gran danzatore, ma ero solito suonare ai

Costume Vudù per rituali


riti. Non c’era niente di più bello di vedere tutte quelle persone immerse nella musica e nella felicità, ringraziando gli dei per aver liberato un’anima cara dal tormento.” Idame, con la sua solita impertinenza lo interruppe dicendo “Nonno, ma come si fa a credere a queste cose?” e allora il nonno rispose con molta pazienza “Non devi crederci Idame, devi viverle! Era sempre una gran sorpresa quando alla fine del rito alzavano il costume per dimostrare che non vi era nessuno a muoverla se non la divinità salvatrice.” Mi emozionai e lo faccio ancora adesso pensando alla dolcezza del nonno, che non è mai troppo severo e non cerca mai di convincerti forzatamente. Io le storie del nonno vorrei ascoltarle ogni giorno, e non mi importa se sono vere o meno, importa che abbiamo un significato per me e la mia famiglia, mi fanno sentire ancora più vicina a ciò a cui appartengo. Spero un giorno di poterle condividere con i miei compagni senza essere presa per “quella diversa”, così che anche loro possano essere incuriositi dalla mia terra lontana.

Danza rituale 2015 (Lucia Perrotta)


La religione Vudù Il vudù il quale viene spesso mal interpretato come un fenomeno legato alla magia nera, è in realtà una vera e propria religione africana e afroamericana, strettamente legata alla cultura, alla filosofia, al linguaggio, alla musica e alla medicina. La religione vuduista attuale, ritenuta come una delle religioni più antiche al mondo, è dai caratteri sincretici ovvero combina elementi derivanti dal cattolicesimo, portato dai colonizzatori europei, ed elementi ancestrali estrapolati dall’animismo tradizionale africano che veniva praticato nel Benin prima del colonialismo. Oggi il vudù è praticato da circa sessanta milioni di persone in tutto il mondo e unicamente nel Benin ha recentemente acquisito il privilegio di essere riconosciuto come religione ufficiale, di cui quasi l’80% della popolazione beniniana aderisce. Il vudù è diffuso in varie aree africane già da prima delle colonizzazioni europee, in conseguenza alla deportazione degli schiavi africani, tra il XVII e il XVIII secolo, si è insediato nelle americhe. Nasce così la religione vudù come la conosciamo, dalla sintesi delle varie espressioni spirituali africane e, nonostante la forte oppressione esercitata dalla Chiesa cattolica, alcuni elementi cattolici. Con le deportazioni nelle Americhe, il vudù incominciò ad espandersi nell’America Centrale e negli Stati Uniti e America Meridionale, in particolare ad Haiti. Il vudù è organizzazione suddivisa in congregazioni. Ad Haiti e in Benin esistono due vere e proprie Chiese vuduiste che amministrano molte di queste congrega-

zioni e gestiscono le cerimonie religiose, oltre che i seminari per la formazione del clero vuduista; in Benin la Chiesa del vudù gestisce servizi pubblici, quali ospedali, scuole e enti di beneficenza. Il clero è costituito da sacerdoti di sesso maschile i quali vengono chiamati “oungan” mentre le sacerdotesse vengono chiamate “mambo” e svolgono generalmente le stesse funzioni. I templi sono considerati dei luoghi in cui l’essere umano può entrare in contatto con la Divinità, ed è per questo che vi si svolgono i rituali. Durante questi sono molto frequenti i sacrifici animali oppure possono essere utilizzate anche le famose bambole vudù, chiamati anche feticci. Altra caratteristica importante dei riti vuduisti è il forte misticismo, vale a dire il forte contatto che viene teso tra il mondo divino e il mondo umano, portando ad un’unione rituale tra uomini e dei sotto forma di possessione rituale. Le liturgie prevedono infatti la possessione divina, attraverso cui una divinità  o lo spirito di una persona defunta si impossessa del corpo del celebrante, solitamente un membro del clero, interagendo con i partecipanti al rito. Nei momenti di estasi il posseduto viene detto uno “zombi” ovvero una persona viva sotto il controllo di un ente che in realtà non appartiene al suo corpo. Si crede infatti che durante i rituali di possessione, una delle due anime del posseduto lasci il corpo per permettere alla divinità di penetrarvi.

Cerimonia 2015 (Lucia Perrotta)


Il vudù e i feticci, ovvero le bambole vudù, fanno parte della vita di tutti i giorni per gli abitanti del Benin, la maggioranza di essi possiede feticci che custodiscono e proteggono gli accessi ai villaggi, ai mercati e alle abitazioni. Un feticcio è una statua o un oggetto che racchiude in sè poteri ultraterreni, i suoi poteri derivano dal rito di consacrazione che viene effettuato cospargendo il feticcio di alcune sostanze mentre si recitano alcune preghiere e con l’offerta di sacrifici. Ai feticci vengono poi aggiunti alcuni materiali e oggetti per decorazione o caratterizzazione; inoltre spesso sul feticcio vengono versati degli alimenti tutti con lo scopo di potenziare il feticcio. Questi propiziano salute, felicità e risoluzioni dei problemi; ognuno ha un suo ruolo, alcuni infatti servono come protezione dagli spiriti maligni, altri servono

per propiziare la guarigione, altri ancora per portare felicità e fertilità alla famiglia. Se il problema è molto difficile da risolvere, viene richiesto il sacrificio di un animale come un bue, una pecora, una capra o di un pollo, il cui sangue deve essere versato sul feticcio per conferirgli i poteri necessari e la forza per risolvere il problema. Feticci e santuari sono situati in grandi quantità lungo le strade del Benin. Solitamente i santuari vudù vengono posti nelle piazze dei villaggi e delle città oppure nei pressi degli alberi roko, alberi endemici dell’Africa Occidentale tropicale e possono vivere fino a 500 anni; la gente crede che siano dotati di poteri soprannaturali e li considera quindi sacri.

Mercato dei Feticci


Adah Mentre la mia mente vagava in epoche lontane iniziai a sentire un leggero malessere. Vedendomi temporeggiare con il piatto davanti, mamma mi chiese “Come mai non mangi Oba? C’è qualcosa che non va?”. Io per non farla preoccupare ulteriormente mi limitai a dirle “Tutto bene, ho solo un po’ di mal di stomaco” e provai ad addentare un boccone. A quel punto nonna Adah senza dire nulla si alzò lentamente dalla sedia e si diresse in cucina; la intravedevo dalla porta mentre maneggiava delle piccole foglioline verdi, sapevo perfettamente cosa stava per succedere. Una volta ritornata al tavolo, allungò il suo braccio per darmi una grande tazza fumante: “Bevi questa tesoro, vedrai che dopo andrà meglio”. Io titubante annusai il contenuto della tazza: “Non ha nessun odore” pensai, e così feci un piccolo sorso. Sentii subito in bocca un sapore amarognolo ed esclamai: “Ma è amaro! Cos’è?” “È un infuso di erbe, sono le erbe che appartengono alla terra da dove provieni” e continuò: “Il tuo bisnonno mi insegnò ad usarle per preparare tisane e molti altri medicamenti quando ancora era in vita”. Io scetticamente le risposi: “Come sai che dopo starò meglio?”, lei guardandomi dritta negli occhi affermò:

Capo villaggio e Guerisseur Traditionnel, Abomey, Benin, 2019


“Le piante hanno un fortissimo potere curativo. Anche molte delle medicine che ci sono qui sono fatte a partire dalle piante. Mio padre curava varicella, morbillo, vaiolo e tantissime altre malattie solamente grazie all’impegno nella preghiera e alle proprietà delle piante che ci dona la nostra Terra”. Vedendomi perplessa, mamma le chiese di raccontarmi come avesse appreso tutte queste teorie e lei cominciò subito a spiegare con tono nostalgico: “Il tuo bisnonno si occupava delle guarigioni al villaggio. Io una notte mi sono svegliata e mi sono messa a guardarlo mentre faceva delle pratiche e ne sono rimasta molto colpita. I guaritori sono importantissimi per la comunità del villaggio, al tempo erano l’unico modo che avevamo per ricevere cure e per molti lo è ancora adesso. Io avevo 15 anni e alle donne non è consentito diventare guaritori, ma continuai ad appassionarmi all’utilizzo delle piante come automedicamento per me o per i miei famigliari. Sai Oba, anche pregare aiuta, ma non come le piante. O meglio dipende dalla malattia e dalla sua causa. Conoscere bene le erbe, i frutti, gli arbusti, può

Porto Novo, Benin, 2013


guarire da mali terribili”. Mia sorella Idame avvicinandosi al mio orecchio bisbigliò: “Non credere a queste cose, la nonna non sa quello che dice...” La mamma con sguardo minaccioso si girò verso di lei e rimproverandola le disse: “Idame porta rispetto a tua nonna! Quando eravamo a Ganviè ricorrere a medicine naturali e alla preghiera era l’unico modo che avevamo per curarci; gli ospedali erano molto diversi da quelli che conosci te e per moltissime persone, inclusi noi, costavano troppo”. Idame chiese scusa alla nonna, che dopo un momento di silenzio continuò: “Quando ero ancora piccola venne un uomo a chiedere aiuto a mio padre per la figlia malata. Non mi dimenticherò mai di quella bambina, era completamente senza sensi e si muoveva convulsamente. Pensavamo tutti che sarebbe morta, invece mio padre facendo affidamento su ciò che gli veniva offerto dalla terra riuscì a guarirla”. La nonna si interruppe bruscamente e le scese una la-

Abomey, Benin, 2019


Innanzitutto è necessario fare una divisione tra il nord del Paese, più povero e meno globalizzato, e il sud del Paese, più soggetto all’influenza occidentale. Nonostante ciò in tutto il Benin vi è la convinzione che la malattia sia legata alla sventura, o in molti casi a una sorta di maleficio; questo è dovuto alla tendenza a riferire l’interpretazione dei fenomeni empirici alla sfera metafisico-spirituale. In generale la malattia viene associata ad una sorta di punizione divina, attuata spesso degli antenati della famiglia, in cui la severità della punizione varia in base alla gravità dell’offesa commessa. Tuttavia la malattia può anche non dipendere dal comportamento umano ma essere dovuta a demoni e spiriti divertiti dalla sofferenza delle persone, oppure ancora può trattarsi della maledizione lanciata da un individuo a un altro. Quest’ultimo caso fa riferimento in particolare alla pratica diffusa dell’envoutement, inteso come “invocazione del male”, un sortilegio che viene inviato da un membro della società ad un altro, generalmente inseguito a un’offesa o per invidia. L’envoutement provoca dunque la malattia al soggetto che viene colpito che può essere guarito da un guaritore, un individuo che opera la medicina tradizionale utilizzando per lo più formule e piante, ma anche medicinali occidentali talvolta. Quello del guaritore è un ruolo ancora molto affermato nella società beninese e molte famiglie preferiscono rivolgersi a questa figura piuttosto che ai

medici presenti negli ospedali, in quanto spesso sono più costosi. Nonostante le pratiche tradizionali per la cura della malattia possano sembrare ad un occhio esterno meno affidabili rispetto alla medicina occidentale non bisogna sottovalutare l’utilizzo di erbe dalle proprietà benefiche e l’aspetto psicologico legato ad alcuni rituali. Proprio per questo gran parte della popolazione beninese per curarsi ricorre in una prima fase all’automedicamento, e nel caso questo non sia efficacie si rivolge a terapisti specifici facenti parte del cosidetto folk health care system, ovvero l’insieme delle figure che si occupano di praticare la medicina tradizionale. Con tale termine, secondo quanto accordato dall’OMS si intende “la somma delle conoscenze, delle competenze, delle pratiche basate su teorie, credenze ed esperienze indigene di diverse culture, siano esse spiegabili o meno, utilizzate nel mantenimento della salute, nonché nella prevenzione, diagnosi, miglioramento o trattamento di malattie fisiche e mentali”. Pertanto tra le persone che la esrcitano si trovano figure specializzate in diversi settori, alcune delle quali si possono ritrovare spesso anche in Europa come alternativa o accompagnamento alla medicina convenzionale: fitoterapeuti, esperti di chirocinesi, flebotomisti, ritualisti, psicoterapeuti, farmacisti (médico-droguiste), erboristi, aromaterapeuti, naturopati.

La malattia è qualcosa di tossico per il corpo di un essere. Ogni cosa è viva, respira e ogni cosa può essere colpita dalla malattia: quando la malattia arriva non riguarda solo il corpo, ma l’ insieme di tutto ciò che vive. Contro la malattia bisogna lottare per ritrovare la pace nel corpo. Possiamo proteggerci dall‟arrivo della malattia attraverso i medicamenti e anche curarci, ma anche attraverso dei divieti alimentari. Se tu sei protetto nel corpo, quando qualcuno ti invia una malattia, essa ritornerà a colui che l’ha inviata. Quest’ultimo, anche se prende dei medicamenti, verrà colpito a morte dalla malattia e non troverà alcuna guarigione perché ci sono delle cose “ababla” (ritorno al mittente) che si mettono dentro alla protezione che risultano anche come controattacco. Colui al quale il male è ritornato non troverà alcuna guarigione e morirà. Le malattie possono essere inviate dalle persone che posseggono la sorcellerie, una sorta di magia che passa spesso durante la notte per cercare l‟anima dell’uomo; non prende, infatti, il tuo corpo, ma prende l’anima e intavola una sorta di riunione: attraverso di essa può trasformare l‟uomo in maiale o in pesce da mangiare, così l’anima adduce delle motivazioni per non farlo, se si accettano le motivazioni l’anima ritorna, ma se non vengono accolte l’anima ritorna più volte alle riunioni finché non viene detto sì, ma se continua a dire di no l’anima muore. Ma se trovi qualcuno che può guarire questa persona bisogna che ci si rivolga molto presto, molto presto, alla medicina moderna, all’Ospedale o al dispensario. Allo stesso modo dal guaritore bisogna recarsi presto altrimenti se il cuore della persona è già stato mangiato prima dell’arrivo da un guaritore non è più possibile procedere con alcun tipo di guarigione: il cuore è già mangiato ed è il cuore che controlla il sangue, che determina il movimento per far muovere il sangue nelle vene, nelle arterie.

Medicina tradizionale

Tratto dall’intervista della Dott. Alessia Maccaro al guaritore tradizionale Dah-Zodjêglodje Ztzey Kpogba d’Abomey


La malattia come questione collettiva La malattia e le decisioni relative al modo con cui curarla sono aspetti di grande collettività per la cultura beninese. Infatti tutta la famiglia o il gruppo di appartenenza del malato lo assecondano e lo accompagnano condividendo riti, scelte alimentari e ritmi di vita. Tale condivisione ha anche un aspetto benefico in quanto aiuta il malato a esprimere le proprie emozioni, scaricare l’ansia, accettare e comprendere ciò che sembra minacciare la propria persona. I membri della famiglia valutano l’efficacia o meno delle cure e possono decidere se sottoporre o meno il malato a d alcune di esse.

Tuttavia all’interno del gruppo vi è una gerarchia che si basa sostanzialmente sul preferire la decisione di chi subirà la maggiore perdita nel caso in cui le cure non dovessero funzionare e il malato non dovesse sopravvivere. Questo modo di rapportarsi con la malattia e la sua cura ha una motivazione economica, in quanto tendenzialmente sono gli uomini che dispongono di denaro, mentre le donne al più gestiscono piccoli commerci; ma anche una motivazione legata all’ideologia della società beninese, la quale interpreta la malattia come un danno collettivo.

La famiglia partecipa delle decisioni del gruppo e certo i mariti aiutano le mogli anche perché nella maggior parte dei casi sono loro che pagano. Non sono solo i mariti o i genitori che intervengono nelle decisioni di cura, ma anche gli zii, i cugini, dunque tu non sei indipendente. Quando una donna si sposa, il marito decide, ma fino ad un certo punto. Se la moglie si ammala lui deve darle del denaro, se lei rimane più giorni all’Ospedale ad un certo punto inizieranno ad arrivare alcuni membri della famiglia, per osservare, rendersi conto se le cure sono efficaci o se è il caso di portarla a casa.

Tratto dall’intervista della Dott. Alessia Maccaro al guaritore tradizionale Dah-Zodjêglodje Ztzey Kpogba d’Abomey

In alto: Clinica di optometria, Cotonou, Benin, 2012 In basso: Ospedale Saint Joseph, Ganvie, Benin


Collaborazione con la medicina moderna Attualmente è impossibile parlare di una reale integrazione della medicina moderna occidentale e della medicina tradizionale. È evidente infatti che la medicina moderna sia più strutturata dal punto di vista scientifico ed è indubbio che debba essere data a tutte le popolazioni la possibilità di sfruttarla, ciò però non esclude il fatto che essa sia stata per certi versi imposta nel Terzo Mondo anche in virtù dei rapporti storici di potere e di dominio del mondo occidentale sul continente africano. In epoca coloniale infatti predominava un atteggiamento di forte chiusura da parte delle potenze europee nei confronti delle credenze e delle usanze delle popolazioni indigene, ritenute legate solamente a questioni di carattere magico; tale diffidenza seppur in maniera minore è ancora oggi riscontrabile. Infatti nonostante lo Stato del Benin spinga verso un rilancio della medicina tradizionale e verso la collaborazione di questa con quella occidentale, i medici da un lato ascoltano e imparano dalle conoscenze dei praticiens in merito alle proprietà curative delle piante, dall’altro escludono a priori tutto ciò che concerne la sfera della guarigione spirituale, la quale invece è molto prossima alla cultura della popolazione beninese e svolge spesso il ruolo di accompagnamento psicologico durante la malattia. Viene costantemente fatta a questo proposito una distinzione tra la figura del guarisseaur, che cura grazie alle proprie conoscenze erboristiche, e il feticheurs, che cura attraverso riti e pratiche spirituali.

Nonostante le conoscenze dei guariesseaur siano spesso sfruttate dai medici per approcciarsi all’utilizzo di piante locali, non è loro consentito né di utilizzare né di ricevere conoscenze riguardo alla medicina moderna né agli strumenti ospedalieri per impartire cure ai loro pazienti. Si crea così un grande squilibrio tra le due parti che rende impossibile l’attuarsi di una reale collaborazione. Di conseguenza molti pazienti tendono a rivolgersi a entrambe le tipologie di medicina; se infatti si trovano in cura in ospedale ma non riscontrano un’efficacia nei medicinali somministrati essi si rivolgono (quasi sempre di nascosto ai medici) a guaritori tradizionali. È inoltre necessario sottolineare come la sanità pubblica sia inaccessibile per motivi sia di costi che di locazione a ben l’85%. Infatti nonostante la repubblica del Benin riconosca espressamente il diritto alla salute, in particolare nella forma di diritto alla protezione e alla sicurezza sociale, solamente il 15% dei cittadini, ovvero coloro che con uno stipendio salariato e una remunerazione minima contribuiscono al piano dei funzionari o alla Cassa di sicurezza sociale, beneficiano di una protezione sanitaria a carico dello Stato e dei datori di lavoro. Il restante 85% come detto non ha alcuna protezione sanitaria e dovrebbe pagare in prima persona le cure o affidarsi ad enti benefici che operano sul luogo. Tuttavia di questa grande fetta della popolazione la maggior parte preferisce rivol-

In alto: Cartello di una Pharmacie Indigène, Porto Novo, Benin, 2013 In basso: Guerisseur Traditionnel, Porto novo, Benin, 2013


gersi a guaritori tradizionali, in quanto più vicini alla propria ideologia e modo di interpretare la malattia, anche se spesso le cure impartite sono meno strutturate di quelle proposte dalla medicina convenzionale. Del resto la preferibilità di un modello di cooperazione tra medicina convenzionale e medicina tradizionale, senza che l’una prevarichi o imponga co-

noscenze all’altra, sarebbe preferibile anche a testimonianza della popolazione; i malati tendono a fidarsi molto sia dei medici che dei guaritori e sfruttano in molti casi tutte le forme di soccorso loro offerte, ma attribuiscono all’una e all’altra valori diversi rendendole entrambe necessarie per raggiungere una guarigione completa.

Io comunque sono un medico, formata alla maniera occidentale, ho studiato per fare il medico, ma faccio della ricerca in medicina tradizionale. Quando un malato viene qui io faccio una diagnosi da medico, ma lo curo anche con le medicine tradizionali: è fondamentale che un malato sia visto anche da un medico moderno; qui facciamo anche delle analisi paracliniche, biologiche, ecoscanner etc. così si può dare una vera diagnosi, ma se ci sono delle piante per trattare la malattia rilevata preferiamo utilizzare quelle. Qui facciamo anche dell’omeopatia e utilizziamo gli oli essenziali. Poi se non ci sono cure a base di piante proponiamo i medicamenti classici ai malati. (...) I guaritori tradizionali hanno qualche reticenza a rivelare i loro segreti di cura, tuttavia sono d’accordo a collaborare con i medici se ciascuno prosegue il suo ufficio, ma facilmente non ti daranno le loro ricette dei medicamenti, nè le loro conoscenze: loro vivono di questo, se ti rivelano le loro conoscenze tu non andrai più da loro quando ti ammalerai.

Tratto dall’intervista della Dott. Alessia Maccaro alla direttrice del Centro di Medicina Tradizionale “Seyon” di Cotonou, Dr. Gisèle Egounléty

In alto: Ospedale Saint Joseph, Ganvie, Benin In basso: Farmacia, Abomey, Benin


Adowa Quando iniziai a stare un po’ meglio non avevo molta voglia di quel piatto che mia mamma aveva preparato, ma dal suo sguardo capivo essere molto importante per lei. Così chiesi innocentemente a mio padre “Papà, ma cos’ha di speciale questo piatto?” Allora, sull’intreccio di conversazioni di quella sera calò il silenzio quando mio padre si rivolse a mia madre dicendo: “Adowa, perché non racconti ad Oba dove hai imparato a cucinare il Calau?”. Ho sempre un po’ timore quando la mamma inizia a raccontare delle sue esperienze di quando era bambina. Vedo nei suoi occhi ancora un barlume di dolore che sembra non possa mai essere scacciato via; d’altro canto, però, riesco ad apprezzare e a ispirarmi alle sue parole forti e di speranza, mi ricordano che anche io posso superare qualsiasi cosa.

Donna Fulani, 21 Settembre 2010


«Il centro era una vera e propria comunità, in cui risaltava una quantità straziante di dolore ed eventi tragici, ma io non me lo ricordo per questo. Ricordo il centro come una rinascita, non solo per me, ma per tutte quelle donne dai sorrisi malinconici. Conobbi una donna, anzi, una bambina, che da lì a poco diventò come una sorella per me. Jeannette arrivò qualche giorno dopo di me e non esitò un attimo a raccontarmi la sua storia: “La prima volta stavo andando da mia madre a Azowlissè e mio zio paterno, con altri quattro grandi uomini mi hanno presa durante il cammino. Al nostro arrivo, l’uomo dal quale mi avevano condotta ha cominciato così, per burla, a cantare. Altri due uomini mi hanno presa e mi hanno legato mani e piedi, in modo che l’uomo potesse violentarmi. Ma io al sesto giorno sai cos’ho fatto? Sono scappata. Con la scusa di lavare i loro vestiti al lago, sono corsa via velocissima, non volevo più ritornare da loro. Ammetto che purtroppo non sono stata tanto furba, dopo pochi giorni mi ritrovarono e mi condussero di nuovo lì. Solo Dio sa come

Donne ad Abomey-Calavi, 9 Gennaio2008


Era una delle tante donne che aveva subito rapimenti, violenze, tradimenti da parte della sua stessa famiglia, però non smetteva mai di ricordarmi quante cose belle esistevano nel nostro Paese, e aveva ragione. Io al centro ho imparato a proteggermi, ma anche a farmi aiutare e ad aiutare gli altri; ho imparato a farmi forza e a sorridere anche quando tutto sembra andare nel verso sbagliato. Ho imparato l’alfabeto, a leggere, a scrivere, ma soprattutto ho imparato a cucinare. So quella comunità mi ricordava tutti quei momenti felici di quando ero ancora più piccola, in cui vostra nonna si prendeva cura di me e mi insegnava le basi della cucina del Benin. Avevo paura di quando me ne sarei dovuta andare dal centro, di non riuscire ad offrire tutto quello che avevo imparato. Ero giovane e sperduta. Avevo paura di ricadere nelle stesse mani che mi avevano distrutto qualche tempo prima, ma fu proprio lì che invece, dopo aver conosciuto vostro padre, trovammo la forza All’inizio vivevo ancora nella paura, come se la condizione della donna fosse esattamente la stessa anche qui. Fortunatamente siamo anni luce avanti, però riuscendomi a tenere in contatto con altri centri per la protezione e per il supporto psicologico di donne che subiscono violenze, sono riuscita a portare ciò che c’è proverandomi ironicamente «Oba, loro a differenza tua apprezzano il mio Calau. Su, mangia!»

Donna che ha preso parte al progetto “Empowerment Femminile” del Centro CISV


La donna in Benin In Benin sono presenti moltissimi centri che si prendono cura di bambine, ragazze e donne vittime della tratta, di violenze e di matrimoni forzati. In particolare, a questi centri si rivolgono soprattutto donne minorenni, il che fa intendere come la condizione della donna sia totalmente disastrosa a partire sin dall’infanzia. Ogni caso è particolare e i dettagli si differenziano da caso a caso, ma comunque si possono individuare dei denominatori comuni tra le varie problematiche e dinamiche affrontate. L’utente medio è quindi una donna, di cui solitamente l’età varia tra gli 8 e i 25 anni, molto spesso analfabeta o con una scarsa il francese. Molte di loro non hanno dunque avuto la possibilità di frequentare scuole ed università, oppure sono state costrette all’abbandono scolastico. Tra le cause principali di quest’ultimo ritroviamo gravidanze precoci, matrimoni forzati e il dover aiutare economicamente la propria famiglia. Ciò che preoccupa ancora maggiormente è il tasso di abusi all’interno del sistema scolastico, che impediscono un aumento del tasso di alfabetizzazione. In quasi tutti gli stati dell’area sub-sahariana, gli alunni (maschi inclusi) sono vittime gnanti. L’allarme maggiore è però per le bambine, che sono vittime anche di abusi sessuali; abusi che avvengono nelle classi, nei bagni, nelle sale professori, da parte di maestri, bidelli ed altri dipendenti scolastici. Dunque, sfruttando la loro autorità e il loro potere, gli insegnanti ricattano le alunne promettendo buoni voti o trattamenti privilegiati, o al contrario minacciando punizioni e cattive valutazio-

ni, in cambio di favori sessuali di varia natura. Molte donne si ritrovano spesso sole e senza nessun tipo di sostegno ad affrontare una gravidanza o, nel peggiore dei casi, un aborto (praticato quasi sempre illegalmente). In particolare, in Benin quasi 200 donne muoiono ogni anno a causa delle complicazioni degli aborti clandestini. Molte famiglie del Paese continuano a piangere una madre morta tragicamente a causa di un aborto complicato. Ma non è solo questo, questi aborti creano ovviamente forti disturbi psicologi nelle donne che li subiscono. Altre donne sono costrette a lavorare molto giovani, spesso come apprendiste sarte, parrucchiere o venditrici, per poter aiutare economicamente la famiglia, e altre ancora vengono obbligate dalle famiglie stesse a sposarsi in giovane età, così da potersi assicura la stabilità che la famiglia di origine non è in grado di garantire. Inoltre, essendo il Benin patria del Vudù, le credenze legate all’animismo e alla stregoneria permeano la maggior parte delle persone e anche le dinamiche all’interno della gestione familiare: le donne che cercano di lasciare un ambiente violento, vengono ricattate proprio da minacce di maledizioni da parte dei loro mariti. In un contesto sociale di questo tipo, la forte presenza di tradizioni e della religione, unite alla mancanza di mezzi di sussistenza alla povertà, sono elementi che generano dinamiche particolari, in cui le parsi.

Due donne con bambino nella città di Ganviè sul lago Nokoué.


Il centro IFMA Il Centro IFMA è una delle associazioni più famose che si occupano dell’educazione di giovani poveri ed abbandonati. Si tratta di una congregazione religiosa nori e dello sfruttamento sul lavoro. Foyer Laura Vicuña, inserito all’interno del Centro IFMA, nasce come luogo di transito per molte bambine e ragazze vittime di violenza e sfruttamenti, costrette a fuggire da famiglie d’origine perché donate sposa molto giovani, oppure obbligate a vivere e lavorare per gli uomini che le hanno comprate. O ancora le cosiddette “bambine in mobilità”, provenienti da zone rurali e inviate dalle famiglie stesse verso amici o parenti delle zone urbane. Nella speranza di condurre una vita migliore, queste bambine si trovano vittime di violenze, costrette a lavorare dall’alba al tramonto per le strade delle città o nelle zone del mercato per vendere merce e prodotti alimentari. A Dantokpa, ovvero il mercato più grande dell’africa occidentale a cielo aperto, le ragazze vengono rintracciate dal personale dei servizi sociali, dalla polizia locale o dagli operatori incaricati di sorvegliare le zone “calde” della città. Una volta condotte nei centri di primo soccorso, le giovani vengono registrate e assistite e sono poi smistate nei vari centri di

accoglienza temporanea, dove ricevono assistenza medica, psicologica e sanitaria dove trascorreranno il tempo necessario a rintracciare i propri genitori o parenti disposti a prendersi cura di loro. Al Foyer Laura Vicuña sono accolte bambine e ragazze di età compresa tra i 6 e i 18 anni: sono presenti animatori ed educatori da parte di tutto il mondo che organizzano attività pedagogiche e ludico creative per sviluppare capacità e competenze di base, così da poterle aiutare nello sviluppo di una consapevolezza personale e sociale che le aiuterà nel loro processo di crescita. Il centro ha raccolto diverse testimonianze, non solo per una semplice condivisione, ma per informazione e sensibilizzazione. Jeannette, 15 anni: https://foyerlauravicuna.wordpress. com/2010/03/04/testimonianza-jeannette/ https://foyerlauravicuna.wordpress. Rita, 8 anni: https://foyerlauravicuna.wordpress. com/2010/03/04/testimonianze-rita/

Donne durante la “giornata culinaria” al Foyer Laura Vicuña


Oba Il nonno è solito alzarsi dal tavolo a pasto quasi ultimato, anche questa sera come da usanza va a mettere su un po’ di musica, mette un brano di Antole Houndeffo. Così il nonno si distacca un po’, come se sognasse di tempi andati. Sono sempre stata abituata a un ambiente nel quale la musica è centrale, soprattutto quando vengo a casa dei nonni. Essendo il nonno immerso nei suoi pensieri mi giro verso papà e gli chiedo: “Papà, per il nonno è sempre così fondamentale la musica?” lui ci pensa un attimo e una volta trovata la risposta mi dice: “Direi proprio di sì. Come ben sai il nonno è sempre stato immerso a piene mani nelle pratiche Vudù, le sonorità tradizionali lo aiutano quasi a meditare, il nonno dice che può pensare meglio quando è circondato dai ritmi che lo accompagnano da sempre”. Questo mi ha sempre affascinata e sin da piccola ho sentito il bisogno di comprendere i suoni che caratterizzano i miei ricordi legati alle vacanze in Africa a casa dei nonni. Studiando al conservatorio ho compreso quanto quei ritmi che sembrano quasi naturali, primordiali forse, abbiano influenzato la musica moderna, dal blues all’Hip-Hop. Però non ho scelto di diventare una percussionista solo per questo. Lo ho scelto perché ho impresso nella mente lo sguardo carico di fierezza del nonno che racconta dei primi Festival del Vudù, della musica costante, dei balli incessanti, del riappropriassi della nostra identità, ho sempre sperato di potervi partecipare e poter essere parte attiva, essere pronta ad alimentare quelle danze e quell’euforia di cui il nonno ci ha sempre parlato. Questo suo sguardo carico di gioia, di festosità lo aveva anche stasera mentre decide di raccontarci un altro episodio.

Alto sacerdote che sale sul palco di fronte alla “Porta del Non Ritorno”, luogo principale delle celebrazioni nella città di Ouidah.


Io ancora affascinata dal suo racconto e volendone di più chiedo a papà: “Mi racconteresti com’è stato prendere parte a uno di questi festival?” Papà sorride e comincia a raccontare: “Come te, la prima volta ero euforico di partecipare, avevo più o meno la tua età e seguendo il consiglio del nonno, di vivere a pieno questa grande festa, appena arrivo sul luogo principale delle celebrazioni mi sono separato dalla mia famiglia in quanto volevo immergermi in questo mondo fatto di musica, di balli, cerimonie, preghiere, canti, costumi e spiritualità. Una grande celebrazione dove chiunque chiede la grazia al proprio spirito e vive la comunità in maniera piena e libera. Anche se c’è stato un momento in cui ho assistito ad una determinata scena, alla quale sapevo di andare incontro, che non mi aspettavo potesse essere così cruenta e impattante, ovvero il sacrificio degli animali, ho visto capre e polli, l’unica alla quale ho assistito è stata di una capretta. Ho provato a guardare perché volevo vivermi tutto ma non sono riuscito a farlo fino alla fine e a ogni volta successiva in cui mi ci stavo per imbattere ho cambiato direzione. Tuo nonno mi disse che col tempo sarei riuscito ad apprezzare anche questo sacro gesto” papà si interrompe un attimo, fa come per guardarsi attorno e mi sussurra: “Non è vero, non ci si fa l’abitudine, almeno io non ci sono riuscito, ho sempre trovato un modo per allontanarmi da lì in poi” io sorrido, lui continua: “Questo è il nostro piccolo segreto. L’anno prossimo voglio portarti pure a te a vivere quest’esperienza, visto il tuo legame con la musica sono sicuro che capirai cosa questo festival significhi veramente per la gente del Benin e non solo”.

Celebrazioni a Ouidah durante il Festival del Vudù.


Festival e Musica in Benin Il festival annuale che si tiene in Benin, detto “Traditional Day” o “Fête du Vodoun” è il simbolo della cultura dell’Africa occidentale, è una ricorrenza religiosa ma anche di riappropriazione culturale. Questa festa nazionale nata nel 1993 e resa ufficiale nel 1998 ha due scopi principali, quello di celebrare il culto Vudù come religione tipica dell’Africa Occidentale, specialmente in quest’area; l’altro motivo è commemorare la diaspora degli schiavi africani che è andata avanti per quasi cinque secoli. Il centro di questo festival è la città di Ouidah, città costiera a sud del Benin e principale centro, nel XVII e XIX secolo, di deportazione degli schiavi africani verso il Nuovo Continente. Infatti le celebrazioni principali hanno luogo di fronte al monumento denominato “Porta del non ritorno” che è uno dei principali simboli della riappropriazione dell’identità culturale da parte delle popolazioni dell’Africa Occidentale. Per il “Traditional Day” in Ouidah arrivano persone principalmente da ogni parte del Benin, del Togo, del Ghana e della Nigeria, ma anche turisti di ogni sorta che vogliono assistere allo spettacolo che offre il festival del Vudù. Tra i principali attori di questo festival ci sono le varie sette che arrivano da ogni dove e ognuna sceglie di rappresentare lo spirito a loro più affine. Ognuno di essi si presenta alla manifestazione con particolari costumi e si sentono la rappresentazione dello spirito stesso, queste vesti hanno le forme più disparate

dai suggestivi Zangbeto, lo spirito della notte, rappresentato come un covone di paglia colorato, agli Egungun che sono una rappresentazione degli antenati e possono avere il corpo colorato o coprirsi di tessuti anch’essi molto colorati e dai pattern più disparati. Il festival è caratterizzato da processioni, alcol, balli, musica incessante, preghiere, richieste agli spiriti e soprattutto sacrifici. Questi sacrifici sono principalmente di capre e di galline, mentre ci sono le offerte per gli spiriti che variano in base alla richiesta che si vuole fare, comune è l’utilizzo di feticci ovvero resti o parti di animali che hanno un particolare significato. In Ouidah questi feticci vengono spesso portati al “Tempio dei Serpenti” dove si possono donare e poter esporre le proprie richieste all’alto sacerdote che benedirà le offerte per favorire il loro accadimento. Durante le celebrazioni il suono dei tamburi e delle varie percussioni non abbandona mai il festival, tiene il ritmo per i balli, soprattutto i balli dei partecipanti in trance, infatti, si crede che il ritmo delle percussioni favorisca questi stati esaltati che per i credenti sono un momento di contatto e personificazione degli spiriti, spesso sono riconoscibili tra la folla perché si coprono il volto e il corpo di talco per segnalare appunto il loro stato. Tutto questo spettacolo si ripete ogni anno per ristabilire il valore umano della pratica del Vudù ma soprattutto dell’identità delle popolazioni dell’Africa Occidentale.

Nell’ordine dall’alto verso il basso: Porta del non ritorno, Ouidah; Richiesta agli spiriti con il sangue di un animale; Ballerino in trance durante le celebrazioni; Beninesi radunati ad assistere allo spettacolo del festival.


La musica moderna in Benin ha origine dalla musica tradizionale, specialmente quella utilizzata durante le cerimonie e le celebrazioni Vudù delle popolazioni Fon. La musica tradizionale deriva però da influenze delle popolazioni Yoruba ed Ewe che si diffondono dal Togo, passando per il Benin e poi in Nigeria principalmente. Questi legami però sono così diffusi che tutte le popolazioni deportate da questa zona dell’Africa e i loro discendenti presentano similitudini ritmiche che sono rimaste presenti e si sono sviluppate nei generi moderni, rendendoli facilmente diffondibili tra le varie culture dell’Africa e dei loro discendenti nelle Americhe. Se il focus viene posto sulla popolazione Fon e la loro musica tradizionale la prima cosa che si nota è una similitudine maggiore, per quanto riguarda gli strumenti con le popolazioni Yoruba, mentre il ritmo è abbastanza similare sia a questi ultimi che alle popolazioni Ewe. Una particolarità delle popolazioni Ewe del Benin e che si diffonde anche alle altre etnie è il fatto di utilizzare strumenti che hanno a che fare con l’acqua, possono essere tamburi con l’acqua al loro interno oppure spesso posizionano delle grosse zucche in acqua e le sfruttano appunto come percussioni. Un’altra particolarità delle popolazioni dell’Africa Occidentale è l’utilizzo dei tamburi parlanti che un tempo avevano una funzione comunicativa e che ora sono sfruttati prevalentemente in contesti cerimoniali. Per gli Yo-

ruba del Benin il tamburo è il Dun Dun, un tamburo con due teste che può essere modulato grazie alle corde che tengono in tensione le due estremità, questo lavoro di modulazione viene fatto tramite la pressione che si esercita sul centro del tamburo che può essere fatto o con le gambe oppure tra il braccio e il fianco del percussionista. Se si va ad analizzare la musica Fon in particolare dal punto di vista ritmico, come già accennato prima, troviamo grandi similitudini con la musica Ewe, ovvero il battito incrociato che caratterizza in realtà tutto l’ovest dell’Africa con varie differenze. Il ritmo principale è un 3:2, ovvero una base ritmica di due battiti per ogni tempo musicale al quale viene intervallato un tempo della stessa durata ma con 3 battiti. Questo ritmo è incessante e forma la base di ogni musica proveniente da quest’area del mondo. Permette di mantenere a tempo tutto il pezzo, questo accade sia nei pezzi tradizionali sia nelle canzoni più moderne. Solitamente questo andamento è suonato da due gruppi di percussionisti, quello detto in termini tecnici “ostinato” che tiene appunto tutto il ritmo con questo pattern e poi quello del capo percussionista, lui è quello che “proietta” le manipolazioni del ritmo e della struttura temporale del pezzo. Questo ruolo può essere suddiviso ulteriormente così che si creino dei sotto ritmi particolari a seconda delle necessità. Nella musica Fon

Donna beninese che si esibisce in uno dei tradizionali passi della danza beninese, nonostante non ci siano vere e proprie coreografie.


la differenza principale con le sonorità di altre popolazioni può essere trovata in alcuni pattern del gruppo “ostinato”, mentre il resto rimane molto simile, cambiano gli strumenti che hanno nomi e costruzioni più o meno differenti ma che hanno un timbro e un ruolo molto simile con i corrispettivi della musica Ewe. Una particolarità musicale dei Fon è il genere Zinli, nato come musica per accompagnare i funerali reali e caratterizzato da poliritmie, ovvero più ritmi sovrapposti che sfruttano lo stesso tempo ma con velocità differenti che si uniscono a formare una ricchezza sonora più che una vera e propria melodia. Al ritmo si sovrappongono dei canti determinati da dei botta e risposta. La performance tradizionale di questa musica consisteva negli uomini chiusi a formare un cerchio mentre cantano e suonano le percussioni, mentre le donne al centro si esibivano ballando senza delle vere e proprie coreografie, semplicemente seguendo la musica. Questo genere si è poi evoluto diventando anche parte della musica pop del paese, cambiando nome in Tchinkoumé, che mantiene quasi tutte le caratteristiche, tra le quali anche gli strumenti principali, come lo Zin, da cui il genere funerario prendeva appunto il nome, che è un idiofono, ovvero uno strumento che sfrutta le vibrazioni del corpo stesso per produrre musica, in questo caso una particolare brocca d’argilla.

A sinistra: Alcuni degli strumenti principali utilizzati per fare musica in Benin. A destra: Gruppi di musicisti all’opera durante il Festival del Vudù.


A rescue Ship for the Mediterranean Semiotica del progetto, a.a. 2021/2022, Prof. Salvatore Zingale, PhD candidate Daniela D’Avanzo


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