META Online - Settembre 2016

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online

la rivista dei consulenti di management

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Management umanistico

Sommario Mettere la persona – concretamente – 1. Editoriale Management umanistico Mettere la persona – concretamente – al centro dell’attività economica Giuseppe Bruni 2. Gruppo Hera, le persone al centro per far crescere l’impresa Alessandro Camilleri 3. Strategica, motivante, acculturata e pronta a sbagliare, questa l’azienda destinata a crescere Intervista a Marino Golinelli, fondatore e presidente onorario Fondazione Golinelli di Dora Carapellese 4. Un ottimo curriculum non è garanzia di qualità Stefano Zamagni 5. Openness, il valore guida dell’azienda del futuro Intervista a Paolo Bruttini di Dora Carapellese 7. Per un management umanistico (ed efficace)* Carlo Baldassi 10. Il processo senza fine della valutazione Beatrice Bettini 12. Produttività intellettuale a partire dalla V elementare Enrico Loccioni Rivista bimestrale di APCO, Associazione Professionale Italiana dei Consulenti di Direzione e Organizzazione, supplemento online. Numero di settembre 2016 - Proprietario: APCO apco@apcoitalia.it, www.apcoitalia.it. Comitato editoriale: Giuseppe Bruni (Direttore editoriale), Enrico Sesini (Coordinatore del Comitato di Redazione), Carlo Baldassi, Marco Diotalevi, Marco Granelli, Daniela Panariti, Giovanni Sgalambro. Direttore responsabile: Giuseppe Bruni. Registrazione Tribunale Milano n. 217 del 21/3/2005. Progetto grafico editoriale: Cervelli In Azione

al centro dell’attività economica Quando si parla di management umanistico il pensiero e... la tastiera corrono alle HR, al personale dell’azienda. Ci si limita solitamente a considerare la relazione che il management instaura con il Capitale Umano, qualificando il contesto di quella relazione in termini di buon “clima organizzativo” nelle sue varie componenti (stili di leadership, relazioni con colleghi e superiori, collaborazione, ecc.). Forte è l’accento che si pone sull’eccellenza delle competenze, essenziale, peraltro. Occorre tuttavia non mettere in secondo piano la motivazione personale, intrinseca alla volontà di produzione del valore, la passione del farlo. Se si trascura di considerare il destinatario del valore che viene prodotto ed il beneficio che quel valore gli arreca viene a mancare la motivazione stessa, l’aspetto umano, si crea frustrazione e disvalore (toxic worker). Qui il tema della motivazione del management e di dipendenti e collaboratori si coniuga con la partecipazione alle finalità del valore prodotto, esce dall’azienda, investe il contesto in cui l’azienda opera. Un’apertura che introduce il cambiamento in azienda. Si tratta di un management che rende partecipi al medesimo progetto tutti gli stakeholder presi in causa da quel progetto, interni ed esterni all’azienda. Un management che genera innovazione dall’adozio-

ne della novità tecnologica, conferendole senso e cioè motivazione attraverso la condivisione della finalizzazione. Tutto ciò induce a una visione più ampia, ben oltre i confini dell’azienda, investe l’interezza di ciò che succintamente viene indicato come Capitale Intellettuale, comprendendovi quel sistema di rapporti afferenti alle attività di management che include, oltre al Capitale Umano, anche il Capitale Organizzativo o Strutturale ( modelli organizzativi, know how, ecc) e il Capitale Relazionale (sistema degli stakeholder, reputazione, contesto ambientale). Un management, cioè, che si esprime in termini di produzione massima del valore a beneficio dell’intero ecosistema aziendale, non ad unico vantaggio di qualcuno e a detrimento di molti, non escluse le generazioni future. Innescando con questo un ben ampio sistema di valori ed opzioni. Che si tratti di un momento assai particolare di transizione del mondo in cui viviamo è ben evidente, in questa per molti versi infuocata estate, da una serie di segnali assai forti, dalle provenienze le più impensate. È d’inizio luglio la riconsiderazione delle direttrici di sviluppo dell’economia mondiale da parte della Direttrice del FMI che afferma essere “importante intervenire sull’aumento delle diseguaglianze”, esplicitando l’auspicio di una globalizzazione dal volto umano che sappia ridistribuire le

ricchezze, imporre limiti ai privilegi, tutelare i più deboli”. Un vero giro di boa nelle politiche del FMI. Appena qualche giorno dopo la neo Primo Ministro britannica, nell’assumere il suo nuovo ruolo, poneva il proprio impegno alla “realizzazione di una politica che non agisca solo nell’interesse dei pochi privilegiati, ma in quello di tutti noi”, fronteggiando un insostenibile aumento delle diseguaglianze sociali e ripromettendosi, fra l’altro, di accentuare le norme del “say on pay” a riequilibrio delle sperequazioni nei redditi di manager e dipendenti. Che si stia aprendo una stagione nuova in cui si possa contestualizzare una sana gestione manageriale? Prepariamoci dunque ad una pratica, umanistica appunto, che ci faccia uscire dal mero auspicio. ■

Giuseppe Bruni Presidente APCO

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Gruppo Hera, le persone al centro per far crescere l’impresa Direttore Sviluppo Formazione e Organizzazione del Gruppo Hera. Nato a Udine nel 1973, inizia la sua carriera in Martini e Rossi nel 2000 e l’anno seguente entra nel Gruppo Fiat. Grazie alla partecipazione a un programma finalizzato alla formazione di un management con elevate competenze intersettoriali e internazionali, ha ricoperto diversi ruoli presso gli headquarter di CNH a Chicago e Iveco France a Parigi, per poi rientrare in Italia a fine 2003 nelle Risorse Umane di Fiat Auto dove ha ricoperto negli anni posizioni di crescente responsabilità. Nel 2008 entra a far parte della Direzione Centrale Personale e Organizzazione di Hera, e da gennaio 2012 è Direttore Sviluppo, Formazione e Organizzazione dell’azienda. Alessandro Camilleri

La valorizzazione dei talenti e la condivisione dei saperi sono solo alcune delle azioni per ingaggiare le persone e far crescere il fatturato 1. Qual è il suo stile nella gestione dei collaboratori, in particolare rispetto agli errori e alle situazioni di difficoltà? In generale dedico particolare attenzione sia all’ascolto e al dialogo con tutti i collaboratori, diretti e non, sia alla condivisione dell’analisi del contesto e delle finalità del nostro lavoro. Oggi assume sempre maggiore importanza uno stile di management basato sul concetto di relazione cooperativa, ovvero sul saper creare un ambiente in cui le persone si possono riconoscere ed esprimere il loro contributo. La vera sfida è quella di fornire prestazioni eccellenti, consapevoli che l’eccellenza non può essere considerata un fattore statico ma una tensione costante a raggiungere obiettivi sempre più sfidanti, accettando che nel percorso talvolta si possano compiere errori. Assume quindi notevole importanza innanzitutto discutere e saper riconoscere gli errori, a partire dai propri, e creare poi le condizioni per migliorare. 2. Per costruire una impresa aperta è interessante l’esperienza di scambio di

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manager fra imprese che voi state portando avanti, ci racconti? Il concetto di base può essere ricondotto al fenomeno della “platform economy” e della “social collaboration”, più nello specifico alla capacità di saper ricercare logiche di interesse condiviso. Abbiamo quindi approcciato il tema della gestione dei talenti cercando di non considerare i confini della nostra azienda come un vincolo, ma un’opportunità. Così, partendo dai percorsi di crescita ipotizzati per i nostri talenti, abbiamo identificato le best practice nazionali e internazionali e abbiamo creato un network di aziende disponibile ad ospitare un nostro “talento” per poche settimane in affiancamento alle strutture che gestiscono le aree di attività di nostro interesse. Consapevoli del valore dei nostri talenti, il beneficio che proponiamo alle aziende partner in questo progetto risiede sia nel momento di esperienza presso di loro in termini di possibilità di benchmark sia nella nostra disponibilità ad ospitare loro talenti per esperienze analoghe.

3. Ingaggiare le persone cosa significa per lei? Ci racconti alcuni esempi che avete applicato in Hera. Le univocità di ogni persona possono rappresentare elementi di valore se non generalizzate in stereotipi. Per poter ingaggiare le persone occorre quindi ascoltarle, comprenderne le necessità e lavorare per creare la migliore coerenza possibile tra gli obiettivi complessivi dell’azienda e il contributo che ogni individuo può fornire al risultato finale. In un’azienda di grandi dimensioni questo obiettivo deve essere partecipato a tutti i livelli di responsabilità, con particolare attenzione a coloro che coordinano team di persone. Il percorso che abbiamo fatto in Hera è stato orientato a creare un sistema di attività e processi che costituiscono il framework di riferimento e gli strumenti operativi con i quali ogni dipendente agisce il proprio ruolo anche in termini di ingaggio nei confronti dei propri collaboratori. Al centro di questo modello sono posizionate l’esemplarità della leadership e l’approccio all’attivazione personale come concetto di autosviluppo. 4. Qual è il modello ideale di gestione del capitale umano nelle aziende? Non esiste un modello ideale in assoluto, la soluzione migliore è sempre quella più

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coerente con il contesto di riferimento sia interno che esterno all’azienda. Quindi il primo passo dovrebbe essere sempre quello di osservare e comprendere al meglio il contesto in cui si opera e poi di impostare un modello che sappia rispondere alle esigenze di sviluppo aziendale sia nel breve che nel medio – lungo termine. Volendo contestualizzare alcune dimensioni determinanti in maniera trasversale a tutti i settori, a mio avviso non possiamo non tenere in considerazione l’evoluzione dei modelli comportamentali collegati ai fenomeni di accesso massivo alle informazioni, di collaborazione e velocità di cambiamento. Proprio per questo in Hera abbiamo deciso di rileggere il nostro modello di gestione del capitale umano secondo questa prospettiva, determinando il cosiddetto “HR smart approach”, con l’obiettivo di trovare in ogni attività il miglior bilanciamento tra gli elementi di tradizione che vogliamo preservare e gli elementi di innovazione che intendiamo favorire. Un esempio è l’integrazione del modello di “Scuola dei Mestieri”, sviluppato nel corso degli anni per preservare i mestieri operativi, con i modelli di organizational network analysis supportati da strumenti di collaborazione su base wiki. ■


Strategica, motivante, acculturata e pronta a sbagliare, questa l’azienda destinata a crescere “L’imprenditore deve essere un uomo di cultura. Dico di leggere il Devoto-Oli, perché gli imprenditori non sanno cosa significa la parola cultura.”

Marino Golinelli

Imprenditore-pioniere, filantropo, visionario, classe 1920. Nel 1988 dà vita alla Fondazione che porta il suo nome, con l’obiettivo di promuovere l’educazione e la formazione, di diffondere la cultura, di favorire la crescita intellettuale, responsabile ed etica dei giovani, i cittadini del futuro in un mondo globale. Oggi la Fondazione Golinelli è l’unico esempio italiano di fondazione privata ispirata al modello delle grandi fondazioni filantropiche americane: concretezza, pragmatismo, visione e capacità progettuale la rendono un modello, e una best practice riconosciuta e premiata a livello internazionale.

Per vedere l'approfondimento video clicca qui Intervista a Marino Golinelli, fondatore e presidente onorario Fondazione Golinelli Strategica, motivante, acculturata e pronta a sbagliare, questa l’azienda destinata a crescere. Di Dora Carapellese Nel contesto attuale secondo la sua veterana esperienza quali sono le aziende che sono destinate a crescere e quali quelle destinate a chiudere? Sono destinate a crescere quelle aziende che si sono date un obiettivo strategico a lungo termine, dai tre ai dieci anni, con una visione globale del cambiamento dei bisogni della società – quindi i bisogni di 7 miliardi di persone. L’obiettivo è di creare un rapporto con il capitale umano, tra chi collabora, tra chi ha il potere. Devono essere persone giovani, non soltanto di età ma come mentalità, aperte alle novità tecnologiche che la scienza oggi può e deve fornire. Il cambiamento è assolutamente importante per l’azienda, e se non c’è questa propensione, in questo contesto così dinamico, l’azienda rimane statica e muore. Secondo lei qual è il modo corretto per affrontarlo in un’azienda? Innanzitutto, la disponibilità a capire che bisogna rottamare chi culturalmente non è preparato. Parlo ad esempio di manager al secondo o terzo livello. È necessario avere questa idea, per avere un ricambio,

seppur graduale, tra queste persone e chi invece ha delle competenze di management, di gestione del business sul piano tecnologico-scientifico, anche sul piano dei valori, tramite i quali dare un’identità precisa all’azienda. Il valore etico-sociale di un’impresa è un fattore importante per guardare ad un piano di sviluppo futuro. Quindi cambiamento a diversi livelli, per continuare a comunicare bene l’azienda? L’identità dell’azienda è molto importante per me. In Italia si fa del Made in Italy, ma è un concetto generale, che ogni azienda deve declinare in un modo che sia solo suo e darsi un’immagine. Prendiamo un altro esempio, la IMA di Bologna: deve dare l’immagine di un’azienda importante non soltanto in quanto IMA, ma perché apporta dei valori sul piano organizzativo, essendo al centro nei suoi rapporti con le altre aziende collaterali che fanno parte del gruppo – è un cluster, come si dice – e quindi deve trasmettere un’idea della IMA come società all’avanguardia nella qualità tecnologica e nell’ambito di un settore particolare come quello del food e delle macchine per il food. Ed è quello che l’azienda sta facendo. Secondo lei che caratteristiche deve avere un “capo” nella società attuale? L’imprenditore deve essere un uomo di cultura. Ho organizzato dei corsi con gli

imprenditori nel 1980. Il concetto della cultura che dà valore all’impresa e dell’imprenditore come leader di azienda globale è collegato al fatto che questa persona sia in grado di capire i bisogni del mondo. La cultura vuol dire arte e scienza. Dico di leggere il Devoto-Oli, perché gli imprenditori non sanno cosa significa la parola cultura. Collaborare indipendentemente dalle gerarchie, secondo lei, può generare valore aggiunto all’interno di un’azienda? Gerarchicamente ritengo importante oggi la struttura piatta, a base larga, non quella a piramide, nella quale si cerca di coordinare i contributi delle varie parti del gruppo che porta avanti l’azienda. Nella gerarchia c’è sempre il problema di essere il primo tra pari, inter pares. Non è il leader che comanda gli altri, anche loro partecipano. Il leader deve coordinare le attività di tutti, ma non è quello che decide per tutti. Non bisogna essere autoritari, non c’è bisogno del capo-padrone. Questo concetto però in Italia è ancora molto radicato, come ben sa. Sì, ed è un errore che ho fatto anch’io in passato, sbagliando e poi mi sono evoluto. È un fattore culturale. Se vai a teatro, al cinema e leggi, impari qualcosa. C’è stato qualcosa che ha fatto scattare questa molla in lei, e l’ha spinta al cambiamento?

Quando mi sono trovato in una situazione quasi di fallimento, ho capito che dovevo cambiare. L’imprenditore deve capire che sbagliando si impara, c’è bisogno di senso critico. Nel nostro paese l’errore è visto come fallimento. L’errore ti dà la possibilità di crescere. Non devi aver paura di fallire. Quello che dovremmo insegnare ai ragazzi è che anche se sbagliano indirizzo, se sbagliano studi, non è un fallimento. Cosa può fare l’azienda per favorire il processo di inclusione? È fondamentale. Creare l’humus di una visione unitaria degli obiettivi che l’azienda si è data, che sono di carattere economico ma anche sociale. L’imprenditore deve avere senso di responsabilità sociale e trasmettere questo obiettivo, cioè il suo fare qualcosa nell’interesse della società – dare lavoro, dare opportunità agli altri e fare profitto – creare su questi valori una fidelizzazione di chi lavora nell’azienda. Valorizzare le competenze del singolo al dì là del ruolo che ricopre apporta benefici all’azienda? Sì, l’azienda deve aiutare a crescere i propri collaboratori, anche accettando che essi lascino l’azienda. Il dovere dell’imprenditore è anche questo. È un discorso difficile ma credo di essere riuscito ad applicarlo, tante persone che hanno lavorato per me poi hanno trovato posto nelle altre aziende. Qual è il valore del capitale umano? L’80% del successo è legato al capitale umano, una percentuale altissima. Le tecnologie le hanno tutti. Qui, alla Fondazione Golinelli, siamo più o meno in quaranta. Le persone che lavorano qui devono essere remunerate, logicamente, e avere come obiettivo quello di migliorare il loro stipendio, ma prima di tutto devono credere in quello che fanno. ■

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Un ottimo curriculum non è garanzia di qualità

Stefano Zamagni

Economista insegna all’Università di Bologna e alla Johns Hopkins University. È membro del Comitato scientifico di numerose riviste economiche nazionali e internazionali, è autore inoltre di numerose pubblicazioni di carattere scientifico. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il St. Vincent per l’economia, nel 1989. Dal 2004 è socio dell’Accademia Nazionale delle Scienze, Lettere e Arti di Modena.

In cosa consiste e come si caratterizza un management che sia possibile definire umanistico e che quindi valorizzi le persone? Prendo le mosse da questa considerazione. Sull’ultimo numero della Harvard Business Review è uscito un articolo a firma di due professori, Housman e Minor, dove viene introdotta per la prima volta la categoria del “toxic worker”, cioè del lavoratore, dell’impiegato tossico. Cosa mettono in evidenza questi due autori? Fino ad ora nelle varie teorie del management si è studiato ciò che migliora la performance aziendale ma non si è mai preso in considerazione ciò che la rallenta. Questa ricerca dice che il cattivo comportamento delle persone costa alle aziende americane circa tredicimila dollari all’anno per persona tossica. Chi sono i lavoratori tossici? Sono quelli che lavorano contro voglia, cioè non hanno motivazioni intrinseche, e soprattutto sono portatori di assenza di empatia e di doti relazionali, e in certi casi esibiscono comportamenti antisociali. Lo sapevamo da tanto, ma qui stiamo parlando di Harvard, la prima business school del mondo, e di una ricerca empirica quindi di dati oggettivi.

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Questo è il grande limite che gli studi di management hanno finora riscontrato. Lo “humanistic management”, cioè il management umanistico cerca di metterlo in rilievo. Ripeto, bisogna badare di più a ciò che rallenta la performance, non solo pensare a come migliorarla. È possibile questo? È chiaro che è possibile. In gran parte – anche se ci sono eccezioni – la classe dei manager, sia in Italia che all’estero, è stata educata male. È una classe che non ha mai considerato l’importanza della motivazione intrinseca di chi lavora in azienda. Ovviamente ci sono state eccezioni: pensiamo a Olivetti, o a Rossi di Vicenza, o tanti altri esempi storici. Il manager di oggi è impregnato di idee sbagliate, e non vuole fare ammenda per non cadere in demotivazione, in frustrazione. Cosa deve cambiare in un’azienda secondo lei? Quando ci si è formati per mappe cognitive, a una certa età è difficile cambiarle, però è necessario, altrimenti non può esserci futuro per le nostre imprese. È il paradigma organizzativo che deve cambiare. La cosa interessante dello studio che ho citato è questa: gli studiosi di cui sopra raccomandano che quando si

La motivazione intrinseca del lavoratore è alla base di una performance aziendale efficiente

deve inserire qualcuno in azienda non bisogna tanto guardare al curriculum vitae, che non serve a niente. Il curriculum non mette in evidenza l’interiorità della persona. Bisogna piuttosto basarsi su colloqui e sulla raccolta di informazioni collaterali. Se voglio sapere se la persona che vuole venire a lavorare da me è una persona antisociale o prosociale, non lo scopro dal curriculum, ma se mi metto in casa un antisociale, anche se ha cinque lauree e ha fatto i migliori corsi di formazione, la mia azienda ne risentirà in maniera molto pericolosa. Ecco qual è l’idea base dello humanistic management, mettere al centro la persona, ma non a parole, con i fatti, riorganizzando il processo produttivo. Come si può giungere a condividere il valore dell’innovazione in contesti così competitivi tra gli stessi dipendenti? Di fronte ad un’innovazione come quella che caratterizza la quarta rivoluzione industriale, l’industria 4.0, è evidente che non posso tenere tutti i lavoratori che avevo prima. Cosa devo fare? È per questo che ho parlato di cambiamento dei paradigmi. Devo creare nuovi settori occupazionali, devo creare collate-

ralmente o separatamente, a seconda dei casi, nuove attività. Pensiamo al settore dei beni culturali, pensiamo al settore dei beni ambientali, dei servizi alla persona, e così via. Sono tutti settori che assorbono occupazione. Se però non ragiono nel senso che ho indicato, per pigrizia, io che sono manager vedo che non c’è più bisogno di cento lavoratori e li mando via. I lavoratori, che capiscono quello che bolle in pentola, cominceranno a confliggere tra di loro. “Mors tua, vita mea”, ognuno cercherà di fare le scarpe all’altro, ma è colpa dei manager. Come quei genitori che hanno molti figli e li mettono uno contro l’altro e poi si lamentano che non vanno d’accordo. Il bravo manager sa che introducendo un nuovo impianto, un nuovo robot si renderanno superflui un certo numero di lavoratori. Perché Olivetti ce la faceva? Perché era intelligente e aveva un’anima. Creava attività collaterali mentre introduceva innovazioni. Se non vogliamo fermare il progresso – e solo delle persone irresponsabili vorrebbero farlo – dobbiamo capire che di fronte a una innovazione tecnologica bisogna modificare i nostri schemi mentali, e quindi il paradigma organizzativo. ■


Openness, il valore guida dell’azienda del futuro Socioanalista imprenditore, consulente. È presidente di Forma del Tempo. Da 20 anni svolge attività di formazione e consulenza in grandi banche, multinazionali e imprese famigliari sulle tematiche della leadership, change management, sviluppo organizzativo. L’ultimo libro curato con Barbara Senerchia dal titolo “Coaching come trasformare individui e organizzazioni” affronta i temi dell’intervista. Ha curato anche i volumi: Capi di buona speranza, Guerini 2007 e Città dei capi, Ipsoa, 2014.

Paolo Bruttini Intervista di Dora Carapellese Essere open può essere oggi un aspetto vincente in un’azienda secondo lei. Cosa s’intende per Openness? Si è cominciato a parlare di openness parlando dei sistemi aperti. Un individuo, come una famiglia, un’azienda, una società se sono aperti sono in grado aumentare la probabilità di sopravvivenza, imparare e svilupparsi. Questa è un cosa peraltro vera da non tanto tempo. Con la globalizzazione, i mezzi di trasporto migliori e soprattutto internet, il mondo è diventato più piccolo. La competizione aumenta. Con una piattaforma come Amazon il mercato è globale. Oppure basti vedere il successo di Yoox che vende fashion on line. Se le comunità sono aperte, dobbiamo esserlo di conseguenza, se sono chiuse la sopravvivenza è collegata alla capacità di essere conformi alle norme implicite ed esplicite. In questo nuovo mondo tutto è più complicato. Poi è arrivata le teoria della complessità, la teoria dei sistemi complessi adattativi. Si è capito che un essere vivente è in parte aperto ed in parte chiuso. Un sistema

vivente è una rete di processi tra loro collegati che mantengono il sistema in equilibrio. Processi che si generano vicendevolmente mediante l’auto organizzazione. Il sistema è aperto perché si deve adattare al mondo esterno. In azienda i valori degli imprenditori influenzano l’azienda e le scelte del management, al punto che molte scelte sembrano dettate dal bisogno di mantenere il sistema in equilibrio, più che dall’opportunità strategica. Al tempo stesso, l’azienda deve rimanere aperta, adattarsi, evolvere, trasformarsi per essere competitiva. Gli organismi viventi e le imprese hanno lo stessa dilemma. La openness è la capacità di coniugare queste due dimensioni e attraversare l’ambiguità su cui si fonda la vita. Come sono cambiati i bisogni delle persone in azienda? I bisogni delle persone sono molto cambiati. La società dei nostri padri era fondata sui bisogni, la nostra invece sui desideri. In passato si poteva dire alle persone zitto lavora! Anzi nemmeno chiedevano nulla. Abbiamo attraversato una fase molto lunga

Gestire la complessità e aprirsi al cambiamento: queste le sfide che il mondo attuale pone alle aziende. La Openness come opportunità per creare valore aggiunto e far fruttare al meglio le risorse a disposizione delle organizzazioni

dell’iperdesiderio, dell’abbondanza. Oggi di nuovo siamo nell’età in cui rischiamo di perdere o abbiamo già perduto le posizioni acquisite. Ma noi abbiamo provato il benessere e non possiamo accettare di tornare indietro. Non lo accettano i giovani, la Y Gen o i millenials. Molto più capaci di noi, di quelli della mia generazione, di pensare al loro benessere, alla necessità di apprendere per aumentare la propria employability. Come è cambiato il concetto di fedeltà nell’azienda? La fedeltà non è più un valore così importante perché i millennials se

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trovano lavorano saranno orientati a cambiarlo mediamente ogni 3 anni. L’azienda oggi “non è un buon posto dove fare il nido” dice Baumann. Le persone non capiscono e avvertono il vento dell’incertezza del rischio. Ho partecipato alcuni mesi fa ad un evento in cui si faceva il punto sul change management in Italia. Emergeva come sempre la resistenza del middle management e dei ruoli operativi al cambiamento. Forse si può collegare al fatto che le aziende intervistate dichiarano di investire risorse sulla ricerca del committment del top e non nella comunicazione e formazione dei destinatari dell’azione. A questo si somma il fatto che i progetti di change durano un anno e mezzo mediamente. Allora in azienda si dice “tanto è tutto temporaneo, tra un po’ si cambia di nuovo”. Chi ce lo fa fare di cambiare tutto? Allora se parliamo di fedeltà all’azienda, di quale azienda stiamo parlando?

Per saperne di più www.openorganization.it 6

Come si può fare allora? Forse stiamo cercando un’impresa

diversa. Un’impresa nuova. Noi indichiamo che l’elemento di novità è la openness. Ci sono tre cose che voglio dire. La prima cosa è favorire la partecipazione. Non è certo una cosa nuova. Lo sviluppo organizzativo classico aveva proprio questa finalità. Far partecipare le persone, andare oltre l’approccio top down. Nell’età della rete è importante la relazione tra pari – peer to peer. Le social technology ci dimostrano che si può produrre valore attraverso l’intelligenza collettiva. Andiamo oltre il comando e controllo. Cerchiamo di ingaggiare le persone in progetti comuni. Infatti il secondo aspetto determinante è la passione, il talento, la progettualità personale. Sono fin troppe le aziende in cui si sta male, non si capisce il senso del lavoro, in cui il lavoro non è più uno spazio di espressione. Le organizzazioni che rincorrono le performance e non curano le persone fanno poca strada. Occorre pensare all’azienda ancora e

sempre di più come a un luogo di crescita personale, che dà senso al lavoro e facilità employability delle persone. Per ultima anche la leadership deve essere Open. I capi devono riuscire a perdere il controllo, a stare talvolta in secondo piano, a favorire processi di autoorganizzazione. Nelle nostre consulenze di sviluppo organizzativo attuali stiamo applicando il principio del CONSENT: abolire nei gruppi di lavoro il diritto di veto. Si toglie al capo la possibilità di bloccare una proposta che non condivide, se questa non è palesemente irrazionale o controproducente per l’azienda. I risultati? Persone più ingaggiate, motivate, performanti. Dall’altro capi in questo modo più trasparenti, presenti, disponibili. Errori? Certo ma mai definitivi. Molti apprendimenti, invece, e successi imprevedibili! Cerchiamo un’azienda nuova in grado di affrontare il mondo con un approccio aperto. La openness è la strada per innovare il modo fare impresa. ■


Per un management umanistico (ed efficace)* Laurea in Scienze Politiche all’Università di Milano (110/110) poi manager nell’area marketing e vendite presso industrie leader nazionali. Dal 1990 opera come consulente di direzione nelle aree marketing & organizzazione innovativa presso imprese, istituzioni e organizzazioni di vari settori manifatturieri e di servizi. Particolarmente esperto dei processi nelle Piccole e Medie Imprese del made in Italy, anche come studioso di organizzazione aziendale.

Carlo Baldassi

Il management è un insieme di sensibilità, competenze, capacità organizzative e di leadership innovativa. Tuttavia il management non è neutrale: senza riandare a tristi esperienze, abbiamo visto forme molteplici di capacità gestionale, buone e meno buone. E poi in tutti questi anni abbiamo visto come le diverse chiavi di approccio manageriale non sempre riescano a cogliere alcuni nodi essenziali. Ad esempio quando nel 2010 la regina Elisabetta chiedeva (ingenuamente?) come mai economisti e uomini di business non avessero saputo prevedere la Grande Crisi, ella esprimeva lo sconcerto popolare verso un mainstream che sino ad allora aveva interpretato l’economia capitalistica come vero paradigma del futuro. Non è così: la storia non è finita (Fukuyama) e politica, società e ambiente devono restare i driver. Infine oggi – soprattutto nelle picco-

le e medie imprese – deve realizzarsi una fecondazione tra imprenditorialità manageriale e managerialità imprenditiva. Cioè il mix di cultura e strumenti – tipico dei manager – deve ispirarsi sempre meglio alle capacità di assumere rischi e di decidere con lungimiranza, doti tipiche degli imprenditori. I nuovi paradigmi Come abbiamo già sottolineato, oggi il business è mutevole perché mutevoli sono i fattori ed i vantaggi competitivi risultano temporanei. Già molti anni fa G.Morgan ricordava che "Viviamo in tempi di trasformazio-

ne continua... Tutta una serie di rivoluzioni tecnologiche, sociali e dell’informazione si combina per creare un flusso che spesso rimette in discussione gli assunti fondamentali su cui le aziende e i loro manager hanno imparato ad operare. I manager del futuro dovranno gestire questa turbolenza con un’abilità crescente, che richiederà nuove ed importanti competenze". (Sull’onda del cambiamento–1989) Morgan – da acuto studioso – aveva già capito molto bene il futuro, nonostante Internet non fosse ancora arrivato tra noi. Infine si deve tener conto che dirigere un’organizzazione – un’azienda manifatturiera, una cooperativa di servizi o un’istituzione non profit – oggi significa anche saper cogliere le trasversalità e le ibridazioni conseguenti. Abbiamo già utilizzato i due (non raffinati) termini che riteniamo sintetizzino la questione: occorre servicizzare la manifattura con le soft skills e industrializzare i servizi con le capacità organizzative e gli indicatori di perfor-

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mance (KPI). Una sfida impegnativa ma che può essere fonte di nuovi vantaggi competitivi. Come definire il management umanistico Quali allora alcuni caposaldi del management umanistico che oggi riteniamo indispensabile nelle filiere del valore condiviso? Umanistico nella nostra accezione fa riferimento all’Umanesimo, cioè a quello straordinario periodo della storia europea dal 1300 al 1500 che ci offre ancora oggi esempi ammirati di cultura, ricerca scientifica e... bel vivere. Ogni innamorato dell’Italia di mezzo (Toscana, Umbria ecc) come sono io potrà condividere. Dentro quei tre secoli si trovano Dante, Leonardo e Michelangelo, le prime industrie tessili nelle Fiandre e in Italia, lo splendore di Venezia e di Praga, sino alla prime scoperte dei nuovi mondi. Veniamo all’oggi. Già il marketing 3.0 rivisitato qualche anno fa da P. Kotler metteva al centro la consapevolezza che si deve passare dal prodotto al cliente e dal cliente alla sua anima. "Se le imprese dovranno realizzare prodotti e servizi sempre più capaci di soddisfare le esigenze profonde di partecipazione, creatività, comunità e idealismo dei consumatori – anzi delle persone, (allora) i modelli organizzativi sin qui applicati dovranno essere rivisti da cima a fondo al fine di renderli idonei a operare nelle nuove realtà...

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I problemi cui dedicarsi (in azienda) dovrebbero essere selezionati in base a tre criteri: la congruenza con la visione, la missione e i valori dell’impresa, l’impatto di business e l’impatto sociale. Nei mercati maturi, il benessere e la salute costituiscono la principale causa sociale abbracciata dalle imprese". R. Moss Kanter da molti anni ci stimola verso una gestione olistica delle attività manageriali, costruendo un’organizzazione incentrata sulle persone e sulle loro capacità di team working per affrontare meglio le sfide dell’innovazione utile. In particolare occorre saper andare al cuore dei problemi: "We think there is an untapped leadership forced to work on problems that by definition do not fall into the slots we’ve got. Health is not the hospital. Education is not only the school, and the city is not City Hall". (intervista al Financial Time – 2013) E Moss Kanter non si tira indietro neppure quando deve sottolineare certe gravi criticità della società americana – ad esempio le cattive infrastrutture (derivanti dalle forsennate privatizzazioni reaganiane) o le incongruenze fiscali. Ma occorre che ciascuno faccia la sua parte ("We need private–public partnership") in una logica collaborativa. Perché la leadership serve, ma funziona assieme agli altri. Ormai il concetto di management umanistico (o comunque lo si definisca all’interno del concetto) si

diffonde utilizzando alcuni principi condivisi: etica e cultura, comunità ed inclusione, open innovation (cioè socializzazione dei processi innovativi) grazie anche al web, sperimentazione segmentata, collaborazione a più livelli, creatività, commitment e riconoscimento del merito, soggettività e autonomia, velocità, casualità e incertezze (serendipity). Potremmo aggiungere altre qualità che riteniamo necessarie, a volte contrastanti: ad esempio contro il mito della velocità (e del nuovismo movimentista) meglio usare la giusta lentezza nelle decisioni importanti, riflettendo bene per ridurre i rischi di bias (distorsioni) mentali... D. Kahneman – psicologo che nel 2002 vinse il Nobel dell’economia per lo studio dei meccanismi decisionali – analizzava la distinzione tra pensiero veloce e pensiero lento (sistema 1–intuitivo e sistema 2–riflessivo). Rendere giustamente merito anche al sistema intuitivo per la sua capacità reattiva non può farci sottovalutare i rischi delle operazioni connesse allo stesso (automatismi, metafore, casualità ecc). Uno dei limiti della mente umana è infatti "L’eccessiva sicurezza con cui crediamo di sapere le cose che crediamo di sapere e la nostra evidente incapacità di riconoscere quanto siano estese la nostra ignoranza e l’incertezza del mondo in cui viviamo" (D. Kahneman: Pensieri lenti e veloci–2012) In particolare il tema delle decisioni strategiche è oggi complesso (am-

bienti VUCA) e deve tener conto di molteplici fattori non sempre chiari e definibili quantitativamente. Per questo ormai le aziende anche grandi difficilmente disegnano strategie oltre i 3/5 anni e naturalmente le monitorano costantemente. Perciò buxona regola, resta quella che imprenditori e manager non smettano di confrontarsi, leggere e riflettere, di essere curiosi e di partecipare anche alla vita esterna associativa e istituzionale. Per questo la formazione continua di maestranze e di responsabili aziendali –(s’intende oltre quella obbligatoria su sicurezza e ambiente ecc) – è uno stimolo importante anche per uscire dagli schemi. Purtroppo nelle piccole aziende la formazione sui temi manageriali è stata spesso debole ("non abbiamo tempo"): lo possiamo testimoniare per diretta esperienza con centinaia di piccole e medie aziende che abbiamo incontrato in questi decenni. Così che un imprenditore nostro cliente qualche tempo fa sottolineava come "noi imprenditori siamo sempre attenti alla manutenzione dei carrelli ma non abbastanza alla manutenzione dei cervelli". Un management umanistico significa naturalmente valorizzare, sia le conquiste del pensiero scientifico, sia le infinite espressioni della cultura umana, artistiche e filosofiche. Secondo un progetto formativo italiano rivolto alla definizione di un Management Umanistico per il Nuovo


Sviluppo – sono necessari "Quei saperi che Edgar Morin ci indica come oggi indispensabili accanto a quelli tecnologici e scientifici – che consentono di ricomporre le fratture tra pensiero umanistico e pensiero scientifico, fondando un nuovo approccio scientifico ai problemi, basato sulla complessità e sulla responsabilità". Dunque caposaldi della cultura e dell’impegno professionale del manager umanistico sono: apertura (a tutti gli stakeholder dell’organizzazione), cooperazione paritaria e co–creazione all’interno delle filiere del valore, condivisione delle competenze e di alcuni asset intangibili (esempio R&D sharing), visione internazionale e capacità di benchmarking. E… indispensabile esperienza sul campo. Questi caposaldi culturali e relazionali si devono naturalmente affiancare alle più specifiche capacità tecnico–organizzative che costituiscono parte rilevante della governance, intesa anche come insieme di fattori attrattivi che gli stakeholder o gli investitori esterni considerano prioritari per un buon business. […] Le piccole aziende familiari e il management umanistico Come ambito di particolare importanza per un approccio manageriale olistico (tecnico–umanistico) ricordiamo le piccole aziende a gestione familiare. Un patrimonio europeo di origine rinascimentale che – ad onta del "piccolo non è più bello" – oggi molti ci in-

vidiano nel mondo e che – soprattutto dopo la Grande Crisi – la stessa UE considera strategico. "Il management può definirsi “umanistico” quando il suo focus è posto sull’integrità etica dell’impresa nel suo complesso e sulla valorizzazione di tutte le potenzialità della persona che opera nel contesto aziendale. Lo “humanistic manager” è di conseguenza colui che si sforza e si impegna nella continua ricerca di nuovi significati da attribuire al lavoro e alla vita all’interno delle imprese, attraverso la riflessione sugli obiettivi da raggiungere, l’esplorazione delle potenzialità dell’impresa e l’identificazione dei mezzi necessari per tradurle in attività operative. In altri termini, si passa da una gestione orientata alla pianificazione burocratica e al rigido controllo, ad una gestione caratterizzata dall’”impermanente” e dalla transitorietà. In questo contesto di continuo mutamento, emerge l’esigenza di individuare un sistema di elementi che possa conferire all’impresa la stabilità nel dinamismo. Questo sistema di elementi è rinvenibile nel sistema dei valori dell’impresa, considerati quale fondamento dell’impresa e quale motore propulsore per la sua crescita". (Dessì–Floris su Impresa@ Famiglia 2012) "Quali allora i principali valori riconducibili in modo prevalente alle imprese familiari? In primo luogo, alcuni di questi sono sintetizzabili nell’acronimo ELISA, ossia eccellenza, laboriosità, iniziativa, semplicità e austerità". (ibidem)

[…] Il mix famiglia + impresa è dunque un contesto delicato (noi nel nordest lo conosciamo bene) dove coesistono fattori emotivi e sentimentali, logiche generazionali, questioni di competenze e di ruolo nei processi organizzativi e naturalmente ...questioni concrete di interesse economico. Evidente che le tecniche manageriali debbano tener conto degli (spesso fragili) equilibri esistenti. Ecco infine come in APCO descriviamo il rapporto tra consulenza e piccole imprese. "Verso le piccole e medie imprese la consulenza di management affronta anche specificità ulteriori: le risorse sono più limitate e i tempi sono più brevi, l’aspetto relazionale e l’elemento fiduciario interpersonale risultano ancora più importanti. Non occorrerà peraltro ricordare ancora l’importanza delle pmi in un paese come l’Italia a capitalismo molecolare dove il 95% delle imprese ha meno di dieci dipendenti e dove... c’è molto da fare anche per noi. Il consulente di direzione deve anzitutto considerare che nelle pmi si confronta con l’imprenditore shumpeteriano che eccelle nel protagonismo creativo, che vive tutti i giorni le problematiche operative e i processi aziendali, che rischia e decide e che rappresenta l’anima e i valori dell’impresa... Accanto a sé l’imprenditore ha gente del mestiere verso cui certe asimmetrie informative – tipiche di altre professioni intellettua-

li – sono per i consulenti spesso più limitate. Quando opera il consulente deve sentirsi parte dell’azienda–cliente ma mantenendo etica e indipendenza di giudizio, deve interagire contemporaneamente con diversi interlocutori interni e spesso anche con stakeholder esterni (istituti di credito, istituzioni, associazioni imprenditoriali ecc). Il consulente di direzione è una sorta di "intruso invitato" (H.Baum) che deve con–vivere con la cultura, le esigenze e i ritmi specifici di ciascuna organizzazione (ogni cliente è unico). Egli deve fornire competenze specialistiche (di metodo e di merito) ma anche mantenere una visione complessiva, a volte interfacciandosi con altri specialisti esterni (commercialista, giurista d’impresa, operatori della comunicazione, designer industriali, tecnologi ecc) e più in generale con le filiere del valore in cui è inserita l’azienda–cliente. Il consulente deve saper apportare contributi utili da subito ma anche stimolare il cambiamento possibile, deve porre le domande giuste prima che fornire le risposte giuste, deve accompagnare l’organizzazione nei suoi processi innovativi e nelle sue decisioni, facendo crescere il suo capitale intellettuale – il vero asset competitivo – cioè il suo capitale umano, organizzativo e relazionale. E infine il suo intervento deve lasciare un’azienda più forte e più consapevole di prima". (C. Baldassi – a cura di – Innovare per competere, Apco FVG – 2014) * tratto dal libro di Carlo Baldassi: PER UN MANAGEMENT UMANISTICO – 2016 ■

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Il processo senza fine della valutazione

è Socio fondatore e Presidente di EVALUATE, l’Associazione Professionale Nazionale degli Esperti di Valutazione degli Apprendimenti e di Certificazione delle Competenze, nata nel 2015 con sede a Firenze, che opera in base alla Legge 4/13. Esperta in processi formativi, di selezione e di Sistemi di Gestione per la Qualità, svolge attività di consulente e formatore.

Beatrice Bettini

La costruzione di un impianto valutativo delle persone, che costituiscono una “mini società” (R. M. Kanter) chiamata “azienda”, è un processo complesso se si vuol “prendersi cura” delle individualità e orientare le performance dei singoli e di gruppo verso fini collettivi, interni ed esterni all’organizzazione stessa. Si tratta di imparare a compiere un “viaggio” con le persone in cui, con spirito avventuroso, si condivida non solo la meta (ex ante) ma anche l’itinerario che si intende intraprendere e la possibilità di costruire e co-costruire nuovi significati (in itinere), individuali e di gruppo, delle scoperte che si fanno. Ognuno poi, racconterà la storia del suo viaggio (ex post) e, ogni storia, avrà in sé la Verità. La Verità portata da quel “volto” e dal quel “nome proprio” che la racconta. “Sono i soggetti stessi che vivono e fanno vivere l’impresa a conferirle senso e validità. (…) una azienda esplorativa, innovativa, non conserva immutabile la Verità al suo interno ma la rigenera, di vol10

ta in volta, facendola emergere dal basso, nella sua cangiante pluralità singolare” (M. Minghetti). Il clima e la cultura aziendale sono contaminati dal radicamento di modelli che, nel tempo, hanno prodotto set di performance standardizzate il cui utilizzo, ai fini valutativi, non risulta sempre così utile o efficace, a fronte di un contesto globale caratterizzato dalla fluidità nella gestione della complessità a tutto tondo. Pertanto, per poter avviare un processo di valutazione individuale e partecipata che porti al radicamento in nuovi terreni (cambiamento e innovazione) è necessario, a mio avviso, iniziare a raccontare altre storie. Storie di vissuto aziendale, di desiderio di fare, di realizzare oppure di desiderio di cambiare strada, di aspettare, procrastinare la partenza, ma anche di non partecipare al viaggio, se necessario. Diviene evidente come lo sviluppo della consapevolezza dell’individuo rispetto alle proprie potenzialità,

limiti e risorse, da poter mettere in gioco, sia fondamentale ai fini partecipativi e di engagement delle persone stesse. La consapevolezza deve essere sviluppata in ogni individuo grazie alla diffusione di conoscenza e competenza in merito a due aspetti fondamentali: in primis, la conoscenza del processo valutativo che il management vuole attuare (quali performance sono attese, cosa si deve sapere e dimostrare di saper fare, con quali strumenti si valuta, quali sono i risultati attesi, ecc.) e, in seconda istanza, come il management intende sviluppare competenze di tipo auto-valutativo dei risultati dal singolo, per favorire, in ogni individuo, quella che io chiamo “l’evoluzione del desiderio di continuare a collaborare al raggiungimento della meta comune”. Il Management che valuta, deve aprire “il processo alla partecipazione dei diversi portatori di interesse” (K. Montalbetti) e deve preoccuparsi “di rendere trasparente e comprensibile il suo modo di procedere. L’enfasi


Una sfida per il Management Umanistico: prendersi cura dell’altro insegnando ad essere consapevoli della propria identità personale, professionale, formativa e sociale tramite i processi valutativi

sull’opportunità della partecipazione non deve tuttavia indurre a credere che le scelte del valutatore (management) debbano sempre essere approvate da tutti gli attori; piuttosto è necessario che costui sia in grado di avvalorare le risorse esistenti, facilitare la comprensione e fornire evidenze a supporto delle scelte compiute.” Inoltre, al di là delle scelte metodologiche che possono essere fatte, dobbiamo ricordare che “la valutazione è analisi per chi la fa ma deve essere sintesi per chi la riceve; consegue l’esigenza che sia restituita in forma agevole e comprensibile. (…) Le modalità scelte per restituire e comunicare la valutazione sono infatti strumenti preziosi, con i quali il valutatore avvalora la fondatezza di ciò che il processo ha messo in luce”. Rispetto invece all’auto-valutazione ritengo che questa competenza (individuale) sia la possibile chiave di svolta per alimentare il desiderio di continuare a “fare” e a “partecipare” dell’individuo. Si tratta di mettere

in atto in azienda un meccanismo di scambio fra chi valuta e chi si auto-valuta, in una dinamica fra le parti di tipo orientativo, nella sua accezione professionale. L’orientamento, inteso come processo di facilitazione dell’adattamento del soggetto, alle richieste che gli pervengono dall’ambiente nel quale vive, negli ultimi anni ha modificato la sua natura in direzione di un miglioramento del “benessere individuale” (F.Batini) “che si esplica in una maggiore consapevolezza delle proprie scelte, possibilità, decisioni e responsabilità, in una migliore conoscenza e percezione di sé, ma anche nel rinnovamento e potenziamento delle capacità di modifica interveniente sul proprio comportamento (E.J.Short, S.W.Evans)”. L’orientamento in azienda acquisisce quindi la funzione di integrazione, fra attività lavorative, attività di formazione e desideri delle persone (professionali e personali). Nel mio modo di vedere la proget-

tazione di un impianto valutativo delle performance individuali (e/o di gruppo), in un’ottica umanistica, non considero l’auto-valutazione come un’attività (iniziale o finale) del più ampio processo di valutazione delle persone, ma come un processo a sé stante e di supporto alla generazione di significati condivisi che alimentino la “fucina del desiderio” di far parte di un’organizzazione, la quale intraprende un viaggio verso traguardi collettivi. Si tratta di svolgere in azienda un’attività individuale di orientamento, tramite la narrazione del vissuto aziendale, nell’ambito della quale si insegni ad auto-valutarsi, sia rispetto all’evoluzione delle aspettative aziendali, che al naturale processo di crescita individuale della persona, la quale trova nel lavoro non solo un motivo di sostegno economico, ma anche la possibilità del radicamento della propria esistenza in un territorio e della partecipazione generativa allo sviluppo del bene collettivo. ■ 11


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Produttività intellettuale a partire dalla V elementare

Enrico Loccioni

Nasce nel 1949 da famiglia contadina e grazie all’esempio di Aristide Merloni si innamora del mestiere di imprenditore. Inizia nel 1968 come elettricista, insieme alla moglie Graziella, fondando un’impresa basata sui valori: le persone, il territorio, la famiglia. La sfida della qualità lanciata da Vittorio Merloni ed il suo esempio, portano Loccioni ad essere l’impresa innovativa ed internazionale che è oggi.

Quali sono i pro e i contro di un’impresa che decide di puntare tutto sulle risorse umane? Abbiamo sviluppato un modello d’impresa che è una scuola più che una classica attività industriale. Abbiamo un dieci percento di persone che prestano attività manuale ma non ripetitiva e un novanta percento che contribuisce con attività intellettuale. Misuriamo più la produttività intellettuale che la produzione di oggetti. Questo naturalmente porta a una realtà in cui la persona non è l’oggetto ma il soggetto, che si interfaccia con il cliente mettendoci la faccia. Abbiamo creato rapporti con il territorio, entrando in contatto con gli studenti a partire dalla quinta elementare, selezionando persone non dopo il curriculum ma prima. È un approccio funzionale all’obiettivo dell’impresa, che è di lavorare su un mercato internazionale, per grandi gruppi. È molto più facile abituare un ragazzo a questo tipo di lavoro: non è vincolato da schemi e pregiudizi, si mette in gioco e produce risultati straordinari. Quanto valore attribuisce al ca12

pitale umano? Qualunque impresa non ha né prodotti, né risultati, né profitti, se non ha persone. Il principio dei nostri valori porta all’istruzione. Ho due obiettivi in questi anni: avere più commesse di quelle previste sul mercato e avere persone coinvolte. Se ognuno è consapevole dell’importanza che ha, il lavoro può essere un’occasione di crescita professionale e sviluppo di competenze, che è il vero valore che rimane ai “capi” di questa persona. Quali sono le iniziative professionali e non che fanno crescere un collaboratore in un’impresa? La sfida e il fatto che si dia alla persona la possibilità di metterci la faccia, il non essere sottoposto a istruzioni. Questo elemento è fondamentale, in pochi mesi si fanno delle cose sorprendenti. Come formatori e come famiglie tendiamo a proteggere i ragazzi, a non rischiare, invece è opportuno mettersi in discussione, provare a superare l’asticella, perché è ciò che porta alle gratificazioni. Come riesce a ingaggiare i lavoratori? Il nostro lavoro non è per prodotti, abbiamo dei progetti che sviluppia-

insegnare a mettersi in discussione, vedere la competizione come fattore positivo, questo l’approccio imprenditoriale di Enrico Loccioni.

mo con grandi gruppi internazionali in diversi settori. Le persone adatte a questo lavoro vengono da percorsi universitari e da dottorati, hanno un certo profilo culturale e un approccio a viaggiare, a vedersi coinvolti per raggiungere un obiettivo. L’età media è sui 32-33 anni, con inserimento continuo di neolaureati e neodiplomati. Come gestisce la crisi che spesso c’è tra le persone che lavorano insieme, ad esempio la forte competizione? La competizione ha due facce, può essere vista come un’opportunità o come una minaccia, dipende dalla scelta che si fa. L’attività industriale che facevamo quarant’anni fa, oggi la fanno i cinesi, ad esempio. Dobbiamo crescere in termini di contenuti e di valore e proporre sul mercato ciò che è coerente con esso. Qual è il vostro modello di gestione delle risorse umane? È un modello molto personalizzato. Usiamo il termine collaboratori perché non vogliamo si crei un approccio da dipendenti. Investiamo molto tempo a confrontarci con le persone e con le loro aspettative, cercando di

creare una comunità, piuttosto che un’industria finalizzata solo a un ritorno economico. Come sceglie le persone che lavorano per lei? Le seguiamo già nel percorso scolastico, diamo loro la possibilità di fare un’esperienza di “alternanza”, che per alcuni poi prosegue oltre il percorso di studi, attingiamo dal nostro vivaio piuttosto che andare dal cacciatore di teste. Troviamo persone anche attraverso il curriculum, ma il novanta percento deriva dall’altro processo. Ospitiamo più di 1000 studenti l’anno offrendo loro l’opportunità di mettere scuola e lavoro in parallelo e vivere la realtà d’impresa durante l’anno scolastico, dedicando ad una parte di loro dei progetti più concreti e focalizzati. Noi ci definiamo L’impresa per tutte le età® perché abbiamo recuperato il grandissimo valore dello scambio, del confronto tra generazioni, tra mondi professionali, tra competenze diverse, in un’alchimia che vede insieme, intorno al progetto, alunni della primaria e dottorati di ricerca, insegnanti e manager, guru tecnici e umanisti di ogni età. ■


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