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rivista bimestrale di cultura cinematografica del dicembre 2016
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Freddy Buache
42 Wonder Boy Fare la differenza Tati - Non abbiamo bisogno di accrobati Grand Hotel Stella Alpina. Di Alberto Meroni
cin emany
cinemany numero 0 - 2
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indice
Titoli di testa
Nasce Cinemany
pag 5
Focus
Freddy Buache
pag 6
Retrospettiva
Méliès - Gli albori del cinema
pag 12
Vite da film
42 - Un giocatore per la vita
pag 16
Sguardi sociologici
Fare la differenza
introspettivi
Orson Welles - Wonder Boy
pag 18 pag 22
il taccuino
Tati- Non abbiamo bisogno di acrobati
pag 24
Frammenti
I quadri ne Il caso paradine
pag 26
Ricordi da Locarno
PAG 28
il cinema in un click Direttore Nicola Mazzi Collabortori Lorenzo Carrara Sebastiano Caroni Andrea Fazioli Murakami Mao Sabina Milanide Roberta Nicolò Roberto Pellegrini Ottavia Samsa Editore N. Mazzi Editore
i ciack del ticino
Grand Hotel Stella Alpina
PAG 30
Cinemany nasce
PAG 39
Sing, Miss Peregrine, Fuga da Reuma Park
PAG 40
Titoli di coda
prossimamente
CAT-STAR
Contatti e Abbonamenti Via Cantonale 17 6705 Cresciano cinemany@bluewin.ch - cinemany.ch
Un divorzio all’Americana
Grafica e copertina: Roberta Nicolò Foto Buache: Carine Roth/Cinématèque Foto Sing: Universal
Lo chiamavano Jeeg Robot, Lo scapolo
Stampato da Hansel sagl
Bimestrtale in abbonamento CHF 50.- annui (48 euro)
PAG 46
replay
PAG 48
mi comperi i popcorn?
The Secret Life of Pets
PAG 50
So che lo volevi sapere
Personaggi, film e notizie
PAG 52
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abbonamento
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titoli di testa
Nasce Cinemany di Nicola Mazzi La rivista che tenete in mano (o che guardate sullo schermo) è come un neonato. Ha tanta voglia di crescere per diventare un bambino sano e curioso. E poi magari, se i lettori lo vorranno, un ragazzo un po’ ribelle, e forse, chissà, un adulto più serio e composto. Cinemany nasce dalla passione per il cinema di un gruppo di amici e porta con sé l’entusiasmo di chi vi scrive. Non siamo tutti critici. Certo, c’è chi redige articoli per lavoro, ma c’è anche chi insegna, chi fotografa per mestiere e altri, provenienti da professioni diverse, si aggiungeranno (spero) nei prossimi numeri. Mi sono sempre chiesto come mai una regione fertile di rassegne cinematografiche, cineclub, serate con proiezioni e soprattutto con il Festival del Film di Locarno, non abbia una rivista dedicata alla settima arte. Non sono mai riuscito a comprenderne la ragione. E allora mi sono detto perché non provare? Perché non inoltrarmi in questa landa oscura, ma tanto affascinante? E così eccomi, anzi, eccoci qui. Con questo numero zero che, come detto, è un neonato appena arrivato in questo mondo. La mia, e la nostra idea, è quella di scrivere, non solo attraverso le critiche, l’analisi e le interviste, che saranno sicuramente presenti e avranno uno spazio importante, ma è quella di allargare la visione e parlare anche di storia del cinema, avere sui film punti di vista diversi (sociologico, psicologico, antropologico, letterario, educativo, economico, ecc.) e incuriosire il lettore con notizie e novità. Presentando il numero zero posso dire che mi riempie d’orgoglio dedicare la prima copertina a
Freddy Buache: il fondatore della Cinématèque Suisse. Classe 1924, Buache ha semplicemente fatto conoscere il cinema agli svizzeri. Ma questo numero ha altri validi contributi. Un’intervista ad Alberto Meroni sul suo film di Capodanno per la RSI; un’analisi del cinema di Jacques Tati; un ricordo in immagine del Festival di Locarno di qualche anno fa; una riflessione critica sul concetto di differenza nel cinema; ma anche l’indagare nei meandri biografici di Orson Welles per capire meglio i suoi film. Non mancano articoli più leggeri come lo sguardo felino sul divorzio tra Brad Pitt e Angelina Jolie, la presentazione del nuovo lavoro di Aldo, Giovanni e Giacomo, e del film d’animazione Sing, che sarà nelle sale a gennaio. O ancora il giudizio critico di Agata, una bambina di 8 anni, su Pets. Il progetto è sicuramente ambizioso, non lo nego. Mi mette anche un po’ di paura, non lo nascondo. Ma è una sfida che voglio e vogliamo lanciare a chi, come noi, ama andare al cinema oppure predilige guardarsi un bel film davanti alla televisione o sul proprio tablet. Una sfida che non sarebbe diventata realtà senza l’aiuto di alcuni amici che in questo numero zero desidero ringraziare. Su tutti Roberta, ma insieme a lei anche i bravissimi Sebastiano, Andrea, Roberto, Ottavia e Murakami. Una lista che spero di completare nei prossimi numeri con l’arrivo di nuovi e preziosi collaboratori. Grazie a tutti voi. E soprattutto grazie a chi vorrà seguirci in questo nuovo e affascinante viaggio. Buona lettura.
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focus
Freddy Buache di Nicola Mazzi Nella sua ormai lunga vita Freddy Buache ha conosciuto tutti: attori, registi, sceneggiatori, direttori della fotografia, critici, distributori e produttori. Il suo lavoro è stato fondamentale per il cinema in Svizzera. Più di qualsiasi altro, ha suscitato passioni e discussioni, e a volte anche polemiche. Ha attaccato il potere e le censure di vario genere. La sua penna e la sua lingua non hanno mai conosciuto freni. Eppure, a modo suo e con una simpatia tutta vodese, ha saputo anche creare relazioni. Ha criticato le istituzioni, ma le ha anche utilizzate per il bene della settima arte. È stato il fondatore della Cineteca svizzera. Un istituto che ha diretto per quasi cinquant’anni. Ha anche avuto un ruolo importante nel Festival del Film di Locarno, curando dapprima diverse retrospettive e rassegne, e poi prendendone la direzione. Da molti anni tiene anche dei corsi di storia del cinema per gli allievi dell’Università di Losanna. Tra le migliaia di studenti, che hanno avuto la fortuna di ascoltare le sue lezioni del mercoledì, c’ero anche io. Un corso che credo di non aver mai perso, meravigliato da quei racconti di un cinema ancora artigianale. Un insegnante vero, di quelli che senti con le orecchie e soprattutto con la pancia. E tra le varie lezioni che mi sono rimaste, mi ricordo un paragone che fece tra lo storico Scarface di Howard Hawks e quello di Brian De Palma. In pochi minuti e analizzando qualche immagine riuscì a farmi capire come, nel cinema, la violenza è più efficace se non viene mostrata. L’ho incontrato poche settimane or sono, in un giorno autunnale e piovoso, nella sua abitazione immersa in un bel parco a Losanna. Mi ha fatto accomodare nello studio che usava sua moglie quando era ancora in vita e abbiamo iniziato una lunga chiacchierata di quasi tre ore. Un fiume in piena di ricordi, intervallati da esclamazioni euforiche e gustose risate. E malgrado qualche acciacco dovuto
all’età (92 anni) è sempre brillante, il suo savoir-faire impeccabile e la mia meraviglia nel poterlo riascoltare è come quella di quando ero studente. Che cosa è il cinema per lei? Mi lasci dire che ci sono diversi modi di fare cinema. Il mio cinema è quello che ho vissuto con i cineclub e la Cineteca, quando si lavorava ancora con le bobine. Un tempo i film raccontavano sì una storia, ma dicevano anche qualcosa d’altro. C’era il mondo nel cinema. Un concetto che nei film di oggi non ritrovo quasi più. La mia definizione di cinema è legata quindi al racconto del mondo. Ma aggiungo pure che apprezzo molto quando il racconto si oppone alle abitudini di un pensiero comune. Per questo amo un regista come Luis Buñuel. Sconvolge i pensieri precostituiti. Ci racconta come è nata la passione del cinema? Alla fine della guerra avevo circa 20 anni. In quel periodo, con alcuni amici, volevo scrivere e fare l’attore di teatro. In particolare volevamo recitare Sartre, era il nostro idolo. Un giorno di settembre del 1945, per caso, incontrai Henri Langlois venuto al Palais de Rumine a Losanna per un’esposizione sulla Cineteca francese. In quell’occasione vidi alcuni estratti di film di Buñuel, Clair, Renoir. Ne rimasi affascinato. Alla fine della proiezione mi chiese se volevo creare un cineclub, così mi mise in contatto con due giovani appassionati che stavano cercando di metterlo in piedi. Avevano già parlato con gli Archivi svizzeri dei film di Basilea, creati durante la guerra da Georg Schmidt e, partendo da questa relazione, volevano iniziare a proiettare film a Losanna. Così iniziai anche io ad appassionarmi al progetto. Come è nata la Cineteca di Losanna? In Svizzera, all’epoca, il cinema non esisteva, non
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Freddy Buache (DR / Cinémathèque suisse)
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c’era un pensiero legato al cinema. L’unica cosa che, seppur lontanamente, poteva somigliarli erano i cinegiornali. Ma anche questi filmati erano limitati dalla censura. Schmidt provò a creare una Cineteca nazionale a Basilea partendo dal supporto degli Archivi svizzeri dei film, ma non ci riuscì. Non ci fu l’interesse politico. Quindi, noi che eravamo giovani e pieni d’entusiasmo, iniziammo a pensare di creare una struttura del genere a Losanna. E il 3 novembre del 1948 la fondammo grazie al trasferimento degli stessi Archivi da Basilea alla mia città. Devo dire che a livello organizzativo fu abbastanza semplice anche perché, all’epoca, era nata l’idea di creare una televisione nazionale di lingua francese a Losanna. E la Cineteca poteva essere un buon supporto. Come si è sviluppata negli anni seguenti? Feci un grande lavoro per divulgare la passione del cinema nei cineclub. Ma l’evento più importante fu l’organizzazione di una settimana del cinema nel 1950. In quell’occasione, attraverso il mio amico Langlois, invitai un grande regista: Erich Von Stroheim. Venne, accompagnato da sua moglie (l’attrice Denise Vernac), a presentare il suo capolavoro: Rapacità. Non riuscimmo però a farlo passare in un cinema. Non ne trovammo uno che ci desse una sala. Quindi lo proiettammo all’Aula de l’Université. Il film era composto da più di 20 bobine e durava quasi 3 ore. Quindi, ogni 10 minuti, dovevamo cambiare la bobina e Von Stroheim si mise a disposizione per intrattenere il pubblico. Fu un successo e un momento importante per me. Capii che dovevo continuare su questa strada e, anche senza contratto, dovevo occuparmi della Cineteca. La gente come ha reagito a questa nuova offerta cinematografica? Bene. Nell’immediato dopoguerra molte persone avevano un ottimo ricordo dei film che avevano visto negli anni Trenta e volevano riscoprirli. Ma mi ci volle molto tempo, diversi anni, per creare una struttura efficiente. Non scordiamoci che il cinema non era una materia insegnata nelle università ed era vista, più che altro, come puro intrattenimento. Un altro evento importante è stato il voto popolare del 1958. Ci ricorda di che cosa si tratta? I cittadini furono chiamati a votare un nuovo articolo costituzionale (il 27 ter) con il quale la Confederazione si impegnava ad aiutare il cinema e la
Cineteca. Un articolo, oggi lo posso dire, che scrissi io e che fu introdotto, dopo i vari passaggi alle Camere, nel 1963. Grazie a quel voto Berna iniziò a finanziare le produzioni cinematografiche. Bello, mi direte. No, vi rispondo. Infatti le loro sovvenzioni andavano solo a film documentari. Ci pensate, solo documentari! Raccontare storie non meritava il sostegno federale. A pensarci ora fa sorridere, ma all’epoca fu davvero pesante per il cinema svizzero. Mi ricordo ancora che il primo contributo, che arrivò nel 1963 alla Cineteca, fu di 35mila franchi. Anche per l’epoca erano davvero pochi. Come ha organizzato il lavoro alla Cineteca? Iniziai a contattare i vari distributori chiedendo loro di non distruggere le pellicole. All’epoca, infatti, le bobine erano in nitrato e potevano bruciare facilmente. Quindi dopo la loro vita nei cinema spesso venivano distrutte dalle stesse case di distribuzione. Ricordo che all’inizio ebbi qualche difficoltà ad avere i film americani, poi per fortuna la Fox iniziò a consegnarmeli. Nei loro magazzini avevano ancora un grande numero di pellicole. Dovetti andare a prenderle con alcuni camion. Qualche mese dopo feci la stessa cosa con la Warner e la RKO. A un certo punto avevo 20 magazzini, in giro per Losanna, stracolmi di bobine. Dovetti trovare un posto per depositarle. Per fortuna trovai uno spazio adeguato grazie alla città di Losanna. Quando lasciai la Cineteca nel 1996 avevo raccolto più di 80mila film. La Cineteca partecipò all’Expo del 1964. Ci racconta come è andata? È vero partecipammo a quell’evento. In quell’occasione fu lanciata anche l’idea di costruire la Cineteca vicino al lago, a Ouchy. L’architetto Alberto Camenzind aveva già elaborato i progetti per costruire uno stabilimento dedicato alle arti che comprendesse un teatro e appunto la Cineteca. Ma non se ne fece nulla per opposizioni che arrivarono soprattutto da alcuni politici di Berna. In quegli anni ha continuato il suo lavoro di scoperta e diffusione di film. Tra i movimenti più importanti c’era il Neorealismo italiano. Lo ha amato? Certo. Divenni un grande sostenitore di quel movimento. Anche se erano comunisti. Ma personaggi come Visconti mi sono restati dentro. Ricordo che ebbi l’occasione, qualche anno più tardi, di vederlo girare in Baviera La caduta degli Dei. Ah, che regista
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straordinario. Un altro, qualche anno più tardi, che apprezzai molto fu Michelangelo Antonioni. Mi ricordo che presentò Il grido nel 1957. Uno dei suoi primi lavori. Ma la giuria di Locarno, incomprensibilmente, non lo premiò. Allora mi dissi: ma sono matti, non hanno visto la bellezza di quel film? E con alcuni amici critici inventammo un premio apposta per lui. Gli regalammo un orologio a pendola di Neuchâtel. Trent’anni dopo, quando ormai aveva problemi fisici ed era in carrozzella, mi disse che quel premio lo aveva conservato tra le cose più care in casa sua. Ma la direzione della Cineteca non le bastava. Lei scriveva anche sui giornali, vero? Certo. Visto che non avevo un salario alla Cineteca dovevo arrangiarmi come potevo. Per guadagnare qualche franco scrivevo critiche di film. Ho cominciato alla Nouvelle revue de Lausanne, l’organo del partito radicale. Vi lavorai per una decina di anni, prima di accettare la richiesta fattami da Marc Lamunière che mi aveva proposto di salire a bordo de La Tribune de Lausanne, la testata che poi prese il nome de Le Matin. Con queste entrate, e soprattutto grazie al lavoro di mia moglie, riuscimmo a vivere in modo dignitoso. Ci spiega come è nato il suo rapporto con il Festival di Locarno? Grazie all’allora direttore Vinicio Beretta, un grande amico che ricordo con affetto, ho cominciato da subito a frequentare Locarno e collaborare con il Festival. Abbiamo organizzato diverse retrospettive di autori sconosciuti in Svizzera come Kurosawa, Bergman, Buñuel, Murnau e de Oliveira. Di quegli anni a Locarno mi ricordo che Joseph von Sternberg, presidente della giuria nel 1960, decise di far vincere il premio principale a Mark Donskoï, un regista sovietico. Una decisione che fece molto arrabbiare Berna e gli uffici federali che minacciarono di togliere i già pochi fondi che avevamo per la rassegna locarnese e che avrebbe comportato l’addio al Festival. Per fortuna non si arrivò a tanto. Comunque la programmazione che avevamo messo in piedi con Beretta in quegli anni aveva creato alcuni malumori in alcuni membri del CdA del Festival. In particolare non era piaciuto il nostro sguardo all’est Europa. Il comitato del Festival obbligò quindi Beretta a rimettere il suo mandato. E vista l’amicizia con Beretta avevo deciso pure io di andarmene per occuparmi solo della Cineteca. Tuttavia l’insistenza dello stesso amico mi convinse a
Buache e Godard
(DR / Cinémathèque suisse)
continuare, affiancato (per la parte amministrativa) da Sandro Bianconi. Così presi in mano la direzione della rassegna. Dal 1967 al 1970 è diventato quindi direttore artistico. Cosa ricorda di quegli anni? Il Festival continuava ancora a essere organizzato al Grand Hotel. Ma con parecchie difficoltà logistiche. Inoltre, all’epoca, a causa dell’ingerenza della Federazione delle associazioni dei produttori di film, non esisteva una commissione di selezione. I produttori importavano le pellicole e noi dovevamo proiettarle, senza una scelta preventiva. Un problema che durò alcuni anni e che per fortuna si risolse grazie alla mia tenacia e all’arrivo di personaggi come Michel Simon, Valerio Zurlini e Friedrich Dürenmatt in giuria. Anche a livello politico erano anni molto turbolenti quelli. Bastava poco per scatenare polemiche. Mi ricordo che una volta, con il Grand Hotel pieno di turisti tedeschi venuti in Ticino per ammirare il paesaggio, i laghi e le montagne, proiettammo un film sui campi di concentramento. Le lascio immaginare le reazioni.
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Mi ricordo anche che in quel periodo avevo notato il desiderio dei giovani di interessarsi al cinema, ma anche una difficoltà del Festival di avvicinarsi a loro. Decidemmo allora di spostare da agosto a settembre (durante le vacanze scolastiche autunnali) le date del Festival. Un cambiamento rischioso, ma che ci diede ragione. Siamo nel 1968, un anno molto particolare, ci racconta che cosa è successo? Fu un anno davvero sconvolgente. In maggio ero a Cannes a seguire il Festival, e ci furono le note rivolte. Mi ricordo un pomeriggio particolare, in programma c’era la proiezione di un film di Carlos Saura. Nella sala si scatenò la rivolta. I giovani saltarono sulle sedie del cinema, altra gente parlava ai microfoni, si urlava alla rivoluzione; insomma ci fu molta confusione. Vicino a me avevo Jean-Luc Godard che nelle colluttazioni ci rimise gli occhiali. Locarno, come detto, si teneva in settembre. E al Kursaal è successa più o meno la stessa cosa, con l’occupazione della sala da parte di diversi ragazzi con le sciarpe rosse (arrivati soprattutto da Milano e della Svizzera tedesca), che protestavano e che volevano fermare il Festival. Trovai quelle proteste inutili, idiote e mal indirizzate. Decisi di lasciarli parlare tutta la notte. La mattina seguente arrivò anche Godard e io convocai la stampa. Con lui si disse che non era giusto fermare il Festival, ma potevamo accettare di continuare senza assegnare un premio finale. La sua presenza fece una grande impressione tra i ragazzi. Loro si calmarono e accettarono la mia proposta. Quando, nel 1970, Raimondo Rezzonico (membro della commissione esecutiva del Festival e poi dal 1981 presidente) ci disse che voleva ingrandire il Festival, usando anche la Piazza Grande, io mi tirai indietro. Non me la sentii di organizzare il tutto. La macchina stava diventando molto più complessa. E poi questa scelta significava anche un cambiamento parziale della programmazione. Ammetto che il mio Festival non fosse per tutti, era sicuramente elitario e allargare alla Piazza significava anche avere un altro tipo di pubblico. Voleva dire, in qualche modo, renderlo più popolare. Oggi qual’è il suo rapporto con il Festival di Locarno? Sono sempre stato un assiduo frequentatore di Locarno. Ho ricevuto tanti inviti, ma purtroppo quest’anno non sono riuscito a venire in Ticino. Ho 92 anni e faccio un po’ fatica a muovermi e a spo-
Buache e Maîre (© Carine Roth / Cinémathèque suisse)
starmi. Purtroppo non me la sono sentita. E cosa pensa del direttore e del presidente? Carlo Chatrian se la sta cavando bene. Lui e Marco Solari credo stiano facendo davvero un lavoro impeccabile. Un lavoro non semplice. Oggi, infatti, è molto difficile trovare buoni film sul mercato. C’è troppa concorrenza. Lo vediamo anche in altri festival storici, come la Mostra di Venezia, che stanno riscontrando molte difficoltà a trovare opere degne. Ecco perché credo che a Locarno, malgrado tutti i problemi, si stia davvero facendo un buon lavoro. E dell’attuale Cineteca che giudizio dà? Alla guida c’è un buon direttore come Frédéric Maire che arriva appunto da Locarno. Trovo che stia facendo davvero bene. Conosce i nuovi metodi di lavoro e ha le giuste relazioni. Ovviamente è un modo di fare diverso rispetto al mio. Ma sono cambiati i tempi. Anche il cinema è cambiato molto. Rispetto a qualche decennio fa girano più soldi. Anche in Svizzera. E sovente sono spesi male, inoltre mi sembra che i registi abbiano poco da dire. Ha accennato al suo rapporto con Jean-Luc Godard. Ci può parlare di questo regista che ormai non vuole più apparire? Secondo me Jean-Luc è il numero uno. Alla sua età (86 anni) continua a far film con passione. Anche senza produttori. Ecco, lui è un vero artigiano, un artista. Ogni mattina si reca nel suo atelier e ci traf-
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fica per tutto il giorno Un lavoro serio, e senza tante parole. So che proprio in questi mesi sta ultimando il suo prossimo film. Ma a proposito del suo ultimo lavoro Audieu au langage mi disse che avrebbe preferito non distribuirlo nei cinema, ma riuscire a girare di piazza in piazza, proiettarlo e poi parlarne con la gente del posto. Una sorta di ritorno alle origini del cinema. Ovviamente non è stato possibile. Ma questo la dice lunga sullo spirito dell’artista. Ci sono giovani registi che le piacciono? Ce ne sono. Non molti a dire il vero. Ma personaggi come Jim Jarmusch sono degli artisti veri, alla Godard. Anche in Svizzera ci sono giovani interessanti. C’è Lionel Baier e altri due o tre che non sono male. Il fatto è che pensano di riprendere il lavoro fatto dal Gruppo dei 5. Ma sono ancora lontani dai vari Goretta, Tanner, Soutter, Lagrange e Roy. Quali sono i problemi del cinema di oggi? Ci sono troppi soldi. Di conseguenza è cambiato anche il rapporto tra il film e il pubblico. Per esempio mi ricordo a Cannes un paio di anni fa, dopo 5 minuti dall’inizio di un film di Philippe Garrel, diversi spettatori se ne andarono. Un fatto del genere,
un tempo, non sarebbe mai successo. Forse oggi gli spettatori sono abituati a tempi diversi, a una maggiore velocità, o forse il cinema è diventato un semplice divertimento. Lei crede ancora nel cinema e nei giovani e infatti continua a tenere dei corsi. Lo confermo. Me lo ha chiesto sia la Cineteca sia l’Università e ho accettato. Per me insegnare è sempre stato molto importante e oggi continuo con piacere. Ma anche il mio rapporto con i ragazzi un po’ è cambiato. Qualche decennio fa sapevo più o meno che cosa conoscevano. Oggi, sinceramente, non so le nozioni che hano gli studenti. L’altro giorno ho fatto un riferimento a Paul Klee e non hanno avuto alcuna reazione. La cosa un po’ mi ha preoccupato. Ma mi sono ricreduto subito dopo, parlando di un regista svedese dell’epoca del muto, Victor Sjöström, che a un certo punto della sua carriera andò in America. Ho mostrato alcune immagini di un suo film americano e quando ho riacceso le luci ho avvertito che quelle scene erano passate e li avevano toccati. Ecco, continuo a insegnare per questi momenti. Ho ancora la speranza che la passione per il cinema arrivi anche alle nuove generazioni.
Freddy Buache (ultimo a destra) e Joseph von Sternberg (penultimo a destra)
(DR / Cinémathèque suisse)
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Retrospettiva
Méliès - Gli albori del cinema di Nicola Mazzi Parlare di cinema significa anche conoscerne la storia. Con questa rubrica desidero ripercorrere i suoi 120 anni di vita, proponendo un film rappresentativo per decennio. Inizio quindi dagli albori e dalla pellicola più conosciuta di Georges Méliès. La Storia del cinema inizia qui, con il suo Viaggio nella luna. Prima era altra cosa, una via di mezzo tra il teatro filmato e il documentario. Questo è il primo film narrativo dove il montaggio (peculiarità che distingue il cinema da tutte le altre arti) è usato in modo consapevole e artistico. Va detto che è piuttosto strano osservare come il genere scelto sia stato quello fantascientifico. Quale pietra miliare del cinema ci si sarebbe aspettati l’uso di un filone più classico: un bel filmato drammatico oppure una storia d’amore. Invece l’autore opta, deliberatamente, per un genere – almeno agli occhi contemporanei - più discosto. Ecco perché è utile contestualizzare questa scelta nel periodo storico. Un viaggio nel tempo che ci riporta indietro di 114 anni. È IL PRIMO FILM CON L’USO CONSAPEVOLE DEL MONTAGGIO Siamo all’inizio del 1900, gli anni della Belle Époque. L’Europa sta uscendo dalla Grande Depressione e inizia a vivere un decennio di ripresa economica, prima di ricadere, ancora una volta, nel baratro a causa della Grande Guerra. Un momento storico particolare dove le invenzioni e i progressi della tecnica e della scienza non hanno paragoni con le epoche passate. Siamo negli anni dell’invenzione dell’elettricità, della radio, dell’automobile e appunto del cinema. Ma sono anche gli anni in cui la Francia
consolida le sue ultime conquiste coloniali, soprattutto in Africa. A livello culturale i decenni precedenti sono contrassegnati in modo indelebile dai viaggi fantastici di Giulio Verne. Così come è molto importante l’uscita, un anno prima, del romanzo di H. G Wells I primi uomini sulla luna. Tra gli appassionati di quelle letture stravaganti c’è anche un giovane Méliès, il quale impressionato dalle descrizioni dei viaggi lunari, decide di farne un film. Certo, il cinema è nato qualche anno prima con i fratelli Lumière. Nel 1895 viene infatti proiettato, nel seminterrato di un locale parigino, il primo spettacolo visivo. Per i pignoli aggiungo che ancora prima dei Lumière, altri personaggi come Thomas Edison, elaborano apparecchi per ricreare immagini in movimento che davano l’illusione della realtà. Tuttavia il cinema, come lo conosciamo noi e quindi con una storia strutturata e raccontata attraverso le immagini montate, ha il suo incipit con il viaggio fantascientifico di Méliès. Un’avventura che inizia proprio in quel momento e che continua fino ai giorni nostri. Come descrive bene Georges Sadoul nel suo Dictionnaire, Méliès è «il padre dell’arte cinematografica, il creatore della regia, il primo cineasta al mondo che si dichiarasse artista, sapesse di esserlo e volesse esserlo». Il Viaggio nella luna è conosciuto nel mondo intero per un’immagine, o meglio una sequenza: quella della navicella spaziale che si conficca nell’occhio di una luna sorpresa e sofferente. Un fotogramma famosissimo e noto anche a chi non sa magari dargli una collocazione temporale o contestuale. Quest’immagine rappresenta molto bene il genere in cui si inserisce il film. Uno spettatore che non conosce la pellicola capisce immediatamente che sta assistendo a uno spettacolo di fantascienza. Ma ancora più curioso e interessante è osservare il fotogramma da vicino perché si può immediatamente
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Retrospettiva
L’immagina più famosa de Il viaggio nella luna
notare che alcuni crateri della luna, dopo l’impatto del razzo, si sono trasformati in rughe d’espressione, altri sono diventati occhi, bocca e naso. Il nostro satellite naturale è stato quindi antropomorfizzato dal regista. Un effetto già utilizzato dallo stesso autore nel 1898 con un filmato di 3 minuti intitolato La lune à un mètre. Quali sono le ragioni di questa scelta? Ne identifico alcune partendo da un’importante considerazione biografica. Méliès, come detto, ebbe una particolare passione per il fantastico e i trucchi di prestigio, ma fu anche uomo molto concreto e pratico. Oltre a realizzare film diresse un teatro nel quale veniva-
(DR / Cinémathèque suisse)
no messi in scena spettacoli dedicati alla magia. Ma soprattutto è necessario ricordare che a Montreuil (vicino a Parigi), costruì uno dei primi teatri di posa cinematografici. Insomma fu un vero e proprio imprenditore. Ecco allora che un’ipotesi sul significato dell’immagine, prendendo spunto da queste due caratteristiche contrapposte - un lato più sognatore e uno più pragmatico – mi porta a dire che nel regista francese esistesse la consapevolezza che l’abuso della tecnologia (il razzo) potrebbe portare a modificare e mortificare la natura (la luna infilzata). Ma il discorso è anche più interessante e proba-
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Retrospettiva
Georges Méliès
bilmente più sostanzioso se si inserisce questo fotogramma nel contesto storico. La sofferenza della luna potrebbe essere la medesima vissuta dai popoli durante la Grande Depressione che si era appena conclusa. Mentre il razzo, e quindi la tecnologia ai suoi massimi livelli, potrebbe rappresentare il progresso in atto nei primi anni del secolo scorso, quindi proprio all’epoca in cui fu ideata e girata la pellicola. E allora l’immagine più famosa di quel film, può essere presa quale simbolo di quel preciso momento storico. La fotografia dell’inizio di un nuovo secolo, ovvero la fine di un periodo di difficoltà e l’inizio di una forte spinta in avanti data dalla tecnologia. Come potrebbe essere altrettanto giustificato dire che, a livello metaforico, il viaggio nella luna è quello dei colonizzatori europei nel resto del Mondo. La Francia, come detto all’inizio dell’articolo, proprio in quegli anni, stava colonizzando parte dell’Africa. E allora il desiderio, innato nell’uomo, della scoperta, porta (se estremizzato) a conseguenze negative per il nuovo mondo (in questo caso la luna) che viene colonizzato. Ed è partendo da questa considerazione che possiamo comprendere il ruolo dei seleniti e cioè gli abitanti della luna immaginati da Méliès. Esseri viventi ispirati al romanzo di Wells, (così come da quel libro il regista prese l’idea dei funghi giganti), i quali vengono colonizzati dagli esseri umani e portati, quale trofeo, al cospetto di un sindaco o di un re sulla Terra. Un’operazione che ricorda da vicino quella di Cristoforo Colombo con gli indiani d’America. Restando su quell’immagine è utile spendere due parole per la tecnica. Infatti il razzo conficcato nella luna è il risultato di un piano particolare. Per questa sequenza, Méliès usa un finto travelling, ovvero un progressivo avvicinamento della luna alla macchina da presa la quale (per ovvi motivi legati ai limiti di quella tecnologia) rimane invece ferma. L’effetto è comunque identico a un classico travelling e cioè quello di ricreare il viaggio eseguito dal razzo. L’autore, in questo modo, ha sperimentato uno dei primi effetti speciali della storia del cinema. Detto della sequenza e del suo possibile significato guardiamo il film nella sua interezza. Dura poco più di 15 minuti e perciò, visto oggi, possiamo considerarlo un cortometraggio. All’epoca, tuttavia, questa era una durata molto lunga per un filmato. Fino ad allora le pellicole erano brevi skatch o piccoli documenti visivi. Méliès, investendo 10mila franchi (una fortuna), sviluppò il suo concetto di cinema allun-
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Retrospettiva
gando appunto la durata, inserendo diversi effetti speciali. Siamo ancora nella fase delle inquadrature fisse (più precisamente il film è diviso in 17 quadri che rappresentano altrettante scene) e il fulcro del filmato gira attorno a effetti legati ai giochi di prestigio. Ma l’inventiva del regista riuscì a trasformare la staticità di rudimentali macchine da presa, in scene dinamiche, divertenti e giocose. Effetti rafforzati dal montaggio che viene usato quale trucco per operare apparizioni e sparizioni, eseguire trasformazioni, salti temporali e spaziali. FU IL PRIMO BLOCKBUSTER DELLA STORIA Tutti elementi stilistici imparentati allo spettacolo offerto dai circhi o dai locali nei quali si esibivano i prestigiatori. Un modo di girare film che gli storici definiscono Cinema delle attrazioni; dove più che la narrazione importava lo spettacolo. «Méliès è interessato al contenuto delle singole scene piuttosto che al loro montaggio. Questi elementi caratteristici del cinema delle attrazioni non escludono comunque la presenza sporadica di strategie di racconto legate al montaggio», ha scritto Silvio Alovisio nell’Introduzione alla Storia del cinema (a cura di Paolo Bartetto, Utet, 2012). Viaggio nella luna è stato anche uno dei primi film a essere colorati. Un team di donne, armate di pennelli e di pazienza, dipinsero fotogramma dopo fotogramma, la pellicola. Oggi è possibile vedere copie in bianco e nero e altre, appunto, a colori. Di rilievo ricordare come nel 1993 è stata scoperta a Barcellona una copia particolarmente ben conservata del film. Una versione a colori, la quale, grazie a un investimento di 400mila euro, è poi stata restaurata e proiettata per la prima volta al Festival di Cannes nel 2011. Un ultimo aspetto è quello economico. Viaggio nella luna è infatti il primo vero blockbuster della storia del cinema e diede fama e denaro al suo autore. Ma fu anche il primo film a essere “piratato” da alcuni agenti di Thomas Edison il quale ne stampò un centinaio di copie per mostrarle nelle prime sale di New York. Proiezioni illegali, di cui il povero Méliès, non ricevette neppure un centesimo. Un viaggio nella storia del cinema che parte appunto con il Viaggio nella luna; il primo film inserito sulla lista del patrimonio mondiale del cinema dell’Unesco.
Una luna che ricorda il romanzo di Wells
La partenza del razzo (DR / Cinémathèque suisse)
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vite da film
42 - Un giocatore per la vita di Roberta Nicolò Vite speciali, personaggi che hanno segnato la storia, ritratti degni di nota che diventano vite da film. La biografia di Jack Roosvelt Robinson, giocatore dei Brooklin Dodgers, ha trovato spazio al cinema per la prima volta nel 1950, in una pellicola intitolata The Jackie Robinson Story. Il film, scritto da Arthur Mann e Lawrence Taylor e diretto da Alfred E. Green, ha la particolarità di portare sul set l’attivista per i diritti civili Ruby Dee, nei panni della moglie del giocatore, e lo stesso Robinson nel ruolo di se stesso. Un esercizio di fusione tra realtà e finzione che merita sicuramente di essere visto. È certamente più facile ricordare 42 - La vera storia di una leggenda americana, datato 2013, diretto da Brian Helgeland, con Chadwick Boseman nei panni del campione di baseball e Harrison Ford interprete del patron dei Dogers. Ma chi è Jackie Robinson e perché la sua è una vita da film? Jack Roosevelt Robinson è un afroamericano cresciuto a Pasadena, California, che frequenta l’Università. Un lusso non scontato per un giovane di colore degli anni Quaranta, e proprio al Pasadena Junior College (che nel 1999 gli ha dedicato lo stadio) scopre la sua propensione allo sport. Si distingue nel football, nel basket e nel baseball, disciplina che lo vede impegnato a partire dal 1945 nella Negro League, con il
ruolo di interbase per i Kansas City Monarchs. Anche nel settore sportivo, così come in tutti gli ambiti della vita quotidiana, l’America è ancora fortemente divisa dal razzismo. Un afroamericano non può sedere vicino a un bianco sull’autobus, o al bancone di un bar. Allo stesso modo, un giocatore di baseball di pelle nera, non è ammesso a giocare nella Major League americana. Una regola non scritta, in auge fin dal 1880, che nessuna squadra del paese aveva mai osato infrangere. Ecco perché, per i giocatori di colore, era nato un campionato speciale, nel quale si potevano cimentare e sul quale il mondo degli scommettitori aveva grande potere e influenza. La baseball color line, così è chiamata la linea invisibile che tiene i neri fuori dalla Massima Lega, è il simbolo evidente di una società segregata, in cui la parola uguaglianza è ancora lontana dall’essere compresa e rispettata. Nel 1947 il tabu viene infranto da Branch Rickey, presidente e general manager dei Brooklyn Dodgers, che ingaggia proprio il giovane Jackie Robinson, scelto come il più promettente tra i giocatori visionati quell’anno. Il suo inserimento in squadra non è facile, incontra molte resistenze, non solo da parte del pubblico, ma anche dagli stessi compagni di squadra. Ma tra Rickey e il giocatore l’accordo è chiaro: il suo ingaggio
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vite da film
avrebbe richiesto un grande esercizio di carattere e Robinson si impegna a mantenere autocontrollo di fronte ai comportamenti sgarbati del mondo del baseball, promettendo di non reagire mai. Una sfida per i due uomini, che lanciano un segnale forte al mondo e mettono fine a più di sessanta anni di segregazione razziale in ambito sportivo. Ci vuole coraggio per Robinson, che viene pesantemente insultato dagli spalti. Ma Jackie tiene duro e non risponde alla maleducazione. Non reagisce neppure di fronte alle minacce di morte che si fanno sempre più frequenti o alle provocazioni pesantemente razziste. Jackie Robinson è pagato per giocare a baseball e giocare a baseball è quello che fa. Con i Dodgers disputa in tutto dieci stagioni, giocando per sei volte le World Series e vincendole nel 1955. Nel 1949 vince il premio come miglior giocatore della National League e tra il 1949 e il 1955 viene selezionato per sei volte per l’All-Star Game. Ed è proprio mantenendo la calma e offrendo un buon gioco, che Jackie Robinson diventa leggenda. Non tanto per le sue prestazioni sul campo che, seppure di ottimo livello, non saranno mai realmente leggendarie, ma mostrando pubblicamente al popolo americano che il mondo si può cambiare e che il colore della pelle non è per forza specchio di una differenza di diritti e valore tra gli uomini. Scendere in campo coi Dodgers per Jackie significa dimostrare la vacuità della segregazione, del razzismo e dell’intolleranza. Robinson è in prima base e il mondo del baseball da avvio al cambiamento di un’epoca, una metamorfosi che si può riassumere con la celebre frase del suo compagno di squadra Pee Wee Reese: «Puoi odiare un uomo per molte ragioni. Il colore non è una di queste». E mentre Robinson vola in seconda base l’America si infiamma. Ci sono campagne di resistenza e disobbedienza civile e atti di protesta non violenta. Le ingiustizie sopportate dagli afroamericani iniziano ad essere viste come illegittime e anticostituzionali. Ci sono Martin Luther King, Malcom X, le Black Panters. Ci sono i sit in e i cortei. L’America conservatrice crolla sotto il peso del cambiamento e del nuovo che avanza. Robinson è in terza base e il disegno di legge Civil Rights Act vieta la discriminazione basata sulla razza, il colore della pelle, la religione, il sesso o le origini. Viene anche abolita la segregazione nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle aree pubbliche. Jackie entra a far parte della Baseball Hall of Fame
mentre nasce e cresce una nuova America. Il numero di maglia 42, con il quale giocava per i Dodgers, è oggi simbolo di quella scintilla che ha infiammato gli Stati Uniti e che ha dato avvio a una vera e propria rivoluzione del pensiero. Un numero che è un emblema e che ogni anno, dal 1997, tutti i giocatori professionisti indossano proprio per rendere omaggio a lui, Jack Roosvelt Robinson, sceso in campo per la prima volta in Major League Baseball (MLB) il 15 aprile 1947: «Torna tra i campi di cotone. Non sei degno di portare un numero sulla maglia!» si era sentito dire, ma da allora di strada ne è stata fatta tanta. La Lega ha voluto rendergli omaggio decidendo di ritirare la sua maglia, la numero 42, da tutte le franchigie della MLB e di concedere a chiunque di poter indossare quella divisa in suo onore solo nel giorno che lo commemora. Jack Roosevelt Robinson, classe 1919, è un’immagine. Rappresenta l’America che cambia. Che si apre all’uguaglianza, che va incontro al riconoscimento dei diritti civili. Specchio di nuovi valori sociali sui quali costruire un paese più giusto. Personificazione della possibilità di realizzare l’impensabile. Uno sportivo di talento che ha saputo incarnare il valore della democrazia. robertanicolo.ch
(Legendary Picture)
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sguardi sociologici
Fare la differenza di Sebastiano Caroni All’inizio di ottobre ho partecipato a un simposio presso l’Università della Svizzera italiana. Il tema e il titolo scelto per l’occasione, ovvero L’illusione della normalità, m’intrigavano (Si trattava del simposio tenutosi il 7 ottobre 2016 in occasione degli 80 anni di Proinfirmis). Mentre ascoltavo i relatori che si succedevano declinando il tema in modo sempre brillante e pertinente, mi rimproverai di non essermi portato appresso una decina di locandine di una rassegna cinematografica sul tema dell’identità e della differenza cui avevo contribuito e che, guarda a caso, si stava svolgendo proprio in quel periodo. Avrei potuto distribuire agevolmente quelle locandine affidandomi alla convergenza tematica fra il simposio e la rassegna. Tale convergenza mi parve piuttosto evidente, così come mi pare evidente - ora - che se dovessi abbinare dei termini a identità e differenza, fra questi sceglierei “normalità”. Ma a un’occasione mancata fa seguito, spesso, una nuova serie di opportunità; l’ultima delle quali consiste nella possibilità di restituire, nelle pagine in questa rivista, parte della riflessione portata avanti proprio nel contesto della rassegna cinematografica in questione, svoltasi fra settembre e novembre del 2016 presso i circoli del cinema di Bellinzona e Locarno. Se l’identità e la differenza sono i punti di partenza di questa riflessione, non c’è un vero e proprio punto di arrivo; ma a un certo punto, da qualche parte, si fa strada l’idea che la normalità “differente” è un antidoto alla normalità “omologante”. Forse quello è il punto esatto, l’incontro, dove la mia riflessione si è incrociata - come in una congiuntura astrale - con gli interventi dei relatori del simposio. Aperti sul mondo, comunichiamo la nostra identità e la nostra differenza. La nostra identità si fonda sulla differenza, sulla possibilità di essere riconosciuti attraverso un nome, un viso, una biografia in progress. L’identità contiene la possibilità della
differenza, e la differenza contiene un progetto d’identità. Da sempre i sentieri della differenza sono intrecciati a quelli dell’identità; a volte questi sentieri si sovrappongono, altre volte si separano, per poi avvicinarsi di nuovo. Quando procedono in modo armonioso, si arricchiscono reciprocamente, si delineano vicendevolmente. Intersecandosi, identità e differenza tracciano nuove vie, inaugurano nuove opportunità e direzioni. Altre volte, invece, sentieri diversi diventano motivo di confusione, tensione o conflitto. In un’intervista del 2004 il sociologo Zygmunt Bauman osservava che il termine identità ha acquisito una centralità nel vocabolario della sociologia e della politologia che prima non conosceva. Purtroppo, quando sentiamo la parola identità, molto spesso c’è di mezzo un conflitto (Zygmunt Bauman, Identity, Polity Press, 2004). Per questo in tempi difficili come quelli attuali, occorre promuovere la chiarezza, la generosità, il dialogo e la speranza. Occorre affidarsi alla riflessione e alla condivisione, piuttosto che all’impulsività e alla fretta. Occorre agire con tatto, non reagire con la forza. IL CINEMA COME SPECCHIO CRITICO Quando sviluppa uno sguardo alternativo, il cinema è uno specchio critico che ci rivela i problemi e ci consegna immagini e storie che ci fanno riflettere, ci obbligano a rivedere i nostri giudizi, le nostre rappresentazioni, le nostre categorie mentali. Partendo da queste premesse, l’intento della rassegna Fare la differenza: sentieri cinematografici nei boschi dell’identità plurale era di affidarsi al cinema per far emergere il valore psicologico, socio-culturale, estetico e creativo della relazione fra identità e differenza. Nel realizzare questo intento, la rassegna ha mes-
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sguardi sociologici
Cate Blanchett in Carol di Todd Heynes
so in luce tanto l’aspetto produttivo, costruttivo e positivo, quanto le problematiche e le tensioni che possono nascere dall’interazione fra identità e differenza. Sulla scia dell’osservazione di Bauman si è, per esempio, posto l’accento sulle derive e gli scontri che emergono da un infelice rapporto fra identità e differenza. Il tema del doppio, che è stato oggetto di due film della rassegna (Dr. Jekill e Mister Hyde di Robert Mamoulian e Despair di Rainer Werner Fassbinder), ha permesso di tematizzare il divorzio fra l’identità e la differenza, quando la differenza si scolla dall’identità e viene percepita come fattore di minaccia e distruzione. La Passion de Jeanne D’Arc di Carl T. Dreyer ha declinato il tema dell’eterodos-
(Lucky Red)
sia, della condanna del diverso, dell’ignoranza che porta una società e rigettare fuori dal sentiero della convenzione chi la pensa diversamente. In maniera assai trasversale nell’economia della rassegna, il difficile rapporto fra identità e differenza ha permesso di sollevare la questione del dialogo interculturale, tema particolarmente centrale in pellicole quali Akadimia Platonos di Filippos Tsitos e El abrazo de la serpiente di Ciro Guerra. L’idea di fare la differenza, a cui attinge il titolo della rassegna, sta a indicare che l’esperienza della differenza non è un dato di fatto, oggettivo, e immutabile, ma è il risultato di un processo di interpretazione e di co-costruzione del reale. Differenza e identità
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sguardi sociologici
sono processi che possono essere interrogati, negoziati, rielaborati. Questo è quanto ci ha mostrato il film giapponese Like father like Son, nel quale le identità di un bambino e di una famiglia seguono il filo di una storia comune, di esperienze condivise, di un’educazione impartita con amorevolezza (dai genitori) e ricevuta con gratitudine (dai figli); un patrimonio di esperienze condivise che hanno il loro peso, e che difficilmente la scoperta tardiva di un equivoco sull’identità biologica può rimettere in discussione. L’identità è, come detto, aperta al cambiamento, al rimaneggiamento, alla ridefinizione. L’identità non
Il Dr Jeckyll di R. Mamoulian
è univoca, ma è multipla, plurale. La differenza, la curiosità, l’apertura verso il nuovo costituiscono altrettante spinte creative nei processi di costruzione dell’identità. Da questo punto di vista, le vicende umane raccontate in Week-end di Andrew Haigh e Carol di Todd Haynes ci hanno messo di fronte a situazioni, personaggi, contesti e esperienze in cui la differenza diventa fonte di senso e ricerca di autenticità, ma anche ulteriore prova – semmai ce ne fosse bisogno – di come l’esperienza della differenza, nelle molteplici forme in cui essa si manifesta, è un vettore importante nella formazione di un’identità autonoma. Dal canto suo Her, di Spike Jonze, ha sol-
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sguardi sociologici
levato il problema della differenza fra intelligenza umana e intelligenza artificiale. Il film pone anche la questione dei limiti della tecnologia, dell’alienazione e del vuoto identitario che contraddistinguono la società ipermoderna. Di fronte ai nuovi scenari associati alla tecnologia, quale ruolo può giocare la differenza, l’autenticità, la consapevolezza umana? Come rilanciare l’etica dell’umano in una società sempre più dominata dalla tecnologia, e come interagire in modo costruttivo con le nuove tecnologie dell’identità e della differenza? RELATIVIZZARE LA DIFFERENZA Le declinazioni dell’identità e della differenza sono davvero tante, e tanti sono gli scenari che si profilano interrogando la relazione fra queste due nozioni. Per ottenere un quadro più completo occorre, a mio modo di vedere, aggiungere un terzo termine, il verbo relativizzare. A questo proposito, il documentario di Silvio Soldini Per altri occhi - che restituisce le testimonianze di alcune persone non vedenti -, ci ha aiutato a capirne il perché. Pur soffermandosi sulla condizione particolare dei non vedenti, il documentario lascia intravedere la possibilità di ridimensionare la differenza, di rapportarsi ad essa per inserirla in una visione inclusiva in cui la differenza non è opposta alla normalità; ma semmai la rende più flessibile, più creativa, restituendole la possibilità di essere normalità differente, che caratterizza ognuno di noi. Nel saggio Stigma. L’identità negata, il sociologo Erving Goffman fa notare come l’incapacità di accettare l’amore umano è un problema di gran lunga più grave della perdita della vista (Erving Goffman, Stigma. L’identità negata, Giuffrè, Milano). Un’osservazione che ha il pregio, se non altro, di relativizzare senza per questo sminuire la condizione dei non vedenti. Puntando su alcuni grandi classici, abbinati a produzioni più recenti, la rassegna ha coinvolto un pubblico variegato, anche grazie alla felice collaborazione con alcune associazioni locali, l’UNITAS, Inter-Agire e Imbarco immediato, che da anni lavorano su tematiche affini a quelle proposte dalla rassegna. Queste collaborazioni hanno anche permesso di organizzare alcuni incontri per approfondire le questioni sollevate nei film, offrendo occasioni di condivisione, di dibattito e di scambio (Un grande
grazie alla Biblioteca Cantonale di Bellinzona e a quella di Locarno, che hanno ospitato gli incontri). Ripensando al simposio d’inizio ottobre alla luce di quanto scritto ora, mi viene da dire che la normalità è un fenomeno assai strano; pur essendo una cosa astratta, che si rifà a un modello convenzionale, esercita un potere innegabile su di noi: ordina, detta legge, sanziona. Ma, come ricordava saggiamente più di un relatore quel giorno, in natura non è la normalità ma è la differenza che, alla prova dei fatti, regna incontrastata. sebastianocaroni@hotmail.com
El abrazo de la serpiente di Ciro Guerra
Week-end di Andrew Haigh
(trigon-film)
(Glendale Picture)
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sguardi introsspettivi
Orson Welles - Wonder Boy di Ottavia Samsa L’idea di questa rubrica nasce dalla voglia di indagare il labile confine tra arte e vita, poiché, chi sceglie la via dell’arte della rappresentazione si confronta con un lavoro molto pericoloso, che rischia di far confondere i piani di realtà e finzione attraverso suggestioni o palesi contaminazioni. Cominciare da Welles è un atto dovuto, forse non proprio una scelta originale, ma un omaggio a chi per primo ha messo in discussione i linguaggi e le forme narrative della settima arte, aprendo la strada, grazie alla pellicola Quarto potere (1941), al cinema moderno. Figlio di una pianista e di un imprenditore, Orson Welles nasce in una cittadina del Wisconsin nel 1915. I genitori considerano il figlio come un enfant prodige spronandolo a coltivare le proprie aspirazioni artistiche; inizia a studiare pianoforte, a dedicarsi alla pittura e alla recitazione sin dalla prima infanzia. La madre avrà un ruolo decisivo per la sua formazione, anche se muore precocemente, quando Welles ha nove anni. Come il regista stesso afferma, anche il dolore per questa perdita eserciterà una grande influenza sulle sue decisioni artistiche. In seguitò, all’età di quindici anni, perde anche il padre e perciò viene affidato, insieme al suo patrimonio, a un tutore il quale avrà altresì un ruolo importante nell’avvicinare il giovane Orson a Shakespeare, autore che tornerà periodicamente nelle sue opere attraverso adattamenti o riprese di temi quali ad esempio, la sete di potere e la sconfitta esistenziale. Durante un viaggio in Irlanda, nel quale dilapida tutta l’eredità, Orson è costretto a trovar lavoro. Si avvicina così alla carriera teatrale, impiegato come attore e diventando, al rientro in patria, uno dei maggiori registi teatrali newyorchesi a soli dician-
nove anni. Successivamente si cimenta in altri campi, legati soprattutto all’universo mediatico, come ad esempio la radio e la televisione. Proprio la radio, nel ’37, gli aprirà la strada verso Hollywood, con la famosissima messa in onda - fin troppo realistica - de La guerra dei mondi di Wells. Nel suo cinema confluiranno così tutte le variegate esperienze artistiche dando vita a un linguaggio cinematografico contaminato e fortemente innovativo, che fa di Welles uno dei più grandi registi di Hollywood. Tuttavia il miraggio hollywoodiano finisce presto, portando con sé numerosi progetti incompiuti e costringendo l’autore a passare «dalla condizione di ragazzo d’oro di Hollywood (Quarto potere) a quella di genio in esilio, costretto a realizzare i propri film a pezzi e bocconi, sempre in lotta con le difficoltà produttive» (AA.VV., My name is Orson Welles, media, forme e linguaggi, Milano, Il castoro, 2007). Situazione che egli stesso conferma: «Sono partito dal vertice e mi sono fatto strada verso il basso» (Ibidem). KANE È UN EROE SHAKESPEARIANO Quarto potere racconta la storia di un magnate dell’editoria, Charles Foster Kane, dall’affido (a otto anni) a un tutore e il conseguente abbandono della famiglia, all’ascesa all’olimpo del successo cui segue la caduta, dopo una fallimentare avventura politica. Ma sul letto di morte Kane pronuncia una sola parola: Rosebud. Un giornalista, che intravede in questa estrema confessione una possibile chiave di lettura della parabola esistenziale di Kane, prova dunque a ricostruirne la vita, attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto, alla ricerca del significato di Ro-
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sguardi instrospettivi
Quarto Potere di Orson Welles
sebud. Nel film somiglianze e suggestioni avvicinerebbero la figura di Welles a quella di Kane: l’infanzia affidata a un tutore e costellata di dolorose partenze e perdite, il successo e l’oblio, l’accumulo di ricchezze e opere incompiute come misura della propria maledizione. Il personaggio di Kane, emblematicamente interpretato da Welles, è un eroe shakespeariano, che ha toccato le vette della grandezza e del potere per poi precipitare nella sconfitta totale. Creatura dai multiformi talenti appare così «meraviglioso nell’azione» ma anche «quintessenza di polvere», come direbbe Amleto (Amleto, atto II, scena II). La carica innovativa di Quarto potere riguarda soprattutto la dimensione del racconto, creando un linguaggio cinematografico adatto a ritrarre l’uomo shakespeariano del ventesimo secolo. Infatti, «è come se Welles anteponesse alla tradizione cinematografica […] un passato ancestrale con cui confrontarsi, quello dello story telling» (Giuliani, Placereani, Introduzione a My name is Orson Welles, Milano, Il castoro, 2007, pp. 13-14). Alla fine della pellicola (però), il giornalista, di fronte alla parzialità e discordanza di versioni e giudizi
da parte dei testimoni, deve arrendersi all’impossibilità di risalire al significato di Rosebud e di conoscere quella che emerge come una contraddittoria, ambigua e sfuggente personalità. Alla fine la figura di Kane appare di una grandezza senza spessore, corpo e anima disomogenei, alla mercé dello sguardo e delle parole altrui. Anche lo spettatore, in fondo, rimane escluso da un giudizio univoco sulla vita del protagonista. Quarto potere potrebbe anche essere il film sull’impossibilità di avere una visione unitaria dell’uomo, in una realtà contemporanea che inizia a mostrare le proprie crepe all’occhio vigile dell’artista. Epopea dell’assurdità di una vita umana, Quarto potere diventa metafora di una ricerca artistica che sta assumendo nuovi connotati (visibili con chiarezza nella Nouvelle Vague francese). Quindi, dovremmo metterci alla ricerca della Rosebud wellesiana? È consigliabile cercare, con un potente teleobiettivo, epifanie e frammenti intimi di questo mito del cinema? Forse, come dimostra l’esempio di Kane, è consigliabile sospendere il giudizio, e accettare che la nostre riflessioni rimangano sul vertiginoso - e affascinante - confine tra arte e vita.
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il taccuino
Tati-Non abbiamo bisogno di acrobati di Andrea Fazioli Jacques Tati è un antidoto alle giornate difficili. Quando ci sembra di essere invischiati nell’impaccio, nella mancanza di leggerezza, è il momento giusto per entrare nell’universo del regista francese. I suoi film non mancano mai di stupire, perché sono imprevedibili e, insieme, immediatamente riconoscibili. Al di là dei suoi personaggi, Tati è soprattutto un creatore di mondi. Altre figure geniali della comicità hanno dato vita a maschere grandiose – Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy – ma Tati si distingue per aver saputo evocare, fin dal suo secondo lungometraggio (Les vacances de Monsieur Hulot, del 1953) un universo peculiare e coerente. Forse bisognerebbe parlare di “mondi”, al plurale. Perché ogni film mette in scena scenari di tipo differente, che il regista usa per evidenziare il mistero del protagonista. La sua genialità consiste proprio nel rappresentare, in maniera oggettiva, il conflitto fra l’anima e il mondo. Sebbene si definisse artigiano, Tati aveva l’inquietudine di un artista: in trentacinque anni di carriera girò solo sei lungometraggi, rifiutando parecchie proposte, correndo più volte il rischio di scontentare il pubblico e finendo perfino in bancarotta (dopo Playtime, girato nel 1967). Non volle mai cedere alla facilità, ma s’impegnò ad approfondire il nodo conflittuale della sua drammaturgia. In Mon Oncle (1958) c’è una scena dove si vede in maniera esemplare questo conflitto. Monsieur Hulot (Tati) entra in un ufficio anonimo e grigio, per un colloquio di assunzione. Poco prima ha calpestato della polvere di gesso e gli si è infilato un sassolino nella scarpa; rimasto solo, ne approfitta per levarlo (così facendo, appoggia per un istante la scarpa sulla sedia e sulla scrivania). Appena arriva l’arcigna impiegata, si affretta a sedersi. La scena è filmata con una semplicità coraggiosa, come sempre nei film di Tati: camera fissa, silenzi, una punteggiatura sonora discreta ma significativa (il ronzio fuori dalla porta,
l’orologio, il sospiro della poltroncina ogni volta che Hulot si alza o si siede). L’effetto comico è dato dal contrasto fra l’anima di Hulot – per definizione irregolare e funambola – e la normalità inesorabile dell’impiegata. Quest’ultima nota infatti che sul pavimento c’è una fila di candide tracce di piedi, poi un’altra impronta sulla sedia e due sulla scrivania, come se Hulot vi fosse balzato sopra per sbirciare dall’oblò che si apre in alto, sulla parete. La scena è geniale perché lavora sul levare, negando anche l’azione del protagonista: Hulot non si è arrampicato lassù; è l’impiegata che, leggendo gli indizi, li collega erroneamente in un involontario quanto umoristico volo di fantasia. E così il perplesso Monsieur Hulot viene accompagnato alla porta: «Eh bien, Monsieur, on vous écrira. Pour l’instant, nous n’avons pas besoin d’acrobates». IL MONDO DI HULOT ATTRAVERSA ALTRI MONDI CHE MAI LO CAPISCONO L’ironia gioca intorno a un paradosso: in realtà Hulot non ha fatto acrobazie, e quindi è stato cacciato per un equivoco; tuttavia egli è davvero intimamente acrobata, nella misura in cui la sua personalità è in contrasto con la gelida efficienza dell’ufficio, ed è perciò effettivamente inadatto a quel luogo, a quel lavoro, a quel mondo. «Non abbiamo bisogno di acrobati»: potrebbe essere uno slogan, una dichiarazione che, se rovesciata, definisce un approccio artistico alla realtà. Lo scarto dalla regola, l’azione assurda, il gesto imprevedibile diventano un’evasione dalle geometrie prevedibili del mondo. Lo sguardo di Tati è quanto più possibile semplice e limpido. Il montaggio non allunga né comprime la durata dei piani; tranne rare eccezioni non ci sono
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il taccuino
punti di vista né campi e controcampi, così come mancano primi piani, grandangoli, teleobiettivi. Il critico Michel Chion si chiede «che cosa sia la visione nel cinema di Tati». E risponde: «è la distanza», definendola «una cosa meravigliosa». In effetti l’incanto proviene dal distacco, che ci dà la sensazione di vedere la realtà così come appare, senza mediazioni: spesso l’inquadratura è fissa e immobile, come se fossimo lì a guardare. E il personaggio di Hulot attraversa le inquadrature con il suo passo inconfondibile, con i suoi accessori (impermeabile, pipa, cappello, ombrello) che sono allo stesso tempo una maschera e un’armatura. Hulot esprime una doppia tensione: verso l’abitare (nei film di Tati le porte e le case hanno un valore simbolico importante) e verso l’evadere (Hulot scompare, anche dallo schermo,
Mon Oncle di Jacques Tati
quando meno te l’aspetti). André Bazin nel 1953 parlava di «incompiutezza»: «Hulot «è una velleità ambulante, una discrezione dell’essere, ed eleva la timidezza all’altezza di un principio ontologico». Jacques Tati non era poi altissimo (un metro e ottantatré), ma è riuscito a fare di Hulot uno spilungone: goffo e insieme leggiadro nei movimenti, eroe e insieme passante casuale. Non siamo tutti così? Le nostre “giornate difficili” non rispecchiano forse lo stesso divario che Tati mette in scena nei suoi lungometraggi? Il mondo privato, umanissimo e colorato di Hulot attraversa come un’increspatura altri mondi, che lo accolgono o lo rifiutano, ma quasi mai riescono a capirlo. andreafazioli.ch
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frammenti
I quadri ne Il caso paradine di Nicola Mazzi Anna Maddalena Paradine, una bellissima donna di origine italiana che vive a Londra, è accusata di aver avvelenato il ricco marito, un ex colonnello dell’esercito; un uomo anziano e, soprattutto, cieco. Per difendersi ingaggia un principe del foro: Anthony Keane. Lui, sposato da undici anni con la bella Gay, s’innamora dell’affascinante signora Paradine. La vista, l’osservare e quindi il capire, è il filo conduttore di questo film di Alfred Hitchcock. È mia intenzione evidenziare, con alcuni esempi e soprattutto attraverso l’importanza della rappresentazione iconografica (quadri e fotografie), come la comprensione di una vicenda drammatica (un omicidio) sia influenzata dal modo in cui si sceglie di guardare e da che cosa si vede. E per far ciò analizzo alcune scene chiave de Il Caso Paradine. La prima scena ci fa entrare subito in questo contesto. Il regista ci offre su un piatto d’argento un elemento che sarà fondamentale per tutta la pellicola: il quadro su cui è rappresentato l’ex marito morto. Siamo nella villa dei Paradine e il cameriere annuncia alla signora l’arrivo dell’ispettore di polizia che viene ad arrestarla. Lei, prima di seguirlo, gli indica il marito ritratto, dicendogli che l’opera è stata terminata pochi giorni prima della morte del coniuge. In questa maniera il dipinto entra nella diegesi, cioè nell’andamento narrativo del racconto. Diventa parte integrante della storia e un punto di riferimento importante. Un chiaro indizio dato dal regista allo spettatore. È come se gli dicesse: «Osserva il quadro (tutti i quadri del film), non te lo scordare, sarà importante». Sempre in questa scena la donna, oltre che mostrarlo all’ispettore (e quindi agli spettatori), lo guarda in modo freddo e senza scomporsi. E lo fa mentre beve un bicchiere di porto. Un gesto importante in quanto il defunto marito, scopriremo più tardi, è stato avvelenato proprio da un bicchiere di porto. Con questi primi elementi il regista mette in rela-
zione il personaggio morto e la causa del suo decesso, indicandoci a livello inconscio e inconsapevole (visto che la causa della morte non ci è ancora stata detta) anche il colpevole. I quadri compaiono anche in altre scene. Per esempio a casa di Keane osserviamo il dipinto della moglie dell’avvocato e a casa del collega, sir Simon, notiamo il quadro della figlia. E se da un lato rappresentano, seppur legati solo alla scenografia, una certa continuità narrativa, d’altro sono una sottolineatura del regista dell’importanza della rappresentazione iconografica. Il motivo si scopre in una scena fondamentale, nella quella il protagonista (l’avvocato Keane) va nella villa di campagna dei Paradine e vede il ritratto della signora. SI VEDE IL MONDO COSÌ COME SI DECIDE DI GUARDARLO. IL FILM DI HITCHCOCK CE LO RACCONTA Quel quadro è l’unico situato in camera da letto a indicare un forte, seppur subliminale, richiamo sessuale (aspetto evidenziato dalla biancheria intima lasciata in disordine nella stanza). Un elemento che caratterizza la donna all’apparenza fredda, ma con un passato controverso. La sequenza fa intuire il suo discutibile rapporto con il bel domestico André Latour (il legame è sottolineato dal fatto che subito dopo l’avvocato legge sullo spartito al piano il titolo Appassionata e di seguito apre la finestra e chiama «Latour!»). Come nella prima scena, il quadro acquista forza perché fa parte della narrazione. Infatti Keane lo vede e ne resta ipnotizzato. Affascinato dalla bellez-
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frammenti
za della donna. A livello tecnico è ripreso con una carrellata soggettiva, che lo mostra attraverso delle sbarre situate in mezzo alla stanza (che ricordano quelle della prigione). Sbarre metaforiche che suggeriscono a Keane, e con lui a tutti noi, il destino, se non la colpevolezza, della donna. A sottolineare l’idea ci pensa il regista con uno zoom sul quadro e un controcampo su Keane. Un lavoro sul montaggio che relaziona i due personaggi. È come se i due si guardassero, riaffermando la presenza, in quella stanza, di entrambi. È questo il momento chiave del film. In questa scena lui dovrebbe capire la colpevolezza della cliente e la verità su quanto è successo al marito. Ma così non succede. Poiché è ammaliato dalla sua bellezza e non comprende davvero quello che vede. Lo sguardo di Keane è influenzato dalla passione. Un sentimento che offusca la realtà, manipolandola. Capisce, invece, molto bene il sentimento della moglie nei suoi confronti. Ancora una volta è una rappresentazione iconografica che lo (e ci), aiuta a esplicitare questo stato d’animo. In una scena seguente lui appare infatti sul giornale. Noi vediamo la sua fotografia attraverso gli occhi della moglie. La didascalia indica che è andato a far visita alla sua cliente in carcere. Ma è una fotografia molto ambigua e che ricorda quelle dei ricercati; dei wanted, dei colpevoli. Ecco, in quel momento comprende che, agli occhi della moglie, lui è colpevole di essersi innamorato di un’altra donna. In questo caso la sguardo è privo di mediazione e arriva perciò a cogliere la realtà. I quadri, le fotografie, sono null’altro che il modo usato da Hitchcock per cercare di far capire al suo protagonista la verità. Fargli comprendere quello che davvero è successo. Ma questi indizi si scontrano con l’incapacità di Keane di guardare oltre quel fascino. La momentanea impossibilità di controllare i propri desideri, che lo portano da un lato a non voler vedere la verità e dall’altro lato a rimaneggiarla. E solo quando Keane riuscirà a levare la benda ammaliatrice raffigurante quel viso perfetto, potrà comprendere davvero come sono andate le cose. Con l’aiuto della moglie (che gli resta sempre fedele) e la forza del desiderio di guardare la realtà, riuscirà a cogliere la signora Paradine per ciò che è, ovvero un’assassina. Una metafora della vita nella quale le apparenze spesso celano l’inganno. L’ex colonnello in pensione non era riuscito a capirlo. Ma lui, apparteneva a quella classe sociale per la quale apparire conta più dell’essere. E poi, il colonnello, poverino, era cieco.
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il cinema in un click
Ricordi da Locarno di Roberto Pellegrini Ho iniziato la mia carriera da fotografo 35 anni or sono al Festival del film di Locarno come reporter ufficiale. Alla direzione c’era David Streiff e alla presidenza Raimondo Rezzonico. A quel tempo usavo una voluminosa Zenza Bronica formato 6x4.5 e soprattutto un flash Sunpak auto zoom, una “torcia”che si montava di fianco all’apparecchio tramite una staffa. Questa fotografia di Massimo Troisi l’ho scattata nell’agosto del 1981, verso mezzanotte, durante una conferenza stampa al Grand Hotel. Eravamo arrivati a piedi, tutti insieme, dalla Piazza Grande. Lui, già piuttosto noto, era venuto a presentare Ricomincio da Tre. Mi ricordo anche che in quell’occasione ero presente solo io come fotografo professionista e, dato che a quell’epoca non esistevano cellulari o apparecchi fotografici facili da usare per tutti, posso affermare di aver scattato questa serie d’immagini in esclusiva. Optando per quell’apparecchio avevo a disposizione solo 15 scatti, poi dovevo cambiare rullino. Ogni fotografia, andava studiata nei minimi particolari. Gli sprechi erano assolutamente da evitare. Personalmente aspettavo sempre il momento in cui non parlavano, ed erano intenti ad ascoltare. Mi sono sempre piaciute le espressioni concentrate e assorte. Così feci anche per Massimo Troisi. info@robertopellegrini.ch
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Massimo Troisi
(Š Roberto Pellegrini)
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i ciack del ticino
Yor Milano, Simona Bernasconi e Massimo Viafora
(inmagine sa)
Grand Hotel Stella Alpina di Roberta Nicolò
Un lavoro per la televisione di Alberto Meroni. Un film pensato come fosse una pièce teatrale e girato da chi di solito fa cinema. Questo il film Grand Hotel Stella Alpina, che andrà in onda sulla RSI la sera di capodanno. Una produzione tutta locale che promette divertimento e buonumore, ma che non manca di spunti di riflessione sul valore degli affetti familiari. Abbiamo avuto occasione di seguire le riprese sul set durante la scorsa primavera. L’intero film si svolge all’interno dell’Oratorio Santa Maria di Mendrisio, dove la scenografia di Daniele Crimella ha letteralmente trovato spazio. Stanze d’albergo abitate da personaggi improbabi-
li e una hall quasi surreale per una storia natalizia che vede in scena attori di grande esperienza, ma anche alcuni esordienti. La storia è una favola moderna scritta dal commediografo Diego Bernasconi e dal regista Alberto Meroni, per riflettere sul significato di famiglia e sui valori dei rapporti umani. Una commedia divertente, parlata in dialetto e interpretata da tanti beniamini della scena locale. Un unicum, un film corale, come lo definisce il regista Alberto Meroni che abbiamo incontrato a Mendrisio per parlare di Grand Hotel Stella Alpina ma anche di cinema e televisione.
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i ciack del ticino
Raccontaci questo film L’idea produttiva è quella di rappresentare un microcosmo, in questo caso un albergo, ma che potrebbe anche essere una casa, un paese, una nazione, insomma un luogo fisico ma allo stesso tempo simbolico. In questo microcosmo si incontrano personaggi strani e divertenti. Tutto ruota intorno al rapporto di un padre, proprietario dell’Hotel e della figlia (ndr. interpretati dal Yor Milano e Simona Bernasconi). Sono due generazioni a confronto, un paragone nel quale ognuno dà il meglio che può. Due modi diversi di vedere la realtà che a volte si scontrano. Per il padre, per esempio, il suo è l’albergo più bello del mondo, pur essendo in realtà una catapecchia, ma i ricordi che lo abitano sono tali da renderlo un luogo speciale e caro. Mentre la figlia, giovane e al passo coi tempi, lo vorrebbe più moderno, tecnologico, efficiente. Alla fine l’amore è quello che conta e i due finiranno col capirsi l’un l’altra un po’ di più. Perché lo definisci un film corale? In questo film abbiamo voluto rendere omaggio a tanti personaggi che piacciono al pubblico ticinese. Ci sono i Fratelli Rossi del locarnese, abbiamo il cast della Palmira, i Frontaliers, i Quattroquinti (apprezzato quartetto di fiati del bellinzonese), c’è Fredy Parolini, ci sono Diego Gaffuri e Marco Capodieci, ma anche un attore italiano molto caro al pubblico come Enrico Beruschi, i Legnanesi e naturalmente ci sono Yor Milano e Simona Bernasconi. Ecco perché corale. I protagonisti sono davvero tutti beniamini del nostro pubblico. Abbiamo cercato di rappresentare ogni regione del Cantone. Sono personaggi che piacciono e allora perché non metterli insieme in modo coerente? Un vero e proprio tributo alla loro comicità. Ce ne sono altri, molto bravi, che in questo film non sono presenti, ma per i quali non mancheranno nuove occasioni. Girare un film per la televisione è diverso dal fare film per il cinema? È d’obbligo una premessa. Quando penso di fare un film, parto sempre da un elemento chiave, ovvero dal pubblico. L’obiettivo è sempre quello di soddisfare il pubblico. In questo caso specifico il telespettatore della RSI per la sera di Capodanno. Mi sono quindi chiesto cosa avrebbero gradito vedere le persone che il 31.12 alle nove di sera si
Alberto Meroni
(inmagine.sa)
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sintonizzeranno sui canali della nostra emittente. Serviva un film divertente, leggero, ma che avesse un significato. Qualcosa di locale e che potesse far sentire lo spettatore come fosse seduto a teatro. Quindi, per tornare alla domanda, ci sono delle differenze tecniche. Un film per la televisione lo devi girare tenendo conto del canale comunicativo in cui è inserito. Ma c’è un comune denominatore, devono entrambi piacere. Al cinema se fai un film che al pubblico non piace non vendi biglietti, non vieni visto. Lo stesso in televisione dove, nonostante la fruizione sia gratuita, è sempre una visione attiva. Hai molta concorrenza e devi quindi convincere lo spettatore che vale la pena non cambiare canale. La comicità è un elemento fondamentale dei tuoi film, cosa ami del comico? Mi piace sentire il pubblico che ride in una sala gremita. Mi piace l’idea di far star bene la gente, e una sana risata fa sempre bene. Ricordo che, nel periodo in cui era nei cinema il primo film della Palmira, una signora anziana aveva posteggiato davanti al mio studio di Mendrisio e tentava a fatica di scendere dalla sua automobile. Era un pomeriggio piovoso, grigio e freddo. Le ho dato una mano e le ho chiesto cosa l’avesse fatta uscire di casa con quel maltempo. Ero veramente curioso di capire cosa ci fosse di così importante da averla spinta fuori, vista l’età e l’evidente fatica che faceva per muoversi. Ha risposto che stava andando al cinema a vedere lo spettacolo delle quattro, per-
ché davano La Palmira e lei aveva tanto bisogno di ridere. Ecco credo che quello sia stato uno dei momenti più gratificanti della mia carriera. Le tue soddisfazioni sia come produttore sia come regista? Nel mio lavoro da produttore devo dire che tutto mi ha appagato e mi appaga. Ho sempre fatto il massimo con quello che avevo a disposizione e la maggiore soddisfazione è quella di poter comprendere i difetti e i pregi di un lavoro. Per esempio, per parlare di qualcosa di estremamente attuale, la web serie Arthur, che ho prodotto quest’anno, ha conquistato il titolo di miglior web serie al mondo. Una produzione ticinese che si è fatta apprezzare e che proprio grazie agli svariati premi che ha saputo conquistare a livello internazionale, è oggi richiestissima dai distributori. Come regista ho riempito le sale cinematografiche con le mie commedie e questo non ha prezzo. Vedere il tutto esaurito è una gran gioia. Quindi direi che sia come regista sia come produttore mi sono preso delle belle soddisfazioni. Nuovi progetti? Ci sono due film in arrivo, il primo uscirà esattamente tra un anno al cinema e si preannuncia divertentissimo, il secondo è una favola moderna. In più, visto il grande successo, gireremo Arthur II sempre per il pubblico del web.
Da sinistra: Diego Bernasconi, Marco Capodieci, Davide Maggi e Alberto Meroni
robertanicolo.ch
(roberta nicolò)
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Germano Porta e Massimo Viafora
(inmagine sa)
the end
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pubblicitĂ
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pubblicitĂ
rivista bimestrale di cultura cinematografica del dicembre 2016
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Sing
Miss Peregrine Fuga da Reuma Park Divorzio all’Americana Pets
cin emany
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indice Titoli di coda
Cinemany nasce
PAG 5
Sing, Miss Peregrine, Fuga da Reuma Park
PAG 6
prossimamente
CAT-STAR
Un divorzio all’Americana
PAG 12
replay
Lo chiamavano Jeeg Robot, Lo scapolo
PAG 14
mi comperi i popcorn?
The Secret Life of Pets
PAG 16
So che lo volevi sapere
Personaggi, film e notizie
PAG 18
Titoli di testa
Nasce Cinemany
pag 5
Focus
Freddy Buache
pag 6
Retrospettiva
Méliès - Gli albori del cinema
pag 12
Vite da film Direttore Nicola Mazzi Collabortori Lorenzo Carrara Sebastiano Caroni Andrea Fazioli Murakami Mao Sabina Milanide Roberta Nicolò Roberto Pellegrini Ottavia Samsa Editore N. Mazzi Editore
42 - Un giocatore per la vita
Sguardi sociologici
Fare la differenza
introspettivi
Orson Welles - Wonder Boy
Tati- Non abbiamo bisogno di acrobati
Grafica e copertina: Roberta Nicolò Foto Buache: Carine Roth/Cinématèque Foto Sing: Universal
I quadri ne Il caso paradine
Bimestrtale in abbonamento CHF 50.- annui (48 euro)
pag 18 pag 22
il taccuino
Contatti e Abbonamenti Via Cantonale 17 6705 Cresciano cinemany@bluewin.ch - cinemany.ch
Stampato da Hansel sagl
pag 16
pag 24
Frammenti
pag 26
il cinema in un click
Ricordi da Locarno
PAG 28
i ciack del ticino
Grand Hotel Stella Alpina
PAG 30
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abbonamento
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titoli di coda
Cinemany nasce di Roberta Nicolò L’editoriale è appannaggio del direttore, e io non lo sono. Ma la nostra è una rivista un po’ particolare, è un piccolo esperimento sociale (tanto di moda oggigiorno), un esperimento che ci vede pieni d’entusiasmo. A me è affidato il compito di raccontarvi di che cosa si tratta. Vi presentiamo il numero zero di cinemany: bimestrale dedicato all’arte del cinema. Un progetto che ha messo letteralmente nero su bianco, o meglio, che ha dato colore e vita, al sogno di Nicola Mazzi. Perché il Nick (come lo chiamiamo noi, e da oggi anche voi se vorrete) di cinema si nutre, lo ama, lo conosce. Così, insieme a lui, ci siamo lanciati in questa nuova e meravigliosa avventura. Chi non ha mai visto un film? È un modo affascinante per farsi raccontare una storia, per passare bene un pomeriggio piovoso, perfino per studiare qualche volta. Un film può aiutarci ad approfondire un tema o ad analizzare un contesto in maniera semplice. Altre volte risponde al bisogno di ridere, oppure di piangere, altre ancora di sognare, di sperare, di credere. Il cinema è questo: è un’emozione, è un pensiero. E le emozioni sono per tutti. Ecco allora svelato perché cinemany si può leggere nei due versi. Puoi scegliere da che parte aprire la rivista a seconda del tuo umore, dei tuoi gusti, della tua personalità. A seconda del momento. Dei tuoi interessi. Di quello che vuoi sapere. È un periodico pensato per palati che si distinguono a volte divergenti, discordanti, contrastanti. Ha un gusto esotico ma anche tradizio-
nale. È per coloro che amano i vecchi film in bianco e nero e per coloro che, invece, non sanno resiste alla magia di un cartone animato. La nostra seconda copertina, infatti, è dedicata a Sing, il nuovo film d’animazione creato dai papà di successi mondiali, come Cattivissimo me e Minions, perché sappiamo bene quanti appassionati del genere, più o meno piccini, ci sono tra voi. E noi vi vogliamo contenti. Hai voglia di svagarti un po’ e scoprire cosa arriverà prossimamente al cinema? Ti offriamo la possibilità di saperlo. Al cinema ti aspettano l’ultimo lavoro di Tim Burton e il nuovo film di Aldo Giovanni e Giacomo. Vuoi gustarti un pettegolezzo in salsa felina? Abbiamo l’inviato d’eccezione Murakamimao. Puoi sapere cosa pensa di Pets la nostra Agata Bernasconi, giovane critica in erba, e puoi fare una scorpacciata di curiosità sul mondo del cinema e dei suoi protagonisti. Ti suggeriamo dei film da rivedere, come per esempio lo chiamavani Jeeg Robot. Non ti basta? Allora non devi far altro che girare la rivista sottosopra e scoprirai cosa si nasconde nell’altra metà del cielo. Oplà! Cambio di copertina e inizia un nuovo viaggio nel cinema di Georges Méliès, Tati, Welles. Ti puoi godere di una chiacchierara con Freddy Buache o scoprire il film in arrivo a capodanno sulla RSI. Stai leggendo cinemany su internet? Mi dispiace, perché non la puoi capovolgere, ma troverai gli articoli in due sezioni distinte e consequenziali. Un suggerimento: abbonati subito! Ti assicuriamo che l’ebrezza di tenere in mano cinemany e poterla girare sottosopra non ha prezzo! Buona lettura
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Prossimamente
Sing
Sing
(Universal)
di Lorenzo Carrara Un topo tanto bravo a canticchiare quanto a imbrogliare; una timida elefantina adolescente con un enorme ansia da palcoscenico; una madre sovraccarica che si fa in quattro per occuparsi di una cucciolata di venticinque maialini; un giovane gorilla che sta cercando di allontanarsi dai reati della sua famiglia di delinquenti; e una porcospina punk-rock che ha difficoltà a liberarsi di un fidanzato arrogante e a diventare solista. Sono questi i protagonisti di Sing. Il nuovo film d’animazione ideato e creato dai “papà” di successi mondiali come Cattivissimo Me, Minions e Pets. La storia è presto raccontata. Buster Moon, un
elegante koala, è il proprietario di un teatro, dal glorioso passato, ma ormai in declino. Lui è comunque un inguaribile ottimista e riesce ad avere un’ultima occasione per ridare spolvero ai fasti lontani: organizzare la più grande gara canora al mondo. Buster Moon crea quindi un talent show, una sorta di The Voice o di XFactor, con l’obiettivo di trovare la miglior voce al mondo, ma soprattutto con lo scopo di far pubblicità al suo amato teatro. Come succede nella realtà sono in molti ad arrivare alle audizioni, ma in finale ci vanno solo in cinque: l’elefantina, la maialina, la porcospina,
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Prossimamente
il gorilla e il topolino. Ognuno con la sua particolarità, i suoi pregi e i suoi difetti. Ognuno con la sua storia che si dipana lungo il cartone animato. Infatti, oltre alla competizione, dove i cinque cantanti in erba danno il meglio di sé come Marco Mengoni o Emma, li possiamo scoprire nelle loro abitudini quotidiane. Possiamo entrare nelle loro case e vivere con le loro famiglie. Ci possiamo divertire con le sballate rapine della famiglia del gorilla o star dietro la mamma di 25, e ripeto 25, maialini che ne fanno di tutti i colori. Il film è un musical animato (proiettato anche in versione 3D) che comprende 85 tra le più note hit del momento: da Lady Gaga a Nicki Minaj passando per Katy Perry, Ariana Grande e molti altri. La sua uscita, prevista inizialmente per la fine di gennaio, è stata anticipata. E questo per lasciare la possibilità alle famiglie di poterlo vedere durante l’ultimo scorcio delle vacanze natalizie. Nei cinema del Ticino Sing sarà infatti proiettato dai primi giorni del nuovo anno. Buster Moon è il protagonista. Un nome strano il suo. Un nome che ne ricorda un altro e cioè quello di Buster Keaton, l’attore comico che spopolava un secolo fa, all’epoca del cinema muto. Quello che non rideva mai, ma che - pur recitando in film in bianco e nero - ne combinava di tutti i colori. Anche il suo cognome ricorda un altro personaggio particolare: Andy Kaufmann, l’attore comico americano molto famoso negli anni 70, portato sullo schermo da Jim Carrey nel 1999 in un film di Milos Forman: Man on the Moon. Insomma, in questa bella animazione sono presenti anche alcuni riferimenti cinematografici. Così come, volendo, sarà molto interessante osservare e capire come viene trattato il tema dei reality show: la strada, l’unica e l’ultima, di chi vuole diventare un cantante. E per chi avesse la possibilità di vedere quest’animazione in lingua originale potrà sentire voci di attori hollywoodiani molto conosciuti: ci sono Matthew McConaughey (il koala Buster), Reese Witherspoon (la maialina), Scarlett Johansson (la porcospina), Seth MacFarlane (il topo), Taron Egerton (il gorilla), Tori Kelly (l’elefante) e John C. Reilly (la pecora, migliore amico di Buster).
Sing
(Universal)
scheda Regia: Garth Jennings Interpreti: un topo, un’elefantina, una maialina, una porcospina, un gorilla e un koala Sceneggiatura: Garth Jennings Produttore: Chris Meledandri, Janet Healy Distribuzione: Illumination Entertainment Durata: 110 minuti
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Prossimamente
Miss Peregrine di Sabina Milanide
scheda Regia: Tim Burton Interpreti: Eva Green Sceneggiatura: Jane Goldman Produttore: Peter Chernin Distribuzione: 20th Century Fox Durata: 127 minuti
Immagine del film
(Fox)
La storia è una delle classiche trame alla Tim Burton. Ricca di personaggi eccentrici, stravaganti e dai talenti speciali. Il film è tratto dall’affascinante romanzo di Ransom Riggs, che ha la particolarità di essere corredato da bizzarre immagini d’epoca che hanno fortemente ispirato il regista. Lo stesso Burton ha dichiarato: «quando mi hanno chiesto se avrei voluto dirigere Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children, mi hanno dato un riassunto del romanzo con tutte le foto contenute nel libro. Sono stato immediatamente catturato dalle inquietanti e misteriose immagini nel romanzo di Ransom Rigg e ho capito che volevo raccontare la storia di quei bambini. Una ragazza più leggera dell’aria, un ragazzo con delle api che vivono nel suo stomaco, una donna che si trasforma in uccello: era un mondo che desideravo esplorare. E dunque ho fatto un film su di loro». Il romanzo è stato riadattato per il cinema dalla sceneggiatrice britannica Jane Goldman che, su paranormale, chiaroveggenza e ambientazioni dark, ha costruito un’intera carriera. Una predilezione, quella della Goldman, che ben si
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Prossimamente
sposa con lo stile di Burton, noto per il suo cinema spesso fiabesco e gotico, talvolta incentrato su temi quali l’emarginazione e la solitudine. Caratteristica presente in molti film del regista. Burton ama sviluppare il personaggio dell’outsider, frutto dell’emarginazione provocata dal rapporto mostro-uomo. L’interesse verso queste creature nasce dalla sua infanzia, come ha dichiarato in un’intervista di qualche tempo fa: «per me i mostri, le creature un po’ bizzarre, sono i personaggi più vicini alla realtà, e sono sempre quelli che suscitano più emozioni». Questo nuovo lavoro non fa eccezione e segue perfettamente la vena artistica del regista. Il protagonista, infatti, è Jake, un ragazzo solo, con una profonda malinconia e modi che lo rendono impacciato e timido, ma che scoprirà il coraggio per combattere figure oscure e inquietanti. Ecco la trama: Jake scopre alcuni indizi su un mistero che attraversa epoche e realtà che si alternano. Quando la tragedia si abbatte sulla sua famiglia, Jacob decide di attraversare l’oceano per scoprire il segreto racchiuso tra le mura della casa in cui, decenni prima, avevano trovato rifugio il nonno Abraham e altri piccoli orfani scampati all’orrore della Seconda guerra mondiale. Lì incontra Emma che lo porta, per mezzo di un vortice spaziotemporale, nel mondo di Miss Peregrine e dei suoi protetti, un gruppo di ragazzi con poteri speciali. Mentre impara di più sugli abitanti di quel luogo e sui loro inusuali talenti, Jake capisce che la sicurezza è un’illusione, e il pericolo è in agguato sotto forma di potenti e occulti nemici. Deve capire chi è reale, di chi si può fidare, e chi sia lui veramente. Una particolarità è che la colonna sonora non è firmata, come d’abitudine, da Danny Elfman, musicista autodidatta che collabora con Burton da molti anni, poiché il compositore era già impegnato a musicare Alice attraverso lo specchio di James Bobin. Il film ha però dalla sua un cast stellare e vede protagonisti Eva Green, Asa Butterfield, Chris O’Dowd, Ella Purnell, Allison Janney, Rupert Everett, Terence Stamp, Judi Dench e Samuel L. Jackson Un’ultima curiosità. Lo scrittore Ransom Riggs ha commentato così l’uscita di questo nuovo film: «Sarebbe stato già un onore che Tim Burton facesse uno scarabocchio su un tovagliolo per qualcosa che ho scritto. Ma stare addirittura a bordo ring e guardarlo riversare tutto il suo cuore in questo film, è stata una delle cose più emozionanti della mia vita. Non potrei essere più elettrizzato, nemmeno se mi attaccassero degli elettrodi alle dita dei piedi».
Asa Butterfield e Ella Purnell
(Fox)
Eva Green
(Fox)
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prossimamente
Fuga da Reuma Park di Lorenzo Carrara
scheda Regia: Aldo, Giovanni, Giacomo e Morgan Bertacca Interpreti: Aldo, Giovanni e Giacomo Sceneggiatura: Aldo, Giovanni, Giacomo, Valerio Bariletti, Morgan Bertacca Produttore: Paolo Guerra e Agidi Due Distribuzione: Medusa Film Durata: 107 minuti
La locandina del film
(Medusa film - Agi Due srl)
Il rapporto di Aldo Giovanni e Giacomo con la Svizzera, e in particolare con il Ticino, è sempre stato molto stretto. Aldo e Giovanni, negli anni Ottanta, hanno fatto compagnia ai bambini nella gloriosa Bottega del Signor Pietro della TSI. Mentre il trio, negli anni Novanta, ha divertito il pubblico, nei programmi della Gialappa’s Band con i mai dimenticati Svizzeri, alias il signor Rezzonico, il poliziotto Hüber e lo stilista Fausto Gervasoni. In quasi tutti i loro spettacoli e film c’è qualche riferimento al nostro Paese. Chi non si ricorda la battuta in Tre Uomini e una gamba sulla maglietta dell’Inter di Sforza: «Sì, ma anche tu, ti sembra il caso di dormire con la maglietta di Sforza? Eh, quella di Ronaldo era finita». Il tutto per dire che anche nel nuovo film Fuga da Reuma Park, ci saranno uno o più riferimenti alla Svizzera. Nei trailer che girano in rete si può, per esempio, notare uno stemma svizzero e uno dei Grigioni appiccicati sulla motocarrozzina con la quale vanno in giro. La storia è questa. Ci troviamo sulla Terra tra 25 anni. Giacomo è in sedia a rotelle, attaccato a
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prossimamente
flebo di Barbera e gira con una pistola giocattolo, Giovanni ha la memoria che fa cilecca e parla con i piccioni (ma non ha perso la passione per le procaci infermiere), Aldo viene abbandonato dai figli (il duo comico: Ficarra e Picone) proprio la mattina di Natale. E quindi si ritrovano tutti lì, al Reuma Park, una casa di ricovero improvvisata all’interno di un Luna Park dismesso, dove si aggira l’energica Ludmilla, un’infermiera russa che ovviamente porta una taglia XXL. Arresi? Perduti? Tutt’altro: la notte di Natale, mentre al Reuma Park si fa festa con ospiti a sorpresa, musica, tombolata e panettone, il trio mette in atto una rocambolesca fuga a suon di petardi. Verso dove? Giacomo ha un sogno, Giovanni ha una barca e Aldo ha il solito travolgente entusiasmo. Sul pianeta Aldo Giovanni e Giacomo tutto può accadere, anche imboccare i Navigli di Milano per raggiungere la tanta sognata Rio de Janeiro. Insomma, gli elementi per farsi delle sane risate ci sono tutti e anche quelli per un altro successo garantito al botteghino. Una trama che sembra un ritorno alla comicità originale, a quella di Tre uomini e una gamba che li fece conoscere al grande pubblico come protagonisti del grande schermo. Un momento particolare per il trio, considerato che soffia, quest’anno, su 25 candeline del fortunato sodalizio. Nei mesi scorsi lo hanno celebrato con un tour teatrale. Le cifre sono state da record con più di 200mila spettatori in 15 città italiane e in 5 città all’estero (tra cui Zurigo e Lugano). È, inoltre, appena uscito il libro, intitolato Tre uomini e una vita, che racconta la loro storia. Le celebrazioni continuano con l’uscita di questo nuovo lavoro, che vuole essere un omaggio cinematografico ai 25 anni di spettacolo: «La nostra comicità e i nostri personaggi sono spesso stati definiti stralunati, paradossali – hanno detto di recente: se la comicità abita nel surreale, questo film celebra il nostro mondo come nessun altro prima d’ora. Abbiamo voluto festeggiare l’anniversario anche al cinema – continuano – e non potevamo non coinvolgere i personaggi che hanno fatto la nostra storia e a cui siamo più affezionati: rivedrete Nico, Rolando, Tafazzi, Johnny Glamour, e tanti altri».
Aldo, Giovanni e Giacomo
Uno dei ciackdel film
(Medusa film-Age Due srl)
(Medusa film - Agi Due srl)
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cat-star
Divorzio all’Americana di Murakami Mao Brad Pitt e Angelina Jolie si sono lasciati. Uhhh dico io. Ohhh dite voi. Che ne sarà del loro stile di vita hollywoodiano dopo questo terribile evento? Quanti soldi costerà a costoro? Tranquilli, nessuno dei due coniugi si farà male. È come in un film, e per le scene più pericolose scenderanno in campo le controfigure. La bella Laura Wasser, affascinante quarantesettenne, è lo stunt-man, pardòn, stuntgirl, più pagata di Hollywood, con una tariffa di ben 850 dollari l’ora. È lei ad essersi aggiudicata le grand plaisir di regalare ai Brangiolina un divorzio degno delle più grandi star. Ha garantito che gestirà, con estrema signorilità, tutta la sgradita faccenda. Perché non è mica come per i signori Rossi o i Bianchi, per i quali divorziare diventa un improbabile cruciverba con equilibrismi ad alta quota. No davvero. Qui, di grazia, è un puro esercizio di stile. Sono un gatto e di eleganza me ne intendo. Allora mi tuffo, con tutta la mia innata intelligentia, in questa chiacchierata love story dal profumo di… whisky? Ebbene sembrerebbe, dalle notizie dei tabloid, che il bel tenebroso Brad sia propenso ad aromatizzare l’ambiente con una fragranza tradizionale: un mix di whisky e fumo. Orrore! Gridano i benpensanti a difesa della povera moglie costretta, a loro dire, ad annusare un balsamo a lei sgradito. Ma signori vi invito a seguire il fine ragionamento felino. Mi chiedo com’è che la signora Jolie abbia notato solo ora, dopo 14 anni d’amore, il puzzo del marito, che d’altro canto è un uomo del sud e dalle sue parti, a Shawnee in Oklahoma, tabacco e whisky sono effluvi comuni e assai apprezzati? A discolpa del bell’attore, va inoltre ricordato, il primo posto che si era aggiudicato nel lontano 2004 come divo più puzzone d’America. Premio vinto di misura su Russel Crow con il quale si contendeva il titolo. Anche la allora signora Pitt, l’attrice Jennifer Aniston, aveva dichiarato con orgoglio: «mio marito
La locandina del film
(Fox)
ha vinto meritatamente. Nessuno a Hollywood puzza quanto lui! Russel ci ha provato, ma Brad resta il migliore». Da gatto vi dico che se uno puzza, puzza. Non c’è storia e non è possibile che la bella Angelina non se ne sia accorta sul set di Mr. & Mrs. Smith. L’attrice allora affermava «grazie al film finimmo per vivere insieme un lungo periodo e tante situazioni diverse. Abbiamo fatto anche un sacco di pazzie e ci siamo
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Cat-star
accorti che fra noi era nata una bella amicizia, una specie di cameratismo». Una bella amicizia che li ha visti vicini, al punto da spingere Pitt a divorziare dalla simpatica Jennifer. Si annoiava, dichiarò il maleodorante, che non riceveva dalla moglie gli stimoli giusti per poter continuare il loro rapporto. Mentre la Jolie, dal canto suo era assai più frizzante e di stimoli gliene ha dati molti, compresi 6 figli. Mi chiedo, così vicini sul set e nella vita e il dettaglio di whisky e tabacco le è sfuggito? Certo la signora Wasser è fortunata che il sottoscritto preferisca scribacchiare anziché calcare il foro. Come avvocato sarei imbattibile, modestia a parte. Ma torniamo a noi, che sennò perdo il bandolo della matassa. La Jolie chiede il divorzio per puzza eccessiva e il bel Pitt se ne rammarica, il mondo esplode in un mare di gossip e la compagnia aerea Norwegian
Mr. & Mrs. Smith di Doug Liman
ci gioca su per invitare i passeggeri a scegliere i propri voli. Brad is single, recita la pubblicità che ha occupato le pagine di molti quotidiani internazionali. La Jolie si trasferisce a Malibu e l’FBI conduce un’indagine su presunti maltrattamenti che si conclude con un niente di fatto. È uno strano mondo quello del Jet-Set, mi dico. E mentre i Rossi e i Bianchi in tribunale si contendono i centesimi degli alimenti, Laura Wasser mette in riga le due star, ricordando loro che lei non ammette colpi bassi e tutto deve essere gestito con gran classe. Una classe che madame Wasser ha imparato proprio qui in Ticino, dove ha studiato in gioventù. Uno stile degno di un gatto. Uno stile che di certo non lascerà nessuno dei Brangelina su lastrico. Parola di gatto. faigirarelacultura.ch/auothor/murakamimao
(Fox)
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replay
Lo chiamavano Jeeg Robot di Lorenzo Carrara
scheda Regia: Gabriele Mainetti Interpreti: Claudio Santamaria Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti Produttore: Gabriele Mainetti Anno: 2016 Durata: 118 minuti
Un supereroe in salsa romana. Ma anche ladruncolo di un quartiere di periferia (Tor Bella Monaca), che da un giorno all’altro si trova ad avere una forza eccezionale. Questo è Enzo Ceccotti (alias Jeeg Robot) un personaggio riuscito e originale, in un cinema italiano che si è sempre tenuto alla larga dai supereroi. Eppure un regista giovane e preparato come Gabriele Mainetti, senza particolari timori referenziale per il genere, sorprende dall’inizio alla fine. Anche per alcuni effetti speciali. E pur non avendo i soldi degli americani cerca di usare la creatività e l’immaginazione per creare scene d’azione e scenografie (curate nel minimo dettaglio come, per esempio, nella scelta delle tinte delle pareti di una stanza), che nulla hanno da invidiare a quelle americane. Come ogni film del genere che si rispetti, anche qui il personaggio più interessante è il cattivo. Lo Zingaro è uno alla Joker, con una faccia da schiaffi e un sorriso beffardo che da soli valgono la visione.
49 - cinemany numero 0
replay
Lo scapolo di Sabina Milanide
scheda Regia: Antonio Pietrangeli Interpreti: Alberto Sordi Sceneggiatura: Ettore Scola Produttore: Moris Ergas, Costellazione Anno: 1955 Durata: 86 minuti
Al suo secondo film Antonio Pietrangeli (regista purtroppo oggi poco conosciuto e all’epoca molto sottovalutato), disegna un personaggio equilibrato mettendo in scena le virtù e soprattutto i vizi, di un giovane scapolo che passa da un’avventura sentimentale all’altra. Siamo in un momento storico particolare per il cinema italiano. Il Neorealismo è ormai finito e la commedia all’italiana sta prendendo il sopravvento. Questo piccolo grande film segna un momento di passaggio, comprendendo elementi della corrente post-bellica (come una certa cura per gli esterni) e aspetti (per esempio le battute sul suo rapporto con le donne) che saranno tipici del nuovo filone di successo. Sordi, grazie alla correttezza della regia e della sceneggiatura (Ettore Scola e Ruggero Maccari iniziano qui a collaborare con l’autore), non cannibalizza la scena come nei suoi lavori seguenti, anche perché è attorniato da alcune figure femminili molto convincenti; anticipatrici delle protagoniste dei successivi film di Pietrangeli.
cinemany numero 0 - 50
mi comperi i popcorn?
The Secret Life of Pets di Agata Bernasconi e Roberta Nicolò Agata è una bambina ticinese di 8 anni che ama andare al cinema con il suo papà. Una bimba sveglia e con le idee ben chiare su quello che le piace o che non le piace vedere. È molto attenta alle nuove uscite dei cartoni animati e delle pellicole per l’infanzia, cerca i trailer in rete per farsi un’idea del film prima di andare al cinema. Insomma una vera critica cinematografica in erba. Capace di esprimere chiaramente un parere, sia in positivo sia in negativo. Quindi chi meglio di lei ci può raccontare il punto di vista dei bambini sui film studiati e realizzati apposta per loro? Agata ha visto per noi di cinemany Pets. Ecco cosa ci racconta del film. Di cosa parla Pets? Il cartone racconta la storia di un gruppo di animali lasciati a casa da soli. Fa vedere cosa succede quando si lasciano gli animali a casa. Dopo che i padroni sono usciti loro sono andati su una barca e lì han fatto un po’ di casino. Tra di loro c’era un cane ciccione che non aveva più il padrone, quindi sono andati nella casa dove abitava. Il padrone non so dove fosse andato, ma lì c’era un gatto. Hanno litigato. Il cane ha avuto la meglio, perché era più grosso. Alla fine sono tornati a casa senza che i loro padroni si accorgessero di nulla. Cosa ne pensi del film? Non mi è piaciuto. All’inizio sì, perché ci sono tanti animali e fanno vedere come si comportano quando sono da soli, ma alla fine no perché pensavo che fosse più bello. Avevo visto il trailer e quindi mi sembrava bello, ma poi non era un granché, sono rimasta delusa dal film.
Cosa ti ha delusa? Pensavo che questi cani, dopo essere rimasti soli e essere usciti, sarebbero andati in un canile e che poi sarebbero stati salvati. Ma alla fine non è andata così, sono semplicemente rientrati in casa giusto in tempo per farsi trovare a posto al rientro dei padroni. Non era la storia che mi aspettavo. Non c’era abbastanza avventura. Me ne aspettavo di più. Qualcosa di divertente lo hai trovato? Sì c’erano cose divertenti. Per esempio all’inizio del film c’era un cane che non amava gli scoiattoli e quindi si metteva sempre ad abbaiare quando vedeva degli scoiattoli. Ne vedeva spesso. Quindi abbaiava poi smetteva e ricominciava ad abbaiare, e il suo padrone non capiva. Quella era una scena divertente. Molto. Quale è il personaggio che hai trovato più simpatico? Il più simpatico era proprio il cane che odiava gli scoiattoli. Lui era forte. Poi c’era un gatto, abbastanza carino come personaggio. Quello meno simpatico? Il personaggio meno bello e meno simpatico era il protagonista, che non era davvero un granché. Lui non mi è piaciuto. Andresti a vedere Pets 2 se lo facessero? Non andrei a vedere Pets 2, no, credo proprio di no. Ma lo avevi aspettato tanto Pets? Sì, lo aspettavo da tanto tempo. Avevo visto il trailer quasi un anno fa e mi era piaciuto tantissimo. Non vedevo l’ora che uscisse. Ma nel trailer c’erano le scene più belle, nel film poi non ne ho trovate altre. E la storia non era così come avevo capito guardando il trailer.
51 - cinemany numero 0
Mi comperi i popcorn?
The Secret Life of Pets (Universal)
cinemany numero 0 - 52
so che lo volevi sapere
Personaggi, film e notizie di Lorenzo Carrara
Il regalo natalizio di Scorsese: Silence L’ultimo lavoro di Martin Scorsese è in arrivo nelle sale di tutto il mondo durante le feste natalizie. Un’opera di quasi tre ore e costata 51 milioni di dollari che è ambientata nel 17° secolo e racconta le vicende di due sacerdoti gesuiti, mandati in Giappone per indagare su delle presunte persecuzioni religiose. Tratto dal romanzo del premio Nobel Shusaku Endo, vede tra i protagonisti Liam Neeson (Oscar per Schindler’s list), Adam Driver (Star Wars VIII) e Andrew Garfield (The Amazing Spider-Man).
Niente Spreengsteen per Harry Potter Bruce Sprengsteen, qualche anno fa, ha scritto una canzone per Harry Potter che tuttavia non è mai stata utilizzata. In un’intervista alla BBC il Boss ha dichiarato: «Era una ballata, molto diversa rispetto a quello che di solito scrivo e canto, ma in qualche modo credo che si sarebbe adattata piuttosto bene al film». Insomma, sembra proprio che lo stile del premio Oscar per la colonna sonora di Streets of Philadelpia non sia adatti al maghetto. Ma i produttori potrebbero anche ripensarci, la saga comprede altri 4 film.
Joplin avrà il volto di Michelle Williams? Michelle Wlliams, dopo il biopic su Marilyn Monroe, potrebbe far rivivere sul grande schermo un’altra icona: Janis Joplin. Un progetto, quello di portare al cinema l’esagerata vita della cantante, che da anni Hollywood sta cercando di realizzare. E ora sembra che le cose stiano andando in porto. L’interprete, secondo Variety, dovrebbe essere proprio lei e la regia finire nelle mani del canadese Sean Durkin. Il film dovrebbe concentrarsi sugli ultimi mesi della cantante e sulla sua tragica morte.
53 - cinemany numero 0
so che lo volevi sapere
Pirati dei Caraibi, la quinta avventura Il quinto capitolo dei Pirati dei Caraibi uscirà il prossimo maggio e si intitola La vendetta di Salazar. A distanza di 5 anni dall’ultimo e costoso film della serie Oltre i confini del mare. Questa volta il povero Capitan Jack Sparrow vede peggiorare la propria sfortuna quando dei letali marinai fantasma fuggono dal Triangolo del Diavolo guidati dal terrificante Capitano Salazar e decisi a uccidere Jack. La sua unica speranza di sopravvivenza risiede nel leggendario Tridente di Poseidone. Riuscirà a trovarlo?
Si progetta il remake de Il re leone Jon Favreau, regista del recente remake de Il Libro della Giungla, sarà l’autore del remake de Il Re Leone, uno dei film d’animazione che ebbe più successo al botteghino (quasi 1 miliardo d’incasso) e che la Disney distribuì nel 1994. E così come per la Bella e La Bestia (nelle sale il prossimo anno), anche il film di Favreau conterrà canzoni presenti nell’opera originale. Ma per questa nuova animazione bisognerà aspettare ancora un po’ (2019?), visti i tempi necessari per realizzare film del genere.
Il nuovo poeta di Jim Jarmush Il nuovo film di Jim Jarmusch Paterson vede protagonista Adam Driver (ormai la star del momento), nei panni di un autista di bus col sogno di diventare un poeta. Già dal tema si intuisce il particolare mondo creativo di quest regista indipendente americano. Il film è stato presentato a Cannes quest’anno, dove, pur non avendo ricevuto premi, è stato acclamato dalla critica come una delle pellicole più interessanti. Online è già possibile vedere il trailer di questo piccolo grande film di quell’artista (Buache dixit) che è Jarmush.
Suspiria 2 con l’attrice originale Ci sarà anche Jessica Harper, la protagonista del film originale di Dario Argento del 1977), nel remake di Suspiria, che vede alla regia Luca Guadagnino (A Bigger Splash e Melissa P.) e che uscirà nelle sale il prossimo anno. La Harper interpreterà un personaggio chiamato Anke, un nome che non corrisponde a nessuno dei personaggi originali. Lo scenaggiatore David Kajganich si è basato sullo scritto del primo. Da notare che le riprese del film sono iniziate proprio nelle scorse settimane nel Varesotto.
the end