ISSN: 2038-3282
Anno II Numero 4 - Ottobre 2010
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EDITORIALE 04
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A scuola: “Non uno di meno!” di Stefania Nirchi Ospite Scientifico Prof.ssa Agnese Rosati Università degli Studi di Perugia Oltre l’imponderabilità del mondo. Questioni di Filosofia dell’educazione
RUBRICHE TRAMA
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Carrozze senza cavalli: breve nota su media digitali e formazione di Mario Pireddu
SIPARIO
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Comprendere il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività. Parte seconda. Attenzione e strategie di intervento psicoeducativo di Alessia Giangregorio
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La valutazione di politiche socioeducative. L’apporto della metodologia qualitativa Parte prima. Caratteristiche generali e presupposti teorico-metodologici di Savina Cellamare, Roberto Melchiori
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Promuovere la prosocialità lungo l’arco di vita. Il ruolo delle agenzie educative Parte prima. I presupposti concettuali di Savina Cellamare
SPAZIO A 43
Arginare i mille rivoli del lavoro nero di Gianfranco Zucca
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Chi ha paura dello Straniero? di Elisa Colombini
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A scuola: “Non uno di meno!” di Stefania Nirchi “Per poter cambiare la scuola, come per poter operare qualunque cambiamento, occorre per prima cosa, aldilà dei soliti discorsi di carattere politico e istituzionale, un esercizio di pensiero. Solo attraverso il pensiero è possibile generare qualcosa di pratico e di concreto. La scuola chiede di essere ricreata e rigenerata, non semplicemente abolita o rinnovata”. Così Riccardo Massa, filosofo dell’educazione, scriveva nel suo libro del 1997 “Cambiare la scuola” riconducendo il discorso pedagogico ad una dignità alla quale, mai come in questo momento storico, è urgente tornare. Come del resto è urgente oggi continuare a parlare di inclusione sociale, di allargamento dei diritti di cittadinanza, di centralità della scuola pubblica come luogo della formazione laica e plurale, di educazione come valorizzazione delle soggettività e dei saperi. Al di là delle difficoltà che la trasmissione di valori e saperi oggi comporta, non ci si può semplicemente rassegnare ad una selvaggia legiferazione che mette in crisi entusiasmi e motivazioni e che fa arretrare di decenni una scuola
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per molti versi meritevole di stima. E’ sotto gli occhi di tutti l’edizione 2010 del Rapporto OCSE Education at a glance (“Uno sguardo sull’educazione”) nel quale la scuola italiana esce bocciata da tutti i punti di vista. Per citare solo alcuni dati: alle molte ore di scuola non corrisponde un eguale livello di apprendimento; all’età di 15 anni, l’orario medio dei paesi OCSE è di 921 ore, e quello italiano di 1089, e alle medie, i bambini italiani passano a scuola 1001 ore contro una media di 892. Il nostro è un Paese dove la percentuale degli abbandoni è ancora alta. Si sta sui banchi più degli altri, solo Israele ci supera e chi arriva alla fine degli studi non lo fa in ambito universitario, ma si ferma al diploma. I dati non ci sorprendono più di tanto dato che il nostro sistema di istruzione è sempre stato alla mercé delle varie compagini governative, che di volta in volta ne hanno stravolto “corpo ed anima”, tuttavia, le recenti riforme aprono scenari preoccupanti e distruttivi dei due pilastri storici del sistema educativo: il diritto allo studio e la qualità dell’istruzione. Smantellandone le architravi la scuola perde i suoi equilibri e non tiene più, ma anche sulle macerie gli insegnanti continuano ad impegnarsi nella ricerca e nella riconquista della passione e del desiderio necessari per trasmettere il sapere all’interno di un sofferto progetto educativo. A tutti noi che della scuola custodiamo una immagine alta non resta che continuare a difenderla sottolineando con forza il diritto di tutti alla conoscenza e, mutuando da un film di Zhang Yimou, a ripetere con forza: a scuola “Non uno di meno”.
Oltre l’imponderabilità del mondo. Questioni di Filosofia dell’educazione
Prof.ssa Agnese Rosati Università degli Studi di Perugia Che cos’è il mondo? Può cambiare? E, soprattutto, qual è il nostro posto in questo mondo che spesso avvertiamo distante, quasi altro da noi? Questi sono soltanto alcuni fra i numerosi interrogativi che l’essere umano si pone quando le situazioni, i fatti e le circostanze quotidiane costringono a guardare in faccia alla realtà, una realtà che forse non sempre appaga né gratifica, ma ridimensiona le pretese e la volontà di oltrepassarne i confini. Senso di insoddisfazione, di fragilità costitutiva e di precarietà si scontrano spesso con il desiderio di onnipotenza e di grandezza che appartiene da sempre all’uomo e che, d’altra parte, dà ragione ad avvenimenti che ne hanno sublimato la forza e la potenza. La magnificenza dell’uomo, celebrata dai più grandi artisti ed intellettuali dell’Umanesimo e del Rinascimento, testimoniata dall’immagine dell’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, ha trovato massima espressione nelle avventure alla scoperta del Mondo, con la
conquista, dapprima timida e poi sempre più aggressiva, di terre e confini inesplorati nei quali pochi avevano osato muoversi, traditi da paure, pregiudizi e timori. Eppure, oltre i confini di quelle che nell’Antichità erano chiamate “colonne d’Ercole”, l’uomo occidentale moderno ha trovato inattese risorse, e ciò, molto probabilmente, ha appagato la sua momentanea sete di conquista e di potere, rivelatasi poi insaziabile se è vero che lo ha spinto ad andare sempre avanti, nella ricerca esasperata di qualche cosa che costantemente gli sfugge e che risulta perciò indefinibile e inafferrabile, anche se pretende di carpirne i segreti per svelarne l’intima natura. Il costante dialogo con la natura da parte del soggetto, ha alimentato in lui una sfida nei confronti di quanto circostante e determinato, sempre da “superare”e da chiarire per dominare. Questo spiega perché ambizione, volontà e desiderio di quanto avvertito come mancante, abbiano motivato gli uomini in una ricerca infinita della verità e del sapere che spesso si è conclusa in fragili risposte, incapaci pertanto di cogliere il senso ultimo delle cose. Tuttavia proprio questa tensione, sostenuta da un considerevole sforzo di conoscenza, nutre il desiderio di ricerca, la quale nasce da un dubbio, una domanda o un bisogno, si muove attraverso la costruzione di ipotesi e l’elaborazione di congetture, per non arrendersi neppure dinnanzi alla loro confutazione. Bisogna sempre falsificare, non fidarsi di un risultato apparentemente corretto, ma trovare elementi di ripensamento logico, per una sicurezza, corrispondente al possesso della verità, che procede e si incrementa nel tempo. Questo è del resto lo spirito della ricerca che pervade il tempo storico e che trova strade e percorre vie inesplorate in vista di un obiettivo che si traduce nell’accrescimento del sapere. La ricerca, allora, segue diverse vie, corrispondenti a metodi differenti che pur tuttavia hanno in comune la sistematicità e l’organicità dei procedimenti. Il sapere prodotto prende forma, assume sem-
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bianze e si connota per i suoi elementi, tutti da analizzare, da scomporre, da combinare e riassemblare in vista di una conoscenza che si attesta su livelli di credibilità e correttezza, tali da garantire quella evidenza e quella sicurezza che divengono decisivi per Guglielmo d’Ockam. Il tutto in vista di un risultato che, tuttavia, sottolineano alcuni idealisti, nasce dal confronto e dalla negazione di una identità che per essere tale è stata smembrata nelle sue parti, per trovare una conciliazione che non sarà mai definitiva ed esauriente in quanto le appartiene la provvisorietà dalla quale si origina un insopprimibile bisogno di superamento. Questa volontà di procedere e di crescere nel sapere è stata colta anche da Popper, il quale ha incoraggiato ad andare avanti nella ricerca, per trovare continue smentite che seppur mettono in crisi il ricercatore dall’altra parte valorizzano i risultati ottenuti, poiché fasi e passi di un percorso verso la verità. Ecco perché la ricerca non si conclude, anzi, ribadisce l’epistemologo viennese, pare davvero non avere mai fine. Se ciò ai più concreti ripensamenti potrebbe sembrare una inconcludenza, non lo è affatto se si verifica una reale crescita di perfezionamento e di qualità che garantiscono universalità e generalità al sapere posseduto. Il progresso del resto è possibile solo in virtù di un continuo ricercare che spinge l’uomo ad operare e a muoversi in direzioni diverse e che come accade nella scienza porta sempre a nuove riconcettualizzazioni e ricostruzioni (Elias, 1987). Se ciò, però, vale nella conoscenza scientifica, il discorso si complica quando soggettooggetto di riflessione è l’uomo. Non è facile né possibile dare risposte assolute: egli stesso rappresenta un enigma, un’incognita. L’esistenza, difatti, non è somma di dati fenomenici, ma comporta “rischi” e paradossi. L’incapacità e l’impossibilità di dare risposte esaurienti circa l’esistenza umana, può generare allo stesso tempo proprio negli uomini un profondo senso di inadeguatezza, accompagnato ad un sofferto spirito di rassegnazione che diviene elemento di debolezza e di fra-
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gilità che si accentua quando si prendono fin troppo le distanze dal proprio essere al mondo. Di qui la “imponderabilità” del mondo (Natoli, 2010) a cui pare impossibile sottrarsi, tanto che l’uomo post-moderno ne è assorbito così da finire per lasciarsi vivere, sopraffatto dalla noia e dall’abitudine, dalla quale, però, ricorda Sartre, può bastare anche un colore, un odore o una musica per risvegliarsi ed uscire da uno stato diffuso di torpore che offusca la propria visione della vita. Una vita, tuttavia, che sfugge quando avvertiamo il peso degli anni, una dimensione che appiattisce gli uomini se non trovano stimoli e motivazioni per andare avanti e, soprattutto, per capovolgere la situazione: così che da una vita vissuta passivamente sia possibile ritrovare l’energia per viverla intensamente, assaporando il gusto delle semplici cose, anche quelle che apparentemente potrebbero sembrare banali, ma che perdono questo carattere nel momento in cui producono una vivace consapevolezza. È la coscienza di essere al mondo, non come soggetti inerti che passivamente e abitudinariamente passano i giorni, i mesi e gli anni quasi per inerzia, ma con un rinnovato slancio che fa apprezzare le cose semplici, quelle che nella nostra storia personale assumono però un significato e un senso nuovi perché rendono consapevolmente abitatori del proprio mondo (Natoli, 2002). Abitare il proprio mondo, dunque, vuol dire saper dare le risposte giuste, le quali non possiedono solo una correttezza logico-formale, ma comportamentale se è vero che orientano, guidano, incitano ad un’azione della quale consapevolmente dovremo e sapremo prevedere gli effetti e le conseguenze. Questa osservazione, d’altro canto, suggerisce una riflessione che assume anche toni etici e morali, poiché il pensiero e l’agire si combinano in vista di un migliore essere uomo nel tempo e nella storia, in un preciso momento come nell’eternità. Gli uomini, in quanto soggetti razionali, rivelano in questo modo la capacità e la possibilità
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di riflettere su di loro, possono dare risposte ai quesiti della vita e comprendere se stessi, conoscendosi di più, entrando in quei meccanismi più nascosti e profondi dell’inconscio e di quelle enigmatiche operazioni logiche con le quali affrontano i problemi, nell’esplorazione di quella “scatola magica” (il cervello) che riserva sorprese e che giustifica molte azioni e scelte. Scelte e comportamenti sono il risultato della combinazione dei marcatori somatici analizzati da Damasio, che uniscono mente e coscienza, quindi pensiero e realtà, il mondo e l’uomo con il suo carico di esperienze, con il bagaglio di conoscenze e di sentimenti vissuti che conferisce “spessore” alla propria vita. Ecco perché la neuroetica si fa sensibile ai problemi della società, preso atto che si tratta di un nuovo campo di studio, in stretta “collaborazione” con quelle neuroscienze che si fanno frontiera della scienza umana nella sua interezza per rendersi addirittura linea di confine fra ere storiche (Cerroni, 2009). Così, come la mente non è solo il risultato di una sorprendente combinazione fra quei miliardi di neuroni che cambiano forma, stato e perfino relazione fra di loro, per connettersi in tanti modi diversi grazie alle sinapsi, essa comprende anche il mondo esterno, dunque la stessa società di cui ogni singolo individuo fa parte e nella quale si distingue per le componenti genetiche e le chimiche neuronali, per le radici storiche e culturali che alimentano la diversità individuale (Edelman, 2004), la quale potrebbe sostenere la “civiltà dell’empatia” attesa da Rifkin (2010). Tuttavia per svelare quel mistero e rivelazione che è la persona nella visione di Marcel, non basta spiegare il funzionamento del cervello umano, anche se le nuove interpretazioni della natura umana contribuiscono indubbiamente a farci capire il perché del nostro essere in un determinato modo. E se occorre andare oltre le localizzazioni neuronali per comprendere in maniera unitaria i meccanismi che stanno alla base del funzionamento del cervello umano (Oliverio, 2009), ecco che per una comprensione uni-
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taria dell’uomo non ci possiamo limitare alla sola dimensione biologica, poiché la persona è universo e costellazione di valori, nonché creatrice di quella cultura nella quale dovrà riconoscersi a propria immagine e somiglianza. L’uomo, difatti, è corpo, ma pure anima. Tuttavia neppure una dicotomia fredda ed arida fra cuore e cervello permette di averne un’articolata conoscenza. In questo senso superare la distinzione cartesiana fra res cogitans e res extensa pare d’obbligo per non incappare negli errori del passato (Damasio, 1995) e non limitarsi ad una provvisoria definizione dell’uomo che ne ridurrebbe la fisionomia. Ogni uomo è unico, così come ogni cervello ed anzi è proprio “nell’unicità del cervello, dovuta a un’interazione tra fattori genetici e ambientali, che affondano le radici dell’io, le differenze di personalità, stili e capacità cognitive evidenti sin dall’infanzia” (Oliverio, 2008, p. 109). L’unicità della persona risiede dunque nella sua interezza, in una complessità prodotta da sfere e dimensioni che intersecano il particolare (il singolo soggetto) con l’universale (l’umanità e i mondi). Ma non solo. Alla persona appartiene una natura pluridimensionale che si esprime nella sua appartenenza al contesto storico e umano più in generale. Una riflessione di ampio respiro, dunque, considera ed accoglie i “lati” che conferiscono singolarità all’uomo e che proprio così lo rendono unico nel sentire il desiderio di apertura e di trascendenza, proprio della dimensione spirituale, singolare nella volontà, nella padronanza degli affetti e delle emozioni, nel desiderare e nell’ottenere, nell’esprimersi attraverso l’arte, nel tracciare le orme nella storia e in quella sete di sapere mista a curiosità che lo motiva nella conoscenza. Ecco perché si può affermare la singolarità della persona e la si può descrivere in un “unico” mondo valoriale che abbraccia e avvolge a sé tutti gli altri mondi e valori, come lo sono quelli della giustizia, della libertà, della tolleranza, dell’onestà e della solidarietà, autentiche dimensioni queste che nella riflessione di Acone (2004) sono in grado di alzare il tetto del
mondo, quel mondo al quale solo in coscienza e intimità ogni uomo saprà e potrà dare risposte di senso. Sarà allora la ricerca di significato a giustificare davvero la nostra presenza fisica sulla Terra, a renderci padroni e abitatori del proprio tempo storico, nella condivisione di valori che non sono astratti né saranno obsoleti in quel divenire di cui, invece, saranno sigillo e conferiranno significato. Una nobile concezione della persona, dunque, sarà premessa per un’età di riscatto dell’uomo, tale da superare quei paradigmi (filosofico/metafisico e scientifico/razionale) che possono condizionare e limitare per una ricca interpretazione della persona. Confidando nel valore dell’essere umano, credendo nelle sue plurime possibilità e risorse, dovrà essere costruito, con fiducia e coraggiosa passione, un valido percorso di crescita umana, reso possibile da un’educazione rischiarata da quella filosofia che si rende capace di agire con l’incisività e la determinazione di un bisturi, unita alla forza di una corrente che trascina nella volontà di scommettere nelle inesplorate potenzialità dell’essere umano. Infatti ai saperi sull’uomo corrispondono i saperi dell’educazione, quelli che la filosofia dell’educazione pervade, attraversa e regola, accompagnandoli in uno sviluppo costante a cui corrisponde la loro “crescita ‹‹magmatica›› (inquieta, polimorfa, tensionale)” (Cambi, 2000, p.11). Lo sguardo filosofico sull’educazione, pertanto, permette di cogliere l’unità e la singolarità della persona umana, per sollecitarne attraverso interventi intenzionali il completo sviluppo della sua polimorfe natura, in vista di una crescita tale da non smorzare quel “germogliamento” personale che testimonia la ricchezza che l’uomo potenzialmente possiede in onore ad una prodigiosa natura. Con l’educazione, difatti, non solo sorgerà l’Io migliore che si è, ricordano i classici, ma sarà incrementata quella “capacità di abbracciare il nuovo” che incoraggia allo spirito creativo (Goldberg, 2010) e che rende il “direttore d’orchestra” (i lobi frontali per Goldberg) maestro nel pensiero, nel cuore e nell’azione.
Detto questo è chiaro che affinché ognuno possa elaborare una propria visione del mondo e della vita, così da fornire risposte soggettive ai quesiti iniziali che rinviano alle grandi questioni dell’esistenza, la via da percorrere, nonché chiave che apre la porta ad una piena umanizzazione di sé in quanto processo di coscientizzazione, sarà quella della formazione sulla quale investire con ottimismo, nella convinzione che solo un’umanità educata saprà trovare nella propria vita quegli orientamenti che permettono di illuminarne il cammino. Il mondo, allora, non sarà pura espressione di dati e di fenomeni quantitativamente descrivibili, ma pur non sfuggendo a possibili catalogazioni sarà compreso nella sua realtà, in quanto darsi incessante della vita stessa, una vita che non si chiude nel solipsismo e nell’individualismo, mali della società odierna, ma saprà valorizzare e promuovere il gusto della scoperta che stimola al confronto, il desiderio di conoscenza che appaga perché è maturo frutto di un impegno, per gettare quei semi di vita e di riflessione sul terreno fertile dell’umanità, affinché essa possa irrobustirsi e crescere nel rispetto di quei valori che l’educazione esalta per superare particolarismi che, altrimenti, generano divisioni ed egoismi. L’impegno educativo sarà quindi orientato alla costruzione e al rafforzamento di una individualità che, tuttavia, si costruisce e si irrobustisce contando sul confronto, per credere nella funzione evolutiva del dialogo, senza il timore di perdere se stessi, ma nella convinzione che per ritrovarsi sia necessario specchiarsi nello sguardo dell’altro. L’approccio empatico con gli altri, reso possibile dai mirror neurons (neuroni specchio) collocati nella corteccia premotoria, favorisce sintonia fra gli individui, reciprocità e socialità (Rizzolati, Sinigaglia, 2006), apre al mondo e alla vita. Così l’educazione si rende forza vitale che spinge e sollecita ad uscire dal Sé, per superare gli esasperati confini dell’individualismo, il quale quando cade nell’egoismo acceca, offusca la vista e amplia le distanze fra mondi.
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L’educazione, difatti, è autentico incontro umanizzante (Rossi, 2006), nonché atto d’amore nel senso più profondo che per prodigarsi generosamente ha bisogno di carità, di onestà intellettuale e intelligenza. Quell’amore che è capace di infondere movimento, ricorda Aristotele, può oggi più che mai incoraggiare al cambiamento, magica espressione questa di quella plasticità cerebrale, più precisamente del sistema nervoso, la quale alimenta una fonte di speranza (Raisman, 2005) e che essendo possibile per tutta la vita, indipendentemente dall’età anagrafica, permette all’uomo di apprendere continuamente, di fare esperienze interessanti, di astrarre ed operare concretamente nella realtà per imparare. La plasticità cerebrale, risultato di una metaforica potatura delle sinapsi dei circuiti cerebrali, permette dunque di cambiare, non solo nel comportamento ma pure nel carattere e dunque nel nostro essere al mondo, con il perfezionamento di quelle intelligenze descritte da Gardner (2007) che qualificano il proprio esser-ci, nel mondo e al mondo, con una interiorità che non si chiude riservata e timorosa all’alterità, ma si dona perché nel momento dello scambio e del dialogo coglie elementi di arricchimento e di crescita personale. Ecco allora che educare vuol dire affinare la capacità di sentire che permette di aprirsi con rispetto agli altri e al loro ordine di valori, per ritrovarsi parte di un tutto che esalta e apprezza l’originalità e la singolarità di ciascuno. Così proprio come i neuroni che per il funzionamento delle sinapsi hanno bisogno di continui stimoli secondo la teoria di David Hubel e Torsten Wiesel, anche il nostro Io necessita di sollecitazioni, le quali saranno fornite dalla cultura, nostro mondo, nonché mirabile espressione della fluidità del tempo, della storia e della vita. Solo così ognuno potrà dare risposte proprie ai grandi dilemmi dell’esistenza, risposte che rivelano una sensibilità educata, perché “coltivata” e preparata ad avvertire quanto preme attorno. Di qui il senso dell’educazione, da individuare nella promozione di un cambiamento di rotta, tale da spingere l’uomo nell’avventura della vita con la passione, l’energia e l’entusiasmo di
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un abile protagonista, capace di guardare avanti senza distogliere lo sguardo dalla più profonda intimità. Solo così si potrà vivere intensamente, difatti, ricorda Rousseau, “l’uomo che è vissuto di più non è quello che ha raggiunto l’età più avanzata, ma quello che meglio ha sentito l’essenza della vita” (Nardi, 1995, p.15), in una consapevolezza capace di crescere per rinnovarsi quotidianamente. Riferimenti Bibliografici: ACONE G., La paideia introvabile. Lo sguardo pedagogico sulla post-modernità, Brescia, La Scuola 2004; CAMBI F., Manuale di filosofia dell’educazione, Roma-Bari, Laterza 2000; CERRONI A., RUFO F. (a cura di), Neuroetica tra neuroscienze, etica e società, Torino, UTET Università, 2009; DAMASIO A.R., L’errore di Cartesio, tr. it., Milano, Adelphi 1995; EDELMAN G., Più grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della coscienza, Torino, Einaudi, 2004; ELIAS N., La società degli individui, Bologna, Il Mulino 1990; GARDNER H., Cinque chiavi per il futuro, Milano, Feltrinelli, 2007; GOLDBERG E., La sinfonia del cervello, tr. it., Milano, Ponte alle Grazie, 2010; NARDI E., (a cura di), Jean-Jacques Rousseau. Emilio o dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia 1995; NATOLI S., Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Milano, Feltrinelli 2002; NATOLI S., Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio, Milano, Mondadori, 2010; OLIVIERO A., Prima lezione di neuroscienze, RomaBari, Laterza, 2008; OLIVIERO A., La vita nascosta del cervello, Firenze, Giunti, 2009; RAISMAN G., “Conferenza Max Cowan. La plasticità del sistema nervoso. Un cambiamento di paradigma: perché c’è voluto tanto tempo per accettarlo?”, in EuroBrain, Vol.6, n.1, novembre 2005, www.dana.org RIFKIN J., La civiltà dell’empatia, Milano, Mondadori, 2010. RIZZOLATI G., SINIGAGLIA C., So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaele Cortina, 2006; ROSSI B., Avere cura del cuore. L’educazione del sentire, Roma, Carocci, 2006;
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Carrozze senza cavalli: breve nota su media digitali e formazione
di Mario Pireddu Scrivono George P. Landow e Katherine M. Miller in un recente articolo dal titolo Quanto gli studenti devono sapere sui media che usano?: “i social network basati sul web 2.0 come Facebook, MySpace, YouTube e Flickr sono molto usati per lavoro e per svago, ma anche questi siti hanno in qualche modo una ricaduta educativa, anche se spesso non quella di cui si occupano istituzioni e insegnanti” (Landow, Miller 2010). L’intento dell’articolo è quello di chiarire in che modo e in che misura gli adulti debbano assicurarsi che gli studenti capiscano i media che utilizzano nei loro percorsi di apprendimento, e sottolinea un aspetto messo in luce ormai più di quaranta anni fa dallo studioso canadese Marshall McLuhan. Se McLuhan parlava allora di logica dello “specchietto retrovisore” - per la quale davanti a ogni innovazione tecnologica e sociale si tende a osservare il presente secondo logiche precedenti al cambiamento stesso -, Landow parla oggi di sindrome da “carrozza senza cavalli” - per cui, nonostante molteplici dibattiti sull’alfabetizzazione, quasi sempre “i
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nuovi media digitali vengono ancora usati applicando ad essi gli stessi criteri dei vecchi media come la stampa”. Il concetto di “specchietto retrovisore”, così pure sotto forma di riproposizione nella formula “carrozza senza cavalli”, è utile per spiegare anche all’interno dei sistemi formativi i cambiamenti connessi all’introduzione di nuove tecnologie e nuovi media per la comunicazione e la trasmissione del sapere. Di fronte a situazioni nuove, così come in condizioni di transizione, si cerca - molto spesso in modo automatico - di recuperare “l’aroma del passato più prossimo”, di “imporre la forma del vecchio al contenuto del nuovo”, di “costringere i nuovi media a fare il lavoro dei vecchi” (McLuhan, Fiore 1968). Si pensi ora alle proposte pedagogiche attuali: molta pedagogia del presente ha una matrice di fatto regressista, giacché non rivolge se stessa verso il futuro con speranza, ma è orientata verso il passato con evidente rimpianto (Maragliano 2008). Persino la cultura che una volta si presentava come progressista rimpiange oggi quello stesso passato che aveva profondamente criticato e osteggiato anni prima. Eppure, come dice ancora Landow, da un punto di vista educativo è necessario rendere gli studenti consapevoli delle potenzialità dei media che usano quotidianamente, perché sono strumenti eccezionali anche per percorsi più o meno guidati di autoformazione. Con le parole di McLuhan degli anni Sessanta, riferiti allora alle innovazioni di linguaggio della televisione: “se persistiamo con l’affrontare questi nuovi sviluppi con metodi convenzionali, la nostra cultura tradizionale verrà spazzata via come la scolastica nel Cinquecento. Se gli scolastici, con la loro complessa cultura orale, avessero capito la tecnologia di Gutenberg, avrebbero potuto creare una nuova sintesi dell’insegnamento scritto e orale, anziché ritirarsi dal gioco permettendo così alla pagina puramente visiva di attribuirsi tutti i compiti dell’insegnamento. Essi non seppero affrontare la nuova sfida visiva della stampa” (McLuhan 2008: 82). Non ci si può dunque sottrarre davanti alla necessaria immersione nei regimi della comuni-
cazione: occorre viverli e farli propri, è necessario abitarli quotidianamente. L’esempio di McLuhan serve qui a ricordare come l’opposizione di molti intellettuali, educatori e studiosi verso le forme espressive della comunicazione - connesse ieri ai media audiovisuali del XX secolo e oggi ai social network e le reti - sia a conti fatti una chiusura preconcetta caratterizzata da conservatorismo e idealismo (Johnson 2006). Le conseguenze sul piano pedagogico di un approccio conservatore, pur mascherato a volte da “progressista”, all’interpretazione dei media non tipografici si traspongono spesso nell’edificazione di sistemi formativi edificati intorno a un’unica tecnologia considerata in qualche modo salvifica, ovvero il libro. L’apprendimento istituzionalizzato costruisce quindi se stesso come una sorta di rifugio o di ideale ancora di salvezza nell’inarrestabile e confusa deriva comunicativa odierna. Il dibattito internazionale su apprendimento e costruzione della conoscenza comincia a mostrare i punti di debolezza del vecchio sistema educativo, essenzialmente monomediale, e diversi autori e studiosi illustrano con precisione le opportunità offerte dal nuovo panorama comunicativo. Se per eredità culturale e tradizione molta pedagogia moderna si è regolarmente allontanata dalle pratiche quotidiane di consumo culturale, dagli immaginari connessi alla diffusione di pellicole cinematografiche, fumetti, programmi televisivi, videogiochi, reti di comunicazione etc., un traguardo da raggiungere dovrebbe essere oggi quello di arrivare a comprendere tali realtà, affinché il sistema educativo riesca a pensarsi dentro e non fuori i confini di questo mondo. La partecipazione, il consumo, gli immaginari e l’utilizzo dei media sono pratiche che si sovrappongono da tempo alle funzioni e agli strumenti tradizionali della didattica. Nuove modalità di consumo, nuove forme di trasmissione del sapere, nuovi desideri, nuovi bisogni, nuove aspirazioni: si tratta di un livello di complessità sociale e culturale non più governabile attraverso i vecchi strumenti della formazione e della educazione.
Si pensi all’aumentata disponibilità di strumenti potenti per la creatività: si tratta di strumenti sempre più a basso costo (fotocamere, videocamere, computer, smartphones, software disponibili in rete, etc.). Siamo in quella che Henry Jenkins ha definito “cultura della convergenza”, che sta facendo crescere generazioni di umani digitali avvezzi a una fruizione dei contenuti decisamente diversa da quella delle generazioni precedenti, poiché caratterizzata dalla possibilità di creazione come condizione normale dell’essere utente. Quel che prima implicava costi anche molto alti in termini di capitale – in altri termini i prerequisiti necessari per raccogliere, elaborare e comunicare informazioni, cultura e conoscenza – è ora sempre più alla portata di chiunque. Si parla ormai da qualche anno di social bookmarking, tagging e folksonomy, pratiche e realtà che interessano ormai anche attività che fino a non molto tempo fa erano di tipo “tradizionale”, e che a rilento si cerca di far entrare anche all’interno delle università e delle scuole attraverso esperienze di vario tipo. Naturalmente, i sistemi formativi devono tenere conto della portata di cambiamenti anche radicali, che possono condurre a trasformazioni culturali di un certo peso. Ad esempio, la convergenza verso i media digitali ha fatto emergere in questi ultimi anni un fenomeno di “amatorializzazione di massa” (Shirky 2009), dovuto principalmente alla caduta dei costi di riproduzione e distribuzione, oltre che alla semplicità delle operazioni di esecuzione e pubblicazione dei contenuti. Non è più necessario essere un professionista del montaggio video o della fotografia per dedicarsi in modo produttivo a specifiche attività o per condividere con altre persone i prodotti del proprio lavoro. L’amatorializzazione di massa comporta una sempre più vasta diffusione di abilità, capacità espressive e competenze, così come comporta d’altro canto parziali perdite di controllo da parte delle categorie di “specialisti” in ogni ambito, di categorie professionali fondate sulla verticalità piuttosto che sull’orizzontalità.
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Le istituzioni formative devono riconsiderare il proprio ruolo all’interno di quello che David Winberger (2009) ha definito “nuovo ordine caotico”, in riferimento appunto alle modalità contemporanee di organizzazione del sapere. Le competenze degli utenti all’interno dei social network possono crescere anche autonomamente, dal momento che le persone condividono i propri lavori in piattaforme e ambienti che permettono anche la conversazione e la discussione su quel che viene condiviso. Quando Etienne Wenger alcuni anni fa descriveva le “comunità di pratica” indicava gruppi sociali il cui obiettivo è la creazione partecipata di conoscenza organizzata, utile e di qualità. Nelle comunità di pratica ogni partecipante lavora per un apprendimento continuo e di norma con adeguata consapevolezza delle proprie e altrui conoscenze, in vista di un costante miglioramento collettivo (Wenger 2006). Naturalmente ciò non comporta e non comporterà mai regolare partecipazione e identica crescita personale per tutti i partecipanti: la scomparsa dell’asimmetria tra produzione e consumo tipica dei precedenti regimi comunicativi non implica meccanicamente la scomparsa di ogni differenza. Anche in questo risiede la principale sfida educativa contemporanea, nel riuscire a organizzare i percorsi formativi in modo che tutti i partecipanti coinvolti siano parte attiva del processo di apprendimento, pur nelle diversità tra singoli per quel che riguarda partecipazione, idiosincrasie, discussione, produzione di lavori condivisi, etc. Insomma, se le nuove piattaforme comunicative consentono di sperimentare e mettere in pratica modalità inedite per l’organizzazione del lavoro di gruppo, e se gli attuali modelli di produzione culturale sono sempre più decentralizzati e edificati su schemi di cooperazione e condivisione, è necessario - con le parole di Landow - che “gli studenti abbiano la consapevolezza delle implicazioni educative dei media basati su Internet”, affinché possano “riconoscere le qualità fondamentali dei materiali digitali per usarli al meglio”. Solo docenti preparati possono “espli-
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citare i vantaggi” e “suggerire l’uso migliore” delle nuove tecnologie, così come solo con istituzioni aperte al cambiamento si può pensare di guardare al presente e al futuro con pragmatismo e non con rimpianto. È notizia recente la sperimentazione in un liceo scientifico di Bergamo riguardante l’introduzione di 17 tablet (nel caso specifico, si tratta dell’iPad della Apple) in una classe del quarto anno - da utilizzare non solo in aula durante la didattica ma anche per svolgere esercizi da casa e compiti in classe - che si aggiungono a una dotazione comprendente sei ebook reader, una LIM, un proiettore da pc e un maxischermo. Altre scuole, in collaborazione con realtà istituzionali locali, si attrezzano con netbook e wifi gratuito1. La speranza è che casi come questi siano sempre meno casi isolati, non più carrozze senza cavalli ma treni ad alta velocità. Note: 1 “Al posto dei libri iPad e pc La scuola diventa hitech”, Il Sole24Ore, 11 settembre 2010. www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2010-09-11/posto-libri-ipad-scuola-080028.shtml Riferimenti Bibliografici: LANDOW G.P., MILLER M.M., “Quanto gli studenti devono sapere sui media che usano?”, in Pedagogika n. XIV_3, La società nella rete, 2010; MARAGLIANO R.,“ ’Vuoi mettere?!’ Cose che l’insegnamento in presenza non può fare”, in Quaderno di comunicazione 8/2008, Roma, Meltemi; MCLUHAN M., Fiore Q., Il medium è il massaggio. Un inventario di effetti, Milano, Feltrinelli, 1968; MCLUHAN M., Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 2008; JOHNSON S., Quello che fa male ti fa bene. Perché la televisione, i videogiochi e il cinema ci rendono intelligenti, Milano, Mondadori, 2006; SHIRKY C. Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzazioni, Torino, Codice, 2009; WEINBERGER D., Elogio del disordine. Le regole del nuovo mondo digitale, Milano, Rizzoli, 2009; WENGER. E., Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Raffaello Cortina, 2006.
Comprendere il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività. Parte seconda. Attenzione e strategie di intervento psicoeducativo
di Alessia Giangregorio Introduzione Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività è caratterizzato, come delineato nella prima parte di questo percorso esplicativo sul DDAI, da due dimensioni psicopatologiche quali la disattenzione e l’iperattività/impulsività. Nei casi in cui le problematiche comportamentali siano maggiormente evidenti, per effetto del disagio che queste comportano a livello ambientale nei diversi contesti di vita, gli educatori (genitori e insegnanti) sviluppano piuttosto rapidamente la consapevolezza della necessità di attivare le risorse idonee alla gestione delle dinamiche disfunzionali. Di fronte ai bambini prevalentemente disattenti, meno problematici dal punto di vista comportamentale in quanto fonti di minor disturbo sul piano contestuale e relazionale, invece, si
stenta in molti casi ad individuare l’urgenza di pianificare percorsi di intervento. È frequente ascoltare giudizi quali “il bambino non si applica”, “è distratto e poco partecipe”, che non colgono però le reali implicazioni ed esigenze sottese alla condizione di distrazione. Da un punto di vista psico-educativo è quindi necessario domandarsi cosa significhi essere disattenti per poter dare una risposta operativa al problema. A fronte delle difficoltà di identificazione che spesso caratterizzano la definizione delle problematiche presentate dai bambini nei quali le difficoltà attentive sono predominanti, risulta pertanto utile dedicare un approfondimento particolare a questa dimensione, al fine di chiarire cosa si intende per attenzione e quali aspetti siano maggiormente compromessi nel DDAI. Che cos’è l’attenzione La letteratura scientifica offre una vasta quantità di informazioni rispetto all’attenzione, alle sue componenti e alle teorie relative. In questa sede, pertanto, non si ritiene opportuno dilungarsi su questi aspetti, quanto piuttosto proporre una breve trattazione che possa chiarirne gli elementi salienti per consentire una maggiore comprensione delle dinamiche implicate nel DDAI (sempre con particolare riferimento al Sottotipo Disattento). Tale trattazione permetterà di leggere in modo più oggettivo il caso clinico presentato successivamente a titolo esemplificativo, a partire dal quale si cercherà, seppure sinteticamente, di individuare le strategie operative che consentono agli educatori di gestire le difficoltà attentive riscontrate nei bambini; queste strategie, opportunamente adattate, mostrano la loro efficacia anche nel controllo delle problematiche a livello comportamentale. Entrando nel vivo dell’analisi che qui ci si propone di sviluppare, si può dire innanzitutto che le informazioni proveniente dall’ambiente vengono acquisite attraverso una serie di processi che nel loro complesso sono definiti come attenzione. Questo concetto non
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rappresenta quindi una facoltà unitaria, ma si configura come una macroarea, come un complesso organizzato di funzioni che agiscono sinergicamente, espletando ciascuna specifici compiti. I diversi processi coinvolti operano congiuntamente ed in modo interdipendente, consentendo di selezionare le informazioni, di focalizzare quelle rilevanti e di controllare i dati sensoriali e percettivi in ingresso; svolgono pertanto un ruolo importante nei processi mnestici, di pensiero e decisionali. Nello specifico, l’attenzione costituisce la capacità di selezionare gli stimoli e di mettere in azione i meccanismi che provvedono a immagazzinare le informazioni nei depositi di memoria a breve e a lungo termine, con influenza diretta sull’efficienza delle prestazioni nei compiti di vigilanza, ossia su quelle attività nelle quali è richiesto al soggetto di mantenere un livello di attivazione adeguato, che consenta di recepire i dati informazionali significativi senza subire l’interferenza di quelli irrilevanti (Aprile, 2010; Sinforiani, 2007). Le funzioni attentive La capacità attentiva comprende, come accennato, diverse funzioni, quali l’attenzione sostenuta, l’attenzione selettiva, l’attenzione multicanalizzata e lo shift attentivo (Canestrari, Godino, 2002). L’attenzione sostenuta L’attenzione sostenuta (o prolungata) indica la capacità di mantenere l’attenzione per un tempo prolungato su uno stesso stimolo e presuppone la presenza di capacità di selezione e di controllo delle interferenze. Questo tipo di controllo è definito anche resilienza alla distrazione, locuzione con la quale ci si riferisce alla capacità di mantenere l’attenzione fissa evitando il cambiamento del focus attentivo o l’interruzione dell’intero processo. Il concetto di attenzione sostenuta è collegato a quello di vigilanza, che corrisponde alla facoltà di monitorare nel tempo gli eventi poco salienti o poco frequenti. Tale facoltà dipende
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a sua volta dall’arousal, ossia dal livello di attivazione generale dell’organismo di fronte agli stimoli ambientali (Stablum, 2002). Più precisamente, l’arousal rappresenta la «fase di attivazione del sistema nervoso centrale che precede e accompagna qualsiasi attività. Tale stato, in cui è manifesta la dominanza del sistema simpatico, varia nel tempo a causa sia di fattori esterni sia di fattori interni all’organismo» (USAI, 2005, p. 162). L’attenzione sostenuta rappresenta quindi la capacità di mantenere la concentrazione, capacità che appare compromessa nei bambini con DDAI, come mostra il loro modo di rapportarsi a compiti lunghi e ripetitivi, di fronte ai quali attivano frequentemente strategie di evitamento. L’attenzione selettiva L’attenzione selettiva, o selettività, rappresenta la capacità di selezionare tra più stimoli quelli pertinenti al compito o alla situazione ignorando quelli non essenziali e scremando le informazioni. Attraverso i processi selettivi, pertanto, solo una parte degli stimoli possono accedere al focus attentivo, mentre gli altri vengono ignorati da questo livello cosciente dell’attenzione rimanendo in una zona periferica del campo attentivo. In altre parole l’attenzione selettiva funge da filtro che permette di «concentrarsi sull’oggetto che ci interessa e di elaborare in modo privilegiato le informazioni per gli scopi che perseguiamo» (Stablum, 2002), ignorando, entro certi limiti, ciò che potrebbe interferire con le nostre intenzioni. Va notato che il focus attentivo può però essere involontariamente alterato da interferenze interne, quali il calo della motivazione, stati emozionali, oppure da interferenze esterne rappresentate da stimoli rilevanti, determinando il fenomeno noto come distrazione. Nei bambini con DDAI la capacità selettiva incontra particolari difficoltà in quanto, a causa di un livello di arousal a soglia particolarmente alta, questi soggetti sono alla continua ricerca di stimoli. Da ciò derivano
le difficoltà che incontrano nel prestare attenzione solo ad alcuni aspetti del compito e nel selezionare la quantità di input che ricevono, a causa delle quali provano una conseguente sensazione di forte confusione (Giusti - Lupinacci, 2000; Marzocchi -Molin - Poli, 2000). L’attenzione multicanalizzata L’attenzione multicanalizzata, denominata anche attenzione divisa, rappresenta la capacità di mantenere l’attenzione su due stimoli contemporaneamente o di eseguire simultaneamente due compiti. Anche questo aspetto appare molto problematico per i bambini con DDAI i quali, ad esempio, sperimentano notevoli difficoltà nell’eseguire compiti che richiedono loro di scrivere sotto dettatura o di copiare dalla lavagna. Queste attività, infatti, comportano lo svolgimento contemporaneo di diversi passaggi, ossia leggere o ascoltare, memorizzare per qualche secondo le informazioni e poi riportarle sul quaderno scrivendo; nel compiere tali passaggi, questi soggetti si “sganciano” dal compito e non riescono quindi a portarlo a termine (Di Nuovo, 2006). Lo shifting Lo shift attentivo, infine, rappresenta «lo spostamento del fuoco attentivo da un oggetto, o da un evento, a un altro, entrambi contenuti nell’ambiente circostante al soggetto» (Marzocchi -. Molin -Poli, 2000, p. 12) e costituisce quindi la capacità di mantenere l’attenzione alternata tra due stimoli. Ad esempio, lo shifting ci consente di ascoltare ciò che una persona ci dice e contemporaneamente di prestare attenzione a quanto accade alle nostre spalle, attivando un processo molto complesso cui i bambini con DDAI non accedono. Un deficit a questo livello conduce alla perseverazione, ossia alla tendenza a ripetere uno schema comportamentale attivato precedentemente anche in situazioni successive, a prescindere dall’esito di quel comportamento. Questo è il caso tipico dei soggetti con DDAI, in quanto non sono in grado di dirigere flessi-
bilmente la loro attenzione verso una nuova fonte di informazione; continuano quindi ad elaborare gli stimoli e ad agire con la stessa modalità senza riuscire a modificarla, anche se questa non si rivela adeguata alle esigenze contingenti, mostrando pertanto un’accentuata rigidità. All’estremo opposto un deficit nella capacità di shifting può portare ad un passaggio immotivato ed incontrollato da un focus all’altro (Fabio, 2001). Attenzione ed elaborazione delle informazioni L’attenzione riveste un ruolo molto importante in relazione alle strutture processanti, ossia ai sistemi che permettono all’individuo di acquisire ed elaborare, attraverso le funzioni di base (percezione, memoria e azione), le informazioni provenienti dall’ambiente esterno e dagli stati interni dell’organismo. Tali informazioni vengono poi ulteriormente rielaborate dai processi di controllo, ovvero dall’attenzione, dalle strategie di organizzazione e dalla memoria, che permettono di attuare processi di immagazzinamento, filtraggio e categorizzazione. I bambini con DDAI, nello specifico, non sono in grado di categorizzare (Sabbadini, 2005). L’elaborazione delle informazioni riguarda tre livelli, costituiti da: • gli schemi operativi: si tratta di sequenze ben apprese di routine, fortemente associate a determinate situazioni o stimoli ambientali, per cui in assenza di un input adeguato lo schema, e con questo l’attenzione, non si attiva; • il catalogo delle decisioni: è una sorta di memoria procedurale a lungo termine che seleziona gli schemi in grado di eseguire operazioni routinarie e automatiche (come ad esempio guidare la macchina). I bambini con DDAI non riescono a compiere gli automatismi perché il catalogo delle decisioni non è in grado di selezionare i tanti schemi che questi soggetti posseggono; • il Sistema Attentivo Superiore: è un sistema
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di controllo, con sede nei lobi frontali1, che si colloca ad un livello gerarchico superiore rispetto al catalogo delle decisioni, e che viene attivato in presenza di situazioni nuove o parzialmente tali. Nel caso di una disfunzione a questo livello gli schemi operativi non ricevono alcuna modulazione e possono quindi essere attivati da qualsiasi tipo di input; la conseguenza è lo sviluppo di due comportamenti, ossia la perseverazione e la distraibilità, che caratterizzano a livello macroscopico i bambini con DDAI, nei quali, come si vedrà inseguito, è presente, appunto, un danno nei lobi frontali. Nel caso in cui, invece, il Sistema Attentivo Superiore è adeguatamente funzionante, esso consente di selezionare gli stimoli rilevanti, impedendo a quelli irrilevanti di tradursi in comportamenti compulsivi ed avventati e quindi, nella maggior parte dei casi, inefficaci (Sinforiani, 2007). Il caso di Vanessa Vanessa, come la chiameremo utilizzando un nome fittizio per tutelarne la privacy, è una bambina di 8 anni e frequenta il terzo anno della scuola primaria. È molto tranquilla dal punto di vista comportamentale e piuttosto timida; non mostra particolari difficoltà di inserimento sociale, benché nelle prime fasi di interazione stenti a relazionarsi in modo spontaneo, mantenendo un iniziale atteggiamento di distanza e restando ai margini nei giochi e nelle attività. Lo svolgimento dei compiti ludico-ricreativi e didattici appare comunque difficoltoso. Vanessa sembra infatti perdere rapidamente interesse per le attività, appare attratta da molteplici stimoli; infatti interrompe frequentemente lo svolgimento dei lavori proposti per guardare fuori dalla finestra oppure per cercare il materiale necessario al loro svolgimento che perde spesso. In molte occasioni si mostra assorta nei propri pensieri e fatica quindi ad ascoltare quanto le viene detto. Commette molti errori di distrazione, in particolare omettendo non di rado la pun-
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teggiatura nei temi di italiano o dimenticando di apporre il giusto segno (+, -, :, x) nelle operazioni aritmetiche, anche se, interrogata a riguardo, mostra di conoscere le regole da seguire. In molte occasioni i suoi compiti risultano incompleti ed è pertanto necessario affiancarla costantemente a scuola e a casa affinché li porti a termine, anche se sotto la spinta di continue sollecitazioni e richiami. La tendenza alla distraibilità è particolarmente evidente in compiti lunghi, che tende a svolgere in modo frettoloso e poco curato, lasciandosi distrarre dai rumori circostanti e mettendo in atto strategie di evitamento, come chiedere spesso di andare al bagno. La lettura di un libro risulta inoltre per Vanessa un’impresa tutt’altro che semplice, in quanto l’elevata sensibilità agli stimoli, sia esterni sia interni, la porta a perdere frequentemente il filo del discorso e quindi a dover leggere diverse volte le stesse parole. Per questi motivi il rendimento scolastico risulta appena sufficiente e le insegnanti lamentano una “mancanza di impegno e di interesse benché non siano assenti le capacità necessarie all’esecuzione delle attività”; si domandano tuttavia se non esistano problemi a livello di comprensione. I genitori, dal canto loro, pur avendo notato il modo di agire della figlia, non lo avevano collegato ad una reale difficoltà quanto piuttosto ad un particolare “modo d’essere”, sempre mostrato dalla bambina. Le preoccupazioni delle insegnanti e la costatazione delle ripercussioni sul rendimento scolastico, li hanno però spinti a chiedere un consulto, per ricevere il quale si sono rivolti allo Studio AISME Intervento Psicopedagogico. Le informazioni fornite dai genitori e i dati raccolti durante una prima fase osservativa hanno permesso agli specialisti di ipotizzare la presenza di un DDAI Sottotipo con Disattenzione Predominante. Sulla base di questa ipotesi è stato quindi avviato il percorso di valutazione nei confronti del quale la bambina si è posta in modo collaborativo. I dati raccolti attraverso la WISC-R hanno evidenziato l’assenza di deficit cognitivi e
un livello intellettivo nella norma, benché siano emerse difficoltà nei processi di pianificazione e problem solving, confermate anche dagli esiti del Test della Torre di Londra. L’esecuzione delle prove è stata resa difficoltosa dai tempi attentivi estremamente ridotti che hanno richiesto interruzioni funzionali al recupero della concentrazione. Tali problemi sono stati evidenziati dai risultati ottenuti al Test delle Campanelle e al Continuous Performance Test, che hanno sottolineato i deficit a carico dell’attenzione sostenuta e dell’attenzione selettiva. A fronte degli errori grammaticali e di calcolo commessi da Vanessa, nonché alle difficoltà di lettura, si è inoltre proceduto a valutare l’eventuale presenza di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, dei quali si è potuta accertare l’assenza. Gli esiti della valutazione hanno quindi confermato l’ipotesi iniziale e si è perciò attivato un percorso di intervento psicopedagogico per il trattamento del deficit attentivo. Strategie di intervento psicoeducativo La presentazione del caso di Vanessa rappresenta il cuore di questo contributo, in quanto permette di calare sul piano reale gli elementi teorici presentati rispetto le funzioni attentive e i meccanismi di elaborazione delle informazioni e di individuare l’effettiva portata che un deficit a tale livello può comportare per il soggetto. Nel rispetto di un’impostazione volta a sottolineare gli aspetti operativi, quindi, si cercherà ora di delineare delle modalità d’intervento da applicare con bambini che mani-
festano difficoltà attentive, tenendo conto che nei bambini con DDI Sottotipo Disattento i processi attentivi vedono il predominare di una condizione di “divisione massima”, nella quale “il soggetto analizza l’ambiente in modo superficiale, senza alcun punto preciso sul quale focalizzarsi” (Aprile, 2009, p. 105). Il primo passo da compiere consiste nel predisporre intorno al bambino un ambiente adeguatamente strutturato; questo non significa iperstrutturare le condizioni di interazione e lavoro ma creare i presupposti affinché il carico di stimolazione possa essere controllato, anche se non completamente eliminato; del resto il totale controllo o l’eliminazione degli stimoli distraenti non sarebbe possibile. Strutturare il contesto significa cercare di controllare le variabili intervenienti fissando regole precise da seguire nell’esecuzione dei compiti, cercando di limitare le condizioni distraesti. La guida dell’adulto è chiaramente un presupposto indispensabile. A casa come a scuola è utile fare in modo che lo svolgimento delle attività richieste al bambino sia monitorato attraverso la presenza dell’educatore che apporta aiuto e sostegno nella regolazione dell’attenzione mediante indicazioni verbali e non verbali. Nel concreto, in classe questo significa, ad esempio, far sedere il bambino in un banco posizionato di fronte alla cattedra in modo che l’insegnante possa mantenere il più possibile il contatto oculare con lui e accertarsi che stia eseguendo i lavori assegnati. È inoltre utile scegliere accuratamente il compagno di banco da affiancare al
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bambino, curandosi che questi possa costituire un modello di comportamento valido, del quale imitare la capacità di concentrazione. Far sedere un bambino disattento accanto ad uno con comportamenti disturbanti di vario genere, infatti, sarebbe controproducente in quanto fonte di ulteriore distrazione. Data la tendenza dei soggetti con DDAI a smarrire i materiali scolastici e la loro difficoltà ad pianificare e organizzare i passaggi da svolgere nel compiere le attività, è inoltre opportuno predisporre i materiali stessi in appositi spazi cosicché il bambino possa rapidamente reperirli e riporli, evitando che si generi il caos che generalmente si può trovare sul suo tavolo di lavoro. In secondo luogo è bene scomporre i compiti lunghi e complessi in unità più brevi e semplici, in modo che egli possa procedere per sottobiettivi in base al principio dei piccoli passi, favorendo così la focalizzazione dell’attenzione su un passaggio per volta ed evitando la dispersione delle risorse. È anche fondamentale dare le consegne relative ai singoli step in modo chiaro, evidenziando i compiti da svolgere e chiedendo al bambino di ripetere la consegna stessa per accertarsi che questa sia stata correttamente compresa in ogni sua parte. Dopo aver spiegato al soggetto cosa deve fare è utile mettergli a disposizione un orologio, in modo che possa avere un controllo dell’orario che lo aiuti a autoregolare i tempi di svolgimento del lavoro assegnato. Ovviamente il tempo previsto per l’esecuzione del compito deve essere commisurato alla capacità attentiva, ed è quindi opportuno prevedere dei tempi inizialmente più lunghi, da ridurre progressivamente. In ogni caso la quantità di tempo concesso deve consentire al soggetto di portare a termine l’attività; il completamento del compito costituisce un successo, condizione che facilita sia il mantenimento dell’interesse sia lo sviluppo della motivazione. Quanto più il bambino si percepirà efficace rispetto alle richieste, tanto più sarà disponibile e collaborativo nel portarle a compimento. Come accennato, è bene inol-
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tre prevedere dei segnali di ripristino dell’attenzione, stabiliti congiuntamente, così che nel momento in cui il bambino comincia a distrarsi possano essere usati per agevolare il recupero della concentrazione. I segnali convenuti devono essere offerti in modo discreto, affinché siano colti dal soggetto senza che diventino per lui stigmatizzanti. Di conseguenza l’insegnante, ma anche il genitore che segue il figlio nei compiti a casa, può dare un piccolo colpetto sul banco quando si accorge della perdita di attenzione, evitando rimproveri o richiami ad alta voce che rendano evidente agli altri alunni il momento di empasse. Si crea così anche una complicità nella relazione adulto-bambino, nella quale il piccolo riconosce l’educatore come valido sostegno, senza sentirsi valutato o peggio svalutato. Questo tipo di supporto deve essere progressivamente diminuito a favore di una regolazione via via sempre più autodiretta da parte del soggetto, al quale si può insegnare nel tempo a esercitare un controllo autonomo sui processi in atto; a tale scopo lo si può invitare. ad esempio, ad apporre un segno sul quaderno nel punto in cui si accorge di essersi distratto, per poter riprendere il lavoro da quello stesso punto dopo aver fatto una breve pausa. Consentire brevi, e inizialmente abbastanza frequenti, momenti di intervallo è un’altra modalità che favorisce il ripristino dell’attenzione; per questo una volta raggiunto il sottobiettivo previsto si può lasciare al bambino qualche minuto per svagarsi, evitando però attività eccessivamente stimolanti che renderebbero difficile ritrovare la giusta disposizione al compito, così che possa recuperare le energie necessarie evitando un sovraffaticamento che comporterebbe inevitabilmente la perdita di concentrazione (Fedeli, 1996; Cornoldi, 2001). Facendo riferimento in modo ancora più esplicito agli apporti dell’approccio cognitivo-comportamentale, si possono individuare alcune strategie particolarmente utili alla promozione di comportamenti adattivi e quindi
a favorire la capacità di regolazione attentiva (nonché comportamentale laddove sia necessario): la gestione dei rinforzatori, il prompting, lo shaping, il chaining, il modeling. La gestione dei rinforzatori Gli sforzi profusi dal bambino nello svolgere le attività e non soltanto il successo conseguito nella loro esecuzione, devono essere gratificati avvalendosi di sistemi di feedback che danno al bambino informazioni di ritorno rispetto la propria performance. I rinforzi rappresentano proprio questa informazione di ritorno e il loro uso aumenta la probabilità che il comportamento stesso, in presenza delle medesime condizioni di stimolo, si presenti nuovamente e si stabilizzi nel repertorio comportamentelae del soggetto. Esistono diversi tipi di rinforzatori, la cui scelta deve essere valutata in relazione al bambino e agli elementi cui questi si mostra maggiormente sensibile, pena la perdita di efficacia della strategia di rinforzo. Si può quindi scegliere tra le seguenti classi di rinforzatori: • sociali quali ad esempio lodi e apprezzamenti (a livello verbale) o carezze e sorrisi (a livello non verbale); questo tipo di rinforzi ha una speciale rilevanza in quanto veicola un clima relazionale positivo, che comunica stima e vicinanza e favorisce la motivazione e la collaborazione; • le stesse osservazioni possono valere anche per i rinforzi dinamici, che riguardano la possibilità offerta al bambino di svolgere particolari attività a lui gradite, specialmente se queste implicano la partecipazione di altre persone come ad esempio genitori o pari. Può essere infatti particolarmente gratificante e motivante la prospettiva di poter fare una gita con la famiglia in un posto scelto dal bambino o di trascorrere un pomeriggio alle giostre con l’amico del cuore; • tangibili o materiali come caramelle o giocattoli; • simbolici costituiti da gettoni, fishes o altri simboli da accumulare per essere successi-
vamente scambiati con altri tipi di rinforzi. L’erogazione dei rinforzatori deve seguire immediatamente (e non precedere!) la comparsa del comportamento desiderato in modo che questo possa essere collegato alla gratificazione. Naturalmente c’è il rischio di incorrere in una sorta di assuefazione al rinforzatore, se questi non sono correttamente gestiti; per ciò è sempre bene stilare insieme al bambino una lista di elementi o eventi rinforzanti in modo da avere la sicurezza che si tratti di elementi per lui effettivamente stimolanti (ricordando che ciò che è gratificante per una persona può non esserlo altrettanto per un’altra) e la possibilità di variare la scelta all’interno di questa lista, così da mantenere vivo l’interesse e l’impegno. È inoltre opportuno ridurre gradualmente l’erogazione di rinforzatori tangibili, che in una prima fase possono essere maggiormente allettanti per il soggetto ma che comportano una rapida assuefazione, o quanto meno affiancarli con rinforzi di altro tipo. I rinforzi sociali possono invece essere adottati in modo protratto nel tempo in quanto non si evidenziano “effetti collaterali” ma anzi contribuiscono alla crescita del senso di autostima e autoefficacia (Guazzo, 1996). Il prompting e il fading Il prompting rappresenta una tecnica di facilitazione basata sull’introduzione di ulteriori stimoli discriminativi aggiuntivi finalizzati ad incrementare la probabilità che il comportamento atteso si manifesti. Gli aiuti o suggerimenti (prompt) possono essere di tipo verbale (sollecitazioni come ad esempio dire “leggi qui”), gestuali (ad esempio indicare con il dito la parola da leggere), figurali (immagini che facilitino la comprensione), fisici (guidare fisicamente il soggetto nello svolgimento di un compito, ad esempio prendendogli la mano per aiutarlo a scrivere una parola) o di modellamento (l’educatore mostra al soggetto come eseguire un certo passaggio del compito). L’aiuto fornito mediante il prompting deve essere progressivamente attenuato; a tale scopo
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ci si avvale della tecnica del fading, mediante la quale lo stimolo legato al prompt viene modificato fino a che il soggetto sviluppa un’adeguata autonomia nello svolgimento del compito assegnato; si evita così il rischio dello sviluppo di forme di dipendenza dall’aiuto esterno. Il chaining Nel proporre compiti complessi, in particolari se volti all’acquisizione di nuove competenze, è bene scomporre il compito nelle sequenze di cui è formato, come precedentemente detto; l’apprendimento di ciascuna di queste è collegato alla progressiva acquisizione delle successive, fino al conseguimento dell’obiettivo finale. Si parla in questo caso di chaining o concatenamento, nel quale si rinforza ciascuna componente del compito appresa per poi passare, una volta che questa si mostri consolidata, a rinforzarla solo se viene conseguito il passaggio successivo e così via. Ad esempio, per insegnare a un bambino a lavarsi i denti si inizia dal fargli prendere lo spazzolino, per poi aprire il tubetto di dentifricio, aprire il rubinetto e bagnare le setole, strofinare lo spazzolino sui denti, sciacquare, chiudere il rubinetto, asciugare il viso, riporre spazzolino e dentifricio. Si ha in questo caso un chaining anterogrado, nel quale la sequenza comportamentale viene appresa a partire dalla prima azione per arrivare all’ultima. Se si vuole invece che il bambino apprenda come scrivere un tema o una storia può essere più efficace l’uso del concatenamento retrogrado, nel quale il comportamento atteso viene costruito partendo dall’ultima azione da compiere, risalendo progressivamente la catena fino alla prima. Si può, ad esempio, fornirgli una storia nella quale la parte iniziale e quella centrale siano già svolte, chiedendo quindi al soggetto di elaborare solo il finale; si passerà poi a presentare una storia nella quale manchi anche la parte centrale, fino a condurlo alla formulazione della storia nel suo complesso.
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Lo shaping Analogamente a quanto avviene nel chaining, attraverso lo shaping (o modellaggio) vengono rinforzati tutti i passaggi che si avvicinano al comportamento che si intende far apprendere. La guida dell’adulto, come sottolineato, svolge un ruolo centrale nel favorire i processi di apprendimento e la capacità di regolazione e controllo delle proprie prestazioni sia cognitive sia comportamentali. L’educatore deve, in altre parole, porsi come modello di funzionamento adeguato, attivando strategie di modeling, o apprendimento per imitazione, cioè promuovendo le acquisizioni attraverso la presentazione di un modello (adulto o pari) che può essere osservato mentre esegue un determinato compito (Meazzini, 1978). Il sistema di regole L’adeguato funzionamento delle strategie di intervento presentate richiede, oltre ad un setting stabile e a una coerenza nell’adozione di queste tecniche da parte delle diverse figure impegnate a favorire lo sviluppo del bambino, che vengano previamente stabilite le regole da rispettare nello svolgimento dei compiti. È opportuno che il bambino partecipi alla definizione di tali regole in modo che si percepisca parte attiva nell’intero percorso apprenditivo, con ricadute positive sull’impegno profuso. L’importanza di stabilire adeguatamente le regole cui attenersi sta nel fatto che la loro acquisizione e il loro rispetto consente di conseguire un adattamento alle richieste ambientali e di sviluppare le capacità di problem solving, mediante una progressiva generalizzazione delle norme a compiti e situazioni differenti. Le regole favoriscono quindi la strutturazione di un’adeguata organizzazione intellettuale. Per quanto formularle possa sembrare un compito semplice e spontaneo, la realtà dei fatti è molto diversa. Le regole, infatti, vengono frequentemente proposte in modo inadeguato in quanto la tendenza più in uso è quella di evidenziare ciò che il bambino non deve
fare piuttosto che il comportamento atteso. Il primo passo nella loro corretta formulazione è quindi esprimerle al positivo, evidenziando la performance richiesta. Il linguaggio utilizzato deve inoltre far ricorso a termini concreti che facciano riferimento a comportamenti osservabili, la cui presenza renda evidente l’apprendimento della regola (ad esempio “dopo aver letto la consegna ripetila ad alta voce”). Non bisogna poi eccedere nel numero di regole date, pena l’impossibilità di rispettarle tutte, soprattutto per quei bambini che avendo un deficit attentivo possono faticare a ricordarle; è quindi meglio stabilire due o al massimo tre regole per volta, per poi concentrarsi, non appena queste siano state consolidate, su altri aspetti (lo stesso vale per la formulazione degli obiettivi, in quanto la regola non è altro che un mezzo utile a favorire il raggiungimento di un obiettivo il cui conseguimento è vincolato al rispetto della regola stessa). È infine necessario individuare il momento più adatto per comunicare le norme (che devono essere ricordate all’inizio di ogni compito), ossia un momento di tranquillità nel quale sia maggiore la disponibilità alla collaborazione. L’adeguamento alle regole stabilite, chiare, giustificate e ben note al soggetto, potrà poi essere premiato, secondo modalità concordate, mediante l’accesso a rinforzatori previamente individuati; al contempo anche l’infrazione delle norme dovrà essere seguita da conseguenze note e ben chiare, onde evitare una percezione di ingiustizia e arbitrarietà che comprometterebbe la relazione e l’intero processo di apprendimento (Gagné, 1973; Meazzini, 1997; Andrich, 2003). Conclusioni Nel corso di questa breve rassegna teoricopratica sul tema dell’attenzione e delle sue implicazioni psicoeducative, è stato possibile sottolineare la complessità di questa tematica. Per affrontare adeguatamente i casi in cui emergano deficit specifici a questo livello è necessario il possesso di molteplici com-
petenze operative, poiché il quadro clinico comporta l’esigenza di agire su aspetti diversificati. Le difficoltà e le relative necessità incontrate dai bambini con DDAI Sottotipo con Disattenzione Predominante, quindi, benché meno evidenti e distrurbanti rispetto a quelle prettamente comportamentali, non devono essere trascurate. Ciò che si ritiene opportuno promuovere, in particolare, è lo sviluppo di una sensibilità educativa che guidi gli educatori nello svolgimento del loro compito; una sensibilità che deve farsi consapevolezza della presenza di un problema di questo tipo e deve avvalersi di capacità, strumenti e tecniche d’intervento adeguati. Tra queste competenze un ruolo centrale spetta alla preparazione a compiere adeguati processi di osservazione della realtà educativa, condizione imprescindibile per la predisposizione di un percorso di intervento mirato. Ciò permette all’educatore, insegnate o genitore, di porsi effettivamente come sostegno valido nei confronti dei soggetti in difficoltà, rifuggendo dalla tentazione di sottovalutare quelle situazioni che possono apparire meno urgenti da affrontare rispetto ad altre nelle quali le dinamiche disfunzionali sono maggiormente evidenti. Note: 1 I lobi frontali sono implicati nell’inibizione delle risposte a stimoli irrilevanti e nel mantenimento di un comportamento finalizzato; in presenza di lesioni in queste aree infatti, il soggetto presenta reazioni impulsive e non riesce a mantenere un’attenzione stabile volontaria (MORO, 2005). Riferimenti Bibliografici: ANDRICH MIATO S., La didattica inclusiva, Trento, Erickson 2003; APRILE L., Psicologia. Temi introduttivi, Milano, Apogeo 2009; CANESTRARI R. – Godino A., Trattato di psicologia, Bologna, Clueb 2002; CORNOLDI C. et al., Iperattività e autoregolazione cognitiva. Cosa può fare la scuola per il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Trento, Erickson 2001;
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L’"Istituto Etico per l’Osservazione e la Promozione degli Appalti", di seguito “Associazione”, è una organizzazione non profit ed ha come scopo quello di professionalizzare gli attori strategici che a vario titolo gravitano nell’alveo dei procedimenti ad evidenza pubblica rendendo, anche indirettamente, beneficio ai fruitori dei procedimenti medesimi. Cattedra di Filosofia del Diritto di Scienze Politiche dell’Università “ La Sapienza” di Roma Cattedra di Istituzioni di Diritto Pubblico di Sociologia dell’Università “ La Sapienza” di Roma
Direttivo PRESIDENZA Federico Tedeschini Teresa Serra Francesco A. Caputo Anna Cataleta Luca Di Fazio
Presidente Onorario Referente Accademico Fondatore e Presidente (legale rappresentante) Primo Presidente Vicepresidente
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La valutazione di politiche socioeducative. L’apporto della metodologia qualitativa Parte prima. Caratteristiche generali e presupposti teorico-metodologici
di Savina Cellamare, Roberto Melchiori Introduzione Per migliorare le condizioni della vita scolastica e per contrastare le manifestazioni di malessere che sfociano in molti casi nell’abbandono scolastico, l’Amministrazione Centrale della scuola ha nel tempo avviato politiche socioeducative il cui scopo dichiarato è di offrire sostegno allo sviluppo della persona giovane attraverso il contrasto alle diverse forme di difficoltà che questi manifestano. Le sollecitazioni in tal senso sorgono sia dalla scuola sia dalla famiglia e subiscono un inevitabile incremento quando si verificano episodi eclatanti che sfociano nel fatto di cronaca. Nonostante che interventi di politiche socioeducative si avviino e si susseguano nel tempo non si riscontrano in letteratura pubblicazioni che riguardino la valutazione di simili iniziative. E’ possibile trovare in atti di seminari e di convegni i contributi che presentano risultati in merito agli effetti sui destinatari degli interventi ma non una valutazione e delle azioni svolte della politica socioeducativa su cui si
fondano. Si pone quindi, e si è posta soprattutto nell’ultimo decennio, l’esigenza di comprendere e apprezzare l’azione di più fattori, quali: la coerenza degli interventi delle politiche socioeducative con i fabbisogni espressi dalla popolazione; l’efficacia degli interventi avviati a fronte delle politiche istituite; il progresso dei processi realizzati dagli interventi; gli impatti generati sui contesti e sulle popolazioni coinvolte dagli interventi. La risposta a tale esigenza è l’applicazione di uno specifico programma di valutazione alle politiche socioeducative e ai relativi interventi. Questa soluzione è stata adottata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) nell’ambito dell’intervento denominato “Centri di Aggregazione Giovanile -2you” (o Centri-2you) promosso dalla Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione (già Direzione Generale per lo Studente), che ne ha affidato la realizzazione sul territorio a un RTS (Raggruppamento Temporaneo di Scopo), guidato dall’Associazione San Patrignano Onlus. L’azione di monitoraggio per la valutazione dell’efficacia, invece, è stata affidata all’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione -INVALSI(Cfr. www.invalsi.it/invalsi/rn/monitorCentri2010). Il programma di valutazione impostato e realizzato dall’INVALSI si è caratterizzato per l’uso della metodologia qualitativa, cioè le osservazioni sul campo e la valutazione progressiva, oltre agli approcci quantitativi, ovvero il monitoraggio e la ricerca valutativa. La soluzione disegnata per la valutazione, e quindi il modello conoscitivo derivato, può essere utilizzato anche in altre situazioni, come la valutazione del Piano dell’offerta formativa di una istituzione scolastica o la valutazione della soddisfazione degli studenti di un corso di studi universitario oppure la valutazione di un servizio sociale come gli asili nido.
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In questo articolo si evidenzieranno gli elementi utilizzati per la definizione e la caratterizzazione qualitativa dell’impianto del programma di valutazione (vedi Figura 1). In particolare sono descritte le azioni principali che compongono sia il disegno e la progettazione del programma di valutazione (cioè gli aspetti concettuali, le domande valutative e l’approccio metodologico) sia le azioni realizzate, coerentemente con la scelta dell’approccio qualitativo (cioè gli elementi, i processi, gli strumenti e l’analisi dei dati). I risultati della valutazione e le riflessioni che ne sono scaturite saranno invece oggetto di un contributo successivo. Figura 1. Modello generale del programma di valutazione.
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Aspetti metodologici Per la precisazione del programma di valutazione e delle relative azioni si è reso necessario esplicitare sia una concettualizzazione dell’intervento sia una precisa metodologia di lavoro. Le due esplicitazioni hanno riguardato: l’osservazione del procedere dell’intervento attraverso un’azione di monitoraggio e valutazione progressiva; l’analisi della validità interna considerata in termini di efficacia dei risultati rispetto alle domande valutative generate dal contratto per il servizio dei centri (analisi del raggiungimento degli obiettivi dichiarati); l’analisi della validità esterna considerata come espressione del soddisfacimento degli obiettivi riguardanti la creazione di un modello (sistema ecologico) di Centro di Aggregazione Giovanile (cfr. OCSE, 1999; OCSE, 2002).
In particolare, per gli aspetti metodologici, i criteri di qualità utilizzati per lo sviluppo del programma di valutazione sono stati i seguenti (Tabella 1): Qualitativo Credibilità Trasferibilità Ammissibilità Confermabilità
Quantitativo Validità interna Validità esterna Affidabilità o costanza Obiettivi conseguiti
In questo modo si è cercato di unire le metodologie relative ad azioni di ricerca sociale ed educativa a valenza valutativa di ambito diverso, qualitativo e quantitativo, in una metodologia integrata, ovvero mista, enfatizzando i tratti di obiettività, validità interna, affidabilità, validità esterna, rigore, apertura mentale e completezza dei rapporti (cfr. Wooding S. - Grant J., 2003) La metodologia assunta, quindi, ha utilizzato metodi qualitativi per le analisi di contesto, sia iniziali sia periodiche, che hanno avuto come riferimento ogni Centro-2you e che hanno riguardato principalmente i soggetti target e altri stakeholder (o portatori di interessi, come ad esempio gli Enti locali, le organizzazioni sul territorio, ecc.). Le domande valutative La costruzione del sistema di monitoraggio per la valutazione considera livelli di interventi differenti, ognuno dei quali è diversamente caratterizzato e contribuisce in modo specifico al raggiungimento del risultato complessivo. Nel caso dei Centri-2you nella fase iniziale del progetto sono stati esplicitati i traguardi complessivi che il sistema di monitoraggio doveva perseguire e raggiungere, ovvero rispondere alle domande valutative derivate dalle esigenze del Committente (ovvero il MIUR) e, nello stesso tempo, identificare e pianificare le strategie di sviluppo. Per quanto attiene alle domande valutative queste sono state formulate considerando
quanto previsto nel contratto tra il Committente e l’RTS come obiettivi espliciti, cioè: il raggiungimento di soglie numeriche, riguardanti i beneficiari (studenti/giovani e famiglie) dei servizi/attività realizzati dai centri giovanili; la sostenibilità, dell’esperienza attraverso la ricerca di una collocazione del centro tra i soggetti pubblici/privati territoriali; l’utilità formativo-sociale rilevata dalla verifica della validità del servizio stesso, le cui caratteristiche distintive lo rendevano necessario e non una semplice duplicazione di analoghe esperienze già esistenti. Le strategie di sviluppo sono state considerate a vari livelli, cui hanno corrisposto informazioni, necessità e obiettivi diversi. In particolare, a livello strategico l’interesse è stato posto alle esigenze e alle necessità del territorio e le informazioni sono ricavate da più fonti, costituite principalmente dagli Enti locali (Assessorati, Direzioni generali, Uffici Scolastici Regionali, ecc.) e dalla documentazione locale esistente. Al successivo livello, che definiamo tattico, sono state rilevate le richieste e le problematiche presentate dai destinatari del servizio, alle quali corrispondere successivamente con interventi opportuni. In questo caso le informazioni sono derivate da un’attenta analisi del contesto, che è stata realizzata anche attraverso interviste ai destinatari; tale analisi ha permesso di generare e delineare elementi che hanno inciso sulla struttura del servizio da realizzare nelle singole realtà territoriali. Infine, a livello operativo, la maggiore importanza è stata attribuita alle azioni e alle attività intraprese per supportare le quattro aree di intervento su cui si è imperniato il servizio da erogare; in questo caso le informazioni principali raccolte dal monitoraggio hanno riguardato la numerosità e la specificità delle attività svolte, la partecipazione dei destinatari interessati, gli scambi informativi con gli Enti locali, l’organizzazione delle attività, ecc.
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Gli obiettivi assegnati all’azione di valutazione progressiva sono quindi riassumibili in due punti focali: il primo consiste nel seguire lo sviluppo del servizio complessivo riscontrandone l’efficacia e l’efficienza e nel verificare il raggiungimento delle soglie numeriche stabilite contrattualmente; il secondo mira a raccogliere gli elementi informativi necessari per poter verificare nel tempo lo stato del servizio realizzato dai singoli Centri-2you sulle rispettive aree di competenza, i risultati intermedi conseguiti e, eventualmente, intervenire per apportare le opportune regolazioni. Per questi scopi, e per sottolineare la validità del servizio realizzato dai centri anche come strumento di raccordo tra servizi alla persona e famiglie, il monitoraggio ha raccolto e analizzato dati, con periodicità stabilita, per corrispondere agli obiettivi precedentemente indicati, e per esaminare le problematiche che potevano riscontrarsi in itinere; tali operazioni sono state attuate anche in funzione di un possibile riallineamento dei progetti operativi realizzati dai singoli centri. Il Centro di Aggregazione Giovanile come sistema ecologico L’impianto progettuale su cui si fondano i Centri-2you si propone quindi come modello concettuale e operativo di servizio piuttosto originale, in quanto supera una visione ristretta di tipo locale e sollecita una funzionalità che, pur essendo condivisa nelle linee portanti da tutti i centri distribuiti sul territorio nazionale vive un processo di progressivo e costante adattamento; tale processo coinvolge in un meccanismo di reciprocità il servizio, i destinatari dei servizi e le proprietà mutevoli delle situazioni ambientali e personali che questi vivono. Ogni centro, quindi, viene a configurarsi come un ambiente ecologico che, a livello topologico, si rappresenta come un mesosistema (cioè un insieme di servizi o microsi-
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stemi), e dialoga o con gli altri Centri o con altre strutture sociali che complessivamente compongono un esosistema. Gli esosistemi sono organizzati in macrosistemi rispetto ad elementi che possono essere di tipo culturale, sociale, economico oppure organizzativo (ad esempio una politica di sviluppo e riforma, lo Stato, ecc.) (cfr. Bronfenbrenner, 1986). Ogni singola area d’intervento prevista nel progetto, alla quale corrisponde un servizio su cui opera ciascun centro, costituisce quindi un microsistema nel quale la persona accolta esercita uno specifico dominio di competenze, collegate alle attività in cui è coinvolta, rispetto al suo ambiente di vita e al momento temporale in cui è parte di quel microsistema. (Figura 2). Poiché le azioni e gli interventi attuati nei centri hanno lo scopo di modificare la situazione presente dei destinatari del Servizio, il microsistema deve essere necessariamente capace di cambiare in rapporto alle transizioni ecologiche che riesce a realizzare nella vita degli utenti; ad esempio, un ragazzo che riorganizzi positivamente la sua esperienza di studente e diventi tutor di un suo compagno vive una transizione importante, poiché riconfigura il suo ruolo all’interno del centro, nel quale e per il quale diventa risorsa spendibile. La variabilità nel microsistema si realizza attraverso la flessibilità; questa gli permette di attuare una rimodulazione e un adattamento del servizio rispetto alle richieste e alle necessità personali dei soggetti target accolti. La flessibilità, quindi, garantisce al centro la possibilità di modificare dall’interno la sua azione in risposta a bisogni, fabbisogni e richieste che cambiano e che possono mutare anche in ragione del loro stesso soddisfacimento e del successo degli interventi.
Figura 2. Schema delle interazioni tra il sistema dei Centri e altri ecosistemi.
Monitorare per comprendere, decidere, agire Un progetto complesso e articolato come quello voluto dei Centri-2you deve necessariamente prevedere un’azione di monitoraggio che risponda a specifiche esigenze di verifica, valutazione intermedia e regolazione, rispetto all’evolversi nel tempo dei servizi e in funzione degli intenti socioeducativi di promozione della persona perseguiti. Il monitoraggio è attuato attraverso un insieme di azioni specifiche; queste riguardano la raccolta dei dati relativi alla numerosità dei destinatari e degli interventi all’interno dei servizi, la tipologia delle attività condotte e le condizioni entro cui si sono svolte, le osservazione sul campo da parte di osservatori esperti, la produzione di note informative e report, funzionali alla regolazione, alla valutazione intermedia e alla valutazione conclusiva dell’intero progetto (cfr. Melchiori, 2009b). Il monitoraggio e la valutazione procedono sincronicamente rispetto allo svolgimento del servizio svolto dai singoli Centri, permettendo, di fatto, uno scambio di feedback regolativi, secondo il meccanismo azioni dei Centri -> controllo e feed-back regolativo -> decisioni - azioni dei Centri, come rappresen-
tato in Figura 3. Questa configurazione del monitoraggio delinea un processo informativo continuo, che si realizza attraverso l’utilizzo di strumenti sia qualitativi sia quantitativi; ciò permette da una parte di ottenere dati e informazioni attualizzati e, dall’altra, di fornire risultati intermedi. Ci si muove quindi nell’ottica della valutazione realistica, le cui caratteristiche chiave consistono “da un lato nell’insistenza sulla spiegazione attraverso meccanismi, e dall’altro nel tentativo di dimostrare la capacità di alcune strategie esplicative di giungere a un corpo di conoscenze scientifiche in crescita” (Pawson – Tilley, 2007, p. 371). In particolare, la valutazione progressiva che segue costantemente il monitoraggio, persegue soprattutto due finalità: • dimostrare che le azioni svolte e i risultati conseguiti dai singoli Centri possano essere considerati soddisfacenti rispetto agli obiettivi programmati, ovvero che sono coerenti ed efficaci; • riflettere, attraverso i risultati dell’osservazione sul campo, sui comportamenti e sui processi derivati dalle azioni poste in essere, ai fini sia di una ridefinizione degli elementi del servizio dimostratisi localmente deboli sia di un aggiornamento dei procedimenti di osservazione sul campo in funzione del monitoraggio.
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Figura 3. Monitoraggio progressivo: la sorveglianza sul funzionamento dei Centri.
La metodologia qualitativa scelta invece per la conduzione dell’attività di osservazione sul campo è quella etnografica; a tale approccio si conformano, quindi, i relativi aspetti della raccolta dati, della struttura degli strumenti di rilevazione e le tipologie di elaborazione. Lo scopo dell’osservazione sul campo è stato quello di descrivere sia i soggetti target del servizio sia il servizio realizzato, piuttosto che verificare ipotesi, e di costruire una interpretazione dei significati rispetto all’azione socioeducativa, realizzata dai centri, utile per la valutazione di efficacia del servizio. La riflessione sui risultati delle elaborazioni effettuate ha portato quindi a ricostruire il servizio erogato attraverso gli elementi di osservazione, il processo di osservazione, gli strumenti di osservazione e le analisi dei dati.
La metodologia qualitativa Nell’ambito del programma di valutazione la metodologica assunta per il complesso del monitoraggio e della valutazione progressiva ha come riferimento la metodologia mista, ovvero l’unione di metodologie di ambito diverso, qualitativo e quantitativo, che enfatizza i tratti di obiettività, validità interna, affidabilità, validità esterna, rigore, apertura mentale e completezza dei rapporti (cfr. Wooding, 2003). La combinazione di metodi diversi ha due ragioni principali: • la ricerca di una mediazione tra la verifica degli obiettivi progettuali, cioè dalla necessaria risposta alla committenza interessata soprattutto al raggiungimento degli obiettivi contrattuali; • la conduzione di una ricerca valutativa in grado di costruire uno schema concettuale capace di offrire una interpretazione dei significati e delle funzioni delle azioni condotte nei Centri-2you (in questo caso la valutazione prende le forme sia di ricerca valutativa sia di programma valutativo, considerando le due diverse risposte da consegnare al Committente).
Gli elementi di osservazione Coerentemente con quanto prestabilito dalla struttura progettuale dei Centri di Aggregazione Giovanile gli elementi di osservazione hanno riguardato principalmente gli aspetti di: territorio o contesto (aspetti sociali, economici, culturali, presenza di fenomeni diffusi di devianza e criminalità giovanile); soggetti target (giovani, studenti, famiglie, genitori, operatori, ecc.); altri stakeholder (ad esempio gli Enti locali, le organizzazioni sul territorio, associazioni, ecc.). Nell’ambito dell’osservazione sono state effettuate anche interviste a “testimoni privilegiati”, ovvero ai frequentanti dei centri, cioè giovani e genitori, agli operatori dei centri stessi e ai dirigenti e docenti delle scuole ospitanti questo servizio. Il numero degli intervistati è stato piuttosto contenuto per ogni centro; con questa scelta, in linea con il canone qualitativo dell’“autenticità”, si è inteso dare maggiore spazio al raggiungimento di una comprensione autentica delle esperienze personali dei frequentanti i Centri-2you, in particolare delle loro motivazioni, dei loro bisogni personali e fabbisogni educativi, dei loro interessi, dei loro atteggiamenti anche in
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relazione alle proposte di servizio agito dal singolo centro. In questo caso, seguendo i dettami della ricerca sociale qualitativa, per la validità esterna, legata agli aspetti inferenziali per l’ambito quantitativo, è stata attuata la scelta di migliorare la comprensione del fenomeno sulla base di interviste in profondità su un numero ristretto di utenti e/o stakeholder, fisso, per ogni centro. Il processo di osservazione Anche per l’osservazione di come un intervento è compiuto operativamente occorre considerare gli aspetti teorici che connotano il disegno della valutazione; a tale scopo si precisano le porzioni di realtà che sono significative per costruire possibilità interpretative rispetto agli stessi riferimenti teorici. Per il processo osservativo gli aspetti rilevanti hanno riguardato l’organizzazione operativa e la raccolta dei dati. Per il primo aspetto, ovvero l’organizzazione, sono state condotte le seguenti azioni: • una riunione iniziale con i responsabili dei centri utilizzata sia per programmare le successive attività sia per mettere a fuoco le caratteristiche del centro, cioè: • le coerenze con il progetto generale; • le differenze con il progetto generale (se presenti); • le caratterizzazioni specifiche rispetto al progetto generale (se presenti); • l’organizzazione delle attività del centro (apertura, spazi, personale, sedi); • collegamenti con altri Enti (amministrazioni locali, associazioni, reti di scuole); la visita degli ambienti dei centri (scuola, • sedi dei gestori, altri spazi). Per il secondo aspetto, cioè la raccolta dei dati, si è invece proceduto attraverso: • le interviste ai soggetti target: • giovani e studenti; • singoli genitori o coppie di genitori oppure altri familiari (per esempio nei casi in cui per l’assenza o la morte di un ge-
nitore la cura del ragazzo è stata assunta da un familiare); • operatori dei centri (psicologi, educatori, volontari); • dirigenti scolastici e/o docenti della scuola ospite e/o referente; • stakeholder (personale di Enti locali e di associazioni); l’osservazione non partecipante ha com • portato sia l’ascolto delle comunicazioni tra partecipanti, sia l’osservazione di attività previste e svolte nel centro. In entrambi i casi i dati sono stati registrati attraverso annotazioni diaristiche. Durante le attività sono stati utilizzati gli strumenti realizzati ad hoc per questa azione del monitoraggio. Gli strumenti di osservazione Gli strumenti per la conduzione delle osservazioni sul campo sono stati elaborati in base alle diverse tipologie di azioni previste dal servizio. In linea generale è stato possibile utilizzare i seguenti strumenti di monitoraggio: • interviste semistrutturate, riservate ai destinatari del servizio (studenti, giovani e famiglie), per valutare molteplici aspetti, quali: la percentuale degli studenti che hanno recuperato le lacune disciplinari, le dinamiche cognitive e relazionali più rilevanti, le esigenze personali, la partecipazione alle attività laboratoriali, culturali e ricreative; • interviste individuali -in profondità- con gli operatori dei servizi, i docenti delle scuole coinvolti in rete con le attività dei centri, i dirigenti scolastici, alcune figure istituzionali (Assessori ai servizi sociali, responsabili di associazioni) che con diverse modalità partecipano alla vita dei Centri, per rilevare le aspettative sul servizio e le valutazioni dei risultati in risposta alle esigenze espresse e al gradimento dei destinatari per il servizio attuato dal Centro di Aggregazione Giovanile. Le sintesi delle interviste sono state registrate nei diari redatti nel corso delle visite sul campo.
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Le analisi dei dati Le tecniche qualitative relative all’analisi dei contenuti testuali svolte sulle relazioni relative sia al contesto sia alle azioni attuate (entrambe le relazioni sono prodotte dai responsabili dei centri), sono state utilizzate per evidenziare le possibili categorie con cui sintetizzare gli scambi comunicativi e le relazioni realizzati dai destinatari e dagli operatori, ovvero dagli attori sociali, all’interno del servizio dei Centri di Aggregazione. Le categorie risultanti sono state adoperate per definire uno schema concettuale orientativo, da perfezionare con le risultanze dell’azione di osservazione sul campo. I risultati delle analisi sui contenuti delle interviste e dei diari di osservazione sono stati utilizzati anche per rimodulare alcune parti degli strumenti impiegati per la raccolta dati quantitativa. In funzione delle evidenze che sono state riscontrate durante l’osservazione sul campo, alcuni Centri di Aggregazione hanno aggiornato il servizio agito (regolazione e valutazione progressiva) per adattarlo alle esigenze o alle situazioni emergenti. Le analisi sui contenuti, focalizzando le aree di intervento del servizio, permettono di collegare anche le azioni effettuate con le caratteristiche e la disponibilità dello spazio fisico. Conclusioni Il programma di valutazione che è stato definito e attuato per l’intervento dei Centri2you, da un punto di vista metodologico e sulla base delle evidenze riscontrate, è risultato rispondere pienamente alle caratteristiche dell’intervento socioeducativo. Con la metodologia qualitativa, infatti, i centri risultano “innegabilmente, inequivocabilmente e senza eccezioni sistemi sociali e, come qualsiasi sistema sociale, sono formati dall’interazione tra individuo e istituzione, tra azione e struttura o, ancora, tra processi sociali micro e processi sociali macro” (Pawson-Tilley, 2007, p. 372). La possibilità che un intervento accresca la propria funzionalità per rispondere efficace-
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mente ai bisogni e fabbisogni per i quali è nato dipende dalla capacità dell’intervento stesso di regolarsi in base a dati attendibili, vagliati e valutati. La rilevazione di dati quantitativi è sicuramente una parte importante anche per un programma di valutazione; operando nell’ambito socioeducativo, però, l’esperienza effettuata dimostra che è possibile utilizzare con efficacia le potenzialità conoscitive della metodologia qualitativa e in questo caso dell’osservazione sul campo. Questa scelta metodologica, i risultati che ha prodotto e le possibili linee di sviluppo del modello che si è delineato saranno oggetto del prossimo contributo. Riferimenti Bibliografici: BRINT S., Scuola e società, Bologna, Il Mulino, 2002; BRONFENBRENNER U., Ecologia dello sviluppo umano, Bologna, Il Mulino, 1986; MELCHIORI R. (a cura di), Progetto di monitoraggio, INVALSI, 2005; MELCHIORI R., Il monitoraggio dei Centri di aggregazione giovanile. Rapporto di ricerca valutativa, INVALSI, 2009a; MELCHIORI R., Pedagogia. Teoria della valutazione, Lecce, Pensa Mutimedia Editore, 2009b; OCSE, Evaluating Local Economic and Employment Development, How to assess what works among programmes and policies, Vienna, conference, working paper, Vienna, 2002; OCSE, Improving evaluation practices. Best Practice Guidelines for Evaluation and Background Paper, PUMA/PAC(9)1, OCSE, 1999, Paris; PAWSON R. - TILLEY N, Un’introduzione alla valutazione scientifica realistica, in Stame N. (a cura di), Classici della valutazione, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 371-385; PAZZAGLIA F. – MOE’ A. - FRISO G. - RIZZATO R., Empowerment cognitivo e prevenzione dell’insuccesso, Trento, Erickson, 2002; PONTECORVO C. - AJELLO A.M. - ZUCCHERMAGLIO C. (a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento, Milano, LED, 1995; WOODING, S., & GRANT, J. Assessing research: The researchers’ view, Cambridge, England: RAND Europe, 2003.
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Promuovere la prosocialità lungo l’arco di vita. Il ruolo delle agenzie educative Parte prima. I presupposti concettuali
di Savina Cellamare Premessa Spesso chi si occupa di educazione e di formazione, come la famiglia, la scuola e altre agenzie deputate a questo compito, si trova a dover riflettere sulle pesanti ripercussioni che l’assenza di un adeguato repertorio di abilità sociali hanno o possono avere sia sui singoli individui sia ad un più ampio livello sociale. Gli interrogativi in tal senso non hanno confini geografici né limiti cronologici; infatti «in tutto il mondo, uno degli obiettivi dell’educazione, nelle sue molteplici forme, è di creare legami sociali tra individui sulla base di punti comuni di riferimento. I mezzi usati sono diversi, come lo sono le culture e le circostanze, ma in ogni caso il fine centrale dell’educazione è la realizzazione dell’individuo come essere sociale. L’educazione serve come veicolo di culture e di valori, crea un ambiente dove la socializzazione possa aver luogo ed è il crogiolo in cui si plasma e prende forma un obiettivo comune» (Delor, 1997, p. 45). La domanda di educazione quindi cambia in ragione del modificarsi del tessuto sociale e
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delle istanze culturali e stabilisce dei principi che hanno valore universale, dimensione transculturale ed estensione trasversali a tutte le età della vita. Questi principi investono tutti i domini di competenza della persona (cognitivo, affettivo, sociale e relazionale) e possono essere ricondotti a quattro punti focali: • imparare a conoscere, coniugando il lavoro capillare su un ristretto numero di aree disciplinari con una conoscenza generale più ampia. Una simile integrazione non può accontentarsi dell’imparare, legato ad una visione settoriale dell’apprendimento, ma richiede un “imparare ad imparare ad imparare” che pone i soggetti in condizione di rispondere in modo efficace, produttivo e soddisfacente alle offerte che si danno nel corso della vita; • imparare a fare, non inteso nell’accezione ristretta del possesso di una specifica abilità ma visto come competenza nell’affrontare molteplici e diverse situazioni di interazione, formali o informali; • imparare a vivere, che comporta la gestione di conflitti e la realizzazione di progetti comuni, in un clima di pluralismo e reciprocità; • imparare ad essere, così da divenire capaci di promuovere se stessi ed operare con autonomia di giudizio e di azione attraverso la valorizzazione delle proprie abilità comunicative, di ragionamento e così via (Cellamare, 1999). Una risposta educativa efficace alle sollecitazioni poste dai principi enunciati può essere validamente rappresentata dalla promozione della competenza prosociale, costituita da un repertorio di comportamenti, atteggiamenti e stili che arricchiscono e dinamizzano l’interscambio tra persona e ambiente di vita. È evidente che un compito così impegnativo come quello di promuovere la prosocialità (Pro Social Behavior) non può basarsi sull’im-
provvisazione ma richiede il riferimento a un quadro teorico che ne chiarisca i termini e ne guidi la trasformazione in operatività concreta. Il quadro concettuale, i fattori psicologici ed educativi, gli ambiti e le condizione di applicazione di programmi di educazione alla prosocialità, a scuola e nell’extrascuola, saranno oggetto di una serie di contributi, attraverso i quali esplorare in un’ottica rinnovata l’esigenza antica di essere agenti sociali dinamici, attivi e propositivi. Come definire la prosocialità Il termine prosocialità è piuttosto recente; è stato coniato infatti all’inizio degli anni ’70 come opposto alla parola antisocialità. Non si tratta però semplicemente della sostituzione di un vocabolo con un suo contrario ma di una scelta mirata, che esprime il cambiamento di approccio al problema dell’antisocialità nei giovani. Intorno a questo tema si sono sviluppate, a partire dagli anni ’50, numerosi studi finalizzati a prevenire i comportamenti antisociali; l’attenzione per la prosocialità, vista come forma di alfabetizzazione alla vita sociale, sposta invece l’interesse della ricerca educativa verso la promozione e lo sviluppo di atteggiamenti e condotte prosociali, per la cui acquisizione a partire dagli anni ’80 si è iniziato a elaborare un modello teorico di insegnamento (Tapia, 2006). Alla formulazione della definizione attualmente accettata di prosocialità si è giunti attraverso i passaggi che hanno accompagnato l’evoluzione degli studi con i quali si è inteso dare una risposta scientifica a domande sulla relazionalità e la reciprocità sociale, che da sempre interrogano la speculazione filosofica e la riflessione morale. In una prima definizione il termine prosocialità è riferito a quelle azioni che tendono a recare beneficio ad altre persone, senza che chi le compie preveda di ricevere in cambio una ricompensa (cfr. Mussen - Eisemberg-Berg, 1985). Ricerche più recenti hanno portato all’elaborazione di una definizione di maggiore
ampiezza, che sottolinea due caratteristiche fondamentali dell’azione prosociale, ovvero la complessità e la multirelazionalità circolare. Parlare di prosocialità al singolare, infatti, non fa emergere immediatamente la molteplicità di repertori di competenze che rientrano nella globalità di questo concetto (come vedremo in un successivo contributo). La competenza prosociale, inoltre, è multirelazionale, in quanto non è circoscrivibile a un solo ambiente di vita, per esempio la scuola, la famiglia, il lavoro, ma si esplica in ogni contesto in cui una persona è inserita, sia pure attraverso forme, mezzi e tempi diversi. Questa modalità relazionale, inoltre, non si svolge secondo un percorso lineare, che va da chi compie l’azione a coloro che la ricevono, indipendentemente dalla loro numerosità, ma è circolare; interessa infatti tutti gli interlocutori, singoli o gruppi o anche ambienti, che sono coinvolti nella relazione. Nella seconda formulazione la prosocialità è quindi descritta come l’insieme di «quei comportamenti che, senza la ricerca di ricompense esterne, favoriscono altre persone, gruppi o fini sociali e aumentano la probabilità di generare una reciprocità positiva di qualità e solidale nelle relazioni interpersonali o sociali conseguenti, salvaguardando l’identità, la creatività e l’iniziativa degli individui o dei gruppi implicati» (Roche-Olivar, 1997, p. 16). Una prospettiva ulteriore viene aperta da Salfi e Barbara (1990-91) con l’introduzione nella definizione di Roche del termine consapevolezza in riferimento alla ricerca di ricompense esterne da parte di chi emette l’azione prosociale. Anche se chi agisce in favore di altri lo fa senza aspettare alcuna ricompensa, questo atto può essere considerato come intrinsecamente rinforzante. Le ricerche hanno infatti dimostrato un aumento di emozioni positive in coloro che si prendono cura di altri attraverso servizi di volontariato (De Beni, 1998).
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Qualche chiarimento terminologico I concetti inclusi nelle definizioni enunciate non sono certo nuovi, anzi sono universalmente diffusi; questo può indurre qualche confusione a livello terminologico, con il rischio di usare come sinonimi parole che hanno invece significati molto specifici e che indicano delle componenti della prosocialità, come la collaborazione, o cooperazione, e l’altruismo. La collaborazione di per sé presuppone un interscambio basato su una contrattualità, implicita o esplicita, per la quale al dare corrisponde un ricevere concordato tra le parti in causa e nella quale si ha una puntuale distribuzione dei costi e dei benefici. Il termine altruismo è stato coniato da Comte, padre della sociologia e del positivismo, per indicare la disposizione a interessarsi agli altri e al loro bene, anche se ciò comporta il sacrificio di sé. L’altruista è quindi colui che disinteressatamente pone il bene altrui come fine delle proprie azioni; queste si attivano per una spinta impulsiva e istintiva, che emerge indipendentemente dal perseguimento di scopi egoistici ed è sostenuta da emozioni e sentimenti empatici (Hoffman, 2008). L’altruismo sembra quindi seguire prevalentemente un andamento unidirezionale, che va da chi compie l’azione altruistica a chi la riceve; non ha quindi quel carattere di reciprocità e socialità che caratterizza la condotta prosociale, nella quale le iniziative intraprese seguono una direzione circolare, che interessa entrambi gli interlocutori, coinvolti in un movimento relazionale e sistemico specifico. Anche la solidarietà, definita come «la capacità degli individui di fuoriuscire dal proprio spazio personale, di riconoscere i diritti degli altri e di essere disposti ad agire per difenderli e promuoverli» (O’Shea, 2003, p. 23), è una componente della prosocialità ma non il tratto con cui può essere completamente identificata. La partecipazione solidale è anche un trasporto emotivo, una risposta empatica verso il vissuto dell’altro, che si attiva anche in assenza di una richiesta specifica di intervento.
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Alla solidarietà, come all’altruismo, manca quella componente valutativa dell’azione che si vuole intraprendere a favore di un’altra persona, componente della quale si parlerà nel prossimo paragrafo. Per comprendere come i concetti appena trattati, sia pure sinteticamente, partecipano all’azione prosociale è opportuno soffermarsi sulle modalità con cui questa si costruisce. Come si struttura l’azione prosociale Alla costruzione di un’azione prosociale concorrono molteplici fattori, che agiscono in modi diversi. Alcuni di questi sono non manipolabili, in quanto non possono essere fatti oggetto di un intervento specifico, come l’età o l’ordine di nascita; altri fattori sono invece non influenti, perché non hanno alcun effetto sull’azione prosociale. Sono invece influenti i fattori situazionali, legati al contesto, e i fattori componenti; tra questi vi sono la pluralità degli interlocutori coinvolti, l’intervento di terzi, la diversità specifica dei riceventi, l’intervento di comportamenti non prosociali nella sequenza dell’azione che ne possono modificare gli esiti in modo anche radicale. In ogni caso perché un’interazione di tipo prosociale si strutturi è necessaria la presenza di almeno due fattori imprescindibili, ossia l’emittente e il ricevente, che tuttavia non definiscono da soli questa tipologia di comportamento. L’emittente L’avvio all’azione è dato da un emittente, ovvero una persona che sviluppa la propria condotta prosociale attraverso una serie di passaggi, che coinvolgono le sue capacità affettive, cognitive e strategiche. Perché l’azione abbia inizio e possa proseguire è necessario infatti che l’emittente sia in grado di: • percepire lo stato di necessità di un altro; • interpretare questa necessità nel modo corretto per non rischiare interventi impropri, che potrebbero avere effetti opposti a quelli desiderati;
• riconoscere che è per lui possibile aiutare quella persona. Essere seriamente intenzionati a portare aiuto e aver riconosciuto l’esistenza di una situazione che richiede tale intervento non fornisce automaticamente quel bagaglio di conoscenze e competenze necessarie a fronteggiare il caso. Occorre pertanto che l’emittente valuti attentamente se possiede, o possiede in misura sufficiente, la competenza richiesta dalla situazione specifica. Facciamo un esempio molto semplice: essere un buon nuotare senza possedere appropriate tecniche di salvataggio in acqua comporta una buona dose di rischio per chi si tuffa per soccorre una persona in difficoltà. L’azione potrebbe quindi non avere il requisito essenziale dell’adeguatezza, caratteristica che costituisce il discrimine tra un altruismo cieco e un’azione intelligente mirata alla promozione di una valida reciprocità. L’attuazione di un comportamento prosociale implica quindi il calcolo del costo personale o del rischio che questo potrà comportare, nonché la previsione delle conseguenze che potrebbe avere. E’ molto importante che l’agente sia in grado di valutare l’onere richiesto dall’azione che si prepara a compiere, per evitare fenomeni di rinuncia, oppure situazioni di conflitto interno, di frustrazione o di percezione si sé come persona di scarso valore. L’uso del termine “calcolo” riferito a un fare in risposta a un bisogno o a una difficoltà assume una connotazione decisamente negativa e in un discorso sulla prosocialità potrebbe apparire come una fastidiosa stonatura. Per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti è forse opportuno precisare che in questo contesto il calcolare è riferito solo al rapporto costi/ benefici derivabili dall’azione, e non va confuso con il calcolo basato sul rapporto dare/ avere, come avviene nella collaborazione. Si riferisce invece alla scelta ragionata di cosa fare e alla consapevolezza delle conseguenze
che possono derivare della condotta prevista; questo spiega la disponibilità di un emittente ad accettare sforzi o costi particolarmente onerosi, come avviene in quelle persone che fanno scelte di vita particolarmente radicali in favore di altri. Qualora l’emittente ritenga di possedere le competenze necessarie, decida di accettare il costo previsto e pensi che le conseguenze prevedibili siano congruenti alle attese, può procedere e attuare l’azione, della quale dovrà valutare gli effetti per una eventuale modificazione del proprio modo di operare. La componente della valutazione è quindi l’elemento distintivo tra prosocialità e altruismo, perché il processo di scelta consapevole non è possibile se la percezione dello stato di bisogno è rimasta ferma ad un livello empatico e non ha avuto luogo la trasformazione cognitiva della situazione riconosciuta come problematica in un’altra, che rappresenta l’obiettivo dell’azione prosociale. Il ricevente L’emittente indirizza il suo agire verso un ricevente che ne trae beneficio. Il conseguimento di questo risultato non è però automatico; perché sia raggiunto l’atto previsto o compiuto deve possedere le caratteristiche idonee alla realizzazione dell’obiettivo, cioè alla riduzione dello stato di bisogno dell’altro. Prima di proseguire è bene precisare che il ricevente, o destinatario, non è necessariamente una persona ma può essere rappresentato da un gruppo oppure da un’istituzione, formale o non formale, ma in ogni caso sempre da un “soggetto” sociale identificabile come tale. L’attivazione e il compimento di una condotta tesa a favorire qualcuno dipendono dall’ambiente, dai valori e dalle norme sociali che gli sono propri, nonché dalla situazione in cui questa ha luogo. Vi sono infatti fattori capaci di favorire o di inibire l’azione prosociale, che possono essere identificati nei seguenti elementi:
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• l’ambiente, definito dall’insieme delle condizioni esterne, fisiche e psicologiche, che agiscono sulle modalità di azione degli interessati (ambiente); • la situazione, determinata dalle condizioni interne dell’agente, e dallo stato del potenziale beneficiario; • i principi soggettivi e intersoggettivi che regolano l’agire individuale. Bisogna inoltre considerare la ricaduta che l’azione ha sui partecipanti e l’effetto gratificante che una reciprocità positiva produce. Variabili ulteriori La presenza delle variabili descritte non è sufficiente da sola a definire l’azione prosociale, la cui valutazione implica il concorso di altre dimensioni, rappresentate dal grado di beneficio del ricevente, dal grado di necessità del ricevente, dal grado di sforzo richiesto all’emittente, dal grado di chiarezza dello stimolo che sollecita l’azione prosociale e dal grado di chiarezza per l’emittente su cosa deve fare e se ciò è ritenuto utile dal ricevente. Occorre inoltre considerare l’incidenza di altri fattori, quali: • l’influenza delle caratteristiche del ricevente sull’agente. Questo dipende dalla prossimità allo stimolo che provoca l’azione, dal tempo di esposizione ad esso, dalla difficoltà di fuggire dalla situazione ecc.; • la reazione dell’ambiente circostante, caratterizzato da un sistema di sanzioni, che determina l’accettazione o meno della risposta adeguata; • la responsabilità attribuibile ad una persona che si trova di fronte ad altri individui presenti nella situazione. Tale attribuzione può basarsi sull’essere testimone unico o privilegiato, oppure sul possesso delle capacità più adeguate;
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• la relazione preesistente tra l’emittente e il ricevente che può, talvolta, incidere sul grado di rischio che l’emittente è disposto ad accettare; • l’efficienza dell’esperienza precedente dell’agente, che può costituire un elemento ulteriormente favorente; • l’emozione del momento, cioè lo stato d’animo che, se positivo, aumenta le probabilità di emissione della condotta prosociale. Prosocialità attiva e prosocialità passiva Nell’interazione di tipo prosociale si può operare una distinzione tra due diverse forme, la prosocialità attiva e la prosocialità passiva, che assolvono a funzioni diverse. Per le condotte prosociali attive queste sono la condivisione, la collaboratività e l’aiuto. Anche in questo caso è opportuno chiarire i termini, poiché il linguaggio quotidiano li utilizza in modo piuttosto indifferenziato. La condivisione si concretizza attraverso la donazione di proprietà personali; la collaboratività, invece, tende al raggiungimento di un obiettivo comune. Entrambe le funzioni non presentano articolazioni, come invece avviene per l’aiuto, che è una macroentità nella quale si distinguono cinque aspetti. L’aiuto infatti può essere dato attraverso un’assistenza fisica, che non necessariamente comporta la modalità verbale e si caratterizza per la partecipazione del ricevente. Questi invece non è coinvolto nel caso di servizio fisico, che implica la sua completa sostituzione da parte dell’agente. L’aiuto può anche consistere in un’assistenza verbale, attraverso la quale il ricevente trova indicazioni utili alla soluzione di un problema. E’ una condotta prosociale di aiuto anche il supporto verbale, che si manifesta in espressioni di interesse, di partecipazione, di incoraggiamento per l’altro, tese ad alleviare un suo stato di tensione o comunque di disagio. Quando l’interazione si fonda su canali quali la mimica facciale, la gestualità e l’atteggiamento posturale, ovvero su quelle modalità comunicative attraverso le quali
l’emittente trasmette al ricevente la disponibilità nei suoi riguardi, in modo intenzionale o inconsapevole, si ha un aiuto metaverbale. La prosocialità attiva, quindi, si caratterizza per l’intervento diretto dell’emittente; nella prosocialità passiva invece l’emittente opera una scelta tra le varie opzioni possibili, decidendo poi di assumere una disposizione non aggressiva o una disposizione non egocentrica. Nel primo caso l’emittente evita di compiere un’azione che, pur essendo legittima, avrebbe una ricaduta negativa sul ricevente o comprometterebbe la relazione tra le due persone coinvolte; oppure opta per un’altra possibilità, che consiste nell’aspettare che la necessità di quell’azione si estingua. Nella disposizione non egocentrica l’emittente che si trova in una situazione interpersonale di conflitto decide che per realizzare un incremento della qualità della relazione è opportuno rinunciare temporaneamente ad affermare il proprio punto di vista o l’obiettivo che si ritiene più adeguato. Si tratta evidentemente di competenze piuttosto raffinate la cui acquisizione è resa più difficoltosa in ambienti in cui è invece valorizzata la risposta istintiva e competitiva a scapito della capacità empatica. L’empatia ha infatti un ruolo centrale per lo sviluppo e l’attuazione di comportamenti prosociali. È la molla che fa scattare, motivandolo, il comportamento di sostegno e/o di aiuto. I prerequisiti all’azione prosociale L’empatia è quindi, insieme all’ascolto attivo e all’assertività un prerequisito indispensabile all’azione prosociale. Come è noto, l’empatia consiste nella capacità di cogliere il punto di vista degli altri e di dare risposte emotive comuni, provando gli stessi sentimenti esperiti da un’altra persona. Dall’empatia nasce la simpatia ma i due termini, pur non essendo dicotomici, rispondono a concetti e azioni diverse; infatti, mentre nell’empatia l’emozione con cui si risponde è la stessa, nella simpatia non è identica ma è congruente con quella ricevuta.
Nell’affrontare questa possibile dicotomia Staub e Feinberg hanno formulato i concetti di empatia parallela e di empatia reattiva, specificando che «la prima si manifesta quando si prova la stessa emozione di un altro individuo; la seconda quando gli si risponde “simpateticamente”» (Marta - Scabini, 2003). Tuttavia anche sulla definizione di empatia, benché vi sia sostanziale accordo tra gli studiosi non vi è totale univocità; si riscontrano delle differenze quando ci si interroga sul fatto che l’essere prosociali sia originato da “natura” o cultura”, domanda antica in risposta alla quale si può pensare che entrambe le variabili giochino un ruolo. Si sono perciò sviluppati i concetti di empatia di tratto ed empatia di stato: «la prima indica una disposizione personale, stabile nel tempo e indipendente dal contesto, la seconda invece è transitoria, si mostra solo in alcuni contesti o situazioni contingenti» (Marta - Scabini, 2003). Gli studi psicologici e pedagogici hanno comunque mostrato che si tratta di una competenza, o meglio di un repertorio di competenze, educabile che, pur essendo presente nei bambini in età precoce, si affina con lo strutturarsi della coscienza di sé ed è formata da due costituenti fondamentali: la componente cognitiva e quella affettiva. Attraverso il dominio cognitivo gli stati emotivi altrui vengono riconosciuti e classificati, mentre l’affettività rende un soggetto capace di avere risposte emotive (Mussen et all., 1986). La capacità di cogliere il punto di vista degli altri aumenta per effetto dello sviluppo delle abilità cognitive e delle esperienze sociali ed è una delle caratteristiche fondamentali nel determinare un adattamento sociale positivo. Studi ormai classici hanno dimostrato come l’incapacità di porsi dal punto di vista degli altri caratterizzi persone con comportamenti disadattati (Tausch, 1979). L’empatia è legata all’ascolto attivo da un meccanismo di reciprocità inscindibile. Nell’ascolto attivo, infatti, non ci si sintonizza
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solo sui contenuti trasmessi dalle parole ma si osserva per cogliere i messaggi veicolati dai canali paraverbali e non verbali dell’interazione sociale. Ci si pone inoltre in “ascolto” anche del contesto in cui la persona vive, perché questo informa sugli schemi di riferimento culturali, sui valori, sugli atteggiamenti, sulle convinzioni che appartengono o possono appartenere all’interlocutore. Tuttavia l’ascolto attivo non ha solo una direzione esterna; infatti si ascolta anche la risonanza interna che un fatto o una situazione provoca, per distinguere ciò che appartiene all’altro e ciò che appartiene a se stessi, ovvero ciò che l’altro ha suscitato in noi, pervenendo così alla consapevolezza delle emozioni. La capacità di differenziare il proprio stato emotivo da quello di un altro permette lo sviluppo di sentimenti di compassione e compartecipazione emotiva, che sollecitano tentativi di aiuto adatti
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a sollevare l’altro dallo stato di bisogno. Un terzo prerequisito alla competenza prosociale, strettamente connesso ai due precedenti, è l’assertività, o affermatività, che può essere definita come «la capacità di esprimere, di affermare o di sostenere le proprie esigenze nel contesto ambientale, riuscendo a conseguire obiettivi individuali senza danno per i rapporti interpersonali» (Tomassucci Fontana, 1997, p. 57). La persona capace di assertività si distingue per alcune prerogative, come l’essere attenta a sé e agli altri, dei quali però non subisce il condizionamento; inoltre possiede una capacità comunicativa agita senza riserve mentali o paure e instaura interazioni con altre persone usando metodi motivanti e gratificanti. Una simile competenza nello scambio con il proprio ambiente sociale richiede il possesso di una positiva immagine di sé, il cui sviluppo è fortemente correlato ad un buon
adattamento sociale. Si può quindi affermare che l’assertività è determinata, oltre che da un patrimonio personale di buone abilità sociali, anche da una adeguata immagine di sé. Da questa scaturiscono importanti variabili psicologiche, come la motivazione, il concetto di sé, l’autostima e lo stile attributivo. Queste variabili e i fattori educativi che concorrono alla competenza prosociale saranno l’argomento del prossimo articolo. Conclusioni È evidente che parlare di abilià prosociali è piuttosto impegnativo e richiede lo sforzo di uscire da facili interpretazioni dettate dal senso comune per entrare nel campo di uno studio scientifico, capace di indagare la multicomponenzialità delle condotte e il reticolo di fattori che le favoriscono o le ostacolano, le sollecitano o le inibiscono. Le abilità prosociali, pur essendo parte del curricolo implicito di ciascuno, non fanno parte della nostra dotazione genetica. Sono invece il risultato di una serie articolata di acquisizioni, che si realizzano nell’interazione con l’ambiente di vita ma anche nel confronto con se stessi. È in questo dinamismo relazionale che una persona costruisce la propria identità; è pertanto «impossibile sviluppare l’identità prima e la pro socialità dopo […] L’epigenesi dell’identità è allo stesso tempo l’epigenesi della pro socialità e l’educazione alla prosocialià è educazione all’identità» (Lencz, 1997, p. 64). Da questa definizione può emergere un’altra caratteristica della prosocialità, cioè la sua diffusività sulla persona globale, che non acquisisce solo comportamento da utilizzare ad hoc ma internalizza uno stile prosociale, trasversale sia alle età della vita sia ai diversi ambiti in cui la persona stessa si trova ad agire nel corso della sua storia. Riferimenti Bibliografici: CAPRARA G.V., BONINO S., Il comportamento prosociale. Aspetti individuali, familiari e sociali, Trento, Erickson, 2006;
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IMPRESA DI COSTRUZIONI
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Arginare i mille rivoli del lavoro nero
di Gianfranco Zucca L’iniziativa di Immigration Flows di dedicare il mese di maggio a contributi sull’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro cade in un momento nel quale c’è una singolare attenzione istituzionale ad un tema che condiziona in modo pesante la qualità dell’occupazione straniera. Il lavoro “nero” continua ad essere uno dei tratti peculiari del sistema produttivo italiano, un fattore economico che con la rapida evoluzione del fenomeno migratorio tende ad avere sempre più peso. Nel mese di aprile 2010 su questo argomento si sono pronunciati, a breve distanza l’uno dall’altro, sia il Presidente dell’Istat Enrico Giovannini, in una audizione all’XI Commissione permanente “Lavoro pubblico e privato” della Camera dei Deputati1; sia il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maurizio Sacconi con una relazione alla stessa commissione tenuta due settimane dopo2, nella quale oltre a riprendere le stime dell’Istituto nazionale di statistica si presentavano i primi risultati della nuova strategia di contrasto centrata su un’attività ispettiva collaborativa e di qualità. Nel settembre 2008, quando la cosiddetta Direttiva Sacconi formalizzò il cambio di rotta furono numerose le polemiche3. In particolare le parti
sociali lanciarono l’allarme che, con la crisi economica incipiente, allentare i vincoli delle ispezioni in azienda sarebbe stato rischioso. D’altronde, all’epoca, con il Governo insediatosi da appena qualche mese, si voleva segnare una discontinuità con l’azione del precedente esecutivo, accusato di essere “nemico delle imprese”: “[…] Si richiama la centralità di una visione delle attività di vigilanza attenta alla qualità ed efficacia della azione ispettiva. Azione che deve essere cioè diretta essenzialmente a prevenire gli abusi e a sanzionare i fenomeni di irregolarità sostanziale abbandonando, per contro, ogni residua impostazione di carattere puramente formale e burocratico, che intralcia inutilmente l’efficienza del sistema produttivo senza portare alcun minimo contributo concreto alla tutela della persona che lavora”4. Senza prendere posizione rispetto ad una tesi che avrebbe meritato un confronto più ampio di quanto sia stato (“i controlli sono d’intralcio all’efficienza del sistema produttivo”), in questo intervento intendo evidenziare come una strategia di contrasto per così dire light non intacchi alcuni dei fenomeni distorsivi, per usare il lessico ministeriale, che coinvolgono gli immigrati irregolari; anzi, un’attenta considerazione dei dati disponibili porta a concludere che tale inversione di tendenza è andata a scapito dei soggetti più vulnerabili e ricattabili. Occorre però andare con ordine. La complessa metodologia di stima con la quale l’Istat ricostruisce il peso dell’occupazione irregolare permette di individuare con sufficiente precisione la quota di lavoratori stranieri clandestini, come li chiama in modo un po’ disattento l’Istat5. Comunque sia gli stranieri clandestini rappresentano la componente più ridotta del lavoro non regolare e sono valutati in circa 377 mila unità di lavoro nel 2009. Tuttavia se si considera il trend 2001-2008 (fig. 1) si nota che all’indomani della sanatoria del 2002 si è rimesso in moto quel processo di accumulo del lavoro non regolare che presumibilmente nel giro di qualche anno creerà le condizioni per una nuova regolarizzazione.
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Fig. 1 - Unità di lavoro non regolari: stranieri non residenti (2001 - 2008 - in migliaia)
Fonte: elaborazione di Immigration Flows su dati Istat 2010
Un altro dato da considerare con attenzione riguarda la disoccupazione degli immigrati: nell’ultimo trimestre dello scorso anno oltre un quarto dell’aumento su base annua dei disoccupati (369mila unità) è ascrivibile agli stranieri, facendo arrivare il tasso di disoccupazione dei lavoratori non italiani al 12,6%. Infine aumenta la quota di inattivi che nella popolazione straniera di 15-64 nel 2009 sono cresciuti del 12,6%. L’ultimo anno ha quindi segnato la prima inversione di tendenza nel mercato del lavoro italiano, dopo anni che l’occupazione straniera trainava la crescita di posti di lavoro (che si badi non equivalgono a crescita economica). Quindi? Il timore, peraltro condiviso anche dall’Istat, è che questi lavoratori siano risucchiati nel lavoro nero e, a stretto giro, anche nell’irregolarità di soggiorno, originando così la singolare figura del “clandestino di ritorno”. A questi fenomeni di contrazione occupazionale occorre aggiungere che la distribuzione dell’occupazione immigrata appare ancora più sbilanciata di quella nazionale a favore delle imprese di piccolissima dimensione: oltre la metà dei dipendenti stranieri (il 51,5%) è occupata in una micro-impresa (meno di 10 addetti), e la
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quasi totalità di essi (l’82%) lavora in un’impresa con meno di cinquanta addetti6. Una prima conseguenza delle modalità di inserimento degli immigrati nel sistema produttivo italiano è che pochi hanno avuto accesso agli ammortizzatori sociali, rinforzando così l’ipotesi di un travaso dal lavoro regolare a quello irregolare. Più in generale, la rilevanza che assumono le piccole imprese nel tessuto produttivo, associata al persistere di forti divari territoriali e al peso economico dei settori labour intensive sono alcuni degli aspetti che lasciano presagire una crescita del dualismo tra occupazione regolare e non regolare. È poi evidente che in un periodo di crisi economica le imprese (piccole e grandi) tenderanno a fare economia sulla fascia bassa della forza lavoro, spesso composta da immigrati, usando magari la pratica del licenziamento e della riassunzione in nero. È questo lo sfondo rispetto al quale leggere i dati presentati di recente dal MLPS sull’attività ispettiva nel bienni 2008-2009 (tab. 1). L’anno scorso, le aziende ispezionate diminuiscono del 3,6%, così come quelle nelle quali è stata riscontrata una irregolarità (-11,4%); cresce invece del 2,8% il numero di lavoratori irregolari, raggiungendo quota 316mila; mentre sono stati 124mila i lavoratori che operavano totalmente in nero.
Tab. 1: Confronto risultati attività ispettiva 2008/2009
Fonte: riproduzione parziale da MLPS (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), Indagine conoscitiva della XI commissione Lavoro della Camera dei Deputati su “Taluni fenomeni distorsivi del mercato del lavoro: lavoro nero, caporalato e sfruttamento della manodopera straniera”, Roma, 29 Aprile 2010, p. 11.
Dal punto di vista numerico quindi l’anno passato c’è stato un rallentamento dell’attività ispettiva. È pur vero che la strategia della “qualità dell’azione ispettiva” ha prodotto una netta diminuzione (23%) delle violazioni formali (amministrative e burocratiche), mentre si sono incrementate le violazioni sostanziali7. Tuttavia viene da chiedersi se in un periodo economico come quello attuale non sia il caso di abbinare alla “qualità” anche un po’ di “quantità”. Se è vero che il progetto sperimentale che prevede l’incrocio di dati amministrativi, camerali e contabili per individuare a monte le aziende più a rischio non riguarderà le micro-imprese8, che cosa accadrà nelle infinite catene di sub-appalto dell’edilizia? Nelle aziende artigiane a conduzione quasi-familiare? Nelle ditte individuali o poco più che un giorno assumono e l’altro licenziano? In agricoltura e nel micro-cosmo della trasformazione alimentare?
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In una delle parti finali, del bellissimo reportage di Alessandro Leogrande sui nuovi schiavi del bracciantato pugliese, si racconta una giornata sulle tracce del lavoro nero nelle campagne. Accompagnato da carabinieri e sindacalisti Leogrande batte a tappeto i campi tra Lucera, Ortanova e Cerignola, luoghi dove si conta un casolare diroccato ogni dieci chilometri e per il resto solo campi di “oro rosso”; luoghi nei quali, in estate, la popolazione immigrata si moltiplica e dove la mancanza di regole sul lavoro si può trasformare in un abisso di abiezione. Il tavoliere delle Puglie sembra impossibile da controllare: troppe strade e nascondigli, troppa complicità e silenzio; tuttavia: “per quanto sia vasto il territorio, il pomodoro si raccoglie sotto la luce del sole, in campi individuabili. Si tratta solo di macinare molti chilometri sulle mille strade della provincia, soprattutto quelle battute di rado”9. Macinare chilometri, quindi, dall’alba al tramonto, a piedi o in macchina, con la pioggia o con il sole. Tutto per cercare di arginare i mille rivoli del lavoro nero. Note: 1 Cfr. ISTAT, Indagine conoscitiva su taluni fenomeni distorsivi del mercato del lavoro (lavoro nero, caporalato e sfruttamento della manodopera straniera), Audizione del Presidente dell’Istat Enrico Giovannini all’XI Commissione permanente “Lavoro pubblico e privato” della Camera dei Deputati, Roma, 15 aprile 2010 (www.istat.it/istat/audizioni/150410/Audizione. pdf) 2 MLPS (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), Indagine conoscitiva della XI commissione Lavoro della Camera dei Deputati su “Taluni fenomeni distorsivi del mercato del lavoro: lavoro nero, caporalato e sfruttamento della manodopera straniera”, Roma, 29 Aprile 2010 (www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/94F89A44-3BC7412E-8670-8FC6C5554CA9/0/RELAZIONE_LAVORO_NERO_DEF.pdf). 3 Cfr. MLPS (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), Servizi ispettivi e attività di vigilanza. Diret-
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tiva del Ministro, Roma, 18 settembre 2008 (www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/8FD70F8B-B94C4554-8776-DDB084652466/0/20080918_Dir.pdf) 4 Tra le diverse innovazioni previste dalla direttiva c’era anche la possibilità di ispezioni in azienda solo dopo un tentativo di conciliazione tra lavoratore e datore di lavoro e la non ricevibilità delle denunce anonime. 5 La definizione operativa di questa dimensione è più politicamente corretta: “stranieri non regolari e non residenti che, in quanto tali, non sono visibili al fisco e sono esclusi dal campo di osservazione delle indagini presso le famiglie” cfr. ISTAT 2010, cit., p. 7 6 Cfr. Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), Gli immigrati nel mercato del lavoro italiano, indagine realizzata dal Creli (Centro per le Ricerche di Economia del Lavoro e dell’Industria), Università Cattolica di Milano, Roma, 18 novembre 2008, p. 27 (www.portalecnel.it/portale/documenti.nsf/0/71E06B D56E977D5FC125767400354733/$FILE/Rapporto_ Immigrati_Nov-2008.pdf). 7 Si veda l’elenco riportato nel documento ministeriale più volte citato alle pp. 10 e 11. 8 Il Ministero del lavoro ha avviato, nel corso del 2009, un progetto pilota in sette province (Milano, Genova, Pistoia, Macerata, Terni, Reggio Calabria, Roma) dove si sono incrociati i dati di bilancio delle realtà economiche con fatturato superiore a 200.000 euro, le comunicazioni reventive obbligatorie della procedura Unilav, i precedenti ispettivi in possesso dell’INPS e quelli in possesso delle Direzioni provinciali del lavoro. 9 Cfr. Alessandro Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Milano, Mondadori, 2008, p. 236.
Chi ha paura dello Straniero?
di Elisa Colombini Michael Moore, in Fahrenheit 9/11, riprende la nota riflessione di George Orwell esposta in “1984”1 per mostrare come le politiche che diffondono insicurezza e paura siano uno strumento nelle mani del potere organizzato per legittimarsi e legittimare la propria azione e distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da temi più pressanti e scomodi. In altre parole, attraverso le politiche della paura e dell’insicurezza, le istituzioni di potere hanno la possibilità di rendere legittimo un maggiore controllo sociale. Condivide lo stesso pensiero anche il sociologo nordamericano Barry Glassner secondo il quale la “cultura della paura” serve a tutelare, negli Stati Uniti, i privilegi delle élite politiche, economiche, culturali e militari al potere. Di riflesso i veri disagi sociali (povertà, disoccupazione, marginalità culturale) rimarrebbero occultati, mentre i dati sui pericoli, spesso ‘irreali’, verrebbero ingranditi per seminare paura e imporre ubbidienza. Vari sono gli esempi che potremmo citare, a livello europeo, circa l’utilizzo della politica della diffidenza nei confronti dell’immigrato. Non ultime, infatti, la proposta di esponenti tedeschi di Cdu e Csu che prevede un test d’intelligenza come requisito d’ingresso per gli immigrati; il provvedimento proposto da Sarkozy in base al quale potrà essere ritirata la cittadinanza francese a chi, di origine straniera, commettesse reati ed infine i noti prov-
vedimenti amministrativi emessi da alcuni comuni lombardi guidati dalla Lega Nord a danno dei cittadini immigrati e dati a conoscere grazie ad un programma televisivo, ritenuti sia dal Tar che dai Tribunali competenti, illegittimi e discriminatori. Spesso gli immigrati rappresentano un facile capro espiatorio. E serve poco opporre qualche argomento razionale per cercare di delimitare questo senso comune ormai diffuso a livello nazionale, come affermare che quest’orda è composta in realtà da una maggioranza di lavoratori stranieri di cui tutti, ormai, dovrebbero riconoscere l’insostituibilità per lo sviluppo dell’intero paese; o ancora che, dati alla mano del Ministero dell’Interno, non è vero che i cittadini stranieri regolari delinquono più dei cittadini italiani. L’idea che l’immigrazione sia la causa principale delle minacce alla sicurezza dei cittadini è ormai da tempo conosciuta. Quello che dovrebbe metterci in allerta è però l’impatto che questa campagna mediatica contro gli immigrati, clandestini o regolari che siano, ha sulla cittadinanza. Pare, quindi, che per la classe dirigente l’importante sia instaurare una politica della sfiducia, una giustapposizione generalizzante noi/ loro che quando viene promossa dalle strategie della paura e dell’insicurezza produce effetti tristemente noti quali intolleranza, pregiudizio e forme inconsapevoli di razzismo e che spingono la popolazione a sentirsi legittimata ad intraprendere la sua personale “crociata” contro gli usurpatori, gli invasori e gli intrusi. Questo atteggiamento é stato rilevato anche dall’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu, Navi Pillay, che lo scorso ottobre ha ricordato all’Italia che “è responsabilità delle pubbliche autorità far sì che gli immigrati non siano attaccati e vilipesi”. In particolare, la dirigente sudafricana nel corso di un’audizione alla Commissione Diritti Umani al Senato, ha sottolineato come i diritti umani “ne risentono” quando vengono impiegati i militari a pattugliare le città o vengono istituite le ronde.
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Navi Pillay ha anche invitato i politici ad assicurarsi che i “migranti non siano discriminati, denigrati e attaccati”. E i mezzi di comunicazione che ruolo giocano nella creazione di sentimenti di accettazione o di insicurezza nei confronti degli immigrati? Una ricerca condotta da Cospe2 (Cooperazione e Sviluppo Paesi Emergenti) sembra rispondere a questa domanda ed al contempo ci offre qualche spunto per comprendere la dimensione del fenomeno della discriminazione. Per un periodo di poco più di un mese sono state monitorate le notizie relative a episodi di discriminazione comparse su varie testate nazionali e locali, diversi siti web ed agenzie stampa. Un dato che colpisce è che in 11 casi su 48 a discriminare gli immigrati sono le istituzioni, cioè amministrazioni comunali che attraverso circolari e disposizioni ad hoc attuano la negazione di alcuni diritti, come la residenza e di benefici, come il bonus bebè. Lo studio ha anche preso in esame il linguaggio utilizzato per descrivere gli episodi. Da qui si è notata una tendenza ad enfatizzare il grado di integrazione, la nazionalità e la provenienza delle vittime di origine straniera, mentre le stesse scelte terminologiche solo in un 8% dei casi analizzati riguardano l’aggressore italiano. E l’opinione pubblica come risponde a queste informazioni? Qual è la sensazione che percepisce rispetto a questa tematica? Il secondo rapporto “Transatlantic Trends: Immigration 2009”, nato da un progetto congiunto del German Marshall Fund of the United States (GMF), della Lynde and Harry Bradley Foundation (USA), della Compagnia di San Paolo e del Barrow Cadbury Trust (UK), che analizza la percezione del fenomeno “immigrazione” tra i cittadini di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna, mette in luce la loro percezione incoerente, distorta e disinformata e ne evidenzia la “paura” dello straniero irregolare. Il sentimento d’allarmismo pare abbia avuto effetto. L’81% si dice preoccupato dell’im-
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migrazione clandestina e alla domanda se con la clandestinità aumenti anche la criminalità, il 77% risponde di sì, raggiungendo grazie a queste due risposte, le percentuali più alte tra quelle registrate nei Paesi coinvolti nella ricerca. Prevale quindi un senso d’insicurezza e di paura. Ma nonostante i respingimenti, la norme sulla delazione, il rafforzamento dei Centri di Permanenza Temporanea e, da ultimo, l’istituzione del reato d’immigrazione clandestina, oltre il 53% degli italiani considera insufficienti le politiche sull’immigrazione mentre appena il 43% le giudica “sufficienti” o “buone”3. E a Phoenix, Arizona, sede di violenti scontri per la legge anti-clandestini, Susan Lancaster afferma “Glielo assicuro, non sono razzista. Non ce l’ho con nessuno. Dico solo che non possiamo continuare a lasciare le nostre frontiere aperte. Al giorno d’oggi nel mondo c’é troppa gente che odia gli Stati Uniti. O ci dimentichiamo che gli attacchi contro le torri gemelle sono stati fatti dagli immigrati?”4.
Note: 1 “In accordance with the principles of double-think it does not matter if the war is not real. For when it is, victory is not possible. The war is not meant to be won, but it is meant to be continuous”. 2 Analisi monitoraggio Cospe. www.naga.it/index.php/ monitoraggio.html. 2 Transatlantic Trends. www.gmfus.org/trends/. 4 “No puede seguir abierta la frontera”, 1 agosto 2010, www.lanacion.com.ar/nota.asp?nota_id=1290275)
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