Zanna Bianca

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Allegato omaggio a Tempo d’estate Non vendibile separatamente 4a
London
Zanna Bianca Jack

IL MULINO A VENTO IL MULINO A VENTO

Per volare con la fantasia

IL MULINO A VENTO

Collana di narrativa per ragazzi

A VENTO

Editor: Paola Valente

Coordinamento di redazione: Emanuele Ramini

Team grafico: Enzo Bocchini

© 2019

Raffaello Libri S.p.A.

Via dell’Industria, 21 60037 - Monte San Vito (AN)

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Printed in Italy

I Edizione 2019

Ristampa:

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Jack London Zanna Bianca

Adattamento di Valentina Carella

Illustrazione di copertina Mauro Marchesi

Parte Prima

Unacupa foresta di abeti si stendeva sulle due rive del fiume ghiacciato. Un silenzio di tomba regnava sul paesaggio. Neppure il vento faceva sentire la sua presenza. Tutto intorno era desolato, senza vita, senza movimento, così squallido e gelido da sembrare permeato di un qualcosa di più triste della stessa tristezza.

Era il “Wild”, il mondo selvaggio della Terra del Nord, il mondo dal cuore di ghiaccio. Il ghiaccio, infatti, è l’elemento che regna in quel luogo e qualsiasi cosa tocchi, subito perde vita e movimento: gela le acque, per impedire la loro corsa verso il mare; succhia la linfa dagli alberi, finché il gelo raggiunge il loro cuore.

In quella regione, eppure, era ancora possibile trovare la vita, una vita in continua lotta contro l’immobilità del gelo.

Lungo il fiume ghiacciato scendeva a fatica una muta di cani lupi. Davanti ai cani vi era un uomo, che indossava delle larghe racchette da neve. Dietro alla slitta si affaticava un altro uomo. E sulla slitta, nella cassa, giaceva un terzo uomo per cui ogni fatica era cessata. Ancora una volta il ghiaccio aveva sconfitto la vita.

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Camminavano senza parlare, per non sprecare il fiato, necessario al faticoso lavoro. Ovunque era silenzio, un silenzio intenso e opprimente che pesava sugli uomini, come l’acqua che schiaccia il palombaro.

Essi non erano soli. Nell’aria immobile in cui scompariva il pallido sole della breve giornata, all’improvviso, s’innalzò un debole grido lontano. Un’anima smarrita nel gelo urlava la sua fame. Un secondo grido si alzò, e poi ancora un terzo, un quarto…

- Ehi, corrono dietro a noi, Bill - disse l’uomo che camminava in testa.

- Purtroppo Enrico credo che siamo l’unica carne rimasta in questo posto inospitale - rispose il compagno. - Non ho visto la traccia di un coniglio, da parecchi giorni.

Tacquero, ma gli ululati dietro di loro continuarono a farsi sempre più vicini.

Al cader delle tenebre, radunarono i cani sotto un gruppo di abeti sulla riva del fiume e si accamparono.

Accesero un fuoco e dopo aver mangiato quel poco che restava delle loro provviste, si addormentarono profondamente, senza avere idea di quello che li attendeva al loro risveglio.

Al mattino il primo a svegliarsi fu Enrico, che buttò

fuori dal letto il compagno. Benché fossero quasi le sei, mancavano tre ore all’alba. Al buio, Enrico comin-

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ciò a preparare la colazione, mentre Bill arrotolava le coperte e preparava la slitta.

- Di’ Enrico - domandò ad un tratto Bill, - quanti cani dicevi che abbiamo?

- Sei – grugnì Enrico in tutta risposta.

- Sbagliato! - dichiarò Bill in tono di trionfo. – Sono cinque!

- Dannazione! - gridò Enrico furibondo. Piantò i pentolini e andò a contare i cani.

- Hai ragione, Bill – concluse, - Fatty se n’è andato. Quelli l’hanno ingoiato vivo. Scommetto che guaiva ancora mentre scendeva giù nelle gole di quei dannati!

- Ma perché si è allontanato dal fuoco?

- Ma che ne so! – proruppe Enrico. - È sempre stato un cane scemo, quello!

- Ma nessun cane, per quanto scemo, è tanto sciocco da andare a suicidarsi in quel modo…

E questo fu il discorso funebre pronunciato per un cane morto durante un viaggio nella terra del Nord. E, d’altronde, questo fu di gran lunga più esteso di molti altri discorsi funebri pronunciati per tanti cani e per tanti uomini.

Quello, però, non fu l’ultimo discorso funebre che i due uomini dovettero pronunciare. La mattina seguente, infatti, Enrico fu svegliato da una vivace imprecazione di Bill: si sollevò appoggiandosi su un go -

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mito e vide il suo compagno in mezzo ai cani, vicino al fuoco ravvivato, le braccia alzate, il viso contorto in un’espressione di collera.

- Ehi! - gridò Enrico. - Che cos’è successo ora?

- Frog se n’è andato - fu la risposta.

Enrico balzò fuori dalle coperte e corse vicino ai cani. Li contò attentamente e si unì al compagno nel maledire la potenza del “Wild” che li aveva privati di un altro cane.

- Frog era il cane più robusto della muta - osservò finalmente Bill.

- E non era neanche sciocco - soggiunse Enrico.

E questo fu il secondo discorso funebre in due giorni. Fecero colazione, tristi e scoraggiati, poi attaccarono alla slitta i quattro cani superstiti. La giornata fu assolutamente simile alle altre già trascorse: i due uomini camminavano con fatica in silenzio, mentre tutt’intorno il rumore del vento si univa agli ululati dei loro inseguitori. Col cader della notte, gli ululati risonarono più vicini. I cani, sempre più eccitati e terrorizzati, presi dal panico, si agitavano e si dimenavano.

- Questo vi terrà qui fermi, sciocchi! - disse quella sera Bill, dopo aver finito il suo lavoro.

Enrico abbandonò le pentole e venne a vedere. Il suo compagno aveva legato i cani, secondo il costume indiano, con dei bastoni.

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Quando stavano per coricarsi, Enrico osservò, indicando il cerchio di occhi fiammeggianti che li circondava:

- Quelli sanno che non abbiamo abbastanza cartucce per ucciderli. Se potessimo tirar loro un paio di colpi, si terrebbero a rispettosa distanza. Si avvicinano sempre più ogni notte!

Per qualche tempo, i due uomini si divertirono ad osservare quelle forme vaghe che si muovevano là dove finiva l’alone di luce e cominciavano le tenebre.

Ad un tratto, l’attenzione dei due uomini fu attratta da un rumore che proveniva dal gruppo dei cani. One Ear si lamentava e mugolava con impazienza, tirando il bastone e protendendosi verso le tenebre.

- Guarda, Bill - sussurrò Enrico.

Un animale simile ad un cane scivolava furtivamente, con un’andatura obliqua, nell’alone di luce.

È una lupa - sussurrò Enrico in risposta - e questo spiega la fuga di Fatty e di Frog! Serve da esca. Attira i cani e poi con tutto il branco si scaglia su di loro e li divora.

- Qui, One Ear! – gridò Bill. Il cane era riuscito a staccare il bastone da terra e stava correndo in direzione della lupa.

Ma One Ear si diede ad una corsa pazza, trascinandosi dietro anche il bastone. Ogni passo in avanti

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di One Ear corrispondeva ad un passo indietro della lupa. Un po’ alla volta essa lo attirava lontano dalla protezione dei due uomini.

Quando furono sufficientemente distanti, la lupa abbandonò il suo atteggiamento timido e scherzoso. Con un ringhio balzò su One Ear mentre, nel frattempo, una dozzina di lupi, grigi e sparuti apparvero lungo la pista e circondarono One Ear, togliendo al cane ogni possibilità di fuga.

- Dove vai? - domando improvvisamente Enrico, afferrando il braccio del compagno.

Bill si liberò dalla stretta e disse:

- Non voglio stare qui. Non avranno un altro dei nostri cani, quei maledetti, se riesco a impedirlo.

- Sta’ attento! - gridò Enrico. - Non fare sciocchezze!

Ma Bill era già troppo lontano per sentirlo.

Udì un colpo, poi due colpi consecutivi: le munizioni di Bill erano finite... Poi udì un gran clamore, ringhi, latrati. Riconobbe l’urlo di terrore e di dolore di One Ear, udì l’ululato di un lupo che era stato probabilmente colpito.

E fu tutto.

I ringhi e gli ululati cessarono. E il silenzio regnò di nuovo incontrastato sul paesaggio desolato. Nel mondo selvaggio la morte aveva vinto di nuovo sulla vita.

Enrico rimase a lungo seduto sulla slitta. Era inutile

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che andasse a vedere che cos’era successo. Sapeva tutto come se si fosse svolto sotto i suoi occhi.

“Il silenzio non durerà ancora a lungo” pensò tra sé. “Non mi resta molto da fare, ma non mi consegnerò a quelle carogne senza lottare”.

L’uomo decise di mettere in pratica una nuova idea. Estese il fuoco fino a formare un cerchio abbastanza largo da ospitare un uomo e si accoccolò nel suo centro, in attesa che i lupi tornassero a prendersi quanto era rimasto del loro pasto.

Non dovette attendere a lungo. Ben presto i lupi furono tutti attorno al fuoco.

“Finché il fuoco resiste sono al sicuro. Ma non potrà bruciare per sempre e quando le fiamme si abbasseranno… ”

Un brivido gli attraversò la spina dorsale e gli impedì di terminare il suo pensiero.

Il cerchio, infatti, tendeva a stringersi sempre di più. A poco a poco, un centimetro per volta, un lupo che strisciava avanti di qua, un altro di là, il cerchio si stringeva tanto che quelle bestie fameliche si trovavano alla distanza di un solo balzo.

Allora Enrico afferrava dei tizzoni infocati e li scagliava in mezzo al branco. Ed ogni volta le belve indietreggiavano rapidamente, latrando di rabbia e ringhiando di spavento.

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Per tutta la notte, lanciando tizzoni ardenti, riuscì a fronteggiare il branco famelico. E venne il mattino, ma per la prima volta la luce del giorno non disperse i lupi.

L’uomo attese invano che si allontanassero. Le belve rimasero in circolo intorno a lui, intorno al fuoco, con un’arrogante espressione di possesso che fece crollare tutto il coraggio che la luce del mattino aveva fatto sorgere nell’uomo.

Da tutto il suo atteggiamento, dalle spalle cadenti e rilassate, dalla posizione della testa abbandonata tra le ginocchia, si capiva che aveva rinunciato a lottare.

- Beh, adesso potete venire a prendermi, quando volete mormorò. - Io, ad ogni modo, dormo...

Si svegliò dopo un po’ e, in uno spazio libero tra le fiamme, proprio di fronte a lui, vide la lupa che lo fissava.

Si svegliò ancora poco dopo, benché gli sembrasse di avere dormito per ore ed ore. Era avvenuto un cambiamento misterioso, così misterioso che egli si svegliò del tutto. Qualcosa era accaduto, qualcosa di cui egli al principio non poteva rendersi conto. Ma poi capì.

I lupi se n’erano andati. Cinque o sei uomini erano intorno a lui e cercavano di fargli riprendere coscienza.

Enrico li guardò con uno sguardo ebbro e borbottò parole strane e assonnate:

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- La lupa rossa... Venuta in mezzo ai cani all’ora del pasto... Prima ha mangiato il pasto dei cani... Poi ha mangiato i cani... E poi ha mangiato Bill… Sono proprio stanco... Buona notte a tutti.

Batté le palpebre, chiuse gli occhi e l’aria gelida risuonò del suo russare. Ma si udiva anche un altro suono: era l’urlo del branco famelico, che non aveva potuto avere quell’uomo e che lontano, nella neve, si lanciava sulle orme di un’altra preda.

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Parte Seconda

Erastata la lupa a udire per prima la voce degli umani che si stavano avvicinando. Ed era stata anche la prima a correre via, conoscendo bene il male che quegli uomini potevano portarle. Quando le voci si fecero più vicine, anche gli altri lupi si allontanarono dal cerchio di fuoco che custodiva l’ambita preda.

E corsero: corsero per miglia e miglia quel giorno. E corsero tutta la notte. E il giorno seguente ancora. Nessun segno di vita, in quel mondo di gelo e di morte.

Essi soli vivevano e cercavano altre creature viventi, per poterle divorare e continuare a vivere.

Ma intorno non c’era nulla che potesse soddisfare la loro fame. Fu così che il branco decise di dividersi.

La lupa continuò il suo viaggio verso oriente, in direzione della regione dei laghi. La seguivano da vicino tre altri lupi: un lupo giovane e altezzoso, un lupacchiotto di circa tre anni e, infine, un vecchio lupo con un occhio solo, segno dei tanti anni passati a combattere il mondo selvaggio.

Il branco avanzava velocemente verso oriente, finché una mattina al loro risveglio i lupi si trovarono davanti una bella sorpresa.

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Aprirono gli occhi e ad attenderli non c’erano più le tenebre mattutine del lungo inverno. Alto in cielo brillava il sole d’aprile e coi suoi raggi scaldava la gelida neve.

La primavera era nell’aria, la vita rinasceva sotto la neve, la linfa ricominciava a scorrere nei tronchi e le gemme cominciavano a rompere la loro prigione di ghiaccio.

In quel giorno avvenne qualcosa di strano nel lupacchiotto. Tutt’a un tratto, aggredì il lupo vecchio dal lato dell’occhio cieco e gli lacerò un orecchio. Il vecchio comprese che era arrivato il momento della resa dei conti. Anche il giovane lupo capì che non poteva tirarsi indietro: erano in tre a contendersi l’unica lupa del branco.

La lotta iniziò lealmente, ma non finì altrettanto lealmente. I lupi più esperti si coalizzarono insieme.

D’un tratto i compagni di un tempo avevano dimenticato i giorni in cui avevano cacciato insieme, abbattendo selvaggina, e la fame che insieme avevano patita.

Era acqua passata. Il presente era dominato dall’amore per la lupa, uno stimolo forse più implacabile e crudele della stessa ricerca di cibo.

Insieme, i due lupi più anziani non impiegarono molto ad annientare il pretendente più giovane e inesperto.

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I due lupi rimasti sedettero per un attimo accanto al cadavere del loro avversario. Ma il lupo più vecchio era molto più esperto sia nell’amore sia nella lotta.

Il giovane lupo si voltò un attimo per leccarsi una ferita sulla spalla. L’altro comprese immediatamente che quello era il momento giusto per sferrare l’attacco finale. Si lanciò sul collo del suo avversario e strinse le zanne. Il giovane lupo non fece neppure in tempo a lottare che cadde a terra privo di vita.

Durante la lotta la lupa era rimasta accovacciata sulla neve ad osservare la scena. Ne provava piacere: era per lei che gli altri lupi si stavano battendo fino alla morte. Nel mondo selvaggio anche l’amore era contrario alla vita.

Quando il giovane cadde immobile nella neve, One Eye, così si chiamava il vecchio lupo, si avviò a passi lunghi e maestosi verso la lupa. Era trionfante per il suo successo in battaglia, ma temeva che la lupa avrebbe continuato a respingerlo.

Quando One Eye le fu vicino, invece, la lupa lo accolse gentilmente.

Strofinò il naso contro il suo e non oppose più resistenza alla corte del vecchio lupo.

Ben presto i due lupi ripresero la corsa verso la regione dei laghi. Sapevano, infatti, che lì avrebbero trovato tutto il cibo di cui avrebbero avuto bisogno.

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La lupa, però, dopo un po’ iniziò ad avere un comportamento strano. Non era più agile come prima, faceva sempre più fatica a correre ed era diventata ancora più irascibile e scontrosa. Inoltre si affannava alla ricerca di qualcosa. One Eye non aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo alla sua compagna.

Finché un bel giorno la lupa trovò quello che cercava. Era una piccola caverna, scavata dalla corrente lungo la sponda di un torrente. La lupa si fermò all’imboccatura della caverna, ne ispezionò con cura i dintorni, poi entrò.

One Eye provò a seguirla ma venne subito ricacciato indietro con una zampata. Allora si stese davanti l’ingresso della caverna. Succedeva spesso che la sua compagna lo allontanasse con fare scontroso. Lui, però, sapeva bene che questa non restava arrabbiata a lungo. Contava, quindi, che anche questa volta sarebbe uscita più bendisposta e pronta a inseguire golose prede. Passarono ore e la lupa non intendeva abbandonare la caverna. One Eye, però, non poteva resistere ancora a lungo al richiamo della fame. Così decise che questa volta non avrebbe atteso oltre.

Camminò per otto ore e ritornò, quando già era buio, più affamato di prima. Appena arrivato in prossimità della caverna capì subito che qualcosa non andava. Degli strani suoni fiochi giungevano dall’interno.

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Preoccupato si affacciò dall’ingresso della caverna.

Era lontano dalla lupa ma non aveva dubbi: tra le sue zampe c’erano cinque strani piccoli fardelli viventi, deboli, inermi che gemevano piano piano, con gli occhi ancora chiusi. Erano cinque cuccioli di lupo.

Uno, in particolare, attirò la sua attenzione. Era diverso dai suoi fratelli e dalle sue sorelle. Era l’unico lupacchiotto grigio della cucciolata. L’unico che non aveva ereditato il pelo rossiccio della madre.

Ma non era diverso solo esteticamente. Egli era anche più feroce degli altri lupacchiotti della cucciolata. Ringhiava forte e aveva attacchi di collera molto più temibili degli altri. In questo assomigliava decisamente a sua madre.

Fu, forse, proprio la sua forza a farlo resistere nei giorni successivi alla nascita. Nonostante il gelo invernale si stesse sciogliendo, infatti, ancora la vita non era ripresa nel mondo selvaggio.

E per quanto One Eye cercasse, proprio non riusciva a trovare tutto il cibo che era necessario a sfamare la sua numerosa famiglia. I lupacchiotti non avevano più nemmeno le forze per muoversi e tutti si addormentarono per non svegliarsi più. Tutti tranne il lupacchiotto grigio. Quando si svegliò trovò che il numero degli abitanti della caverna era di molto diminuito. Ormai restavano solo lui e sua madre.

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Finalmente, però, il sole primaverile aveva sconfitto il gelo invernale e anche nel mondo selvaggio la vita aveva preso il posto della morte di ghiaccio. E assieme alla vita era tornata la carne, di cui il lupacchiotto grigio era ghiotto. Per questo cresceva forte e il suo visino diventava sempre più tondo.

Tuttavia egli non aveva ancora mai messo piede fuori dalla caverna. Appena si avvicinava alla parete di luce, da cui la madre scompariva e riappariva con il cibo, questa lo ricacciava indietro con forti zampate.

Egli cercava di obbedire alla legge materna che gli intimava di tenersi lontano dalla luce. Obbedire significava evitare il dolore della punizione materna ed essere felici.

Ma vi erano anche altre forze che agivano sul lupacchiotto. L’istinto e la legge materna gli imponevano l’obbedienza. Ma il suo progressivo sviluppo lo portava a disobbedire.

La madre e la paura lo trattenevano lontano dalla parete bianca. Ma la vita esige la luce...

E un giorno, finalmente, paura e obbedienza furono travolte dall’impeto di vita, e il lupacchiotto si avvicinò a passi malfermi all’imbocco della tana. E, seguendo la luce, si trovò improvvisamente al suo esterno.

La luce era diventata così intensa che egli ne provò un dolore fisico e ne fu abbagliato. Quell’improvvisa

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visione di uno spazio immenso gli diede un senso di vertigine. Davanti a lui ora c’era solo l’Ignoto.

Fu preso da una paura folle e si accovacciò per terra piangendo e rimpiangendo il momento in cui aveva trasgredito il divieto della madre.

Tuttavia, il tempo passava e non accadeva nulla. Allora il lupacchiotto si fece coraggio, aprì gli occhi e si alzò da terra. Osservava con stupore tutto quello che c’era attorno a lui.

A poco a poco la paura fu dimenticata e il suo posto venne preso dalla curiosità. Iniziò a muovere i primi passi insicuri. Fece un passo avanti, baldanzosamente... e cadde a testa in giù.

Il lupacchiotto aveva vissuto sempre su un terreno piano, e non aveva mai conosciuto il dolore di una caduta. Non sapeva neppure che cosa volesse dire cadere.

Il suo naso batté violentemente sul terreno e il lupacchiotto guaì. Poi cominciò a rotolare giù dal pendio. Un panico terribile si impadronì di lui. Era caduto nelle mani dell’Ignoto, che lo aveva afferrato ferocemente e gli infliggeva ora dei colpi terribili.

L’ignoto continuava a farlo rotolare verso un terribile dolore ed egli non cessava di guaire e di mugolare.

Ma il pendio diventava più dolce, ora, e alla base era ricoperto d’erba. Qui il lupacchiotto perse velocità e si fermò.

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Dopo essersi pulito il pelo, che si era inzaccherato di fango durante la caduta, si sedette. Si guardò intorno, come farebbe un abitante della Terra che, per primo, atterrasse su Marte.

Ma il primo uomo che fosse giunto su Marte si sarebbe sentito meno estraneo in quel mondo nuovo, di quanto non si sentisse il lupacchiotto.

Privo di qualsiasi esperienza precedente, si trovò ad essere come un esploratore in un mondo completamente nuovo. Un mondo che però, con la caduta, aveva affrontato e che, quindi, ora, non temeva più.

Provava soltanto una folle curiosità per tutto ciò che lo circondava. Era tale la sua intrepidezza che, quando un uccello degli alcidi gli saltellò sfacciatamente intorno, egli allungò la zampa e gli diede un colpetto scherzoso.

Il risultato fu una bella beccata sul naso, che lo fece accucciare, gemendo.

Il rumore che fece coi suoi guaiti spaventò l’uccello che volò via, mettendosi in salvo.

Camminava goffamente, inciampando continuamente in ramoscelli o altri ostacoli. Un rametto, che gli era parso lontano, lo colpiva un attimo dopo sul naso o gli strisciava sul petto.

E poi, vi erano delle ineguaglianze di superficie, per cui ogni tanto picchiava il naso o le zampe.

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A ogni nuovo incidente imparava qualcosa: migliorava l’andatura, raddrizzava la postura, imparava a conoscere i diversi tipi di movimento che era in grado di fare e iniziava a valutare con più precisione ostacoli e pericoli.

Aveva la solita fortuna del principiante. Nato per essere un cacciatore (benché non lo sapesse ancora), nella sua prima scorribanda nel mondo si imbatté nella preda.

Cercava di camminare sul tronco di un pino abbattuto, ma la corteccia fradicia cedette sotto il suo peso. Con un guaito disperato egli ruzzolò su un cespuglio, cadendo in un nido, fra sette pulcini di pernice bianca.

I pulcini schiamazzarono e in un primo momento il lupacchiotto si spaventò. Poi si accorse che erano piccoli e riprese coraggio. Egli ne toccò uno con la zampa, lo annusò, lo prese in bocca: l’uccellino si dibatté, solleticandogli la lingua.

Nello stesso istante, il lupacchiotto si rese conto di aver fame. Allora strinse le mascelle: uno scricchiolio di ossicini e un fiotto di sangue caldo gli riempì la bocca. Che buon sapore! Era cibo, questo, come quello che gli dava sua madre, ma era vivo e quindi migliore.

Divorò il pulcino e non si fermò finché non ebbe mangiato l’intera covata. Poi si leccò le labbra, come faceva la lupa, e strisciò fuori dal cespuglio.

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Ma si trovò improvvisamente avvolto in un vortice di piume. Fu stordito dall’improvviso attacco e accecato da quelle ali che sbattevano violentemente.

Nascose la testa fra le zampe, mugolando. I colpi raddoppiarono: la pernice madre era furibonda.

Allora anche il lupacchiotto si infuriò e, ringhiando, cominciò a tirar zampate. Era la prima battaglia del lupacchiotto, che si sentiva in preda ad una strana esaltazione.

Si erano risvegliati in lui tutti gli istinti battaglieri della sua razza. Questo era vivere! Stava realizzando il significato della sua esistenza: uccidere combattendo.

La pernice gli beccò il naso: una scarica di beccate si abbatté sul suo naso già tanto maltrattato.

Il furore bellicoso che aveva animato il lupacchiotto scomparve di botto e, abbandonando la preda, fuggì ingloriosamente e, ancora dolorante, andò a nascondersi dai colpi minacciosi di quell’uccello.

Passò parecchio tempo prima che il lupacchiotto abbandonasse il suo nascondiglio. Si era divertito molto nell’impresa ma alla fine aveva provato anche un certo dolore.

Ma questo gli era valso un insegnamento importante: che le cose si dividono in due categorie, quelle non vive, che non cambiano mai di posto e quelle vive, fatte di carne, e per questo buone da mangiare. Con esse,

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però, bisognava stare bene attenti perché potevano nascondere pericolosi imprevisti, soprattutto se erano più grosse di lui.

Da quel giorno iniziò ad attraversare sempre più spesso la parete di luce.

Soltanto in principio, però, aveva avuto fortuna: i sette pulcini di pernice rappresentavano il suo unico bottino.

Anche per questo aveva grande rispetto della madre: essa riusciva sempre a trovare del cibo e non mancava mai di portargli la sua parte.

Ma arrivò il giorno in cui anche la lupa smise di portare a casa il cibo. Era sopraggiunto l’inverno e, come sempre, portava con sé gelo, morte e carestia.

Non fu lunga, quell’anno, la carestia. Ma fu dura. Il lupetto non trovò più una goccia di latte nel petto di sua madre e non riuscì a procurarsi un solo boccone.

Prima, aveva cacciato per gioco, per puro divertimento: ora andava a caccia con serietà, con implacabile accanimento, ma non trovava nulla.

La mancanza di cibo accrebbe, però, più rapidamente la sua esperienza. E con l’esperienza crebbe anche la sua forza: una forza per lo più dettata dalla disperazione.

Un giorno la lupa portò della carne. Era una piccola lince, dell’età del lupetto, ma non così grossa.

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Egli se la mangiò tutta, poiché la lupa aveva soddisfatto altrove la sua fame. Egli non sapeva che la madre aveva divorato l’intera cucciolata della lince e neppure poteva capire la disperata audacia di quell’azione.

Sapeva soltanto che quella bestiola dal pelo vellutato era carne e la divorò, sentendosi, ad ogni morso, più felice e rinfrancato.

Con lo stomaco pieno, il lupetto si addormentò sul fondo della tana, vicino a sua madre. Fu proprio un suo ringhio a svegliarlo.

Mai aveva sentito sua madre ringhiare in un modo così feroce. Doveva esserci una ragione... E la ragione era questa: non si può devastare impunemente la tana di una lince.

Nel pieno splendore della luce pomeridiana, accovacciata all’ingresso della caverna, stava la lince madre.

Il lupacchiotto si alzò e, ringhiando coraggiosamente, si mise al fianco della madre. Ma questa lo ricacciò indietro, dando inizio allo scontro.

La lince si batteva con gli artigli e coi denti, squarciando e lacerando, mentre la lupa l’affrontava soltanto con le zanne.

Fu lo stesso lupetto a correre in soccorso della madre. Con un gesto sconsiderato, si avventò sulla lince e affondò i denti in una delle sue zampe posteriori.

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L’attacco gli costò caro: la lince reagì e colpì il lupetto con una zampata che gli lacerò la spalla fino all’osso, facendolo cadere su un fianco. Tuttavia, in quel modo il lupetto riuscì a distrarre la lince e la lupa riuscì a sferrare il suo attacco mortale.

Grazie anche all’intervento del lupetto, la lince giaceva morta all’ingresso della tana. La spalla del lupetto era infiammata e irrigidita e per qualche tempo egli camminò zoppicando.

Ma ora il mondo gli sembrava cambiato.

Egli vi si aggirava con maggior sicurezza, sentendosi fiero del suo valore. Aveva combattuto, aveva affondato i denti nella carne del nemico ed era sopravvissuto.

Per questo, il suo portamento si fece più audace, più temerario.

Incominciò ad accompagnare la madre a caccia di cibo ed imparò molte cose sull’arte di uccidere la preda, prendendo presto una parte diretta nella caccia.

E imparò l’insegnamento più importante. Imparò, infatti, che il mondo non si divide solo in essere viventi e esseri non viventi. Ma anche che i primi, a loro volta, si dividono in due categorie: quelli che mangiano e quelli che sono mangiati.

Da questa divisione derivava la legge del mondo selvaggio, la cosiddetta Legge della Carne: “Divorare o essere divorati”.

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Tutti gli esseri viventi seguivano questa legge e il lupacchiotto grigio aveva capito che per sopravvivere nel mondo selvaggio era indispensabile saperla mettere in pratica meglio degli altri.

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Parte Terza Una

mattina il lupacchiotto si alzò di buon ora. Aveva sete e per questo decise di andare al torrente a bere senza aspettare la madre. In fondo ormai conosceva bene quella strada. Era sicuro di sé. Forse fin troppo.

Poco prima di arrivare al torrente, capì che la sua era stata una decisione incauta. Vicino al pino abbattuto, infatti, erano riuniti cinque animali di una specie a lui sconosciuta.

Erano alti, imponenti e, nonostante avessero quattro zampe, riuscivano a stare in equilibrio su due. Il lupacchiotto non aveva mai visto nulla del genere, ma il suo istinto gli suggeriva che quelli erano gli uomini. Egli ne fu molto impressionato.

Rimase impietrito a guardarli, mentre uno di loro si avvicinava sempre più pericolosamente. Involontariamente il pelo gli si rizzò e le labbra si contrassero scoprendo le piccole zanne. A quella vista, l’uomo che si era fatto vicino esclamò:

-

“Wabam wabisca ip pit tah! ” (Guarda! Le zanne bianche!).

Il lupacchiotto pensò che quello fosse il momento

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buono per difendersi. Si lanciò sulla mano dell’Indiano e gli fece sentire la potenza delle sue zanne bianche. L’uomo, in preda al dolore, si scrollò l’animale di dosso e lo scagliò a terra.

Il lupacchiotto aveva sentito per la prima volta quanto male può fare l’attacco di un uomo. E ora temeva che l’uomo lo assalisse. Qualcosa gli diceva che non poteva resistere ai suoi colpi e che avrebbe finito per avere la peggio.

Restava disteso a terra, gemendo e guaendo, quando improvvisamente udì qualcosa. La lupa ringhiava, correndo verso di lui. Aveva udito i gemiti del lupetto e si era lanciata in suo aiuto.

Ma mai il lupacchiotto avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe accaduto al suo arrivo. Appena quella si mise davanti al suo cucciolo, uno degli uomini lanciò un grido di sorpresa:

- Kiche!

Il lupacchiotto vide la madre trasalire a quel suono. E vide che lei, l’animale senza paura, si accucciava a terra mugolando.

Il lupetto era sbigottito: sua madre si stava sottomettendo spontaneamente all’animale-uomo.

anno da quando te ne sei andata - continuò l’uomo indicando il lupacchiotto - ma da questo “coso” vedo che ti sei trovata bene con i lupi

- È

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passato solo un

della foresta. Tu sei la madre, ma suo padre deve essere un lupo. Così in lui vi è un po’ del cane e molto del lupo. Le sue zanne sono bianche e il suo nome sarà Zanna Bianca. Lui sarò il mio nuovo cane. Kiche non apparteneva forse a mio fratello? E mio fratello è morto...

Legò la lupa a un bastone, per essere sicuro che non fuggisse più nella foresta e riportò entrambi gli animali all’accampamento. Zanna Bianca vide molti altri animali-uomo e assieme a loro anche molti cani. Zanna Bianca, guardandoli, capì senza troppo bisogno di spiegazioni che quegli animali non erano molto diversi da lui e da sua madre e che essi, al di là delle differenze, appartenevano alla stessa razza.

I cani, però, non erano dello stesso avviso. Sapevano, infatti, che anche loro non erano altro che lupi addomesticati. Ma il fatto che lo fossero da più generazioni, secondo loro, li rendeva diversi dai nuovi arrivati.

Fu così che decisero di far capire subito alla lupa e al suo cucciolo che non erano i benvenuti all’accampamento. Appena questi si avvicinarono per socializzare, i cani gli furono subito addosso.

Il lupetto fu scaraventato a terra dalla forza bruta dei suoi simili. Ma quando si rialzò fu sorpreso nel vedere gli animali-uomo che allontanavano i cani prendendoli a bastonate.

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Fu così che Zanna Bianca imparò cosa fosse la giustizia. E che erano gli uomini a stabilire e a far applicare la legge. Questo al lupetto sembrò essere un potere enorme, un potere che poteva spettare solo a un essere soprannaturale, dalla natura divina. Non ebbe dubbi: quegli uomini erano dei! E per questo andavano temuti e rispettati.

Il timore, però, non gli impediva di essere offeso per come veniva trattata sua madre. Essere legati a un bastone sapeva di trappola, di schiavitù. E questo gli sembrava una cattiveria verso animali che prima erano liberi: liberi di correre, di vagabondare, di andare dove meglio pareva loro.

La libertà mancava a Zanna Bianca, nonostante fosse libero di girovagare per l’accampamento. Ma la libertà del Wild era ben altra cosa!

Per questo, ogni tanto, provava a tornare indietro nella foresta. Queste sue fughe, però, non si concludevano mai come sperava. Non appena, infatti, si allontanava troppo dal campo era atterrito dal silenzio e dal buio della foresta.

I suoi sensi erano, ormai, stati indeboliti dalla vita agiata e sicura dell’accampamento. E poi la vita nella foresta non sarebbe stata la stessa senza la sua mamma. La paura di staccarsi da lei e di perdere la sua protezione, alla fine, aveva sempre la meglio.

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E così il lupacchiotto capì che non poteva più vivere al di fuori dell’accampamento degli animali-uomo. Aveva perso per sempre la libertà del mondo selvaggio.

Oltre a sentire la nostalgia della libertà perduta, c’era un altro motivo per cui Zanna Bianca non era felice nel campo. Ovunque andasse, finiva sempre tra le zanne di Lip -lip.

Maggiore di età, più grosso, più forte, Lip -lip aveva scelto Zanna Bianca come oggetto delle sue persecuzioni. Il lupacchiotto combatteva abbastanza volenterosamente, ma era sempre sopraffatto, poiché il suo avversario era troppo grosso. Lip -lip divenne un vero incubo per Zanna Bianca.

Appena il lupacchiotto si avventurava lontano dalla madre, ecco comparire Lip -lip che, ringhiando, attendeva il momento buono, quando nessun animale -uomo era nelle vicinanze, per saltargli addosso e costringerlo a combattere.

E poiché la lotta finiva invariabilmente con la vittoria di Lip -lip, questi cominciò a provarci gusto. E quello che per lui era il più grande divertimento, per Zanna Bianca era il maggior tormento.

Ma anche se il lupacchiotto era inevitabilmente sconfitto, il suo spirito restava indomito. E come conseguenza di questo stato di cose, diventò maligno, tetro e più selvaggio.

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Non giocava mai con gli altri cuccioli del campo, perché Lip -lip non glielo permetteva. Appena Zanna Bianca si avvicinava ai suoi simili, Lip -lip gli era subito addosso e lo malmenava finché non lo vedeva darsela a gambe.

L’unica a tenergli compagnia era sua madre. Fu grazie ad essa che, per la prima volta da quando era arrivato al campo, riuscì a gustare il sapore della vendetta.

Come Kiche, quando stava coi lupi, aveva attirato verso la morte i cani facendoli uscire dall’accampamento degli altri uomini, così Zanna Bianca attirò Lip -lip sotto le zanne vendicatrici di Kiche.

Fuggendo davanti a Lip -lip, Zanna Bianca fece parecchi giri tra le tende, senza mai distaccare troppo il suo persecutore. Eccitato per l’inseguimento, Lip -lip dimenticò ogni prudenza e non guardò dove lo conduceva il suo avversario. Quando se ne accorse, era troppo tardi. Correndo a pazza velocità intorno ad una capanna, cadde proprio su Kiche.

Un guaito e le mascelle della lupa si chiusero su di lui. Era legata Kiche, ma il cucciolo non riuscì a mettersi in salvo molto presto. Essa lo gettò a zampe in aria e lo colpì ripetutamente, lacerandogli le carni.

Quando finalmente riuscì a rotolare fuori del tiro di quelle zanne, il cucciolo si rialzò penosamente, ferito nel corpo e nello spirito.

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Zanna Bianca, allora, cercò di approfittarne: gli balzò addosso e gli affondò i denti in una zampa. Lip -lip non era in grado di battersi e fuggì, mentre il lupacchiotto, da vittima divenuto carnefice, continuò a inseguirlo fino alla sua capanna.

Qui le donne vennero in aiuto al cucciolo e con una tempesta di sassi scacciarono Zanna Bianca.

Così il lupetto cresceva tra le liti con i suoi coetanei sotto l’occhio vigile e protettivo della madre.

Ma una madre non vive per sempre accanto ai suoi figli. Prima o poi arriva il momento in cui la famiglia si deve separare.

E così fu per Kiche e Zanna Bianca.

Il loro padrone, Castoro Grigio, aveva un debito con Tre Aquile. Una striscia di tessuto rosso, una pelle d’orso, venti cartucce e Kiche: e il debito fu pagato.

Zanna Bianca vide che la madre veniva imbarcata sulla canoa di Tre Aquile e cercò di seguirla. Fu ricacciato a terra e la canoa fu spinta al largo. Il lupacchiotto, allora, si gettò in acqua e nuotò dietro l’imbarcazione.

Castoro Grigio lo chiamava con voce intimidatoria. Ma nulla: Zanna Bianca era come diventato sordo.

Tanto grande era il terrore di perdere sua madre, da fargli ignorare persino le parole di un animale-uomo, di un dio.

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Ma gli dei esigono obbedienza e Castoro Grigio, furibondo, lo inseguì su un’altra canoa. Raggiuntolo, lo afferrò per la collottola. Ma non lo posò subito sul fondo della canoa: tenendolo per aria con una mano, con l’altra gli somministrò la punizione.

E che punizione. Aveva la mano pesante e ogni colpo lasciava il segno. Sotto quella tempesta di percosse che piovevano ora da una parte ora dall’altra, Zanna Bianca oscillava come un pendolo impazzito.

La paura si impossessò del lupacchiotto. Era la prima volta che sperimentava le percosse della mano umana. Il lancio di bastoni e pietre già sperimentato era una carezza al confronto.

Finalmente Castoro Grigio si fermò. Zanna Bianca, tenuto per aria, continuava a gemere. Questo parve bastare al suo padrone che scaraventò violentemente il cucciolo sul fondo della canoa.

L’imbarcazione stava andando alla deriva e Castoro Grigio volle riprendere la pagaia. Nella concitazione dell’operazione Castoro Grigio colpì con un calcio

Zanna Bianca che gli stava tra i piedi.

In quell’istante la natura selvaggia di Zanna Bianca prese il sopravvento ed egli affondò i denti nel piede calzato nel mocassino.

La punizione che il lupacchiotto aveva ricevuto prima era stata niente al confronto di quella che ricevette

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per questo suo gesto. Non soltanto la mano dell’uomo, ma anche la dura pagaia di legno si abbatterono su di lui.

E quando fu gettato in fondo alla canoa, tutto il suo corpicino era ammaccato e dolorante.

Castoro Grigio gli allungò una pedata, e di proposito, questa volta. Ma Zanna Bianca non ripeté l’attacco.

Aveva imparato un’altra lezione sulla sua schiavitù.

Mai, in nessuna circostanza, avrebbe dovuto azzardarsi a mordere il dio che era suo signore e padrone: il corpo del suo padrone era sacro e non doveva essere contaminato dai denti di un essere come lui.

Questo era il delitto più grave di tutti i delitti, l’unica offesa che non poteva essere perdonata né giudicata con indulgenza.

Quando la canoa toccò la riva, Zanna Bianca rimase a giacere sul fondo, mugolando e attendendo l’ordine di Castoro Grigio. E Castoro Grigio lo scagliò sulla riva, con una violenza che rese più intenso il dolore delle contusioni recenti.

Ad aggravare il suo dolore c’era poi la sofferenza per la perdita della madre. Ora che era rimasto solo, sarebbe potuto fuggire dal campo e riprendere la sua vita selvaggia. Ma proprio il ricordo della madre lo tratteneva ancora. Zanna Bianca sapeva che gli animali-uomo che partono dal villaggio con la canoa vi

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fanno sempre ritorno. Sperava, dunque, che un giorno anche Tre Aquile sarebbe tornato, e assieme a lui sua madre. Così egli rimase schiavo degli uomini in attesa di Kiche.

Ed effettivamente un giorno di primavera la lupa tornò. Ma non fu il ritorno tanto sognato da Zanna Bianca.

Non appena egli la vide, le si avvicinò festante. Ma questa lo ricacciò indietro mostrandogli le sue zanne affilate. Zanna Bianca non riusciva a comprendere e indietreggiò confuso e sbalordito.

Ma non era colpa di Kiche: una lupa non può ricordare i suoi cuccioli nati un anno prima. Per lei Zanna Bianca era un intruso: ed essa doveva difendere dagli intrusi la sua nuova cucciolata.

Egli comprese la lezione: lui non era più nulla per sua madre e doveva imparare a fare a meno di quell’animale che prima era stato il centro del suo universo. Doveva imparare a fare da sé.

Nella solitudine e tra le angherie di Lip -lip, Zanna Bianca sviluppò un carattere aggressivo e feroce. Non esitava ad azzannare i cani che gli capitavano a tiro e, se era necessario, infliggeva la stessa sorte agli animali-uomini.

Fu così che acquistò anche tra di loro una pessima fama. Secondo gli abitanti dell’accampamento egli

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era un ladro, un imbroglione che pensava soltanto a provocare delle zuffe. Le donne irate gli gridavano sul muso che era un lupo spregevole e che avrebbe fatto una brutta fine.

Così egli si trovò ripudiato da tutti e a provare disprezzo per tutti. L’unico essere vivente che non finì tra le sue mire fu Castoro Grigio. Egli lo difendeva sempre dall’ira furibonda degli altri animali-uomo del suo accampamento e, quando gli dava da mangiare, restava al suo fianco per evitare che gli altri cani lo accerchiassero per sottrargli il cibo.

Zanna Bianca rispettava e onorava Castoro Grigio, difendendone la vita e le sue proprietà. Non si può dire, però, che provasse affetto verso di lui. Quello che faceva per il suo padrone, il lupetto lo faceva per dovere e per rispetto, ma non per amore.

La sua vita, infatti, si basava su un’unica legge, che aveva imparato già nel mondo selvaggio: «opprimi il debole ed obbedisci al forte». Zanna Bianca obbediva a Castoro Grigio perché egli era un dio potente e forte. Se si fosse ribellato, la sua punizione non gli avrebbe lasciato scampo.

Allo stesso modo, Zanna Bianca opprimeva gli altri cani più deboli e più piccoli. Su di questi egli esercitava una tirannia terribilmente malvagia. Appena vedeva uno di essi che girovagava da solo per l’accampa-

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mento, si scagliava su di lui con inaudita ferocia. E se in soccorso del malcapitato non intervenivano i suoi simili o gli animali-uomo, Zanna Bianca non si faceva scrupoli a finire il suo avversario.

Il lupacchiotto, così, divenne un lupo feroce e tiranno. In lui tutte le qualità erano più sviluppate degli altri cani, comprese la cattiveria e la crudeltà. E se mai vi fu un essere nemico della propria razza, questo fu di certo Zanna Bianca.

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Parte Quarta

Zanna Bianca aveva ormai cinque anni quando Castoro Grigio lo portò con sé in un lungo viaggio. Ormai era un lupo adulto. Il suo corpo era diventato più forte e si era appesantito. Il suo carattere, però, non era mutato: continuava ad essere il cane più rissoso, solitario e ostile del villaggio.

Allontanato da tutti i suoi simili e dagli animaliuomini, egli viveva della sola compagnia del suo padrone. Verso di lui mostrava dedizione e obbedienza assoluta. Per questo Castoro Grigio decise di portarlo con sé nel viaggio verso Fort Yukon.

Era l’estate del 1898 e migliaia di cercatori d’oro stavano risalendo lo Yukon verso il Klondike in cerca di fortuna e di ricchezze. E questo era lo stesso motivo che spingeva Castoro Grigio verso il forte.

Sapeva, infatti, che quegli uomini avrebbero avuto bisogno dell’attrezzatura adatta per affrontare il gelido clima del mondo selvaggio. Così egli sperava di guadagnare dalla vendita di pellicce, guantoni e mocassini.

Gli affari andavano a gonfie vele e Castoro Grigio, attratto dal guadagno, si stabilì a Fort Yukon per tutta l’estate e tutto l’inverno.

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Durante quei mesi Zanna Bianca ebbe modo di apprendere altre cose circa il mondo degli uomini-animali. Comprese che gli uomini che arrivavano a Fort Yukon erano diversi da quelli che aveva conosciuto nell’accampamento. La loro pelle aveva un colore diverso, più pallido.

E questo sembrava essere sufficiente per far sì che potessero essere considerati animali superiori. Gli animali-uomini Indiani, infatti, mostravano lo stesso timore e obbedienza verso gli animali-uomini dalla pelle bianca di quella che lui provava per il suo padrone. Fu così che Zanna Bianca capì che gli uomini bianchi erano dei superiori, dei onnipotenti.

I loro cani, però, non valevano altrettanto. Erano di cento razze diverse, ma ognuna aveva qualche difetto che la rendeva inadatta al combattimento. Zanna Bianca si accorse immediatamente che erano animali deboli e sprovveduti. Fu così che iniziò ad assalire ogni cane straniero che si presentava a Fort Yukon.

Zanna Bianca riusciva a mandarli a gambe all’aria con facilità. Raramente, però, sferrava l’attacco mortale al malcapitato. Aveva capito, infatti, che quei cani erano proprietà degli dei bianchi.

Se, quindi, uno degli dei l’avesse beccato con le zanne nel collo del suo cane avrebbe dovuto subire una punizione dalla quale neppure Castoro Grigio avrebbe

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potuto salvarlo. Agli dei bianchi, infatti, anche il suo padrone doveva obbedienza.

Per questo Zanna Bianca lasciava che fossero gli altri cani indiani a finire il loro compare straniero. Così, quando gli dei bianchi arrivavano, sfogavano la loro collera sul branco dei cani indiani. Mentre Zanna Bianca si era già allontanato e guardava da lontano cadere sassi, randelli, asce e proiettili d’ogni genere sui compagni.

Zanna Bianca si divertiva un molto a vedere le scene di collera degli uomini bianchi. Ma egli non era l’unico a trovarle divertenti.

Tutti gli uomini che abitavano nel forte correvano per assistere alla scena dello scontro tra cani indiani e cani dei nuovi arrivati e ricevevano enorme soddisfazione dall’uccisione di questi ultimi, poiché odiavano i loro padroni.

Ma fra questi uomini ve n’era uno che provava un piacere particolare nell’assistere a quegli spettacoli. I suoi compagni lo avevano soprannominato “Beauty”, ma non perché egli fosse particolarmente bello. Tutto al contrario: quell’uomo era di una bruttezza mai vista.

La natura era stata molto avara con lui. Aveva corporatura molto esile; e sopra quel misero tronco era collocata una testa stretta e magra, che pareva termi-

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nasse a punta. Tutto in lui, dai capelli, ai denti, agli occhi, era coloro giallo sporco.

Per dirla in breve, Beauty Smith era un mostro. E non solo nell’aspetto fisico. Egli, infatti, era vile e pauroso e una perversa malvagità abitava nel suo cuore.

Zanna Bianca sentiva a pelle che non poteva fidarsi di quell’uomo. Al solo vederlo rizzava il pelo, digrignava i denti e si allontanava. Quell’uomo non gli piaceva. Emanava cattivo odore, lo stesso odore che emanano i malvagi.

Tuttavia non poteva assalirlo. Era pur sempre un dio, per giunta un dio bianco, anche se cattivo. Cercava, allora, di tenersene il più possibile alla larga, ma finiva sempre per trovarselo tra i piedi.

Beauty Smith, infatti, aveva visto come combatteva e voleva avere Zanna Bianca per sé. Castoro Grigio, però, aveva rifiutato tutte le sue proposte di vendita.

Era diventato ricco coi suoi commerci e non aveva bisogno di nulla. Inoltre, Zanna Bianca era un animale di valore: non c’era un cane come lui né sul Mackenzie né sullo Yukon.

Ma Beauty Smith era un essere spregevole e conosceva gli Indiani. Continuò a far visita a Castoro Grigio portando ogni volta, nascosta sotto il cappotto, una bottiglia nera. Castoro Grigio iniziò a non poter fare più a meno di quei regali. Il whisky, si sa, mette

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una gran sete che si riesce a spegnere solo con altro whisky.

Le mucose infiammate dell’esofago e dello stomaco richiedevano ancora e ancora quel liquido ardente: egli sarebbe ricorso a qualsiasi mezzo pur di ottenerlo. Così il denaro ricavato dalla vendita delle pellicce, dei guanti, dei mocassini, cominciò a sfumare.

Senza soldi e con una sete insaziabile di whisky Castoro Grigio girava per l’accampamento come un pazzo. Fu a questo punto che Beauty gli propose di nuovo di vendere Zanna Bianca. Questa volta, però, il prezzo venne stabilito in bottiglie e non in dollari, e Castoro Grigio non ebbe la forza di rifiutare.

- Prendilo, è tuo - furono le ultime parole dell’indiano.

Quella sera, come tutte le sere precedenti, Zanna Bianca, rientrò nella tenda e si accucciò ai piedi di Castoro Grigio. Non sapeva, però, che egli non era più il suo padrone.

Castoro Grigio gli si avvicinò barcollando e gli legò intorno al collo una correggia di cuoio. Zanna Bianca non capiva la ragione di questa improvvisa limitazione della sua libertà. Ripensava alla giornata passata e non riusciva a trovare un’azione che giustificasse quella punizione.

Passò un’ora. D’un tratto il rumore dei passi sul ter-

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reno preannunciò l’arrivo di qualcuno. Zanna Bianca lo udì per primo e rizzò il pelo avendolo riconosciuto.

Ed ecco che Beauty Smith si presentò all’interno della tenda. Castoro Grigio non disse una parola. Si limitò a porgergli il capo della correggia a cui aveva legato Zanna Bianca.

Neanche Beauty Smith disse una parola. Prese il capo che gli porgeva l’indiano e si mosse per andarsene. La correggia si tese. Zanna Bianca, per nulla intenzionato a seguire quell’uomo, faceva resistenza.

Allora Castoro Grigio lo colpì a destra e a sinistra per indurlo ad alzarsi e a seguire l’uomo bianco. Zanna Bianca obbedì, ma per balzare addosso a quell’estraneo che cercava di condurlo via.

Beauty Smith non si scansò. Si aspettava quella reazione. Manovrò il randello bloccando a mezz’aria l’assalto del lupo e facendolo stramazzare al suolo.

Zanna Bianca non ripeté l’assalto. Una randellata gli era stata più che sufficiente a convincerlo che il dio bianco sapeva come trattarlo. Così si mise a seguire, tristemente e con la coda tra le gambe, Beauty Smith.

Quest’ultimo, una volta arrivato a casa, legò solidamente il suo nuovo acquisto e andò a dormire.

Zanna Bianca attese per un’ora. Poi afferrò tra i denti la correggia e dieci secondi dopo era di nuovo libero. Non ci aveva messo molto tempo a tagliare il cuoio in

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modo netto come se avesse adoperato un coltello.

Poi trotterellò verso l’accampamento di Castoro Grigio. Egli sentiva di non dovere alcuna fedeltà a quell’altro dio straniero e terribile. Si era sottomesso a Castoro Grigio e si considerava sempre sua proprietà.

Ma, una volta fatto ritorno nella tenda del suo padrone, si ripeté quanto accaduto la sera precedente: Castoro Grigio lo legò di nuovo e lo riconsegnò la mattina dopo a Beauty Smith.

Questa volta l’uomo bianco non si risparmiò e lo bastonò furiosamente. Randello e frusta furono usati entrambi su di lui e così dovette sperimentare il peggiore castigo della sua vita. Perfino la gran bastonatura che gli aveva inflitto Castoro Grigio con la pagaia era niente al paragone di quella.

Beauty Smith godette immensamente nell’infliggere il castigo. Egli era crudele come soltanto i codardi sanno esserlo. Strisciante e umile di fronte alle minacce di un uomo, si vendicava sulle creature più deboli di lui. Non potendo esercitare alcun potere tra gli uomini, si rifaceva sulle creature inferiori.

Ma non era colpa sua. Era venuto al mondo con un corpo deforme e con un’intelligenza bruta. E il mondo certo non aveva contribuito a plasmare in maniera positiva la sua natura.

Zanna Bianca sapeva la ragione della punizione.

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Tempo addietro aveva visto i cani cambiare padrone e quando fuggivano venivano riacchiappati e bastonati come era capitato a lui.

Quando Castoro Grigio gli aveva legato una cinghia al collo e lo aveva consegnato a Beauty Smith, egli aveva capito che il suo dio voleva che egli andasse con l’uomo bianco.

Quando Beauty Smith lo aveva legato fuori del forte, egli aveva capito che il dio bianco voleva che egli rimanesse in quel posto. Egli aveva disobbedito alla volontà di entrambi e meritava il castigo.

Dopo la bastonatura, Zanna Bianca fu legato nuovamente. Questa volta, però, per essere sicuro che non fuggisse di nuovo, Beauty Smith lo assicurò a un palo.

Zanna Bianca era un animale saggio. Ma nella sua natura vi sono forze più potenti della saggezza. Una di queste era la fedeltà.

Egli non amava Castoro Grigio e tuttavia gli rimaneva fedele, nonostante la sua cattiva volontà e la collera. La fedeltà era una delle qualità che distingueva la sua dalle altre razze; era la qualità che aveva trasformato il lupo e il cane selvatico in compagni dell’uomo, dopo aver abbandonato la vita libera.

La sottomissione di Zanna Bianca a Castoro Grigio era stata incondizionata e quel legame non poteva essere sciolto così facilmente.

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Così nella notte, mentre gli uomini del forte dormivano, Zanna Bianca cominciò a rosicchiare il bastone che lo tratteneva. Non fu un’impresa facile. Ma dopo molti sforzi e dopo lunghe ore di lavoro, Zanna Bianca era di nuovo libero.

Era la prima volta che un cane riusciva a fare una cosa simile. E Zanna Bianca, con un pezzetto di legno attaccato al collo, trotterellò di nuovo verso l’accampamento.

Era saggio, ma non abbastanza per rendersi conto che era meglio non tornare da Castoro Grigio che lo aveva tradito già due volte. La sua fedeltà lo spinse ad essere tradito per la terza volta.

Questa volta la punizione che Beauty Smith gli inflisse fu ancora più spaventosa. Castoro Grigio guardava fisso davanti a sé, con uno sguardo assente e istupidito, mentre l’uomo bianco faceva sibilare la frusta.

Quando si riprese dalle percosse, Zanna Bianca seguì Beauty Smith.

Questa volta fu legato con una catena contro cui nulla potevano i suoi denti: e invano egli cercò, tirando come un forsennato, di strappare il pezzo di catena infisso in un tronco.

Zanna Bianca passava le giornate in attesa che Castoro Grigio arrivasse a riprenderlo. Ma Zanna Bianca non rivide mai più il suo vecchio padrone.

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Castoro Grigio, completamente rovinato, era ripartito per raggiungere il suo vecchio accampamento sul Mackenzie.

Fu così che Zanna Bianca rimase sullo Yukon, schiavo di un bruto mezzo pazzo. La vita del lupo divenne un inferno.

Anche dopo che Beauty Smith lo aveva liberato dalla catena egli non aveva riacquistato la sua libertà. Tutto al contrario.

Era stato rinchiuso all’interno di un recinto e ogni giorno Beauty Smith andava a molestarlo e a tormentarlo in mille modi meschini. Dalle bastonate alle derisioni, questi erano gli unici trattamenti che Zanna Bianca riceveva dal suo nuovo padrone.

Così Zanna Bianca divenne un demonio incarnato.

Prima Zanna Bianca era stato il nemico della sua razza: ora divenne nemico di tutte le cose, e più feroce di prima. Per tutti i tormenti che doveva sopportare, cominciò ad odiare ogni cosa, ciecamente, senz’ombra di ragionamento.

Un giorno parecchi uomini si radunarono intorno al recinto e ne aprirono la porta. Zanna Bianca rimase immobile. Stava succedendo qualcosa di insolito. Attese.

Ed ecco, un cane enorme venne lanciato nell’interno, mentre la porta del recinto si richiudeva con vio -

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lenza. Zanna Bianca non aveva mai visto un cane del genere - era un mastino -, ma la mole e l’aspetto feroce dell’intruso non lo spaventarono. Questo era finalmente un essere vivente, non legno o ferro, su cui poteva sfogare il suo odio.

Balzò contro l’avversario, squarciandogli il collo con le zanne. Gli uomini di fuori gridavano e applaudivano, mentre Beauty Smith, con sguardo estatico, contemplava le ferite e gli squarci che coprivano il corpo del mastino.

L’avversario di Zanna Bianca era spacciato sin dall’inizio: era troppo massiccio e troppo lento. Furono pagate le scommesse e delle monete tintinnanti caddero

nelle mani di Beauty Smith.

Zanna Bianca era ufficialmente diventato un cane da combattimento. Probabilmente uno dei migliori che la contea avesse mai visto. Egli, infatti, aveva una gran soddisfazione nel combattere in quanto poteva sfogare in quel modo tutto l’odio che Beauty Smith gli istigava col suo comportamento da bruto.

In autunno, quando già cadevano le prime nevi, Beauty Smith si imbarcò con Zanna Bianca su un vapore, diretto a Dawson. Zanna Bianca era ormai famoso in tutta la regione ed era stato soprannominato “il lupo lottatore”. Beauty Smith si recava a Dawson proprio per trarre guadagno dalla fama del suo cane.

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Appena scesi, espose Zanna Bianca al pubblico e si fece pagare da molti curiosi che volevano vedere il cane lottatore la cui fama era ormai quasi leggendaria.

Zanna Bianca non aveva un attimo di pace: mentre Beauty Smith si arricchiva, lui era sempre circondato da una folla di curiosi che lo punzecchiava con il solo scopo di scatenare le sue reazioni furiose.

Naturalmente, doveva anche sostenere dei combattimenti, di tanto in tanto. Questo accadeva generalmente di notte, in modo da evitare i controlli della polizia. Cani del Mackenzie, cani esquimesi e del Labrador, tutti ci provavano contro di lui, ma invano.

A primavera giunse a Dawson un certo Tim Keenan. Con lui giunse il primo bulldog, razza che non era mai stata vista nel Klondike. Era inevitabile che Zanna Bianca dovesse scontrarsi con questo nuovo arrivato.

Il cane di Tim venne spinto dentro la gabbia di Zanna Bianca. Né il lupo né il nuovo arrivato si mossero. Stavano immobili e ognuno studiava attentamente il proprio avversario. Dalla folla degli spettatori si alzavano degli urli:

- Dai, Cherokee! Dagli addosso! Mangialo!

Quelle grida non incitarono il mastino all’assalto, ma Zanna Bianca. Appena il lupo scattò dalla folla si alzò un urlo di soddisfazione: il duello era finalmente cominciato.

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Zanna Bianca saltò addosso al suo avversario più volte, ma tutti i tentativi di gettarlo a terra furono vani. Cherokee era troppo tozzo, troppo basso.

Finalmente si presentò a Zanna Bianca una buona occasione: Cherokee aveva la testa voltata e una spalla non riparata. Il lupo si lanciò, ma il suo balzo fu troppo alto e lo slancio lo portò ad oltrepassare il corpo dell’avversario.

Per la prima volta nella sua storia di combattente, si vide Zanna Bianca perdere l’equilibrio. Egli cadde a terra pesantemente su un fianco.

Un momento dopo era in piedi, ma in quell’attimo i denti di Cherokee lo avevano stretto alla gola. Zanna Bianca cominciò a rotear vorticosamente su se stesso, cercando di liberarsi da quel peso che lo faceva impazzire.

Il bulldog, però, non allentava la presa. Anzi, egli a poco a poco la approfondiva. Zanna Bianca continuava a dimenarsi senza sosta, nonostante si sentisse soffocare.

Sembrava che la battaglia fosse ormai quasi finita. Tim Keenan aveva da poco iniziato a raccogliere i soldi delle scommesse quando, improvvisamente, un tintinnare in lontananza attirò l’attenzione degli spettatori.

Tutti guardarono in direzione della slitta che stava sopraggiungendo, temendo che si trattasse della polizia.

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Tutti tranne Beauty Smith. Quando egli vide che gli occhi di Zanna Bianca cominciavano ad offuscarsi, capì che la partita era perduta.

Allora balzò su Zanna Bianca e cominciò a prenderlo a calci furiosamente.

Mentre Beauty Smith continuava a prendere a calci il lupo, uno dei due uomini sopraggiunti, il più giovane, si aprì a forza un varco tra la folla gridando a squarciagola:

- Vigliacchi! Bruti!

Era furibondo e i suoi occhi grigi avevano bagliori metallici.

Beauty Smith si rialzò e si avvicinò al giovane: questi, non conoscendo la viltà dell’altro, credette che costui gli venisse incontro per battersi.

Così, gridandogli: “Bestia che non sei altro!” gli mollò un altro pugno in faccia, mandandolo di nuovo a gambe all’aria.

Quel vile di Beauty Smith pensò che il posto più sicuro per lui fosse la neve e rimase là dov’era caduto, senza fare alcuno sforzo per rialzarsi.

I nuovi arrivati si avvicinarono alla gabbia cercando di liberare Zanna Bianca dalla morsa del suo avversario. Ci riuscirono dopo diversi tentativi falliti perché il bulldog non era minimamente intenzionato a mollare la presa del suo avversario.

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Zanna Bianca restò steso sul fianco. Gli occhi semichiusi erano diventati quasi vitrei. Con la bocca aperta, la lingua penzoloni, sembrava che fosse morto.

- È quasi andato, ma respira ancora Mister Scottosservò il più anziano.

- Avete sentito, voi, signor bruto? – domandò Scott a Beauty Smith che si era appena rialzato dalla neve per riprendersi Zanna Bianca. - Vi prendo il cane e vi do centocinquanta dollari.

Beauty Smith nascose le mani dietro la schiena e si rifiutò di toccare il denaro offertogli.

- Non vendo niente - disse.

- Oh, sì, voi vendete il cane perché io lo compero. Ecco il vostro denaro!

- Ho i miei diritti – bisbigliò Beauty Smith tremando, - questo cane vale un tesoro e io non voglio essere defraudato. Un uomo ha i suoi diritti.

- Giusto! - rispose Scott, lanciandogli il denaro.

- Un uomo ha i suoi diritti. Ma voi non siete un uomo: siete una bestia! Avete perduto ogni diritto di possedere questo cane. Prendete questo denaro o devo picchiarvi ancora?

– Va bene, va bene – rispose, tremante, Beauty Smith – ma aspettate che arrivi a Dawson e vi denuncerò alle autorità.

– Se solo ci provate, vi farò cacciare dalla città.

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Capito??

Beauty Smith grugnì.

– Capito? – gridò l’altro.

– Sì.

– Sì e poi?

– Sì, signore – ringhiò Beauty.

– Attenzione! Può azzannare anche voi! – gridò uno degli spettatori e scoppiò una fragorosa risata.

Scott tornò accanto a Zanna Bianca e al suo compare che cercava di rianimarlo.

Alcuni degli spettatori cominciarono ad andarsene: altri rimasero a osservare la scena.

Tim Keenan si avvicinò a un gruppetto.

– Chi è quell’uomo? – chiese.

– È Weedon Scott – gli risposero.

– E chi accidenti sarebbe? – incalzò Keenan. – È uno degli ingegneri delle miniere. Amico dei pezzi grossi. Se non vuoi avere guai, stanne alla larga, fidati. È un grande amico del commissario dell’oro, tra l’altro.

– Immaginavo fosse uno che conta… per questo non gli ho messo le mani addosso! – commentò spavaldo Keenan.

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Parte Quinta

un caso disperato, Matt - osservò Weedon Scott.

-

Era seduto sulla soglia della sua baracca e si rivolgeva al conducente, che rispose stringendosi nelle spalle con fare scoraggiato.

Entrambi guardavano Zanna Bianca che, legato a un albero con una catena, ringhiava e si dimenava furiosamente.

- Eppure, signore – replicò Matt, – è già stato domato. Ha già portato i finimenti. Guardate, non vedete questi segni sul petto?

- Hai ragione, Matt: prima di cadere nelle mani di Beauty Smith, era un cane da slitta.

- Già, e non c’è nessuna ragione perché non torni ad esserlo.

- Proviamo a slegarlo per un po’ di tempo – consigliò Scott.

Detto questo si avvicinò a Zanna Bianca e, anche se questo non smetteva di ringhiare mostrando le sue zanne affilate, riuscì a liberarlo dalla catena.

Zanna Bianca quasi non riusciva a rendersi conto di essere libero. Erano passati parecchi mesi da quando

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È

Beauty Smith era diventato il suo padrone e in tutto quel periodo non aveva conosciuto un attimo di libertà, eccetto quando veniva slegato per combattere.

Ora, non sapeva come approfittare della sua libertà. Forse gli dei stavano per combinare qualche altra diavoleria ai suoi danni. Era tutto così strano! Ma la cosa più strana doveva ancora accadere.

Il signor Scott, uscì dalla baracca con in mano alcuni pezzi di carne e si sedette accanto a Zanna Bianca. Gli parlava dolcemente, senza brandire alcun randello o altro oggetto con cui fargli del male.

Zanna Bianca era sospettoso ma valutò che nulla c’era in quella situazione di pericoloso. Quando gli dei devono infliggere una punizione, stanno in piedi. E poi, egli non era più legato e avrebbe avuto il tempo di mettersi in salvo, se il dio si fosse alzato. Nel frattempo, sarebbe stato a vedere...

Poi il dio cominciò a parlare a Zanna Bianca come nessuno mai gli aveva parlato. Gli parlava con una dolcezza che, misteriosamente, giungeva al cuore di Zanna Bianca. E, contrariamente a quanto gli suggeriva il suo istinto, Zanna Bianca cominciò ad avere fiducia in quel dio che gli infondeva uno strano senso di sicurezza.

Il dio si accorse che il lupo cominciava a tranquillizzarsi. Il suo ringhio si era trasformato in un sordo

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borbottio. Fu allora che gli porse la carne. Ma non la gettò a terra. La stringeva, invece, tra le sue mani.

Zanna Bianca osservava quella scena inusuale e ne fu colpito. I suoi timori per una possibile punizione di quel dio sconosciuto erano forti. Ma più forte era la fame. Così, a poco a poco, con molta circospezione, si avvicinò alla mano e finalmente si decise a prendere il pezzetto di carne.

Era veramente buona!

La mano del dio, però, ora era rimasta vuota e poteva colpire. Zanna Bianca aveva sperimentato più volte come questa, anche senza randello, potesse portare enorme dolore. E, infatti, appena terminato di mangiare il pezzo di carne, il dio avvicinò la sua mano alla testa del lupo.

Ecco, l’aveva immaginato! La mano, la mano del dio stava scendendo sulla sua testa!... Ma il dio continuava a parlare e la sua voce era dolce e carezzevole. Così Zanna Bianca lottò contro il suo istinto di mordere la mano e si raggomitolò a terra cercando di non perdere il proprio controllo.

Intanto la mano del dio toccava la sua testa. La sensazione che Zanna Bianca provò non fu dolorosa, ma anzi piacevole. Il dio stava facendo qualcosa che nessuno mai aveva mai fatto a Zanna Bianca: lo stava accarezzando.

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Era il principio della fine per Zanna Bianca: la fine della sua vecchia vita e del regno dell’odio. Una nuova vita stava sorgendo, una vita stranamente più bella.

Weedon Scott era giunto fin negli abissi più inesplorati della natura di Zanna Bianca e con mano gentile risvegliò forze vitali sopite o pressoché scomparse. Una di queste forze era l’”amore”, che prese il posto della “simpatia” e del “timore”, i sentimenti più elevati che fino ad allora Zanna Bianca fosse riuscito a provare per qualcuno.

Ma la vita aveva reso Zanna Bianca un animale solitario. Per questo ora aveva difficoltà ad esprimere il suo amore nei confronti di quel padrone buono.

Non correva mai incontro al suo dio. Aspettava sempre ad una certa distanza: ma non mancava mai di attenderlo... Il suo amore era una specie di culto silenzioso, un’adorazione muta.

Questa nuova vita, però, non poteva durare a lungo. Weedon Scott non era un abitante del mondo selvaggio. Si era avventurato in quei luoghi inospitali solo per curare alcuni suoi affari nelle miniere Klondike. Egli era in realtà un uomo del Sud e al Sud sarebbe dovuto prima o poi ritornare.

Quando arrivò il giorno della partenza, Zanna Bianca sapeva benissimo cosa stesse succedendo. Vide le valigie e si ricordò che l’ultima volta che erano com-

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parsi quegli strani oggetti il suo padrone era stato assente dalla baracca per settimane.

Zanna Bianca aveva sofferto così tanto da ammalarsi di una febbre che lo avrebbe di sicuro finito, se il suo padrone non fosse tornato. Era stato Matt a suggerirgli quella decisione, preoccupato per le condizioni di salute del lupo.

- Credo che il lupo sia preoccupato per voi - osservò

Matt.

Weedon Scott, con un tono che era in contrasto con l’espressione dei suoi occhi, esclamò:

- D’altronde, che cosa diavolo farei con un lupo, in California?

- Giusto - fece eco Matt. - Cosa diavolo fareste con un lupo, in California?

Weedon Scott scrutò il lupo ben bene, poi con voce malinconica soggiunse:

- Povero diavolo! - gli disse, accarezzandolo dolcemente. – Devo partire per un lungo viaggio e tu non puoi seguirmi...

Un lungo fischio interruppe la conversazione.

- Ehi, sta fischiando! - esclamò Matt. Dal Fort Yukon giungeva il rauco suono della sirena del vapore.

- Dovete tagliar corto! E chiudete a chiave la porta davanti: io uscirò da quella posteriore. Dobbiamo sbrigarci!

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L’“Aurora” era il primo vapore di quell’anno. Accanto alla passerella dell’“Aurora”, Scott stringeva la mano a Matt, che stava per scendere a terra.

Ma improvvisamente la mano del conducente diventò inerte nella stretta, mentre i suoi occhi fissavano qualche cosa alle spalle del padrone. Scott si voltò e vide Zanna Bianca, seduto sul ponte a qualche metro di distanza, che guardava col suo sguardo pensoso.

- Lo porterò a terra con me.

E Matt si mosse verso Zanna Bianca.

Il fischio dell’“Aurora” si levò per l’ultima volta, annunciando la partenza. Matt si levò il fazzoletto dal collo e fece l’atto di legare Zanna Bianca. Ma Scott lo fermò.

- Addio, Matt, vecchio mio. Per il lupo... non c’è bisogno che tu mi scriva… Vedi, io ho...

- Cosa?! Non vorrete dire che...

- Sì, proprio così. Tieni il tuo fazzoletto. Te le scriverò io, le notizie del lupo.

La passerella fu tolta e l’“Aurora” si staccò dalla riva. Weedon Scott fece un ultimo gesto di saluto all’amico e servitore.

Quando Zanna Bianca sbarcò dal piroscafo a San Francisco fu sbigottito. Da cucciolo aveva avuto co -

scienza della propria piccolezza e impotenza il giorno

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in cui era entrato nel campo di Castoro Grigio, abbandonando per la prima volta il “Wild”. Ed ora, nella pienezza del suo sviluppo fisico, avvertì lo stesso senso di impotenza.

Non aveva mai visto tanti dei. Quel trambusto lo inebriava e gli riempiva le orecchie. Quei continui sussulti e quei movimenti di quanto gli girava intorno gli fecero perdere la testa. Mai come allora, sentì il proprio stato di dipendenza dal padrone e lo seguì, standogli alle calcagna, senza perderlo mai di vista.

Ma per Zanna Bianca, la città doveva costituire soltanto un incubo brevissimo. Ben presto, infatti, lui e il suo padrone salirono su una carrozze che li condusse a Sierra Vista (così si chiamava la tenuta della famiglia Scott).

Appena Weedon Scott fu sceso, un uomo gli si avvicinò e una donna gli saltò al collo. Zanna Bianca non ebbe dubbi: era un atto ostile!

Un attimo dopo Weedon Scott si era sciolto dall’abbraccio ed era alle prese con Zanna Bianca, divenuto improvvisamente un demonio ringhioso e furibondo.

- Tutto bene, mamma! - diceva intanto Scott, tenendo stretto il lupo e cercando di calmarlo. - Ha creduto che tu stessi per farmi del male e non può sopportare questo pensiero! Ma sta’ tranquilla... Imparerà presto...

E cominciò a parlare dolcemente a Zanna Bian-

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ca, finché non lo vide calmo. Poi gli ordinò con voce

severa:

- Giù, ora! Cuccia! - Zanna Bianca si sedette ma non per molto.

Appena la carrozza entrò nella proprietà, egli fu assalito da un cane da pastore, dal muso aguzzo, che gli venne incontro infuriato, con l’intenzione di dividerlo dal padrone.

Zanna Bianca non ringhiò. Come al solito, il suo contrattacco sarebbe stato improvviso e silenzioso. Ma quel contrattacco non fu mai portato a termine.

Il lupo, imbarazzato, si arrestò e con le zampe anteriori puntate al suolo, trattenne lo slancio. Si limitò a schivare l’attacco del suo avversario.

Si trattava infatti di una femmina e la legge della loro razza metteva tra loro una barriera. Attaccare quella cagna equivaleva a trasgredire una legge dettata dall’istinto.

Ma per la cagna da pastore, le cose stavano in modo diverso. Zanna Bianca era per lei un lupo, cioè il predone dal quale i suoi antenati avevano imparato a difendere se stessi e il gregge. Rappresentava un pericolo che andava allontanato. Perciò, quando egli frenò il suo slancio, essa gli balzò addosso. Zanna Bianca

ringhiò, quando sentì penetrare nella spalla quei denti aguzzi, ma non reagì con un atto ostile.

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Indietreggiò e cercò di girare intorno a lei per raggiungere il padrone, ma non gli era possibile.

- Qua, Collie! - chiamò il dio straniero dalla carrozza.

Weedon Scott rise:

- Non preoccuparti, babbo. Gli farà bene questa lezione! Zanna Bianca dovrà imparare molte cose e tanto vale che cominci fin d’ora. Se la caverà, vedrai!

Ed effettivamente Zanna Bianca avrebbe dovuto imparare molte leggi nuove a Sierra Vista, dove la vita era ben più complicata che nella terra del Nord.

Prima di tutto dovette imparare a conoscere la famiglia del suo padrone. Già in passato aveva dovuto conoscere la famiglia di Castoro Grigio. Vi erano però parecchie differenze, poiché Sierra Vista era ben più grande della capanna di Castoro Grigio. E vi erano molte persone in casa.

A poco a poco, osservandole attentamente, studiandone i gesti, le parole e persino l’intonazione della voce, capì il grado di familiarità che le legava al suo padrone e l’affetto di cui godevano presso il suo dio.

Fatta questa classificazione, egli le trattò in conformità.

Tutto quello che era caro al suo padrone, doveva essere caro anche a lui ed egli doveva averne cura. A cominciare dai due bambini.

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Nella sua considerazione, subito dopo i bambini veniva il giudice Scott. Prima di tutto perché era evidente che il suo padrone lo teneva in gran conto, e poi perché era molto riservato. A Zanna Bianca piaceva allungarsi ai suoi piedi sulla terrazza, mentre egli leggeva il giornale.

Ma questo avveniva soltanto quando il suo padrone non era vicino. Appena egli compariva, tutti gli altri cessavano di esistere agli occhi di Zanna Bianca.

Anche fuori di casa vi erano moltissime cose da imparare. Nel Nord, l’unico animale addomesticato era il cane. Tutti gli altri animali vivevano allo stato selvaggio ed erano una preda legittima per tutti i cani.

A Sierra Vista, invece, vivevano gatti, conigli e galline. Una notte, quando le galline erano già andate a dormire, il lupo si arrampicò su una catasta di legna e di lì sul tetto del pollaio, lasciandosi poi cadere nell’interno. Un attimo dopo cominciava la carneficina.

Al mattino, quando il padrone uscì sul terrazzo, vide per prima cosa i cadaveri di cinquanta galline bianche livornesi. Il suo sguardo cadde poi su Zanna Bianca che, non sentendosi affatto colpevole, si comportava come se avesse compiuto un’azione degna di lode.

Il suo padrone affrontò suo malgrado, lo sgradevole compito di fargli capire il peccato. Gli rivolse la parola in tono aspro; poi, afferrandogli la testa, gli fece tocca-

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re col naso le sue vittime, somministrandogli contemporaneamente un sonoro ceffone.

Per la sua educazione i mezzi più efficaci erano proprio gli scappellotti del padrone e i suoi rimproveri. L’amore che egli nutriva verso il suo dio era tale che un suo scappellotto gli faceva molto più male di tutte le percosse di Castoro Grigio e di Beauty Smith.

Quelli avevano colpito soltanto la sua carne, facendola dolorare; ma sotto la carne lo spirito fremeva, invincibile. I colpetti del suo padrone erano troppo leggeri per fare male alla carne; il dolore, però, penetrava profondamente in lui.

Quei colpetti, infatti, esprimevano la disapprovazione del padrone, e lo spirito di Zanna Bianca si piegava sotto quel biasimo, soffrendo intensamente.

Da quel momento, Zanna Bianca non fece più nessuna incursione nei pollai. Era contro la legge ed egli l’aveva capito.

- Non potrai mai correggere una bestia che abbia l’istinto di uccidere le galline - osservò il giudice Scott, dopo aver ascoltato il racconto del figlio. - Una volta presa l’abitudine e gustato il sapore del sangue...

E scosse tristemente la testa. Ma Weedon Scott non era d’accordo e lanciò una sfida:

- Ti dirò subito quello che farò: chiuderò Zanna Bianca nel recinto delle galline per tutto il pomeriggio.

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- Ma pensa alle galline... - obiettò il giudice.

- E per ogni gallina che ucciderà - continuò il figlio – ti darò un dollaro d’oro! Ma, se alla fine Zanna Bianca non avrà fatto del male neppure a una gallina, per ogni dieci minuti che ha passato nel pollaio gli dovrai dire, con aria solenne, come se fossi in tribunale:

“Zanna Bianca, sei molto più in gamba di quanto io pensassi”.

Da vari punti di osservazione nascosti, tutta la famiglia assistette all’esperimento. Ma se speravano di assistere ad uno spettacolo movimentato, furono delusi.

Chiuso nel pollaio, Zanna Bianca si sdraiò e si addormentò. Si svegliò solo una volta per andare a bere, ignorando del tutto le galline. Alle quattro raggiunse con un balzo il tetto del pollaio, saltò fuori e si avviò verso la casa.

Aveva imparato la legge. E sotto il porticato, davanti a tutta la famiglia, il giudice Scott disse a Zanna Bianca, con voce lenta e solenne, per ben sedici volte:

- Zanna Bianca, sei molto più in gamba di quanto io pensassi.

Ma Zanna Bianca era stordito dal gran numero di leggi nuove e spesso gli capitava di sbagliare. Dopo l’esperienza di vita semplice nelle terre del Nord, quella a Sierra Vista gli parve assai complicata.

Tra le cose richieste dalla civiltà Zanna Bianca im-

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parò che quelle più importanti erano il controllo di se stessi e la rinuncia. Ovunque andasse era costretto a una continua repressione dei suoi impulsi naturali.

Vi erano le macellerie, dove la carne era appesa a portata della sua bocca: ma non bisognava toccarla. Nelle case in cui lo portava il suo padrone vi erano dei gatti, da lasciare in pace; e dei cani, che ringhiavano contro di lui e che egli non doveva attaccare.

Nonostante queste piccole rinunce, Zanna Bianca viveva felice e beato nelle Terre del Sud. In quella terra inondata di sole, splendeva su di lui anche un sole metaforico, il sole della bontà umana: e sotto i suoi raggi egli fioriva come una pianta in un terreno fertile.

Tuttavia nella vita di Zanna Bianca c’era ancora una spina: Collie. La cagna non gli concedeva mai un attimo di tranquillità. Non era disposta a sottomettersi alla legge, come lui, e sdegnava tutti gli sforzi fatti dal padrone per renderla amica di Zanna Bianca.

Non gli aveva mai perdonato il massacro delle galline e continuava a pensare che le intenzioni di Zanna Bianca fossero sempre cattive. Così Zanna Bianca se la trovava sempre alle calcagna, come un poliziotto, in giro per le stalle e per i prati. Il metodo che Zanna Bianca adottava preferibilmente per ignorarla era quello di sdraiarsi con la testa sulle zampe, fingendo di dormire. Questo la confondeva e la faceva tacere.

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All’inizio del suo secondo inverno a Sierra Vista Zanna Bianca fece una nuova scoperta. Egli si accorse che i denti di Collie erano diventati meno aguzzi. I suoi morsi erano diventati più scherzosi e non facevano più male.

Zanna Bianca dimenticò ben presto che la cagna lo aveva tormentato e, con molta dignità, cercò di partecipare ai suoi scherzi.

Un giorno essa lo invitò a una lunga corsa attraverso i prati e i boschi. Zanna Bianca era indeciso se partecipare o meno a questo nuovo gioco. E poi il padrone stava per uscire a cavallo e lui avrebbe voluto accompagnarlo.

Ma poi, qualcosa che era in lui, più profondo persino del suo amore per il padrone, si destò.

E quando Collie lo morsicò leggermente e poi fuggì, egli la seguì.

E nei boschi, fianco a fianco, correvano Zanna Bianca e Collie, come molti anni prima avevano fatto, nelle silenziose foreste del Nord, Kiche e One Eye...

Zanna Bianca non viveva più in un ambiente ostile e la vita si era fatta dolce e amabile anche per lui. Ma anche in un ambiente tranquillo come quello delle terre del Sud i pericoli e le minacce erano sempre in agguato.

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A destare particolare preoccupazione tra gli abitanti di Sierra Vista era l’evasione dalla prigione di San Quentin di un carcerato. Era un uomo malvagio ma di certo la società non aveva contribuito a renderlo migliore.

Segregazione, digiuno, percosse e bastonate: ecco il trattamento al quale era stato sottoposto Jim Hall, fin da quando era un tenero fanciullo. Ogni persona che aveva incontrato nella sua vita lo aveva odiato e maltrattato; per questo egli odiava e maltrattava ogni persona che incontrava.

Da quando era evaso aveva lasciato dietro di sé solo morti e feriti. Ma trovarlo si stava rivelando un’operazione più difficile del previsto. Da settimane, ormai, i cani poliziotto cercavano invano le sue tracce nel terreno. Sembrava sparito nel nulla!

Le donne di Sierra Vista leggevano sui giornali le notizie su di lui e ne avevano una gran paura. Il giudice Scott rideva di loro, ma aveva torto a non preoccuparsi.

Era stato il giudice Scott, infatti, a condannare per l’ultima volta Jim Hall. E il giorno della lettura della sua condanna, davanti a tutti, Jim Hall aveva proclamato che sarebbe venuto il momento in cui egli si sarebbe vendicato del giudice che gli stava infliggendo quell’ingiusta punizione.

Per la prima volta, Jim Hall aveva ragione: egli era

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innocente del delitto per cui era stato condannato. Così, quando udì dalle labbra del giudice Scott la condanna che lo seppelliva vivo per cinquant’anni, era balzato in piedi e aveva inveito finché non era stato trascinato fuori da sei guardie.

Per Jim, il giudice Scott era il maggiore responsabile di quell’atto di ingiustizia e contro di lui aveva rivolto tutto il suo furore e tutte le minacce di vendetta.

Zanna Bianca non sapeva nulla di tutto questo. Ma fra lui e Alice, la moglie del suo padrone, esisteva un segreto. Ogni sera, quando tutti gli abitanti della casa erano andati a dormire, ella si alzava e faceva entrare il lupo, lasciandolo dormire nel vestibolo.

E una notte, mentre tutti dormivano, Zanna Bianca si destò e, eccezionalmente, rimase fermo, in silenzio. Il suo fiuto gli rivelò la strana presenza di un dio estraneo.

Il dio straniero camminava senza fare rumore, ma più silenziosamente ancora camminava Zanna Bianca. Avanzava in un silenzio totale: nel mondo selvaggio aveva dato la caccia a esseri viventi molto paurosi e conosceva bene i vantaggi del fattore sorpresa.

Il dio straniero si fermò ai piedi della grande scalinata. Zanna Bianca attese, nella più assoluta immobilità. Quella scalinata conduceva alla camera del suo padrone e a quelle delle persone a lui care.

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Il piede del dio straniero si sollevò e si posò sul primo scalino. In quel momento Zanna Bianca sferrò il suo attacco. Senza un ringhio, balzò in aria, si aggrappò alle spalle dell’uomo e gli affondò i denti nel collo. Insieme caddero a terra.

Si udirono dei colpi di rivoltella. Una voce di uomo lanciò un urlo di orrore e di angoscia. Poi si udirono dei ringhi e un rumore di mobili fracassati e di vetri rotti.

Tutta la casa si destò e i suoi abitanti, terrorizzati, si riunirono in cima alla scalinata. Weedon Scott girò un interruttore e la scalinata e il vestibolo furono inondati di luce. Weedon e il padre scesero cautamente le scale, con le rivoltelle in pugno. Ma non era più necessaria tanta prudenza.

Zanna Bianca aveva fatto il suo dovere. In mezzo ad un caos di mobili rovesciati e in pezzi giaceva, su un fianco e col viso coperto dal braccio, un uomo. Weedon Scott si piegò su di lui, scostò il braccio e voltò il viso dell’uomo. Uno squarcio nella gola spiegava la ragione della sua morte.

- Jim Hall... - disse il giudice Scott. E padre e figlio si guardarono in modo significativo.

Poi si occuparono di Zanna Bianca: anche il lupo giaceva su un fianco.

- È spacciato, povero diavolo - mormorò il padrone.

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- Vedremo... - rispose il giudice, avviandosi al telefono.

- Francamente, ha una probabilità su mille di cavarsela! - dichiarò il chirurgo, dopo aver lavorato per un’ora e mezza sul corpo di Zanna Bianca.

- Una delle zampe posteriori spezzata - continuò il medico. - Tre costole rotte e almeno una di queste ha perforato il polmone. Ha perso quasi tutto il suo sangue e penso che vi siano anche delle lesioni interne. Per non parlare poi delle tre pallottole che lo hanno passato da parte a parte. Una probabilità su mille è un giudizio ottimistico. Non ha una probabilità su diecimila.

- Ma non bisogna trascurare nessuna possibilità!esclamò il giudice Scott. - Non mi preoccupo della spesa.

Zanna Bianca fu assistito amorevolmente. E il lupo riuscì a vincere contro le diecimila probabilità di cui aveva parlato il chirurgo.

Questi non doveva però essere criticato per la diagnosi errata. Egli aveva sempre curato ed operato esseri umani, che vivevano una vita calma, piena di precauzioni.

Zanna Bianca proveniva dal mondo selvaggio delle foreste del Nord. Egli aveva ricevuto in eredità una fibra adamantina e la grande vitalità delle creature di

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quei luoghi. Perciò si aggrappava alla vita, anima e corpo, con la tenacia che in origine era propria di ogni essere vivente.

Tutto legato e immobilizzato da fasciature ed ingessature, Zanna Bianca rimase in casa per settimane e settimane. Ma venne il giorno in cui gli furono tolti l’ultimo bendaggio e l’ultima ingessatura. Fu un giorno di festa. Tutti gli abitanti di Sierra Vista erano riuniti intorno a lui.

Egli cercò di alzarsi in piedi, ma dopo parecchi tentativi, ricadde a terra, vinto dalla debolezza. I suoi muscoli, per il lungo riposo, avevano perso la loro agilità e la loro forza.

- Dovrà imparare a camminare di nuovo - disse il chirurgo.

- Tanto vale che cominci subito – rispose Weedon Scott. - Non gli farà male: portatelo fuori.

E il lupo uscì, come un re, accompagnato da tutti gli abitanti della casa. Era molto debole e, quando raggiunse il prato, si sdraiò per riposare un poco.

Davanti alla porta della stalla se ne stava sdraiata Collie e una mezza dozzina di cuccioli giocavano intorno a lei. Zanna Bianca guardò con uno sguardo meravigliato.

Collie ringhiò al suo indirizzo e Zanna Bianca si tenne prudentemente a distanza.

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Il padrone, con la punta del piede, spinse uno dei cuccioli vicino al lupo. Il cucciolo si mosse sgambettando davanti a lui: egli drizzò le orecchie e lo guardò con curiosità. Poi i loro nasi si toccarono ed egli sentì sul muso la calda linguetta del cucciolo. E dopo un attimo, senza che egli se ne rendesse conto, la sua lingua leccava il musetto del cagnolino.

Un po’ alla volta anche gli altri cuccioli gli si avvicinarono sgambettando.

Egli, con aria grave, permise loro di arrampicarsi su di lui e di rotolare dalla sua schiena.

In principio, egli si sentì come un tempo un po’ imbarazzato. Ma anche questa sensazione svanì, mentre i cuccioli continuavano a scherzare e a ruzzolare dal suo dorso: ed egli rimase immobile, con gli occhi socchiusi ed una luce paziente nello sguardo, sonnecchiando sotto i raggi del sole.

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L’autore: la vita, le opere

Jack London nasce a San Francisco nel 1876, figlio illegittimo di un astrologo irlandese e di una ereditiera americana. Poco dopo la sua nascita, la madre si risposa con un contadino vedovo e Jack viene cresciuto dal padre adottivo. In gioventù salta da un lavoro all’altro e si circonda di amicizie poco raccomandabili. Dopo aver abbandonato l’Università senza concludere gli studi, il futuro autore partì con una spedizione di avventurieri per partecipare alla “corsa dell’oro” del Klondike.

La sua fu un’esistenza vagabonda, disseminata dei lavori più disparati: fu garzone di giornali, pescatore clandestino di ostriche, lavandaio, cacciatore di foche, corrispondente di guerra, agente assicurativo, pugile e, per l’appunto, cercatore d’oro.

Dopo una serie di tentativi infruttuosi, riesce a realizzarsi come autore di successo: nel suo vagabondaggio per gli States, complici anche i venti socialisti che soffiavano in quegli anni, London dà alle stampe The Road (1907), un diario di viaggio che ispirerà successivamente i poeti della Beat Generation, Jack Kerou-

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ac e Hemingway su tutti. Di quattro anni prima è la redazione del suo celebre romanzo Il richiamo della foresta, che ha come sfondo la corsa all’oro di fine Ottocento – inizio Novecento.

Decide di farsi costruire uno yacht per effettuare il giro del mondo in sette anni, ma riuscirà ad effettuare solo brevi soggiorni nei mari del Sud e in Oceania.

Nel 1909 pubblica Martin Eden, un’autobiografia in terza persona che ottiene un vasto successo di pubblico. L’anno dopo acquista un ranch in California, dove trova la morte a soli 40 anni, nel 1916, a causa di un’overdose di antidolorifici. London è stato l’autore statunitense più tradotto all’estero e le sue opere di denuncia sociale sono state utilizzate a scopo propagandistico dal regime sovietico; inoltre, per l’esaltazione e la celebrazione della forza che traspare nei suoi scritti, l’autore ha goduto di grande considerazione e fama anche nell’Italia fascista. Al di là delle ideologie e delle letture politiche, London va considerato prima di tutto un paladino del progresso e un fervente ambientalista.

Zanna Bianca, la sua opera più conosciuta, viene data alle stampe nel 1906.

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79 INDICE Parte Prima Parte Seconda Parte Terza Parte Quarta Parte Quinta L’autore: la vita, le opere 5 14 28 40 56 76
Scopri gli altri titoli della collana sul sito www.ilmulinoavento.it

Uno dei romanzi più famosi dello scrittore statunitense Jack London, uno dei classici della letteratura per ragazzi. Attraverso la vita del protagonista, il lupo Zanna Bianca, l’autore descrive la violenza e la crudeltà sia del mondo selvaggio sia di quello che chiamiamo mondo civile. Zanna Bianca affronta le sfide che gli si presentano, solo contro tutti, fino al giorno in cui farà un incontro destinato a cambiargli la vita.

Allegato omaggio a Tempo d’estate 4a

Non vendibile separatamente

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