Opera Prima - Manuel Micaletto

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Il piombo a specchio Manuel Micaletto “Opera Prima”, n. 26, Cierre Grafica, 2012 Luigi Bosco e Poesia 2.0 Disegno di Robert Moorhead

Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.





OPERA PRIMA

26

MANUEL MICALETTO

IL PIOMBO A SPECCHIO Incipit

Anterem, 2012



PREMESSA



Che cosa resta della caduta? Forse la specie immemoriale, l’alterità irriducibile, il dolore del pensare. Che cosa testimonia ciò che della caduta resta? Forse l’accadimento senza racconto di una verità o l’attesa vana del desiderio. Ciò che resta della caduta, forse, è una “questione di principio”, suggerisce Manuel Micaletto negli appunti di lavoro che accompagnano Il piombo a specchio. In ogni caso, niente, dopo la caduta, potrà ancorare l’esistenza a un senso che la rassicuri di fronte all’abisso dell’assurdità che in ogni momento la minaccia. Micaletto è consapevole che l’uomo, caduto nel tempo e nella finitudine, è libero ma al tempo stesso prigioniero nell’angusta cella dell’universo: “L’evento è una citazione, un virgolettato della morte. / Esserci è un difetto di pronuncia”. È consapevole che tutto è un rovinoso precipitare: come se il definitivo scomparire fosse l’unico movimento concesso all’uomo. Siamo noi quei nomi mai compiutamente pronunciati, siamo noi quelle figure spezzate in due: voliamo per un breve tratto accanto a un uccello assolutamente muto e subito dopo cadiamo a terra con lui. In Il piombo a specchio c’è la volta del cielo da cui si cade e c’è il vuoto in cui si cade. Attraverso questa lacerazione succede che si produca qualcosa come un incontro. Bisogna mostrare come stanno veramente le cose, e chiarire che il nostro precipitare consiste in un angoscioso raggruppamento di spasmi, sussulti, cecità; di esplosioni e di vibrazioni. Fino alla fine della caduta e a ciò che della caduta resta. Bisogna mostrare che la sorte del nostro corpo non è diversa. “A volte quando dormi / un braccio dorme più forte, ti sveglia” registra Micaletto; e sembra di udire, in controcanto, Tennessee Williams quando esclama: “Ma tu sei il mio braccio! Non cadere, non cadere!”. Ciò che resta della caduta (ovvero ciò che resta di un moto discendente) non è ciò che resta del fuoco (ovvero di un moto ascendente). Non resta la cenere dopo una trasformazione


verso il basso, ma una “voce senza prefisso”, un “buio senza desinenza”. Nel “rovinare” c’è la sera che declina; e scendendo offre ben altro che il semplice guardare, e consiste in ben altro che nel semplice sentire. Ma cosa c’è, dunque, oltre il guardare e il sentire se non quella particolare forma di conoscenza che è la scrittura? ovvero quella “questione di principio” così cara a Micaletto? La sera che declina dà vita a un luogo di tenebra. La visibilità del buio rispetto a ciò che si conosce è prodotta da un gesto umbratile – e per questo svelante – dentro il mistero: un gesto di scrittura. “Non è facile rinvenire / un altrove del centro” annota Micaletto. E questo avviene perché il centro è alla periferia, dentro la luce che si dissolve e che sfrangia i confini, illuminando opache densità. Si inizia a comprendere se stessi attraverso le tenebre, quando la notte, dopo il declino della sera, si rende palpabile e irrompe nella nostra mente con forza dilagante. La riflessione di Micaletto è riflessione sulla poesia, sulla difficoltà della poesia ad avere – nella sua forma autentica – cittadinanza in un occidente ammaliato dalla nozione di progresso e incurante delle proprie rovine. La storia del genere umano è vista come storia di un abitare poetico che non rinuncia al pensiero. “Rovinare” vuol dire farsi-rovina e lasciar emergere – nel colloquio con la parola – il caos sottostante le regole. Nel “rovinare” è insito un esodo che porta in seno al principio una migrazione che – attraverso le rovine, attraverso la strada aperta dall’eco – porta al luogo dell’atto inaugurale: là dove l’uomo è chiamato a promuovere la propria rivolta contro questa terra popolata da incubi e da dolori tollerabili a fatica; contro ciò che, in ciascuno di noi, è irriducibile alla rovina. Flavio Ermini


IL PIOMBO A SPECCHIO Manuel Micaletto



Benedizione del legamento Ricordo la passeggiata di Hobbes, le strade premute come cefalopodi – soprattutto di ogni passo

l’origine, la gabbia intercostale. Poiché la secchezza delle fauci vale come carestia per queste vie brachiali, percorse ora a un fianco ora in mezzo al torace, dove il sangue è reciproco e la sintassi dispari – il “più bel legame”, il vertice che attira gli insetti. Un viale alberato è un cordone sanitario dove il centro sta per miracolo, mentre i lati toccano alle epidemie. Per comodità, separo la predicazione dal contagio – ma decisiva è l’inclusione, la corsa ai linfonodi. (Le cose più piccole, per esistere devono eccedere in numero, sfasare il tetto, tramutare la cifra in effetto). Ma come gestire le gambe, tutto – se il corpo contiene

vuoti ricorrenti ricavati tra le spugne – come, se accoglie ogni schiacciamento e teste enormi. La peste è un’unità piramidale, installata dove tutto è più molle – è una camera sottoscapolare, un tessuto poroso. E raggiunta la sua sede, trema: esattamente un budino.


Retentissement Anche questo sonno mescola le ossa, sceglie il centimetro, la statura

dell’amnesia. Tutto è esposto alla trazione invisibile, il fiato corto degli dei che inalano il soffitto. A nulla vale l’agilità del telaio, la parola al carbonio, l’acqua senza mediazioni, nel prodigio. (Qui la fine è una funzione del tessuto, procede dall’amido). Dunque molte cose sono un’esplosione, più le altre che arrivano in barella nello spazio di un taglio. Perciò della tosse credo più della scossa: invece concentra il buio, la sillaba dell’infortunio. Svegliarsi allora è medicare la stanza, sbucare nel secolo. Più alto l’incarico: tutto accade così fuori – tutto, intendo, rasoterra

in perfetta aderenza, la frizione anatomica – non possiamo che ricevere i feriti dove avviene l’origine e tende a non scomparire, ma anzi a precisare la cura questa casa ha un decorso, una condotta clinica.


Ri-capitolazione Non si interroga un oggetto ma si collauda il vuoto non si torna vivi tra i vivi per raccontare come l’occhio si conclude dove comincia la pista degli atomi e più o meno tutto si arrampica per mai più tornare, più o meno tutto stravolto, con le zampe che tentano un recupero, un insetto in quella frenesia che risucchia l’aria – e la crosta pure intatta, dietro, fa a gara col mondo, disegna una ruota, una trottola nel cuore della corsa, un giocattolo della fine. L’infanzia è un ronzio di aerosol: un boccaglio spray attrae la percentuale, la frazione curativa, il settore che ripristina il sangue, l’acqua derivativa ai minimi termini.


Layout Il tempo a barre dei display strattona il sangue nella mischia, contende la mosca al suo dominio di centinaia e centinaia di occhi, e centinaia ancora, la folla si rovescia e reclama il vuoto innocente e preme e divarica la stanza, curva a strapiombo, rintraccia nel letto quella norma che detiene l’origine. Non è facile rinvenire un altrove del centro, spiazzati in testa al buio compatto che si fa strada e lascia il mondo al palo. CosĂŹ poveri di mondo, allora, staccare il testo dalla pagina e questo enunciato che prende una strana piega, si sbilancia, cade a specchio, obbedisce

al suo stesso piombo.


POSTFAZIONE



Siamo felici e inquieti Postfazione di Mario Fresa 1. Ogni opera poetica dev’essere un eccesso. 1.2 Ogni opera poetica dev’essere uno sproposito, uno sguardo abnorme: e dev’essere sempre, allo stesso tempo, definitiva e primitiva, risolutiva e distruttrice. Perché in una scrittura poetica c’è in gioco l’esistenza: e la poesia è un gioco, appunto, che vibra di un’oggettiva crudeltà; e le sue azioni favorite sono trascendere, fuoriuscire, straripare. 1.2.3 Ogni poeta deve tentare di scrivere tutto ciò che gli altri uomini non hanno saputo raccontare né capire: e deve saper toccare, superare e infrangere il limite estremo di ogni sapienza (fino alla speranza di giungere, come auspica Giovanni della Croce, a intendere senza sapere); e deve conoscere tutto; e deve, infine, tutto dimenticare, tutto disconoscere e cancellare. 2.1 Il poeta deve assicurare a se stesso un riparo dall’invadenza ciarliera della Storia; e non può non ricordare a se stesso, continuamente, che il soggetto è un’impostura, una precaria congettura, un’ipotesi azzardata. 2.1.2 Nella poesia si devono attraversare i luoghi dell’aberrante e dello smisurato, dell’incauto e del mostruoso: solo così il poeta, e insieme con lui il lettore, potranno reggere l’acuta vertigine prodotta dall’assoluto sprofondare dello sguardo nelle zone più segrete della parola e del pensiero.


2.2. Si deve affrontare un corpo-a-corpo che nulla risparmia, e che solo desidera l’avverarsi di una finale rivelazione e di una catastrofe. Il poeta, infatti, vede se stesso nel doloroso paradosso della vita che danza, impetuosa, di fronte ai suoi occhi sbalorditi; e insieme teme e gioisce, comprende e dimentica, ama e patisce. 2.2.1 Un’opera prima dovrebbe già essere conclusiva e riepilogativa, se il poeta è capace di avvertire, dall’inizio, la traiettoria e la portata del vortice furioso che lo attende. 2.2.2 Ma un’autentica opera poetica è sempre un’opera prima (perché fondata sullo stupore e sull’incredulità della fede nel mistero); ma è anche, diremmo, sempre un’opera ultima: cioè irrevocabile, terminale, definitiva. Una poesia è una giostra che già conosce in partenza il suo destino: quello di deflagrare, di esplodere, di sminuzzare e di destituire il senso e i sensi nello “splendore della loro nullità” (Sergio Givone). 3.1 Ma ci vuole coraggio, ci vuole incoscienza. Solo a vent’anni si può scrivere una grande opera che miri all’eccesso e all’auto-distruzione, al vertiginoso e all’abnorme. Solo a vent’anni, nel pieno dell’esistenza, si può bruciare completamente l’esistenza stessa; soltanto allora, nel precipizio di chi sente di essere “felicemente spossato”, può intervenire l’atto più dolce e più violento che possa augurarsi un uomo: impugnare la sottilissima, lucente lama dell’epifania poetica, il suo portentoso erompere, il suo acuto conflagrare. 3.1.2 Manuel Micaletto ha vent’anni, ed è un poeta.


Ha scelto la strada più bella e più difficile: depositare le vibrazioni dell’esperienza nella custodia bruciante di un verso. Micaletto sa bene quanto poco valore sia presente nella realtà normalmente pronunciata: quella della “comunicazione” o del dialogo; quella dell’illusione di trasmettere un senso, costruire un ordine, strutturare una fondante verità. 3.2 Un poeta sa che il soggetto è, in definitiva, la parodia di una finta volontà. Il soggetto è un inganno: la realtà, invece, si muove nella funzione e nelle finzioni di uno specchio mobile e riverberante. 3.2.1 Così, la poesia si trasforma in diagramma della disperazione e insieme dell’impudenza. Si può tollerare la vita soltanto nel suo sproposito, nella sua sovrabbondanza. 4.1 La poesia, vocalità suprema che previene e amplifica l’eccedenza della vita, è l’unico strumento utile alla sopportazione e al disincanto. Nei versi di Micaletto si insinua il desiderio sfrontato e saggissimo di incanalare il linguaggio nella sua più completa e grandiosa totalità: tutto è compreso, macinato, ricreato, esaltato e rafforzato nello spazio della sua scrittura.

4.1.2 La poesia insegue la vita e ne resta accecata: il suo compito è quello di cercare la caduta. Essa desidera il dono di non desiderare nulla; nel quotidiano affaccendarsi, invece, si registrano azioni “utili” e ragionevoli, grazie alle quali si vive per mangiare, si mangia per lavorare, si comunica per acquistare.


4.1.3 La volgarità del Capitale è tutta qui: nella determinata consequenzialità dell’accumulo, nella corsa verso il possesso del traguardo, nella meta dell’accomodante ricomposizione, nell’acquisizione del consolante profitto. 4.1.4 Al poeta non interessa ciò. Ma si badi bene: al poeta non interessa nemmeno la poesia (cioè, diremmo meglio: il gioco finto dell’ascoltarsi, il meschino narcisismo della letteratura). 4.2 Al poeta interessa soltanto l’al di là della parola, il suo immenso risonare. 4.2.1 A un poeta interessa, soprattutto, ciò che non si può dire. 5.1 La poesia di Micaletto procede, allora, conducendo il discorso a un imponente e dirompente lavoro sul linguaggio. Tutto, nei suoi versi, è deriva e sproporzione, erosione e sperdimento. 5.2 Infatti: non può esserci misura; non dev’esserci misura. Nella scrittura si può scegliere soltanto l’abrasione e l’esasperazione; in caso contrario, si sarà soltanto letterati. 6.1.1 Ecco il proposito segreto di questa poesia: “staccare il testo dalla pagina”, rovinare nel buio del non sapere, accettare i deliziosi paradossi dell’illusiva volontà, riconoscendo che solo nell’errore si trova la rettitudine: ed è allora che lo sguardo


inizia a cedere, a prendere “una strana piega”, a sbilanciarsi, a contraddirsi. 6.2 In questa mescolanza di promesse mancate, di irrisolte macerazioni, emerge il lucido bagliore della stessa vita, còlta nella sua esplosiva totalità: il suo terribile (e irriferibile) mistero trova, per un istante, la risorsa di una voce, l’ipotesi di un canto. 7. Un’opera poetica dev’essere un gesto inaudito; il più potente dei pensieri, forse. 8. “L’evento è una citazione” (Micaletto). La parola è mancanza, perché la poesia è un salto nella lacerazione del proprio smarrimento. 8.1 Soltanto nelle crepe, nei silenzi e nelle interdizioni della poesia noi dunque possiamo, finalmente, rilevare una forma di rinnovata nobiltà del linguaggio, una sua ideale, riconquistata dignità? 9. È allora l’incontinente parola poetica l’unico linguaggio degno di rispetto? 9.1 Soltanto i suoi spropositi, dunque, sono capaci di poter dire l’esistenza, la sua grandiosa sovrabbondanza? 10. Siamo felici e inquieti, e rispondiamo: sì.



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