L'area di Broca - n. 93

Page 3

3

Massimo Acciai La capsula Esteriormente l’irritazione di Vidar si limitò ad una breve contrattura della mascella nel momento in cui, cercando nella valigetta da viaggio, si ricordò improvvisamente di aver dimenticato il libro a casa, sulla scrivania, nella fretta della partenza. Imprecare non faceva parte del suo carattere nordico, soprattutto imprecare in pubblico e ad alta voce, ma quella sbadataggine poteva rovinare la giornata. Era molto, molto seccante. Si accese nervosamente una sigaretta. Rimase perplesso qualche minuto, seduto su una panchina vicino al binario, indeciso sul da farsi. Non era una decisione facile; le alternative erano entrambe spiacevoli. Da una parte c’era un viaggio di dieci ore, senza un paesaggio da vedere dal finestrino visto che si trattava di viaggiare di notte, senza un compagno con cui far conversazione e senza un libro da leggere. Dall’altra parte c’era la capsula Mavisan. Vidar apparteneva a quella piccola minoranza di persone che ancora nutrivano sospetti verso le capsule Mavisan. Eppure l’ibernazione era divenuta negli ultimi decenni così comune e banale che ormai la gente vi ricorreva per evitare la più piccola attesa. Sembravano lontanissimi i tempi in cui era una tecnica complessa, costosa e rischiosa a cui ricorrevano malati terminali per essere poi risvegliati decenni o secoli dopo, quando la scienza avrebbe avuto gli strumenti per curarli. Quei poveretti non avrebbero in realtà mai più rivisto la luce del sole; all’epoca la tecnica era troppo rozza, ma la scienza era in effetti andata avanti ed il campo dell’ibernazione aveva avuto sviluppi straordinari da quando era stata inventata il metodo criogenico Mavisan. Le prime capsule Mavisan erano state istallate negli ospedali, in seguito sui voli intercontinentali e su navi a lunga percorrenza. Sui treni erano arrivate qualche anno dopo ed era stato subito un boom di richieste. C’era persino chi prenotava una capsula anche per un viaggio da Dale a Voss; un viaggio da meno di venti minuti! Vidar non riusciva a capire come la gente avesse vinto così presto l’iniziale diffidenza verso la criogenia. Si trattava pur sempre di portare la temperatura corporea sotto zero (quanti gradi sotto zero non aveva mai desiderato saperlo) e rallentare il metabolismo fin quasi ad annullarlo. Qualcosa come un respiro ogni ora. Era qualcosa di troppo simile alla morte per non provare un senso di claustrofobia nel distendersi in una di quelle capsule d’acciaio e affidarsi completamente a macchine e tecnici. Pazienza. Prima o poi avrebbe dovuto comunque farci l’abitudine, si disse Vidar rimuginandoci sopra. Le carrozze riservate ai “viaggiatori svegli” erano state ridotte ulteriormente con l’inizio dell’anno, ed era facile prevedere che sarebbero un giorno scomparse del tutto, o almeno i treni con tali carrozze si sarebbero fatti molto rari. Dopo tutto da quando le capsule erano state montate nelle carrozze speciali non era accaduto neanche un incidente, a parte... ma anche quello era stato di poco conto e statisticamente irrilevante. Le capsule – assicuravano gli esperti di criogenia – erano praticamente indistruttibili, in grado di sostentare una persona per un tempo lunghissimo, valutabile nell’ordine di secoli, anche se naturalmente nessuno aveva sperimentato una tale possibilità, tranne – ma si trattava più di leggenda che di realtà… Il controllore fischiò, riportando Vidar alla realtà. Doveva assolutamente prendere quel treno, non ce n’erano altri fino alla mattina successiva, e allora avrebbe fatto tardi all’appuntamento con Sonja. D’istinto prese il portafoglio dalla tasca e ne tirò fuori una foto sbertucciata, risalente a qualche anno prima. Sonja era bel-

L’area di Broca

lissima, con i suoi occhi scuri e dolci ed il sorriso luminoso. Al pensiero di Sonja parte dell’irritazione si dissolse in un sorriso appena abbozzato. Comunque di passare la notte in stazione non se ne parlava nemmeno. Maledisse ancora la sua sbadataggine e si diresse deciso verso la carrozza d’ibernazione più vicina. Riprese conoscenza lentamente. I tecnici risvegliavano i passeggeri qualche minuto prima dell’arrivo in stazione. Un individuo medio si riprendeva dagli effetti dell’ibernazione nel giro di un minuto al massimo, sveglio e pimpante come nessun sonno naturale poteva ottenere. Molti ricorrevano alle capsule anche per questo motivo. Un’indagine aveva accertato addirittura che più del 60 per cento degli utenti soffriva d’insonnia ed aveva trovato una soluzione ideale al problema. Questo faceva prevedere che presto le capsule Mavisan sarebbero entrate nelle case private dei comuni cittadini. In alcune, soprattutto di personaggi famosi o comunque benestanti, c’erano già da tempo. Vidar non era perciò del tutto sicuro che quell’intorpidimento fosse normale. Un minuto era passato di sicuro e doveva essere già sveglissimo, invece indugiava in quello stato simile al dormiveglia, come un alunno svogliato al mattino. Era strano. Aprì infine gli occhi e fu abbagliato da una luce forte che non si aspettava. Le carrozze Mavisan erano tenute in una riposante penombra per agevolare il risveglio, lo sapevano tutti. Invece un sole impietoso gli prendeva a schiaffi i bulbi oculari, così violentemente che d’istinto li richiuse e cercò di riaprirli piano piano. Riuscì così a distinguere qualche particolare dell’ambiente in cui si trovava. Quel che vide non gli piacque per niente. Un’arma, una specie di mitra, era puntato contro la sua faccia. Dalla parte del grilletto c’era un uomo dalla pelle scura, bruciata dal sole. Uno strano cappello, che aveva qualcosa di militaresco, era calcato sulla testa calva. Gli occhiali scuri che portava gli impedirono di decifrare le sue intenzioni dallo sguardo, ma i tratti del viso erano duri e non promettevano nulla di buono. “Chi è lei?” domandò infine Vidar, con un filo di voce. L’altro si limitò a fissarlo, senza dire parola. “Dove mi trovo?” Nessuna risposta. “Insomma…” Vidar provò ad alzarsi, ma dovette ritornare giù per non andare a sbattere contro la canna del mitra che il tizio continuava a puntargli alla testa. Era una situazione molto, molto seccante. “Va bene, in che modo posso aiutarla?” L’altro corrugò la fronte in modo interrogativo. Era chiaro, come aveva fatto a non pensarci prima! Non capiva la sua lingua. Doveva essere uno straniero. Provò a ripetere le domande in inglese. Quello ebbe un moto di rabbia e gli schiacciò la punta del mitra contro la fronte, urlando una frase in una lingua sconosciuta. “Ma insomma, come posso…” Una mano robusta gli afferrò un braccio e lo sollevò quasi di peso, mostrando una forza notevole. Quando si trovò faccia a faccia il tizio armato sentì un odore sgradevole di sudore e sporcizia che gli diede la nausea. Adesso cominciava ad essere davvero preoccupato. Il tizio urlò qualcosa nella sua lingua spingendolo in malo modo. Vidar ipotizzò che il poco cortese invito, comprensibile anche senza parole, era in qualche lingua asiatica e che avrebbe fatto meglio ad ubbidire. Non sapeva ancora se aveva a che fare con un pazzo o un criminale, o entrambe le cose, ma certo quel mitra aveva tutta l’aria di essere carico. Attorno a lui c’era una specie di villaggio di poche capanne. Il cielo era azzurro, il sole alto e caldissimo. L’orizzonte era chiuso


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.