Il lupo che non dorme mai

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Impeesa, il lupo che non dorme mai, era uno dei rispettosi soprannomi dati a un uomo straordinario, i cui ideali diventarono il fondamento per un movimento a livello mondiale. Amore per la pace, disponibilità, coscienza del dovere e amore per la natura sono le colonne portanti del movimento scout, «del cui notevole sviluppo sono tanto stupito quanto gli osservatori esterni», disse il suo fondatore Lord Baden-Powell. Questa moderna biografia di grande effetto racconta la vita avventurosa di quell’uomo straordinario.

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WALTER HANSEN

IL LUPO CHE NON DORME MAI LA VITA AVVENTUROSA DI LORD BADEN-POWELL Con vari disegni originali del fondatore dello scautismo e illustrazioni documentarie

EDITRICE ELLE DI CI 10096 LEUMANN (TORINO)

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Titolo originale: Der Wolf, der nie schläft. Das abenteuerliche Leben des Lord BadenPowell © Verlag Herder Freiburg im Breisgau Traduzione di MARIA GRAZIA PÌTTARO e GIUSEPPE TABARELLI A CURA DEL CENTRO CATECHISTICO SALESIANO di Leumann Impostazione grafica di WOLFGANG HANNS I diritti per i disegni e gran parte delle fotografie riprodotte appartengono all’Associazione Scout della Gran Bretagna e alla famiglia Baden-Powell. L’una e l'altra hanno gentilmente concesso i diritti di pubblicazione. Per alcune fotografie non è stato possibile determinare gli autori, nonostante le intense ricerche; tuttavia non abbiamo rinunciato a pubblicarle, nell’interesse di una raffigurazione autentica. Chiediamo la vostra comprensione. Le fotografie sono per la maggior parte private. La qualità non sempre ottima viene contro bilanciata dal valore documentario.

Proprietà riservata alla Elle Di Ci - 1988 ISBN 88-01-13589-0

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PRESENTAZIONE «Il lupo che non dorme mai» di Walter Hansen è forse un’altra biografia di Baden-Powell, il fondatore dello scautismo? Un ulteriore passo lungo il sentiero di un mito contraddittorio, esaltato con affetto filiale da chi ha vissuto e vive lo scautismo e, nello stesso tempo, deriso a volte in modo canzonatorio da chi dello scautismo ha osservato solo gli aspetti esteriori senza darsi la pena di approfondirlo per cogliere gli aspetti esistenziali del suo messaggio di vita? Già ci sono altre biografie su B.P. (= Baden Powell) in commercio, anche in lingua italiana. Questa di Hansen si distingue per non essere solo celebrativa o raccolta di aneddoti storici, ma per il suo carattere avventuroso e divertente, come fu avventurosa e — in fondo — divertente la vita del fondatore. Questo libro può essere agevolmente letto dai ragazzi, a differenza di altri, e da adulti anche «non addetti ai lavori», perché permette di comprendere lo spirito dello scautismo come stile di vita, descrivendolo sulla falsariga della narrazione della vita del «Lupo che non dorme mai», come venne chiamato B.P. durante le sue esperienze coloniali. È quindi, questo, un libro che non si limita a raccontare una storia, che non offre stimoli o mezzi banali per riempire il tempo libero da impegni di scuola o di lavoro; è un libro che, raccontando la vita del fondatore dello scautismo, ne fa conoscere la filosofia, la sua idea di mondo, di umanità, di educazione, quindi il suo — come già dicevo — messaggio esistenziale, la sua proposta di vita. Dopo aver letto il libro rimane solo da pensare lo scautismo come esperienza, perché (come diceva B.P. stesso e anche in queste pagine si trova ricordato) lo scautismo non è un libro che si è obbligati a leggere e a studiare (come i libri di scuola), ma è da giocare, da vivere come la vita. Così han fatto i 250. 000. 000 di uomini e donne che dal 1907 ai giorni nostri sono stati scouts e guide nel mondo; così fanno i 155.000 ragazzi italiani di oggi. Ermanno Ripamonti Responsabile Centrale Formazione Capi AGESCI Milano, aprile 1987 6


PREMESSA Non ho nessun dubbio nell’affermare che Baden-Powell, il creatore della più grande organizzazione mondiale per la gioventù, è una delle maggiori personalità di questo secolo. Infatti, egli aveva un fine educativo, che derivava dalle sue personali esperienze di vita; trovò un metodo per raggiungere questo fine; e fu in grado di utilizzare questo metodo per tutta la vita. Ci siamo cimentati con la storia della sua vita avventurosa. La sua «invenzione» del movimento scout è stata definita pionieristica e geniale. Vari aneddoti sono stati divulgati, narrati, interpretati, composti ed eroicizzati, persino inventati... secondo i gusti, le tendenze o le presunte necessità. Il mio amico Walter Hansen, ex-scout, famoso scrittore, autore di libri per la gioventù, per i quali è stato anche premiato, e impegnato ricercatore, ha colto la relazione tra la vita e l’opera di Baden-Powell. Abbiamo esaminato a lungo le fonti e tentato di separare l’essenziale dal marginale; è stata una collaborazione interessante e stimolante. Soprattutto Walter Hansen ha realizzato ciò che finora è riuscito a pochi autori: ha tracciato in ogni capitolo la storia dell’epoca nella quale visse e operò Baden-Powell. Monaco, marzo 1985

Hartmut Keyler Delegato estero per la federazione delle Associazioni Scout tedesche. Membro del Comitato Europeo Scout 1968-1972 e 1977-1980. Membro del Comitato Scout Mondiale 1971-1975.

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INTRODUZIONE

Soprannomi, insulti, onori e decorazioni Aveva quattro soprannomi: Katankya = l’uomo dal largo cappello. Larkwei = l’uomo a testa alta. Impeesa = il lupo che non dorme mai. E Sherlock Holmes = perché il suo acume poteva effettivamente essere paragonato a quello del famoso investigatore dei romanzi. Gli venivano affibbiati molti epiteti ingiuriosi. Gli invidiosi lo chiamavano raccomandato e spaccone megalomane, esaltato e semplicione, sognatore svagato, avventuriero e acchiappatopi. Dai suoi seguaci venne ammirato con entusiasmo, come carattere esemplare, eroe, artista, autore di bestsellers e come uno dei più importanti educatori del nostro secolo. I professori universitari hanno definito geniale il suo sistema pedagogico. Non era un buon studente. A malapena riuscì a frequentare la scuola superiore e all’esame di ammissione per la famosa Università di Oxford venne respinto. Ma in seguito divenne dottore «honoris causa» proprio all’Università di Oxford, oltre a quella di Toronto, cittadino onorario di Londra, e gli venne conferito il titolo di Lord. Fu una delle personalità più onorate del suo tempo: gli venne conferita l’onorificenza dell’ordine di Bath, la Gran Croce dell’Ordine Vittoriano, dell’Ordine della Giarrettiera, dell’Ordine di Merit, il distintivo della Legion d’Onore e ricevette molti altri titoli onorifici. Durante tutta la sua vita circolarono dicerie sul suo conto, e persino sulla sua morte. Una volta corse voce che era morto da eroe all’età di 43 anni, dissanguato, vittima di un attentato. Poi si disse che era stato giustiziato nel 1916 e seppellito al di fuori del cimitero, come traditore, messo al bando anche dopo la morte. In realtà egli morì in pace nel 1941 all’età di 84 anni. E sei anni dopo la sua morte — nel 1947 — venne collocata una lapide commemorativa con il suo nome nell’Abbazia di Westminster: nel luogo più venerabile d’Inghilterra, dove i re venivano incoronati e seppelliti, dove le lapidi recano i nomi dei personaggi inglesi più significativi: William Shakespeare ad esempio, Charles Dickens, David Livingstone, Charles Darwin e Isaak Newton. L’uomo di cui si sta parlando si chiama Robert Stephenson Smyth Baden Powell Lord di Gilwell. È il fondatore dello scautismo, il più 8


grande e fortunato movimento giovanile del mondo, una fratellanza che attualmente raggruppa 18 milioni di ragazzi e 8 milioni di ragazze in 118 paesi, oltre ai circa 80 milioni di ex-scouts, che in gioventù hanno fatto la promessa scout e quindi sono sempre membri della grande comunità. A partire dalla fondazione di questo movimento per la gioventù ci sono stati in tutto il mondo 250 milioni di scout, tra i quali troviamo personalità importanti e famose, artisti, sportivi, scienziati e politici. La maggior parte dei presidenti americani del nostro secolo, membri di dinastie europee, e anche astronauti erano scouts, come John F. Kennedy, il re Carlo Gustavo XVI di Svezia, Neil Armstrong, che portava un distintivo dell’associazione scout mondiale sotto la sua

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tuta spaziale quando il 20 luglio 1969 fu il primo uomo a mettere pie de sulla luna. Scouts erano anche Thor Heyerdahl, che nel 1947 con la sua zattera Kon-Tiki intraprese l’avventuroso viaggio dal Perù fino alle isole polinesiane orientali; Folke Graf Bernadotte, che venne assassinato nel 1948, quando era mediatore di pace per le Nazioni Unite; Werner Heisenberg, che nel 1933 ottenne il Premio Nobel per la Fisica. Chi era allora questo Lord Baden-Powell, che ha fondato il grande movimento scout? Chi era quest’uomo, che con inalterata tranquillità accettava soprannomi, ingiurie e onorificenze?

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INFANZIA E GIOVINEZZA

Avventuriero, artista, scienziato Nel suo temperamento si trovavano riunite le doti ereditate da antenati molto diversi fra di loro. Ad esempio, uno dei suoi avi era John Smyth di Willoughby (1579-1631), capitano di Sua Maestà la regina Elisabetta d’Inghilterra, un avventuriero, navigatore e soldato di fama leggendaria, che nel 1606 per ordine della Corona Britannica navigò fino in Nord America, dove incontrò degli Indiani bellicosi, e all’ultimo momento riuscì a sfuggire alla morte al palo del supplizio. Dei suoi diretti discendenti si sa poco, ma si può dire che ereditarono il temperamento, l’impetuosità e il desiderio di avventura dell’antenato Smyth. Si conoscono notizie più precise riguardanti uno dei suoi pronipoti — il bisnonno di Baden-Powell — che verso il 1770 emigrò nel Nord America, strinse amicizia con gli Indiani e ritornò in Inghilterra, dove sposò una pittrice. Da questo matrimonio nacquero quattro figli, tra i quali William Smyth, nato nel 1788, che divenne navigatore, ottenne il titolo di Ammiraglio Reale e, come suo padre, prese in moglie un’artista. Sua figlia Henriette Grace, nata nel 1824, graziosa ed energica, si era dedicata a un’attività di assistenza ai poveri in un ospedale di Londra e aveva sposato nel 1846, all’età di 22 anni, il cinquantenne H. G. Baden-Powell, membro della società reale, professore di teologia e geometria all’Università di Oxford; uno studioso e pedagogo, due volte vedovo, che nella galleria degli antenati, nella residenza paterna, poteva osservare in dipinti sbiaditi lo sguardo serio di commercianti, teologi e scienziati. Il 22 febbraio del 1857 da questo matrimonio venne al mondo il quarto figlio: Robert Stephenson Smyth Baden-Powell, lentigginoso, dai capelli rossi e gli occhi blu. Un bambino vivace che, come nessun altro della sua famiglia, riuniva in sé le tendenze degli antenati: spirito d’avventura, impetuosità e nostalgia di terre lontane da un lato; incli-

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nazioni artistiche, scientifiche e alle opere caritatevoli dall'altro. Ciò che a Robert Stephenson Smyth Baden-Powell mancava era il talento commerciale dei suoi antenati paterni. Ma erano proprio i talenti commerciali che si richiedevano in quell’epoca, chiamata èra vittoriana.

La natura selvaggia di Hyde Park L’èra vittoriana — il cui nome deriva dalla regina Vittoria (18371901) — era il periodo di maggior splendore del commercio, della borghesia soddisfatta per la propria condizione. Era un'epoca caratterizzata dalla caccia al denaro e al benessere materiale, oltre che dall’influenza economica e politica. Con numerose colonie, tra le quali India, Afghanistan, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Africa, la Gran Bretagna era diventata un impero mondiale di primaria importanza. Ma non senza vittime. Ovunque imperversavano guerre. Nel 1856 si concluse la sanguinosa guerra di Crimea contro la Russia, e un anno dopo — quello in cui nacque Robert Baden-Powell — si ribellarono le truppe indigene in India. Spargimento di sangue e massacri da ambedue le parti. In Africa vi era la continua minaccia di scontri armati con gli indigeni in rivolta e con altre potenze coloniali. Riguardo alla politica interna, vi erano tensioni tra le classi più elevate e quelle più povere. Queste erano rimaste escluse dalla conquista del potere; vivevano ammucchiate nei quartieri più miseri e morivano di fame e di malattie. Vittime delle strettezze e in preda alla disperazione, iniziarono a opporre resistenza. Chiedevano stipendi più alti, un’assistenza sanitaria organizzata, più dottori e ospedali a disposizione, abitazioni decenti, e volevano che anche i loro figli imparassero a leggere e a scrivere, come i figli e le figlie dei benestanti. Pretendevano persino la giornata lavorativa di dodici ore, suscitando l’indignazione dei commercianti, i quali sostenevano che un operaio, e anche i suoi figli, dovevano sgobbare da 14 a 16 ore al giorno, e anche di più, e così per sei e anche sette giorni alla settimana. Il piccolo Baden-Powell, ben protetto nella casa paterna nella Stanhope-Street a Londra, non si rese conto, nella sua prima fanciullezza, del mare di povertà della grande città che frangeva le sue onde attor-

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no all’isola dei raffinati quartieri di Londra. A quel tempo lo chiamavano Ste, dal suo secondo nome Stephenson, ereditato dal padrino, un figlio di George Stephenson, l'inventore della macchina a vapore. Ste aveva appena compiuto tre anni quando suo padre morì all’età di 64 anni. Fu perciò l'Ammiraglio Smyth, il nonno settantatreenne, pensionato, ad occuparsi della sua educazione. Nonno Smyth era particolarmente affezionato a Ste, poiché vedeva nel temperamento del nipote il suo stesso spirito di avventura, l'amore per la natura e la nostalgia di terre lontane. L’Ammiraglio non poteva offrire al nipote prediletto terre lontane, natura selvaggia, foreste o giungle, però un luogo selvaggio, nascosto, una foresta in piccolo c’era: Hyde Park, il più esteso parco di Londra, dove a quel tempo in mezzo alla grande città pascolavano ancora mucche e pecore tra gli alberi e i cespugli, dove le oche e le anatre starnazzavano e le rane gracidavano negli stagni. Per il piccolo Ste si trattava proprio di un mondo selvaggio che iniziò immediatamente ad esplorare. Lasciando le strade di ghiaia, perlustrò con suo nonno le pianure dei pascoli, inoltrandosi nella foresta di alberi e di arbusti. Si divertiva soprattutto a riconoscere e a seguire le orme degli animali, oppure a osservare di nascosto le mucche e le pecore, le oche e le anatre. È sorprendente tutto ciò che riusciva a scoprire in quelle occasioni. Un giorno ad esempio — poteva avere circa sei anni — constatò che le rane prima dell’inizio di un periodo di bel tempo gracidavano solo la sera, ma nell’imminenza di cattivo tempo gracidavano soltanto durante il giorno; e da quel momento in poi egli stupì il nonno per l’attendibilità delle sue previsioni meteorologiche. Con l’aiuto del nonno, Ste disegnò una cartina di Hyde Park con tutti i sentieri, gli stagni, gli alberi e i cespugli, i luoghi di cova degli uccelli e i pascoli preferiti dalle mucche e le pecore. Il suo talento per il disegno era notevole. Quando era a casa disegnava a memoria gli animali di Hyde Park o anche le persone che vi incontrava, tutto nei minimi particolari. Nel farlo, si serviva di ambedue le mani contemporaneamente: con la destra disegnava le linee, con la sinistra tratteggiava. Traendo spunto dalla sua fantasia, disegnava anche Indiani e cacciatori; infatti, suo nonno prima di andare a letto gli raccontava delle

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storie avventurose sul Far West, del capo Tecumseh ad esempio, che lottando per la libertà degli Indiani perse la vita, oppure di Daniel Boone, lo scopritore del Kentucky, un cacciatore leggendario di cui James Fenimore Cooper narrò le imprese. Raccontando a suo nipote le avventure dell'ultimo dei Mohicani, di cacciatori, di esploratori, l'Ammiraglio Smyth non dimenticava di aggiungere che il romanticismo del Far West era da tempo finito: che gli Indiani erano stati quasi del tutto sterminati, che erano costretti a vivere in riserve, e che anche in queste riserve penetrava l’uomo bianco per saccheggiare le ricchezze del sottosuolo. Un altro libro — un bestseller dell’epoca — era intitolato «Oliver Twist», composto nel 1839 dal poeta inglese Charles Dickens. Nonno Smyth vi leggeva la storia di un ragazzo — Oliver Twist appunto — che crebbe orfano in quartieri miseri, vagabondando per i vicoli, sempre affamato e umiliato, finché non si imbattè nei gangster cittadini e finalmente, in seguito a incredibili circostanze, riuscì a liberarsi dai guai e a ritrovare la sua strada. — Ma ci sono anche oggi bambini così poveri? — chiedeva Ste. L’Ammiraglio annuiva. — Ancora oggi? Ma il libro è stato scritto tanti anni fa! — Anche oggi, ancora più di prima. Ste non riusciva a crederlo, poiché proveniva da una famiglia borghese benestante ed era cresciuto in un distinto quartiere di Londra. Di ciò che si nascondeva dietro l’apparente splendore dell’epoca vittoriana, egli non aveva la più pallida idea. Conosceva solo la natura selvaggia di Hyde Park. Non conosceva la giungla della grande città. Le cose cambiarono quando nel 1865 il nonno morì. Spinto dal suo irresistibile desiderio di esplorare, all’età di sette e otto anni Ste si avventurò nei quartieri malfamati: gli slums di Londra.

Nella giungla della grande città A quel tempo i quartieri eleganti erano spesso divisi dagli slums solo da una via sontuosa, e così Ste non ebbe difficoltà a introdursi nel mondo avventuroso dei quartieri della miseria: negli androni di vecchie case in parte diroccate; nei vicoli talmente stretti che anche durante il giorno l’oscurità impediva la vista come quando sta per cadere

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la notte. Per potersi orientare nel labirinto delle viuzze tra le case, cercava di imprimersi nella memoria i crocevia, particolari forme angolari, portoni ad arco, disegni abbozzati su pareti fuligginose e tanti altri dettagli. I quartieri poveri e malfamati erano allora Ratcliff Highway, St. Giles, Rosemary Lane, Seven Dials. Essi offrivano al ragazzo che proveniva dagli ambienti raffinati un mondo del tutto diverso, quasi esotico: l’esotismo della disuguaglianza sociale. C’erano odori di alcol, fuliggine ed esalazioni di ogni tipo, poiché non vi erano fognature. Nei tombini si ammucchiava la melma di liquami maleodoranti. Alle finestre scure si affacciavano donne pallide. Dappertutto bambini vestiti di stracci. Davanti alle case stavano seduti i vagabondi: disoccupati dallo sguardo fisso nel vuoto, truffatori in cerca di vittime, bevitori dagli occhi vitrei. Come un reporter, esplorava il quartiere della miseria. Si rese conto che in molte case abitavano fino a duecento persone, famiglie con bambini pigiati come dentro scatole di conserva. Venne anche a sapere che c’erano delle case dove gli inquilini, per mancanza di spazio, non potevano nemmeno distendersi per dormire. Quelle case si chiamavano penny hangs perché in esse c’erano delle corde tese e la gente per un penny poteva dormire una notte appesa ad un gancio. Nelle abitazioni umide di muffa, senza aria e senza luce, la gente si prendeva infermità mortali, contagiandosi a vicenda con malattie polmonari e pestilenze. Morivano anche per malanni da poco, perché scarseggiavano i medici, gli ospedali, e non potevano permettersi di comprare medicine. Non avevano nemmeno la forza di superare una tosse. La maggioranza faceva la fame e molti morivano di stenti al centro di una grande città, a due passi da una strada elegante. Ste fece la conoscenza di bambini suoi coetanei che erano già borsaioli provetti. Sentì parlare di furti, omicidi, crimini di ogni tipo che nei quartieri poveri erano all’ordine del giorno e sui quali non si poteva mai fare luce, perché gli investigatori di Scotland Yard quasi non osavano addentrarsi negli slums, e, nel caso si facessero vivi, si trovavano di fronte al mutismo più ostinato. Solo poche persone dei quartieri poveri avevano un lavoro regolare, ma era un lavoro senza speranza: infatti sgobbavano da 14 a 16 ore al giorno, e guadagnavano così poco che diventava impossibile

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liberarsi da quell’ambiente. Talvolta vedeva uomini dei ceti più elevati — riconoscibili dall’abbigliamento — che sgattaiolavano nei vicoli e scomparivano nelle case, per concludere loschi affari o per concedersi segreti divertimenti, ad esempio per assistere al combattimento tra due cani oppure tra un cane e trenta ratti in gabbie per animali feroci, che gli affaristi collocavano nei cortili interni. Lì si scommetteva parecchio per la vittoria o per la sconfitta dei cani da combattimento. La popolazione dei quartieri poveri si riconosceva dagli abiti logori e a brandelli, che a malapena si potevano definire abiti. Gli uomini portavano pantaloni grigi, giacche grige, camicie grige aperte, le donne indossavano gonne grige, cappotti grigi, camicie grige. I bambini erano avvolti in stracci grigi. Era l’uniforme grigia della povertà che caratterizzava tutti coloro che l’indossavano come appartenenti ai ceti inferiori. Ogni volta che da queste escursioni negli slums Ste ritornava nel suo quartiere con le ampie strade e i viali, provava un senso di sollievo. Anche dal modo di vestire si poteva dedurre facilmente che si trattava di un altro mondo. Gli uomini portavano pantaloni tubolari grigi a righe, panciotti dai colori vivaci, camicie bianche con colletti alti, cravatte oppure foulard di seta, redingote verdi o grige, cilindri di feltro e bastoni da passeggio con pomi d’argento. Gli abiti delle signore erano per lo più neri, talvolta anche in tinte pastello, accollati, abbottonati fino alla bianca gorgiera e ampi sotto. Andava di moda portare sotto la gonna la cosiddetta crinolina, una sottana di stecche circolari, che dalla vita in giù davano alla gonna una forma conica. I canzonatori dell’epoca dalla morale austera e in parte menzognera notavano allora che bastava la crinolina a impedire di avvicinarsi — nel vero senso della parola — a una signora dei ceti alti. I bambini erano per lo più vestiti come gli adulti. Le ragazzine, anche mentre giocavano, indossavano abiti accollati, lunghi fino ai piedi, e le crinoline, come le loro madri. Per i ragazzini c’erano i vestiti alla marinara, bianchi e blu, con cappelli, giacche e pantaloni fino alle ginocchia: un tipo di abbigliamento detestato, perché non si poteva sporcare per nessun motivo. I più grandicelli erano vestiti come gli adulti: pantaloni tubolari, redingote, colletti alti e abbottonati. L’abbigliamento dei ricchi era allo stesso tempo una uniforme, un

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segno di riconoscimento per le classi più elevate. Ste avrebbe voluto poter cambiare tutto questo, un giorno. Era dell’idea che tutte le persone dovevano vestire allo stesso modo, così da non essere subito identificate come povere o ricche. Voleva eliminare completamente la contrapposizione tra il ricco e il povero. Quando aveva otto anni formulò «la legge per quando sarò più grande». Il testo diceva: «Farò il possibile affinché i poveri diventino ricchi come noi... Bisognerebbe pregare Dio ogni giorno per questo, non appena ci è possibile. Ma pregare soltanto non serve a nulla, bisogna anche fare del bene». Parole notevoli per un ragazzino di otto anni. Notevoli obiettivi. Egli non li ha raggiunti. Ma ha contribuito in maniera decisiva affinché ci si avvicinasse: questo si realizzò quando, molti anni più tardi, fondò il movimento scout introducendo il suo nuovo metodo educativo, rivoluzionario rispetto a quello antiquato dell'epoca. I metodi educativi negli anni sessanta dell’èra vittoriana erano austeri come gli indumenti degli scolari e i colletti alti degli insegnanti. I ragazzi erano considerati degli sciocchi, incapaci di badare a se stessi, dei seccatori bisognosi di aiuto, del tutto privi del senso di responsabilità. I governanti e gli educatori pensavano di dover fissare ogni loro passo. I divieti venivano ritenuti indispensabili per l’educazione, le bastonate o le reclusioni i metodi più appropriati per imporre tali divieti. Nelle scuole i fanciulli erano costretti a stare seduti immobili, le mani vicine e stese sul banco, e le orecchie tese come quelle dei conigli, in modo da poter assimilare la porzione di scienze che i professori servivano loro in modo insipido. Era un sistema scolastico dannoso per tutti i ragazzi vivaci; un metodo di insegnamento basato sulla costrizione, che serviva solo a dare delle nozioni, senza stimolare il talento, il senso di responsabilità o l’autosufficienza. Ad ogni modo, i fanciulli dei quartieri alti avevano pur sempre le loro scuole private e i collegi. Anche se in maniera noiosa, imparavano almeno a leggere e a scrivere. E a far di conto, che allora era considerata la cosa più importante. Mentre quasi tutti i ragazzi e le ragazze dei quartieri poveri rimanevano esclusi dalla lettura e dalla scrittura. Per loro non esisteva nessun obbligo scolastico e nemmeno scuole, quindi nessuna possibilità di sfuggire alla miseria. Il defunto padre del piccolo Ste era stato un pedagogo di ampie vedute, rappresentante della commissione di sovrintendenza reale all’Uni-

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versità di Oxford. Egli si era espresso per un vero e proprio cambiamento radicale del metodo educativo, in particolare per l’educazione all’autosufficienza e alla promozione dei talenti personali. Aveva proposto l'obbligo scolastico per i ragazzi di ogni ceto sociale e perfino il diritto di voto per il comune cittadino. Una cosa scontata oggi, ma allora si trattava di un’idea rivoluzionaria che egli aveva discusso nella sua casa di Stanhop-Street con pedagoghi, politici, artisti e studiosi che erano della sua stessa opinione. Nei primi anni dopo la sua morte queste idee vennero talvolta messe in pratica, ma purtroppo raramente. In generale rimase tutto inalterato. La regina Vittoria era sì favorevole alle riforme, era anche sensibile al problema dei poveri e degli oppressi, ma a quel tempo le cose procedevano molto lentamente. Il nuovo doveva prima liberarsi dalle pastoie delle consuetudini secolari.

Esploratore per la prima volta Quando Ste ebbe nove anni, sua madre lo mandò dai parenti nella residenza paterna nella contea del Kent, a sud-est di Londra, affinché, secondo gli usi dei Baden-Powell, imparasse a leggere, a scrivere e a far di conto nella parrocchia vicina. Il parroco si chiamava Allfrey e nonostante la sua età avanzata — aveva quasi settant’anni — era un educatore dai metodi relativamente moderni.

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Nelle ore libere da impegni scolastici Ste andava in giro da solo o con gli amici per le colline, le rupi e i boschi della contea. Erano luoghi di caccia ben diversi dal verde limitato di Hyde Park in mezzo alla marea di case di Londra, dove Ste si era sempre sentito a disagio. La contea del Kent era considerata a quel tempo un luogo selvaggio, dove tutt'al più si intravedeva qua e là una casa di campagna, una fattoria, una chiesa o un piccolo villaggio. Tolto quello, vi erano ben poche tracce di civilizzazione e non esistevano più confini per Ste. Dietro ogni collina raggiunta spuntavano altre colline, dopo ogni bosco attraversato vi erano nuovi boschi ad attenderlo. Egli sentiva come fosse facile lì, a contatto con la natura, avere delle intuizioni che mai aveva avuto nella grande città, e come il suo spirito di osservazione si affinasse molto di più di quanto fosse possibile a Londra. Talvolta rimaneva fuori fino a tarda sera per osservare il bosco: caprioli, cervi, volpi e lepri soprattutto, che soltanto al crepuscolo uscivano dai boschi per comparire nelle radure. Egli capì subito che doveva avvicinarsi di soppiatto in direzione opposta a quella del vento, perché altrimenti gli animali fuggivano, spaventati dalla presenza dell'uomo che avvertivano con l'olfatto. Scoprì anche che dagli alberi poteva osservare senza essere notato, a distanza ravvicinata, perché gli animali non prevedevano attacchi dall'alto, e il vento, indipendentemente dalla direzione in cui soffiava, allontanava l'odore dell'uomo

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dagli animali. Ste si fermava per ore a osservare come i caprioli e le lepri si guardavano dalle volpi, come il loro istinto li proteggeva, come quasi sempre riuscivano a fuggire, quando il predatore commetteva un errore. Ma vide anche come la volpe, giocando d’astuzia e avvicinandosi di soppiatto contro vento, riusciva nonostante tutto a cacciare la preda. Il vecchio parroco Allfrey e i parenti erano spesso preoccupati quando Ste tardava. Temevano che il ragazzo si fosse perduto nell’oscurità e non riuscisse più a trovare la strada giusta. Però Ste ritrovava sempre la strada, grazie a una bussola, e a una cartina che egli stesso aveva disegnato. Durante le vacanze Ste si unì ai suoi tre fratelli più grandi, Frank, George e Warrington, che avevano dodici, undici e dieci anni più di lui. Warrington lo impressionava in modo particolare: aveva il pallino del navigatore, voleva arruolarsi nella marina mercantile, portava i baffi come i marinai e, c’era da immaginarselo, divenne il capo della banda di fratelli. Tutti lo ascoltavano, anche Frank e George, che studiavano già a Oxford. Frank voleva diventare pittore, George intendeva occuparsi di politica. Warrington era un tipo duro, duro con se stesso, duro con i fratelli, perfino troppo duro per Ste, più giovane di lui di dieci anni.

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Nel 1866 la madre volle recarsi per le vacanze in una casetta vicina alla località Llandogo presso il fiume Wye, 250 km a nord- ovest di Londra. Aveva già acquistato i biglietti per sé e per i figli, quando Warrington saltò su a dire: — I piccoli viaggiano con la mamma, ma i grandi viaggiano per conto proprio. Con cartina, bussola e barca. — Vengo anch’io con voi —, gridò Ste, che con i suoi nove anni temeva di dover far parte dei più piccoli: la sorella Agnes e il fratello Baden, che avevano rispettivamente uno e tre anni meno di lui. — Certo — disse Warrington —, Ste viene con noi. La madre acconsentì, ma a malincuore e preoccupata per il piccolo Ste. I quattro fratelli costruirono una canoa pieghevole alla maniera degli Indiani nordamericani, solo che al posto della corteccia di betulla issarono una vela nella parte centrale dell’imbarcazione. Poi remarono da Londra lungo il Tamigi in direzione nord-est. La notte dormivano sulla sponda nelle loro tende. Ste doveva cucinare. Lo fece molto controvoglia. Cucinare non lo divertiva, ecco. Un giorno, quando erano accampati in un bosco di abeti sulla sponda del Tamigi, aveva cucinato, come al solito controvoglia, la carne della lepre uccisa da Warrington, aromatizzata con foglie di romice, riducendola a una poltiglia disgustosa. Questo fece scappare la pazienza al fratello maggiore. Warrington sbattè il suo cucchiaio sulla pentola: — Cos’è questa porcheria? — Porcheria? È così che chiami il mio squisito ragù? È il migliore che posso offrirvi. — Il tuo ragù è un’offesa per il mio palato — disse Warrington —. Se lo trovi squisito, vorrai sicuramente mangiarlo tutto. — Ma no! Non voglio mica lasciarvi a digiuno. La voce di Ste era preoccupata. Sospettava ciò che sarebbe accaduto. Warrington era noto per le sue decisioni poco ortodosse. — Adesso ti mangi questo ragù da solo — disse Warrington —, così ti renderai conto dell’errore che hai fatto. Senza batter ciglio, Ste mangiò, ingoiò, ingozzandosi, fino a farsi uscire dalle orecchie quello che aveva chiamato ragù. Fece finta di nulla, disse infine: «Squisito», ripulì ancora il cucchiaio leccandolo con gusto... ma dopo un po’, passato quel disgustoso sapore, ammise:

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— Era orribile. Forse dipende dal fatto che non mi piace cucinare. Preferisco fare altro. Anche durante il nostro viaggio preferirei fare altro. — E cosa? — Orientamento per esempio, sono bravo quanto te. — Quanto me? — Warrington aveva un’alta opinione delle proprie capacità di orientamento, ma non delle parole di Ste. Egli pose una mappa e una bussola sul terreno cosparso di aghi di pino e disse: — Guarda, noi ci troviamo qui sul Tamigi, presso Cotwold Hills. Sulla mappa vedi il punto in cui siamo. E dobbiamo andare lassù: a Llandogo. La località è segnata sulla cartina. Bene, e adesso guidaci fino là, piccoletto dalla lingua lunga. Ste fece con la bussola un perfetto rilevamento topografico e poi disse: — Qui non si va più avanti sul fiume Tamigi. Dobbiamo andare dall’altra parte fino al fiume Avon. E a piedi. Non vedo altre possibilità. Warrington annui sbalordito, poiché non aveva mai attribuito a Ste tale capacità. Il giorno dopo i fratelli trascinarono l’imbarcazione fino al fiume Avon, la misero in acqua, continuarono a remare, poi tornarono sulla terra ferma e trascinarono la barca fino al fiume successivo. Per giorni e giorni Ste fece da guida ai suoi fratelli. Warrington non lo contraddiceva mai. E non c’era nulla da contraddire. Ste sapeva il fatto suo. E infine giunsero proprio alla casa di vacanze della madre, bruciati dal sole, un po’ smagriti, e Ste tutto orgoglioso. Warrington si lasciò persino sfuggire una lode: — Notevole — disse —. Il ragazzino potrebbe diventare un ottimo navigatore.

Nave in pericolo Per le ferie successive Warrington aveva dei progetti più grandiosi. Navigare sui fiumi non era abbastanza gratificante per il suo talento di marinaio. Voleva affrontare il mare, e con i suoi fratelli ottenne a un prezzo irrisorio, alla costa orientale di Norfolk, una barca da pesca. Era così a buon mercato solo perché minacciava continuamente

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di affondare. Ma i fratelli Baden-Powell — tutti buoni nuotatori — salirono a bordo e lavorarono parecchi giorni per renderla atta alla navigazione, almeno in modo da poter veleggiare lungo la costa. Warrington non osava intraprendere grandi viaggi. Ste, Frank e George si divertivano molto, ma per Warrington un tale tragitto era troppo misero. Un giorno gridò bruscamente: — Così non va. Ci serve un'imbarcazione d'alto mare. — Non parlare a vanvera — disse Ste, che di solito non aveva peli sulla lingua —. Portala qui la tua imbarcazione d’alto mare. Warrington era un tipo che traduceva sempre in realtà le sue idee. Vendette la barca a un pescatore che andava a pescare soltanto lungo la costa, e con il ricavato acquistò un'imbarcazione di dieci tonnellate, una bella nave, che però era piena di buchi come il formaggio svizzero ed era fissata agli anelli di ferro della banchina con dei grossi cavi. Se si fossero tagliate le corde, sarebbe colata a picco sul posto. Per il resto, non c’era nulla da ridire sulla nave. Per un mese intero i fratelli lavorarono e sudarono; le falle vennero turate e l’imbarcazione divenne un veliero niente male, adatto anche a lunghi viaggi. In un impeto di megalomania, i fratelli lo battezzarono Koh-i-Noor, dal nome del diamante più prezioso del mondo, grosso come un pugno, di 109 carati, che faceva parte del tesoro della corona britannica. Quindi navigarono verso nord fino in Scozia e di lì ai fiordi della costa norvegese dalle rocce ricoperte di ghiacciai. Poi tornarono indietro. Talvolta Ste, Frank e George soffrivano di mal di mare e quando per l’ennesima volta, il mare agitato, si sporgevano dalla nave per sputare nell’acqua, sentivano la voce di Warrington, che non era coperta nemmeno dalla tempesta, mentre urlava i suoi progetti futuri: — Ci vuole una nuova nave, una nave più grossa! Mi è appena venuta un’idea sul modo di averla... — Molto semplice — disse più tardi, quando la tempesta si fu calmata —. Noi salviamo una nave in pericolo. Poi riceviamo un premio in danaro e con questo compriamo una nave, che noi trasformeremo in modo tale da fare scappellare tutti i capitani. — E come fai a trovare una nave in avaria qui nel mare? Ci sono scarse probabilità. E a bordo non siamo attrezzati per poter captare un SOS... — Ma qualsiasi incrociatore di salvataggio marittimo lo può fare.

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E su questo si basa il mio piano: noi aspettiamo in un porto che salpi un incrociatore per soccorrere una nave in avaria. Poi lo seguiamo. Superiamo l’incrociatore e salviamo la nave per primi. Ste, George e Frank si scambiarono uno sguardo. Gli incrociatori erano molto massicci e perciò non particolarmente veloci. Il piano di Warrington avrebbe potuto funzionare. In teoria almeno. Alcuni giorni più tardi ebbero l’occasione di mettere in pratica la teoria: da sudovest si avvicinavano grosse nuvole temporalesche. Il sole si oscurò, come se stesse per spegnersi. Il mare diventò scuro, agitato e schiumoso per le raffiche di vento che ad intervalli si facevano sentire. Koh-i-Noor si dondolava non lontano dall’incrociatore ancorato al porto di Harwich, sulla costa orientale, ben protetto dalla banchina. Da tutte le direzioni i pescherecci ritornavano per cercare rifugio nel porto. Improvvisamente i marinai corsero a bordo dell’incrociatore. Spiegarono le vele, salparono e affrontarono la tempesta. Non c’era dubbio: una nave aveva lanciato un SOS. L’incrociatore doveva prestare soccorso. Koh-i-Noor con i fratelli Baden-Powell lo seguì immediatamente. In un batter d’occhio si trovarono in mezzo alle onde scure, presi e trascinati dalla tempesta. Purtroppo, più veloce dell’incrociatore Kohi-Noor non lo era affatto. I fratelli lo persero di vista, poi non videro più la costa. La tempesta divenne sempre più forte, la nebbia si avvicinava da tutte le parti, le ondate si abbattevano furiosamente a bordo... Insomma, si trovarono in un grosso pericolo. In quel momento Warrington si rivelò un eccellente capitano. Aveva sempre la situazione in pugno, e i suoi comandi superavano le urla e i gemiti della tempesta. I fratelli svolsero un perfetto lavoro di squadra, e dopo una notte piena di paura tornarono, completamente bagnati e stremati, ma sani e salvi nel porto, contemporaneamente all’incrociatore, che aveva a bordo l’equipaggio messo in salvo, mentre la nave nel frattempo era affondata.

Arrendersi? Mai e poi mai! Warrington non risparmiò le lodi per i suoi fratelli ed espresse su-

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bito una nuova idea: — Siete stati in gamba, così perfetti che mi sono deciso a prender parte alle regate con voi. — Regate? Gare di velocità? Con questa imbarcazione? — chiese George. — Con questa imbarcazione. E vinceremo. Infatti parteciparono ad alcune regate. E vinsero. Koh-i-Noor divenne famosa per quel tipo di sport. I fratelli Baden-Powell erano ritenuti pericolosi avversari. Vinsero alcune coppe, ma non denaro. Allora non si vinceva quasi mai denaro per i successi sportivi. Soltanto la famosa regata di Yarmouth presso l’isola di Wright prevedeva un premio in denaro oltre alla coppa per la squadra vincente. Era quello che volevano ottenere i fratelli Baden-Powell, per poter acquistare una nave ancora più veloce, con la quale intendevano vincere altre coppe. Di sicuro ai quattro fratelli non è mai mancato l’orgoglio. Immediatamente dopo l’inizio della regata di Yarmouth Koh-iNoor procedeva sospinta dal vento verso il gruppo in vantaggio, ma poi Warrington commise un errore: fece spiegare troppe vele. La barca si allontanò improvvisamente dalle altre in una preoccupante posizione laterale; quando già il traguardo era in vista, avvenne ciò che era prevedibile: l’albero non resistette alla pressione e si spezzò. Kohi-Noor galleggiava sull’acqua, non andava più avanti. L’imbarcazione che seguiva la sorpassò, mentre l’equipaggio sghignazzava. I fratelli più grandi si appoggiarono rassegnati al parapetto. E qui venne il momento del piccolo Ste: — Mai arrendersi! — gridò. — A che serve — disse Warrington —. Tanto non vinciamo più. Ci arrendiamo. Ste era fuori di sé. — Non importa se siamo i primi o no. Ma arrendersi, mai e poi mai! I fratelli si guardarono l’un l’altro, annuirono, si allontanarono dal parapetto e si diedero da fare. Sollevarono i resti del vecchio albero, lo ormeggiarono da tutti i lati, spiegarono le vele e grazie a un eccezionale ricupero, arrivarono terzi al traguardo, più acclamati dalla folla che i vincitori stessi. Ste aveva allora 13 anni, un’età che per i figli dei ceti elevati rappresentava un momento di grande importanza per la carriera futura: il

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passaggio dalle comode lezioni private — che impartivano soltanto conoscenze scolastiche elementari — al college, dove regnavano ordine e disciplina, dove si insegnava il latino, il greco, l’aritmetica e la geometria, la chimica, la fisica e cose del genere. Ste non ne era molto entusiasta.

Lealtà e inflessibilità Ma la realtà non era poi così brutta come pensava. Certo, rispetto agli internati moderni la maggior parte dei college di allora erano istituti poco accoglienti, con insegnanti impersonali, noti per la loro rigida educazione, quasi militaresca. Tuttavia in alcune scuole — ancora poche per il momento — cominciavano a diffondersi metodi d’insegnamento più avanzati, in particolare al CharterhouseCollege, il cui direttore, Haig Brown, si sentiva in obbligo verso le idee pedagogiche del defunto professore Baden-Powell, padre di Ste. La scuola Charterhouse era una delle più antiche in Inghilterra. Era stata fondata nel 1611 dai monaci certosini nel centro di Londra e poi trasferita in campagna, in un enorme parco abbandonato della contea del Surrey, nell'Inghilterra sudoccidentale. La scuola aveva l’aspetto di un castello, il parco era selvaggio, il direttore Haig Brown era ritenuto amico dei metodi educativi più aperti, e perciò era solo lì e in nessun altro luogo che Ste voleva studiare. Però un posto in quella scuola, stimata da insegnanti e genitori, si poteva ottenere, più che mediante eccellenti risultati dell'esame di ammissione, quasi soltanto tramite raccomandazioni. Le conoscenze non mancavano alla famiglia Baden-Powell. Il defunto padre di Ste era come sempre un punto di riferimento, e sua madre si era nel frattempo conquistata la stima della società londinese. Era una sostenitrice di Florence Nightingale (1823-1910), che divenne famosa in tutto il mondo quando durante la guerra di Crimea organizzò in grande stile la cura dei feriti, fino allora trascurata, e con i successi ottenuti diede l’avvio nel 1864 alla fondazione della Croce Rossa. Henrietta Grace Baden-Powell si impegnò inoltre per l’emancipazione della donna, i cui compiti principali a quel tempo erano soltanto cucinare e mettere al mondo i figli. Divenne un membro dirigente dell’Unione per l'Educazione della

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Donna e continuò a lavorare, come quando era nubile, in un ospedale per i poveri a Londra. Per la vedova tanto apprezzata del professor Baden-Powell non era quindi un problema procurare al figlio tredicenne il posto ardentemente desiderato al Charterhouse- College. Si recò dall'influente Duca di Marlborough, presentò la sua richiesta e questi rispose, con un leggero inchino: «Naturalmente, mia cara Signora, mi permetterò di dare disposizioni in modo che suo figlio venga accolto al Charterhouse-College». Per un ragazzo raccomandato tutte le porte si aprivano. Henriette Grace Baden-Powell diede la bella notizia ai figli l'ultimo giorno di vacanza del 1870. Stavano facendo colazione nella casa di Londra, al tavolo di legno di quercia, e insieme al porridge, la tradizionale pappa di avena degli Inglesi, bevevano l’altrettanto tradizionale tazza di tè. Tutti guardarono Ste, il cui desiderio era esaudito. Ma Ste non scoppiava di gioia. Scosse pensosamente il capo: — No. Non voglio ottenere nulla con le raccomandazioni. Voglio conquistarmi un posto di studio con le mie capacità personali. Ci rinuncio. Silenzio assoluto tra i presenti... Solo qualche secondo. Poi Ste trasalì con un gemito per una botta sulle spalle da parte di suo fratello Warrington. — Bravo, Ste — disse Warrington —, è così che si fa. Gli altri fratelli annuirono. E anche la madre mostrò rispetto per l'ammirevole lealtà e inflessibilità di Ste. Ste si presentò in un’altra scuola, anch’essa molto apprezzata: lo scozzese Feetes-College di Edimburgo, dove non si era ammessi tramite raccomandazioni. Superò l’esame di ammissione, ottenne un posto di studio, e poi tornò al Charterhouse-College. La sua motivazione: aveva dato prova di essere in grado di ottenere un posto in un college apprezzato, e ora poteva anche accettare la raccomandazione e realizzare il suo desiderio: entrare al Charterhouse-College. All’inizio del primo trimestre nel 1870 Ste si presentò, tenuto per mano da sua madre, da Haig Brown, il direttore della scuola, che più tardi ricorderà: «Stava lì davanti a me, nel suo lindo vestito alla marinara, capelli rossi, lentigginoso, piccolo e robusto. Ciò che mi colpì subito fu il suo comportamento sicuro». Gli venne assegnato un letto nella grande camerata; sistemò i vestiti, i quaderni, portapenne, calamaio, coltellino tascabile, bussola,

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spago e cose del genere nell’armadio, e il giorno successivo sentiva già la prima lezione. Trovò curioso il fatto che insegnanti ed educatori portassero toga e cappello in ogni occasione: durante la lezione, durante i pasti e persino durante le passeggiate nel parco. Avevano un atteggiamento severo, compassato, molto distaccato. Non c’era nulla che li offendesse più della mancanza di rispetto e la disattenzione in classe.

Un educatore in gamba I compagni di Ste iniziarono a prenderlo in giro chiamandolo Bathing Towell (asciugamano da bagno), che suonava quasi come il suo cognome Baden-Powell. Ma questo non doveva durare a lungo. Ste aveva infatti un protettore che avrebbe proibito tali scherzi. A proposito di questo protettore, è necessaria qualche spiegazione. Haig Brown, il direttore della scuola, un pedagogo dalle idee moderne, credeva all’importanza dell’autoeducazione per i giovani. E perciò nel Charterhouse-College a ogni nuovo studente veniva assegnato un compagno più anziano, un cosiddetto fagmaster, che era responsabile per il più giovane: per la formazione del carattere, l’istruzione, la qualità dei compiti, per i successi sportivi e anche per la sicurezza nei giochi pericolosi. Visto superficialmente, il metodo del fagmaster potrebbe sembrare nient’altro che un modo di educare i più piccoli attraverso i più grandi. Infatti il più grande, il più forte, il protettore deve essere un modello, si assume la responsabilità e ha dei doveri; e quindi viene egli stesso educato a un comportamento esemplare, responsabile e cosciente dei propri doveri. Il più giovane impara il senso della responsabilità, il senso del dovere attraverso il modello del suo protettore. In seguito diventa egli stesso fagmaster di uno più giovane, per poi abituarsi con questo compito al ruolo di adulto. Il fagmaster di Ste aveva solo tre anni in più (16 anni), era un asso nello sport, un buon calciatore e un abile pugile. Quando sentì che il suo protetto veniva chiamato Bathing Towell, afferrò il primo canzonatore che gli capitò e disse: — Se chiami ancora Ste in quel modo, ti prenderai una buona dose di legnate. Da quel momento nessuno lo prese più in giro. Ma il nome Ste

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non gli rimase a lungo. Presto i compagni lo chiamarono B.P. — pronunciato BiPi — dalle iniziali del suo cognome Baden-Powell. B.P. ammirava il suo fagmaster, lo considerava un tipo in gamba, superiore a lui, e si sforzava di seguirne l’esempio. Fu così possibile che un compagno maggiore di soli tre anni avesse più influenza sulla sua educazione di tutti gli altri che l’avevano educato sino a quel mo mento: più del nonno Smyth, più del parroco Allfrey, anche più dell’esemplare e stimatissima madre, più del direttore della scuola Brown e di tutti gli insegnanti del Charterhouse-College, che avevano studiato pedagogia e il cui mestiere era proprio l’educazione dei giovani. B.P. riuscì presto a conquistarsi la stima dei compagni, grazie alle abilità di esploratore acquisite in Hyde Park e nei boschi della contea nel Kent. Con tali capacità era in grado di impressionare persino il suo tanto stimato fagmaster. E l’occasione gli veniva offerta dalle avventure nella «savana».

L’Africa davanti al portone del college La scuola era circondata da un immenso parco, così selvaggio che con un po’ di fantasia lo si poteva paragonare alla selva africana, e perciò gli scolari lo chiamavano «savana». La natura selvaggia dell’Africa si trovava per così dire davanti al portone del college. Nel parco vi erano sì strade ricoperte di ghiaia, ma al di là di esse iniziava la vegetazione selvaggia, il bosco e un fitto groviglio costituito da arbusti di ogni tipo; un terreno che non era mai stato dissodato né coltivato a giardino. Abeti, ontani, querce e faggi, che emergevano dalla sterpaglia, non erano mai stati tagliati, e quando cadevano perché colpiti da un fulmine o abbattuti dalla tempesta, non accorreva nessun boscaiolo; restavano lì spezzati, fino a marcire e a decomporsi. Attraverso l’intrico serpeggiava un ruscello, alle cui sponde si abbeveravano gli animali. B.P. li osservava in quell’occasione, ne seguiva le orme, e conobbe presto i caprioli, le volpi e le lepri del parco di Charterhouse come il cacciatore conosce il patrimonio di selvaggina di un distretto forestale. Lì B.P. insegnò al suo fagmaster a distinguere le impronte della volpe dalle orme di un capriolo, a seguire le tracce, a trovare i luoghi di pastura e gli abbeveratoi, e a osservare gli animali selvatici a distanza ravvicinata.

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A dire il vero, l’ordinamento scolastico proibiva tali perlustrazioni nelle zone selvagge del parco. Erano permesse soltanto le passeggiate sulle strade coperte di ghiaia, dove gli insegnanti potevano tener d'occhio gli studenti e di tanto in tanto coinvolgerli in raffinate conversazioni. Anche B.P. passeggiava su quelle strade, finché lo guardavano i professori. Ma non appena si sentiva inosservato, si precipitava nella boscaglia, nella fessura più vicina come una volpe in fuga, e subito si sentiva libero, disinvolto, felice nella natura selvaggia che lo circondava. Spesso era solo nel suo paradiso, talvolta lo accompagnava il suo fagmaster, oppure faceva da guida a intere bande di marciatori attraverso i terreni di caccia del Charterhouse-College. Gli insegnanti non tardarono ad accorgersi che B.P. e i suoi amici passeggiavano, per poi scomparire improvvisamente, come inghiottiti dal terreno. Supponevano che i ragazzi fossero proprio nella «savana», temevano un «ulteriore imbarbarimento delle bande» e poco alla volta impegnarono il loro orgoglio per impedire tali giochi e per ristabilire l’osservanza dell’ordinamento scolastico. Ma con scarsi risultati. In fatto di perlustrazioni nei boschi B.P. era ben superiore ai

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professori di Charterhouse. Faceva sparire le tracce nell’erba che avrebbero tradito la sua fuga dalle strade di ghiaia, addirittura si avvicinava di nascosto ai professori e origliava mentre discutevano in piedi sulla strada sul come riuscire a scoprire i sotterfugi degli studenti. Tali esperienze torneranno utili a B.P. in seguito, durante le sue avventure in Africa, quando ingannerà gli indigeni bellicosi, avvicinandoli di soppiatto e origliando, proprio come faceva con gli insegnanti del Charterhouse-College. Negli anni successivi avrebbe poi messo a confronto queste due situazioni in due disegni. Un altro disegno rappresenta un divertimento che procurò intense emozioni a B.P. durante gli anni della scuola: si arrampicava sui rami sovrastanti le strade di ghiaia e osservava i professori che passeggiavano sotto di lui in cerca dei ragazzi della scuola scomparsi in perlustrazione. A nessuno veniva in mente di guardare in alto, dove B.P. stava rannicchiato come un indiano. Gli insegnanti divennero particolarmente sospettosi quando un giorno udirono da qualche parte nell’inaccessibile «savana» dei colpi d’ascia attutiti e il crepitio di alberi che precipitavano. La spiegazione era molto semplice: B.P. stava costruendo un ponte sul ruscello; un ponte così robusto che durò per decenni. In seguito, quando egli diventò una persona famosa, venne mostrato ai visitatori come un documento della sua bravura. Grazie ai metodi educativi moderni e disinvolti di Haig Brown, gli allievi non ebbero mai noie. Il direttore non vedeva alcun pericolo in tali giochi da esploratori e perciò non vietò ai ragazzi di correre nella macchia; ma non modificò neanche il regolamento scolastico e non impedì ai professori di insistere perché venisse rispettato. Tuttavia li esortò a considerare quella specie di gioco a nascondino indiano con gli studenti come uno sport, una gara con metodi leali, nella quale ciascuno cercava di avvicinarsi all’altro di nascosto; e la banda di ragazzi, guidati da B.P., risultava il più delle volte vincitrice. Haig Brown era dell’opinione che tali vittorie rafforzassero nei suoi studenti la consapevolezza delle loro capacità. «Le avventure nella boscaglia — scriverà più tardi B.P. riferendosi al periodo delle escursioni nel parco di Charterhouse — mi insegnarono a scoprire la gioia di vivere. Si imprimevano nella mia mente più di quanto non facessero le lezioni in classe».

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Le rappresentazioni teatrali: una passione per Baden-Powell.

Attore e cantastorie A scuola B.P. brillava un po' meno. Faceva solo quel tanto che gli desse la sicurezza di non rimanere bocciato. Persino l’insegnante di scienze naturali si lamentò del «disinteresse ostentato di B.P. durante le lezioni», benché «questo studente dimostri di possedere notevoli conoscenze». Aveva ragione. Come affermò egli stesso, B.P. aveva acquisito la «scienza del bosco» sul posto. Le impronte della volpe lo interessavano più della lezione dell’insegnante sulla volpe. B.P. ottenne buoni risultati — talvolta fu anche il migliore della classe — in geografia, poiché i paesi lontani lo incuriosivano moltissimo. Per il resto, i voti erano mediocri. L’insegnante di latino gli dava un anno dopo l’altro un «appena sufficiente». L’insegnante di greco era dell’opinione che B.P. avrebbe potuto rendere di più se lo avesse voluto. In matematica e nelle materie scientifiche se la cavava appena. Pericoloso per B.P. era l’insegnante di francese, un uomo grassoccio, dal colorito pallido, temuto e poco amato dagli studenti per il suo carattere, in quanto mancava di lealtà: una qualità che distingueva tutti gli altri professori del college. L’insegnante di francese aspettava solo l’occasione per buttare B.P. fuori di scuola. Per due motivi: primo, durante la lezione B.P. qualche volta si addormentava.

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Secondo, un giorno B.P. gli aveva fatto uno scherzo, come vedremo. Bisogna sapere che B.P. possedeva un grande talento per la recitazione teatrale. Faceva parte di una compagnia di filodrammatici del Charterhouse e si esibiva con indumenti fantasiosi come attore, cantante e suonatore di violino. Grazie al suo spirito di osservazione, riusciva a imitare persone dalle professioni più disparate e di tutti i ceti sociali nel loro modo di parlare, nella mimica e nei movimenti. Per lui la recitazione teatrale era — come disse egli stesso — un «mettersi nei panni degli altri», il che presupponeva uno studio attento delle abitudini umane. Ad esempio, una volta durante le vacanze osservò per più giorni un cantastorie, che nel fracasso di una fiera di infimo ordine, tra funamboli, uomini che facevano ballare gli orsi, ciarlatani, mangiatori di fuoco e giocolieri, continuava a cantare la storia truculenta e raccapricciante di una giovane giardiniera pugnalata. E all’inizio del nuovo anno scolastico B.P. stupì professori e studenti con una speciale rappresentazione: entrò in scena vestito da cantastorie, con un cilindro malandato e un frack consunto, e cantò accompagnato dal violino una ballata raccapricciante, composta da lui stesso, e dalla quale sgorgavano in abbondanza lacrime e sangue. Già, e poi ci fu la storia del professore di francese. Accadde in occasione della serata dei genitori, quando padri, madri, insegnanti e studenti sedevano nel teatro del college per ascoltare alcuni discorsi. Per chissà quale motivo ci fu una confusione nel programma; l’oratore di turno non saliva sul podio, la pausa stava diventando imbarazzante, e così Haig Brown chiamò il giovane B.P.: intendeva utilizzare il suo talento di commediante per riempire quel momento di vuoto. — Fai qualcosa per intrattenere la gente — bisbigliò all’orecchio del ragazzo dai capelli rossi —. Improvvisa quello che vuoi perché non si impazientisca. B.P. annuì: — All right Sir, farò qualcosa. Per favore, mi dia la sua toga e il cappello. Haig Brown rimase un po’ meravigliato, ma poi acconsentì. Con il cappello del direttore sulla testa, la toga troppo larga appoggiata sulle spalle, B.P. salì sul palcoscenico e diede una lezione di francese coi fiocchi: in piedi sul podio imitò il professore con tutte le sue manie lessicali. Insegnava con forte accento nasale — alla manie-

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ra dell’insegnante di francese — l'imparfait e passé simple; alzava e calava il tono di voce, ogni tanto sussurrava qualcosa con affettazione, poi rimproverò «lo studente Haig Brown, che sedeva lì sotto, addormentato», e infine fece una ramanzina con voce adirata, così buffa che la sua lezione fu subissata da una fragorosa risata generale. L’unico che non trovò la cosa affatto divertente fu l’insegnante di francese.

Una brutta figura Dopo sei anni di scuola B.P. superò discretamente l’esame finale nell’anno 1876. Aveva 19 anni. Il giorno della partenza, quando già aveva fatto le valigie, Haig Brown lo chiamò nel suo ufficio. — Non molto brillante come diploma — gli disse. — Lo so. Ho già pensato di non ostentarlo ai miei figli, quando ne avrò. Haig Brown sorrise. — Tuttavia farai la tua strada. Ne sono certo. Che progetti hai? — Voglio fare il missionario. — Perché? — Perché facendo il missionario conoscerò i paesi lontani. L’India, l’Africa... — Non è un buon motivo per diventare missionario. — Però è il modo migliore per andare in India o in Africa. — Ma ci vorrà del tempo. Prima dovrai studiare. Qualche anno. Hm... Dove vuoi studiare? A Oxford? — Certo. Certo che il giovane Baden-Powell voleva studiare a Oxford. Il suo defunto padre era stato professore a Oxford. Suo fratello George si era distinto per i suoi studi a Oxford. Suo fratello Frank vi studiava ancora. Ma Haig Brown si chiedeva se B.P. avrebbe superato il difficile esame di ammissione a Oxford, un esame che si basava sul nozionismo, sulle conoscenze scolastiche! Haig Brown conosceva bene i voti di B.P. e sapeva: nonostante tutta l’intelligenza, la sorprendente arte di improvvisazione, lo spirito di iniziativa, che caratterizzavano il giovane B.P., difficilmente avrebbe avuto successo all’esame di am-

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missione. E ricorrendo alle raccomandazioni? B.P. per principio non si serviva delle conoscenze, per quel che ne sapeva Haig Brown. Perciò disse prudentemente: — Uno dei migliori amici del tuo defunto padre era Jowett, professore a Oxford. Un uomo conosciuto dappertutto. Proprio oggi, per caso, viene a trovarci. È come uno zio per me. Vuoi parlare con lui? Dovrebbe esaminarti. Privatamente. È severo e giusto. Del suo giudizio ti puoi fidare. Haig Brown sperava che il professor Jowett intrattenendosi personalmente con il giovane avrebbe riconosciuto i suoi talenti, non attribuendo troppa importanza alle conoscenze scolastiche. Dapprima tutto si svolse in quel senso. Il professor Jowett era disponibile per un esame privato e invitò B.P. nella sua casa patrizia di Londra durante le vacanze. B.P. — vestito accuratamente, i capelli rossi pettinati con la riga — fu accolto da Jowett con una cordialità quasi familiare e immediatamente introdotto nello studio, in cui c’era una lavagna. Jowett fece portare tè e pasticcini, parlò del più e del meno e poi giunse al latino e al greco, alla matematica, alla fisica e via dicendo... e qui ebbe inizio il declino per B.P. Quel che sapeva era troppo poco, troppo poco per poter superare un esame di ammissione a Oxford. Dopo un po’ Jowett scosse il capo. — No, ragazzo mio. Mi dispiace. Ma non basta. Decisamente non è sufficiente. Non posso appoggiare la tua ammissione a Oxford. Penoso! Fallire all’esame ufficiale di ammissione a Oxford, va bene, può capitare. Ma essere respinto ad un esame privato, durante un colloquio amichevole, nel quale, oltretutto, dava l’impressione di sfruttare conoscenze altolocate, questo era insopportabile per B.P. Con voce sommessa si congedò da Jowett. Come se non bastasse, Haig Brown, informato per iscritto dell’insuccesso, si mosse personalmente, a completa insaputa di B.P. Si recò espressamente a Londra e chiese un colloquio con il professor Jowett, che lo ricevette rigido e compassato, lo condusse nel suo studio e chiese esitante se poteva offrirgli del tè. Haig Brown ringraziò rifiutando e venne subito al nocciolo della questione: — Conosco B.P. da molto tempo; per anni l’ho osservato a scuola. Non era uno studente diligente, lo so. Ma è maturo per l’Uni-

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versità! Mi creda. È intelligente, ingegnoso, cameratesco, artisticamente dotato. Possiede tutte le doti necessarie per un missionario. Sarebbe un peccato se... — No! — Jowett inarcò le sopracciglia —. All’esame di Oxford è richiesta la conoscenza delle materie scolastiche. Scolastiche! E questa conoscenza il figlio del mio defunto amico Baden- Powell non la possiede. I due si salutarono molto freddamente. — Che fare? — chiese Haig Brown, quando poco dopo sedeva di fronte a B.P. nella sua casa paterna, girando il cucchiaino nella tazza di tè. — Nel frattempo ho dato l’esame di ammissione a Sandhurst. — Sandhurst?

Brillante successo Sandhurst era l'Accademia militare più antica e apprezzata in Inghilterra, una scuola di addestramento per gli ufficiali d’élite, nota per il suo severo esame d’ammissione. Prima del 1871 non conferiva un prestigio particolare il fatto di frequentare un'Accademia militare, a meno che il candidato non provenisse da una famiglia aristocratica. I posti di formazione venivano acquistati! E acquistati erano anche i successivi posti di comando. Con il denaro del padre! Per lo più si trattava di figli che non valevano gran che, «dandy» tanto raffinati ed eleganti quanto inetti, che in famiglia avrebbero soltanto creato problemi. Venivano assunti dall’esercito, e potevano così fregiarsi con titoli da ufficiale, uniforme e onorificenze. Ovviamente, il corpo ufficiali venne paragonato, a lungo andare, a un bacino di raccolta di esistenze fallite. Gli ufficiali prima del 1871 — escluse naturalmente le eccezioni — erano figli di ambienti raffinati, ma di qualità scadente come uomini, viziati, poco intelligenti e molto arroganti, che il servizio militare addestrava a una rigidità senza senso. Tutto cambiò nel 1871 grazie a una riforma dell’addestramento militare già da tempo attesa, e poi favorita dalla regina Vittoria. Da allora non furono più le ricchezze del genitore, bensì le qualità umane e intellettuali a decidere l’ammissione in un’Accademia militare e la

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successiva carriera. Anche i figli di famiglie meno benestanti ne avevano la possibilità. La concorrenza divenne più intensa. La professione di ufficiale guadagnò in prestigio. Le Accademie militari erano valide quanto le Università, gli esami d’ammissione erano rigorosi, talvolta più che all’Università. E notoriamente rigoroso era, come già detto, l’esame d’ammissione all’Accademia militare di élite di Sandhurst, dove ogni anno facevano domanda centinaia di candidati e soltanto quaranta nuovi posti di addestramento venivano messi a disposizione. Fu lì che nel 1876 B.P. partecipò all’esame di ammissione, poiché intravedeva nella professione di ufficiale l’occasione per conoscere paesi lontani, soprattutto le colonie della Gran Bretagna che più lo interessavano, l’India e l’Africa. — Quanti candidati c’erano quest’anno all'esame di ammissione? — chiese Haig Brown. — Settecentodiciassette. — Sai che solo quaranta vengono ammessi? Tutti gli altri vengono respinti. — Sì, lo so. — Sai già il risultato dell’esame? — No. Haig Brown beveva pensieroso il suo tè. Stava pensando al fatto che l'esame di ammissione all’Accademia militare si basava poco sulle conoscenze di latino e greco e più sulle doti naturali di intelligenza e spirito d’iniziativa, sulla prontezza nel prendere decisioni e la capacità di improvvisazione, sulla genialità che permette di agire nella maniera giusta nelle situazioni più inaspettate. Nel posare la tazza, Haig Brown sorrise: — Non ti preoccupare, B.P. Puoi tranquillamente aspettare il risultato dell’esame. Ce la farai. Alla fine di agosto del 1876 venne consegnato il risultato d’esame: B.P. era, tra 717 candidati, al secondo posto come aspirante al reggimento di cavalleria e quarto in fanteria. Era quindi tra i sei migliori esaminati che, secondo una tradizione di Sandhurst, avrebbero goduto di quattro privilegi: 1. Potevano scegliersi l’arma. 2. Venivano immediatamente promossi a sottotenente. 3. Non erano tenuti a frequentare il corso base di due anni al-

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l’Accademia militare di Sandhurst. Passavano subito all’esercitazione pratica del servizio militare. B.P. scelse l’arma di cavalleria e venne destinato al 13° reggimento ussari. Così realizzò la sua aspirazione a terre straniere dall’oggi al domani. Infatti il 13° reggimento ussari stazionava in India, precisamente a Lucknow, l’antica città reale a nord-ovest della giungla vicino all’Himalaya innevato. Il 30 ottobre il diciannovenne sottotenente Baden-Powell — una sciarpa sull’uniforme, un chepì sui capelli rossi, la sciabola al fianco — salì a bordo della «Serapis» nel porto di Portsmouth. Il porto di destinazione: Bombay.

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AVVENTURE ED ESPERIENZE

Paese da favola, terra delle meraviglie e ballo in maschera Il 6 dicembre del 1876 verso mezzogiorno, apparve il porto di Bombay: rocce nere, templi grigi e rossi, moschee color turchese e marrone chiaro, casupole in rovina di vari colori e tra queste, bianche, di forma cubica, le imprese commerciali dei colonialisti inglesi, luccicanti sotto il sole e circondate da migliaia di corvi. Tempo di avvento, inverno, ma solo sul calendario. Di neve o atmosfera natalizia non vi era traccia a Bombay. La «Serapis» approdò. I portuali gettarono le funi, sistemarono i pontili di sbarco tra il molo e la murata, e B.P. non vedeva l’ora di toccare per la prima volta il suolo indiano. Dopo un rapido disbrigo delle pratiche doganali, si ritrovò in un batter d’occhio nella calca di persone dagli indumenti multicolori. Dappertutto grida, fischi, tambureggiamenti e colpi di gong che echeggiavano dai templi, dove si offriva in sacrificio una vittima a chissà quale divinità. Ovunque odor di sudore, curry, bastoncini di incenso ardenti, carbone rovente, carne di montone arrostita e letame di vacca. Le mucche barcollavano scodinzolando per la strada, mangiavano dalle bancarelle di frutta e verdura quello che volevano, non ostacolate dalle persone, guardate con stupore e riverenza. Là infatti le mucche sono considerate animali sacri e intoccabili. Uomini dalla barba grigia in redingote bianca, con cuffie nere simili al copricapo dei vescovi, camminavano con gravità, riconoscibili dall’abbigliamento come i membri di una casta aristocratica che venerava il fuoco. Gli altri uomini che facevano ressa intorno a B.P. e lo spingevano erano per lo più avvolti in panni dai colori vivaci, rossi o blu. Le donne procedevano a fatica tra la folla, evitando nei limiti del possibile ogni contatto, inavvicinabili, con il viso dai lineamenti rigidi e armoniosi, punti rossi sulla fronte per indicare che appartenevano alla casta degli indù. Indossavano il sari oppure calzoni e bluse multicolori a forma di camicia. Le donne musulmane si riconoscevano dalle velette bianche con fessure per gli occhi, dai loro calzoni alla zuava

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e le giacche rosse. Colpiva subito la varietà degli ornamenti delle donne indiane: anelli in ogni dito e persino ai piedi, braccialetti in oro e argento tintinnavano rumorosamente ai polsi e alle caviglie. Molte avevano grossi anelli infilati nel naso, quasi tutte avevano dei fiori nei capelli neri, unti con olio di cocco. Paese da favola, terra delle meraviglie e ballo in maschera, questa fu la prima impressione che B.P. ebbe della metropoli indiana di Bombay. Ma presto dovette cambiare idea. Si vide attorniato da bambini mendicanti, con pance enormi, gambe e collo sottili, occhi neri nei visi scuri. Un mendicante stava accovacciato per terra, coperto solo da un perizoma, ridotto ad uno scheletro, le costole sporgenti, il viso consumato dalla lebbra, il braccio alzato e le dita ossute distese per chiedere baleshish, una pietosa elemosina. Improvvisamente un ufficiale dell’esercito coloniale sbarrò il passo a B.P.: un giovane in uniforme color cachi, con nappe, sciarpa e cordoncino della pipa, sciabola e revolver alla cintura, un casco coloniale in testa. Si presentò come sottotenente: — Ho l’incarico di venirla a prendere. Lei si è allontanato troppo velocemente dalla nave. Ho avuto difficoltà a ritrovarla. Dovrei portarla alla stazione. Insieme presero un risciò trainato da un indiano a passo di corsa. B.P. osservò l’uomo muscoloso che, teso sulle corde del traino e piegato in avanti, con il passo veloce delle gambe annerite dalla sporcizia trascinava a piedi nudi il risciò nella ressa di persone dall’abbigliamento variopinto. — Non è disumano — chiese B.P. — una persona come animale da tiro? — Al contrario. Per gli indiani sarebbe disumano se noi non ci servissimo di questo mezzo di trasporto, togliendo così il pane di bocca a coloro che trainano il risciò. Il risciò fa parte della tradizione asiatica. Paese che vai, usanza che trovi. Vicino alla stazione videro una figura spettrale, grigia la pelle, grigi i capelli, grigio il perizoma. Era un vecchio che faceva due passi avanti e due indietro e ad ogni passo si gettava addosso una manciata di cenere: un pellegrino che si dirigeva verso il luogo santo. La stazione, costruita dagli Inglesi, si poteva paragonare a una stazione ferroviaria di Londra. B.P. salì sul treno per Lucknow, in un

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vagone di prima classe, come era previsto per tutti gli ufficiali, a cui non era permesso mescolarsi nel mucchio di persone dei vagoni di terza classe. Sempre lo stesso giorno si procedette su binari a scartamento ridotto in direzione di Lucknow. La locomotiva a vapore andava avanti fischiando, sbuffando fumo puzzolente, i vagoni strepitavano, le ruote stridevano... La variopinta figura della grande città scomparve, lasciando il posto alla natura selvaggia. Affacciato al finestrino aperto, B.P. sentiva ancora nelle narici l’odore di Bombay e il suo rumore nelle orecchie. Il giorno seguente, il paesaggio indiano si stese davanti al finestrino del treno in tutta la sua varietà: ripide montagne, colline, altipiani, bassipiani, foreste tropicali sempreverdi, foreste monsoniche rigogliose, boschi inariditi, boscaglie, prati, risaie, campi di miglio, paludi, savane di sabbia e rocce laviche, in parte ricoperte da sterminate siepi spinose. Ogni tanto B.P. leggeva su uno degli opuscoli dell’Accademia militare di Sandhurst informazioni sull’India.

La terra ardentemente desiderata: una polveriera L’India, vasta poco più di 4 milioni di chilometri quadrati, confinante a nord con le alte montagne dell’Himalaia e del Karakorum, lambita a sud dall’oceano, ospitava allora circa 200 milioni di abitanti. La struttura sociale non era tanto determinata dal carattere nazionale, dalla discendenza o dalle particolarità linguistiche, quanto dalle confessioni religiose e dalla suddivisione in caste degli indù. Gli indù formavano l’82% della popolazione. L’11% era costituito da musulmani, il 2, 5% da cristiani e il 2% da sikh, appartenenti a una setta mista di induisti e musulmani fondata nel 1500. L’1% della popolazione era costituito da buddisti. Il resto era formato da associazioni segrete e dalle cosiddette sette criminali. La molteplicità delle religioni derivava dall’antica e altamente sviluppata filosofia dell’India: una visione del mondo incomprensibile per gli Europei, misteriosa, meditativa, ricca di simboli, che si interessava di redenzione, di trasmigrazione delle anime e di liberazione dello spirito dal corpo. Sofisticata anche la letteratura indiana, in parte legata alle religioni per la profondità del pensiero, in parte popolare e

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destinata al vasto pubblico; molto sviluppato pure il teatro indiano: giochi delle ombre, teatro delle marionette e soprattutto tragedie ballate con musica, rappresentate da attori sfarzosamente vestiti e mascherati, eseguite nei templi o in campagna, all'aperto, per notti intere, per divertire il popolo. Le rappresentazioni dell’arte figurativa — riprodotte negli affreschi, rilievi, plastici, dipinti — erano ispirate da motivi religiosi oppure dal desiderio di una gioia di vivere selvaggia, priva di costrizioni. Artisti erano considerati anche i tintori dei vestiti variopinti e soprattutto gli orafi; infatti l’India era ricca di oro, argento, diamanti e altre pietre preziose. Da sempre godevano di grande stima i costruttori dei templi splendenti di gioielli o dei palazzi ricoperti di oro, che erano stati innalzati come luoghi di culto per le divinità o come abitazioni per principi e commercianti immensamente ricchi. Malgrado la favolosa, addirittura proverbiale ricchezza dei principi, maragià e nababbi, il popolo viveva in povertà e miseria. La durata media della vita era sui 24 anni! Ogni anno moriva una quantità incalcolabile di indiani per fame, sete ed epidemie. Un popolo culturalmente avanzato ma vittima di una scarsa civilizzazione; e vittima di una storia caratterizzata da spargimento di sangue, guerre e lotte persistenti: lotte tra prìncipi, lotte tra fanatici religiosi, lotte infine contro i conquistatori che incessantemente continuavano ad affluire. I primi conquistatori furono Indogermanici, che nel secondo millennio a. C. arrivarono da nord-ovest assoggettando la popolazione. Nel 327 a. C. fu Alessandro Magno a portare la guerra nel paese. Poi vennero gli Sciti e i Kusciti (100 a. C. ), poi gli Unni (500 d. C. ), quindi i Musulmani (8° secolo), poi i Mongoli (14° secolo). Verso la fine del 15° secolo ebbe inizio la colonizzazione: con Vasco de Gama penetrarono in India soldati, commercianti e coloni portoghesi, che occuparono il paese iniziando l’attività commerciale, ma alla fine del 16° secolo vennero cacciati da Olandesi, Francesi e Inglesi. Gli Inglesi — rappresentati da commercianti della Compagnia delle Indie fondata nel 1599 a Londra, appoggiati da truppe coloniali — ottennero il predominio sull’India durante il 18° secolo con lotte continue contro i dominatori precedenti. La Compagnia delle Indie dominava i tre quinti del territorio indiano, due terzi dei quali lasciati ai principi locali, che da parte loro dovettero cedere i diritti sovrani per la politica estera

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e di difesa agli stranieri. Con il 1818 giunse finalmente il momento per la pace e le riforme. I Britannici fecero costruire ospedali, ferrovie, agenzie telegrafiche, organizzarono l'irrigazione e incrementarono l’agricoltura, combatterono contro le sètte criminali, vietarono i rituali barbarici con la morte sul rogo delle vedove e posero dei limiti al potere assoluto dei ricchi prìncipi. Fecero quindi molto per la civilizzazione, lottarono molto contro la fame, le malattie, le epidemie e la mortalità precoce, ma, come gli stessi opuscoli informativi dell’Accademia militare ammettevano, lo fecero spesso con inettitudine, tirannia, con violenza e una scarsa capacità di immedesimarsi nelle usanze e nelle convinzioni religiose locali. Fu così che nel 1857 — l’anno di nascita di B.P. — le truppe indiane di nord-ovest insorsero. Attaccarono le truppe coloniali britanniche e trucidarono civili, donne e bambini. L’esercito britannico riuscì in extremis ad evitare una rivolta generale degli Indiani, a limitare la ribellione al territorio nord-occidentale e infine a soffocarla. Fu una lezione dalla quale i Britannici seppero trarre le logiche conseguenze. Contrastarono la forte influenza dei commercianti inglesi e i loro interessi, sciogliendo la Compagnia delle Indie e ponendo l’India alle dirette dipendenze del Parlamento e della Corona Britannica. La regina Vittoria assunse il titolo di «Imperatrice delle Indie». Veniva rappresentata dal «Governor General in Condì», che modestamente si chiamava «Viceré delle Indie». Tuttavia tali provvedimenti servirono a poco. Il fuoco non era ancora stato spento. Per la precisione, le fiamme non guizzavano più, ma l’odio covava sotto la cenere. Il movimento di indipendenza indiano crepitava, era percepibile, non si poteva più controllare. * Per questo B.P., mentre viaggiava in treno da Bombay a Lucknow, presagiva che la terra lontana dei suoi sogni sarebbe stata una polveriera, che lo attendevano ardue avventure, e che in India non bisognava più commettere errori, se si voleva evitare la guerra e la catastrofe. Ma, si chiese, quali errori aveva commesso una parte dei Britannici? Come si poteva porre rimedio? Le informazioni dell'Accademia militare non erano esaurienti. Doveva scoprirlo da solo. * Situazione odierna (1988): indipendenza dal 15 agosto 1947. Contemporanea scissione dal Pakistan, con riduzione del territorio a soli 3. 288 milioni di chilometri quadrati. Costituzione del 26. 1. 1950: repubblica nell'ambito del Commonwealth Britannico senza vincoli legali. Numero di abitanti (cens. 1981): circa 684 milioni, in costante aumento.

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Esercitazioni, segnalazioni, tattica e balistica Al 12° giorno di viaggio, il treno scese con grande strepito dagli altipiani sassosi nella rigogliosa vallata del Gange, in parte occupata dalla giungla. All'orizzonte si profilavano le vette innevate dell’Himalaia. Poi si aprì alla vista Lucknow, un tempo capitale del regno di Oudh, dal 1856 occupata dagli Inglesi. Una città luminosa, con palazzi in marmo dorato, templi a forma di piramide, uniformemente ricoperti di bassorilievi, e le cupole a cipolla della famosa moschea di Imambara. La stazione, raggiunta dopo un’ultima ora di viaggio, era tipicamente inglese. Un sottotenente venne a prendere B.P. e lo accompagnò in risciò alla periferia fino alla guarnigione: piazze d'armi, poligoni di tiro, intere batterie di cannoni, impianti di docce e stalle di cavalli costruite in argilla e ricoperte di paglia, che all’esterno assomigliavano in modo straordinario ai cosiddetti bungalows, nei quali abitavano i soldati. A B.P. fu assegnato un bungalow da sottotenenti per tre persone. Ma in quel momento non c’era nessuno. Posò la valigia, appese la cintura con sciabola e revolver nell’armadio e, pieno di polvere e con le ossa rotte, si recò subito alla doccia più vicina. Quando ritornò, notò dei movimenti sotto il letto: qualcuno che si nascondeva, sicuramente! Il suo sguardo si posò sull’armadio semiaperto: il revolver e la sciabola erano ancora lì. Prima che potesse prendere le armi, strisciarono da sotto il letto due ragazzine di circa sette-otto anni. Lo osservarono ridacchiando e scapparono. La sera ritornarono; come risultò poi, erano le figlie di un ufficiale coloniale. Molti anni dopo — quando B.P. era ormai famoso — la più giovane racconterà questo primo incontro a un cronista: «Sì, fu allora che conobbi B.P. Mia sorella maggiore e io avevamo l'abitudine di spiare tutti i giovani ufficiali appena arrivati dall’Inghilterra. B.P. ci ha subito scoperte nel nostro nascondiglio. Poi ritornammo la sera. B.P. e gli altri che abitavano con lui stavano sulle sedie a sdraio davanti alla porta. Nei giorni successivi divenne un buon amico per noi e per tutti gli altri fanciulli, anche per i figli e le figlie più grandi degli ufficiali. I ragazzi non volevano mai staccarsi da lui. Aveva uno

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sguardo amichevole. Non era mai annoiato o triste come molti altri ufficiali della guarnigione. Suonava la sua ocarina e la sua armonica a bocca, sapeva raccontare tante belle storie, ci meravigliava con i suoi disegni e riusciva ad imitare meravigliosamente il verso dello sciacallo». Così B.P. iniziò il corso da ufficiale, che durò otto mesi. L'addestramento comprendeva: esercitazioni, combattimento ravvicinato, sopravvivenza a contatto con la natura, segnalazioni, esercitazioni di tiro, tattica, balistica e — fra tutte preferita da B.P. — la ricognizione: esplorazione segreta per conoscere le posizioni avversarie. Tutti gli elementi della ricognizione, come la ricerca di tracce, la loro identificazione, ravvicinamento di soppiatto, l’osservazione, l'orientamento e cose di questo genere erano per lui un divertimento già dai tempi delle esplorazioni nella contea del Kent e nel college di Charterhouse. Gli ufficiali non gli insegnavano nulla di nuovo. Ma potè constatare che c’erano dei maestri della ricognizione, di gran lunga superiori a lui e ai suoi istruttori: alcuni cacciatori indiani, cercatori di orme ed esploratori, e persino dei ragazzini, che erano cresciuti nella natura e consideravano la giungla come un campo di giochi; all’insaputa dei colonialisti, avevano acquisito delle sorprendenti conoscenze nell’osservazione e ricognizione. A quell’epoca accadde un fatto che più tardi B.P. avrebbe spesso raccontato o scritto succintamente. Un fatto diventato piuttosto famoso. Infatti molti autori l’hanno ripreso, facendolo talvolta passare come loro invenzione. La storia originale venne raccontata a B.P. da un ufficiale delle comunicazioni che l’aveva vissuta in prima persona.

La storia del giovane ricognitore Un soldato scomparve durante una solitaria cavalcata di ricognizione. Probabilmente si era smarrito. O forse il suo cavallo — un rabicano — non voleva più andare avanti. Infatti allo zoccolo posteriore destro aveva un rigonfiamento che dopo una lunga galoppata poteva diventare doloroso. Una truppa di soldati, sotto la guida dell’ufficiale, rilevarono le impronte del cavallo, che dalla guarnigione finivano nella giungla, talvolta facilmente individuabili e talvolta a malapena riconoscibili.

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Dopo circa tre ore, i soldati incontrarono un ragazzo indiano, che da un villaggio sperduto si recava tutto solo alla guarnigione. — Ehi! Hai visto un uomo a cavallo? — Un soldato alto su di un rabicano un po’ zoppicante? — Precisamente. Dove l’hai visto? — Non l’ho visto. I soldati, sbalorditi e diffidenti, fermarono subito il ragazzo. Infatti non era da escludere che il loro compagno fosse stato ucciso e portato via. E che lui ne sapesse qualcosa. — Come fai a sapere del soldato e del cavallo, se non li hai visti? — Semplice. Ho visto le orme. — Anche noi vediamo le orme. Ma come fai a sapere che il cavallo zoppica? Il ragazzo si chinò: — Qui i ferri di cavallo si riconoscono chiaramente. Il cavallo tra l’altro ha un buon passo. «Si ripara», come dite voi Inglesi. Ma solo a sinistra: dalla traccia si vede che il grande zoccolo posteriore supera un poco il piccolo zoccolo anteriore. A destra, rimane dietro lo zoccolo anteriore, segno che il cavallo ha un dolore dietro a destra e quindi zoppica. Inoltre l’impronta dello zoccolo posteriore destro è meno marcata. — Hm... E come sai che il cavaliere era un soldato? Il ragazzo guidò la squadra per qualche minuto verso il punto in cui il cavaliere si era seduto per riposarsi. — Qui ci sono le impronte di stivali chiodati. La traccia dei chiodi è tipica dei soldati. — E come sai che era alto? — Ha spezzato un ramo. Era in piedi sul terreno e il punto in cui è stato spezzato è molto alto. Soltanto un uomo molto alto avrebbe potuto raggiungere quel punto. — Come hai capito che stava cavalcando un rabicano? — Il cavallo si è sfregato contro un tronco —. Il giovane indiano staccò alcuni peli rossi dalla corteccia e li mostrò —. Il pelo di un ra bicano. Con l’aiuto del ragazzo, il soldato disperso venne infine ritrovato. — Quanti anni aveva il ragazzo? — chiese B.P. all’ufficiale che aveva raccontato la storia. — Una dozzina, direi.

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— Dodici anni. E solo nella giungla. B.P. sapeva quanto fosse facile perdersi nella giungla; sapeva quanto fosse pericoloso, se non si aveva esperienza con la natura selvaggia. — Sì, di orientamento il ragazzo ne sapeva quanto noi. E io devo ammettere che quanto a valutazione delle tracce ne sapeva più di me. Si muoveva nella giungla sicuro come un adulto nell’area della guarnigione. — Come un adulto! — B.P. guardò davanti a sé pensieroso. — Un ragazzino sveglio — aggiunse l’ufficiale. Uno che a dodici anni si avventura da solo nella giungla — disse B.P. —, che conosce così bene la natura, sa certamente come aggirare gli ostacoli, ha dei buoni motivi per essere sicuro di sé. Come ha fatto a procurarsi tutte quelle conoscenze? — Gliel’ho chiesto. Ma non me l’ha detto. — Parlava bene l'inglese? — Perfettamente. Per fortuna. Altrimenti non avremmo potuto capirci. Lei sa bene che pochi di noi parlano l’indostano. E solo pochi

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Indiani parlano la nostra lingua. — Come mai questo ragazzo parlava cosi bene inglese? — Ogni indiano può imparare l'inglese, se vuole. — Lo so. Ma perché il ragazzo ha voluto imparare l’inglese? L’ufficiale alzò le spalle. — Forse perché vuole fare strada. Ciò è possibile soltanto a chi parla inglese, che riesce a discorrere con noi. Secondo me, tutti gli Indiani dovrebbero imparare la nostra lingua, e riuscire a padroneggiarla come quel ragazzo, così sicuro di sé. Ci sarebbero meno problemi. A B.P. venne in mente un vecchio saggio proverbio, che purtroppo non è tenuto in molta considerazione: «Quando due non parlano più tra di loro, si sparano».

Visite al quartiere indiano Da quel momento B.P. decise di imparare l’indostano ad ogni costo. Prese lezioni private da un indiano, e quando riuscì a farsi capire a sufficienza, si recò nei quartieri indigeni dell’antica città reale, negli angoli più sconosciuti e nei vicoli più nascosti, alle fontane e nelle locande, ai mercati e ai bazar, dove uomini e donne chiacchieravano oppure discutevano sul prezzo della merce, urlando e gesticolando. Gli indigeni — dapprima stupiti nel vedere un ufficiale coloniale nel loro quartiere — riposero presto in lui la loro fiducia, solamente perché egli capiva la loro lingua. Dopo un’esitazione iniziale, raccontavano apertamente delle loro abitudini di vita, di povertà e problemi, di gioie e momenti di conforto offerti loro dalla fede, dai miti e dalla magia, dalla tradizione e dall'unione familiare. B.P. cominciò a capire in che cosa avevano sbagliato molti colonialisti nel corso dei secoli: avevano trattato gli Indiani come propri simili, come Inglesi, che erano solo più ignoranti, privi di cultura e più poveri di loro, senza pensare minimamente che erano persone con una cultura, modi di pensare e tradizioni totalmente diversi! B.P. si rendeva pure conto che le sue conoscenze linguistiche gli aprivano sì molte strade, ma che da sole non potevano colmare l’abisso tra due culture. Cosa si poteva fare? Dov’era la chiave per la comprensione reciproca? Esisteva per gli adulti la possibilità di capirsi? Potevano gli adulti inglesi e gli adulti indiani — gli uni e gli altri for-

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temente immersi nella propria cultura — intendersi tra di loro? B.P. ebbe un’idea. Fece incontrare i figli e le figlie degli ufficiali della guarnigione con i figli e le figlie degli indigeni, li stimolò a organizzare giochi, feste, danze, rappresentazioni teatrali. Risultato: i giovani si capivano meglio degli adulti! Le differenze di religione, tradizione, visione della vita e abitudini non erano problemi insormontabili per la gioventù! Una sorprendente constatazione. Una constatazione «che mi tenne ininterrottamente occupato sin dai primi tempi della mia permanenza in India», come scriverà più tardi B.P., molti anni dopo, quando già aveva fondato il movimento scout: la grande fraternità tra i giovani, senza differenza di origine, razza e confessione religiosa.

A caccia con carta e matita In un mercato di bestiame B.P. aveva visto gli snelli e svelti cavalli indiani, che lo entusiasmavano in modo particolare. Aveva sì un cavallo di servizio, un cosiddetto «asino militare», un blocco di muscoli robusto, perseverante, capace di portare per lungo tempo il cavaliere e i suoi bagagli, ma non era paragonabile ai sottili, agili e sportivi purosangue indiani. I cavalli privati costavano molto. E B.P. aveva pochi soldi. Doveva accontentarsi della risibile paga militare, senza l’appoggio finanziario della famiglia, al contrario della maggior parte dei suoi compagni, che ogni mese ricevevano da casa un assegno. Un giorno si presentò l’occasione per guadagnare un po’ di soldi: lesse sulla rivista inglese «Graphic» un invito rivolto ai soldati coloniali a inviare relazioni e disegni sui territori selvaggi e sul mondo degli animali dei paesi della loro guarnigione. A quell’epoca l’Europa civilizzata conosceva ancora poco la fauna indiana: tigri, leopardi, sciacalli, lupi, orsi, elefanti, antilopi, vipere, sauri e innumerevoli varietà di uccelli... o la pensava solo come un mondo di avventure.

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Una leonessa con i suoi piccoli.

La collaborazione con il periodico «Graphic» tanto apprezzato rispondeva in pieno ai suoi gusti. Disegnò e scrisse volentieri, perché la giungla l’aveva affascinato sin dai primi giorni di permanenza a Lucknow. Il più delle volte era penetrato da solo nella natura selvaggia seguendo le tracce di animali e i sentieri dei cacciatori, e dagli alberi o da qualche nascondiglio aveva osservato gli animali mentre bevevano, fuggivano o lottavano tra di loro. «Pericolosi — aveva raccontato a un compagno — in questo tipo di imprese non sono gli animali da preda noti per la loro aggressività, tigri, leopardi, lupi, sciacalli oppure orsi. Essi fuggono non appena fiutano la tua presenza o sentono il tuo passo. È più facile spaventare una tigre che esserne aggrediti. Pericolosi — oltre ai serpenti, che si vedono per lo più all’ultimo momento — sono soprattutto i cinghiali, i più audaci animali della giungla. Due volte sono stato attaccato dai cinghiali e mi sono salvato arrampicandomi su di un albero». B.P. aveva quindi già fatto esperienze di ogni tipo quando si accinse ad andare a caccia per il «Graphic» con carta e matita. Le sue relazioni e le illustrazioni vennero accettati, e ricompensati così bene che potè comprarsi due cavalli privati e permettersi due hobbies costosi: polo e pigsticking. Il polo è un gioco simile all'hockey, con due squadre che cercano di spingere una sfera di legno nella porta avversaria per mezzo di bastoni. Il pigsticking — traducibile con «trafittura del maiale» — è la caccia al cinghiale, a cavallo; uno sport pericoloso, nel quale il cavaliere deve trafiggere dalla sella con una specie di lancia la nuca di un cinghiale, aizzato contro di lui da un battitore. Se non lo colpisce subito a morte, per lui è finita. Il cinghiale spezza le zampe al cavallo ga-

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loppante e attacca il cavaliere caduto a terra. «Al momento dell’attacco — scriverà più tardi B.P. nel suo libro classico Caccia al cinghiale — si decide chi sopravvivrà. L’animale o l’uomo. Abilità, mira sicura, valutazione delle distanze, sangue freddo e assoluta padronanza del proprio cavallo sono le condizioni necessarie per questo tipo di sport». Il pigsticking era una passione in netto contrasto con l’amore per gli animali che caratterizzava B.P. Ciò che lo entusiasmava nel pigsticking era il rischio, l’uguaglianza di probabilità tra uomo e animale. Si divertiva in modo particolare nell’addestrare i cavalli. «Compatisco il milionario — scrisse allora a sua madre — che paga un esperto per addestrare i suoi cavalli e non può avere la soddisfazione di allevare personalmente il suo amico, di plasmare il suo strumento». Al suo cavallo preferito di razza indiana — un morello che chiamava «Dick» — aveva insegnato con molta pazienza un gesto degno di un circo: quando egli montava in groppa e faceva il saluto, il cavallo si impennava. Così cavallo e cavaliere salutavano contemporaneamente. Insomma, a Lucknow B.P. non sapeva cosa fosse la noia, che invece era il problema di molti soldati durante il tempo libero. Solo pochi praticavano sport — calcio, polo, cricket, crocket —, mentre la maggior parte di loro, dopo il servizio, sedevano per ore nelle osterie, davanti a un bicchiere di birra, scontenti, annoiati, talvolta litigiosi. Qualcosa bisognava fare. Dopo aver terminato l’addestramento — risultò il migliore — ed essere stato nominato tenente prima del consueto, B.P. si accinse a combattere la noia di Lucknow. Poiché non era facile allontanare i soldati dall’osteria, si recò da loro. Formò un’orchestra di dilettanti e un gruppo teatrale, che alla sera, dopo le ore di servizio, portavano un po’ di allegria in quella stamberga. I brani teatrali li scriveva e li metteva in scena lui stesso. Attori erano gli ufficiali e i soldati delle squadre, che salivano sul palco in fantasiosi costumi. Naturalmente B.P. partecipava quasi sempre alla recitazione. Come sostegno alla serata, prendeva ogni tanto i ragazzi e le ragazze del gruppo giovanile anglo- indiano, che presentavano le loro danze e le loro recite. Ogni sera c’era qualcosa di nuovo. Quando il pubblico si abituò alle rappresentazioni, egli trasferì il palcoscenico dall’osteria alla piazza d’armi. Con grande rabbia dell’o-

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ste, che lamentava una diminuzione della vendita di birra, ma con grande soddisfazione dei suoi superiori, che preferivano vedere le loro squadre fuori all’aperto, piuttosto che sedute ai tavoli dello spaccio. Solo il comandante del reggimento di allora, un colonnello, prossimo al pensionamento, non sapeva bene che cosa pensare dell’attività del giovane tenente B.P. Da un lato l’approvava, in quanto poneva rimedio alla noia; dall’altro, quelle rappresentazioni teatrali, quell’abbigliamento, quel saltellare di ufficiali e soldati non erano previsti da nessun regolamento e forse, chissà? erano persino un’infrazione al regolamento stesso. Ma intanto continuava a chiudere un occhio. Probabilmente perché B.P. gli era simpatico. Infatti il tenente Baden Powell era uno degli ufficiali più ben visti della guarnigione, e uno dei più efficienti. Aveva persino inventato un nuovo metodo di addestramento.

Il sistema dei piccoli gruppi o squadriglie In qualità di tenente aveva il compito di addestrare le reclute, in totale quaranta soldati della sua compagnia. Inizialmente impartiva le lezioni — come si usava — per tutti contemporaneamente. Ma si accorse presto che in quel modo non veniva stimolata l’iniziativa dei singoli soldati. La compagnia era una massa anonima di persone che riceveva gli ordini e reagiva come una macchina comandata a distanza; perfetta, apatica, senza pensare di testa propria. Per diversi giorni

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rifletté sul da farsi. Poi ebbe un’idea: divise la compagnia in sei gruppetti, da cinque a otto uomini, in cosid dette squadriglie, e per ogni squadra designò come capo un soldato particolarmente dotato. A questi capi-squadriglia, che in totale erano sei e formavano un altro gruppetto, impartiva brevi lezioni più volte alla settimana. Il compito dei capi-squadriglia era poi di istruire i membri dei gruppetti. Durante le manovre, la compagnia del tenente Baden-Powell si dimostrò sempre particolarmente efficiente. Non operava basandosi sull'insieme dei soldati, ma in gruppetti, i cui capi naturalmente erano informati sulle mosse fondamentali dell'azione generale, ma potevano decidere come meglio credevano, secondo le situazioni. Il successo fu così convincente che B.P., in occasione di una riunione di ufficiali, venne invitato a motivare il suo sistema dei piccoli gruppi. È giunto il momento di aprire una parentesi. Il sistema dei piccoli gruppi — introdotto per la prima volta da B.P. — è attualmente il principio pedagogico base dello scautismo: un metodo di educazione della gioventù, definito da pedagoghi e psicologi come esemplare, efficace e degno di essere imitato. E inevitabile una domanda: può un metodo di formazione militare essere utile ai giovani, per giunta giovani che in qualità di membri del movimento scout internazionale si impegnano espressamente per la pace? Come si possono conciliare le due cose? Problemi di questo tipo si presenteranno spesso durante la vita avventurosa di B.P. In effetti egli ha ripreso molte esperienze della sua vita militare, per porle alla base dello scautismo, spesso in termini del tutto diversi. Ma ciò avvenne molto dopo, quando si fu ritirato dal servizio militare, per il suo desiderio di dedicarsi esclusivamente all’educazione della gioventù. La contrapposizione tra scautismo e militarismo fu rappresentata da B.P. con un disegno: da un lato ci sono degli scouts seduti intorno al fuoco; dall’altro si vede un prepotente ufficiale che urla ordini alle reclute durante le esercitazioni. «Allo scautismo — spiegò B.P. — non è legata alcuna concezione militare». Però: «Lo scautismo riunisce le qualità dell’uomo di frontiera nelle colonie: ingegnosità, fiducia in se stessi e molte altre caratteristiche che lo rendono uomo tra gli uomini». Queste virtù B.P. le ha messe in pratica, approfondite e insegnate

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nella vita coloniale. Ed è per questo che la vita militare nelle colonie è stato un capitolo così importante e formativo per B.P. Essa ha inciso molto sullo sviluppo delle sue idee, perciò è interessante ascoltare ciò che B.P., un giorno di tarda estate del 1878, in occasione di una riunione di ufficiali a Lucknow, spiegò a proposito del suo sistema di formazione delle squadriglie. — Allora ci dica, tenente Baden-Powell: qual è lo scopo dei piccoli gruppi? — chiese il comandante del reggimento. La riunione aveva luogo nell’osteria. L’enorme sala era stata temporaneamente interdetta alle squadre e quindi era quasi vuota. In un angolo si erano riuniti attorno a un tavolo solo gli ufficiali della guarnigione. Il comandante sedeva all’estremità del tavolo sotto un ritratto della regina Vittoria. Nuvole di fumo fluttuavano nell’aria. B.P. si alzò. — Lo scopo principale del sistema dei piccoli gruppi è di conferire al maggior numero possibile di soldati la maggiore responsabilità possibile. Ciascuno è responsabile che la sua sia una buona squadriglia. La squadriglia nel suo insieme è responsabile che ogni singolo membro sia efficiente. Ciascuno conosce i punti forti e i punti deboli dell’altro. I membri della squadriglia si educano a vicenda.

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— Tutto qui? — Il sistema dei piccoli gruppi sviluppa in ogni individuo la capacità di pensare in maniera autonoma e di prendere l’iniziativa. Ciascuno può esprimere la sua opinione, ma, naturalmente, è il capo della squadriglia ad avere l’ultima parola. — I capi delle squadriglie appartengono alla squadra come tutti gli altri membri della compagnia. Con che criterio li sceglie? — Mi chiedo questo: se i membri di un piccolo gruppo potessero scegliere tra di loro il capo squadriglia, chi sceglierebbero? La risposta è ovvia: sceglierebbero colui che ha maggiore influenza su di loro, che è almeno un poco superiore a loro. A quest’uomo dò l’incarico di guidare la squadriglia. Lo istruisco io personalmente. Il suo compito è di addestrare in conseguenza i membri della squadriglia, con i quali ha un contatto personale. Il modo in cui lo svolge, è affar suo. Io gli lascio piena libertà d’azione. — Gli lascia piena libertà d’azione, tenente Baden-Powell? — Sì, Signore — annuì B.P. — C’è qualcuno che vuole ancora della birra? —. La voce dell’oste risuonò nella sala, forte e decisa. Tutti lo guardarono. Stava lì in piedi, un grosso boccale di birra in mano. Dappertutto bicchieri vuoti.

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Gli ufficiali, incuriositi dall’argomento del discorso, fecero cenno di no. Uno urlò: «Silenzio! ». L’oste si ritirò, indispettito nei confronti di B.P., che ancora una volta gli rovinava gli affari. — Lei quindi dà completa libertà d’azione ai capi delle squadriglie non addestrati alla guida di un gruppo. Svolgono il loro compito in maniera soddisfacente? Sanno imporsi? — Fino ad ora non ho ancora avuto esperienze negative. Sentendosi responsabile, si sforza di dare il buon esempio e di fare da modello, e così si identifica nel ruolo di guida della squadriglia. Acquisisce in breve tempo pratica ed esperienza, che lo rendono capace di guidare il suo gruppo in maniera consapevole. Io lo esorto a fare attenzione affinché non solo due o tre membri della squadriglia vengano accuratamente addestrati, ma tutti! — Allora collaborano tutti? Gli scansafatiche non ci sono dappertutto? — Tutti collaborano. Proprio perché nel piccolo gruppo ciascuno si assume la responsabilità affinché il gruppo sia un buon gruppo. Gli scansafatiche sono piuttosto da temere in compagnie anonime di quaranta soldati, i quali, senza riflettere, senza assumersi alcuna responsabilità, obbediscono agli ordini di un unico, impersonale capo che sta al comando. — Il capo della compagnia è pur sempre un tenente ben addestrato, che ha frequentato il corso per ufficiali. Che succede allora se la guida della squadriglia, insufficientemente addestrata com’è, commette un errore? — Gli errori sono esplicitamente permessi. — Cosa dice? — Signore, anche i generali commettono errori, quindi anche la guida della squadriglia può occasionalmente sbagliare. C’era silenzio nella sala. Una pausa imbarazzante. Alcuni ufficiali cercavano con lo sguardo l’oste. Il suo arrivo rumoroso con il boccale di birra sarebbe risultato gradito, ora, avrebbe reso l’atmosfera meno tesa. Ma proprio in quel momento in cui c’era bisogno di lui, non si faceva vedere. Il comandante del reggimento alzò un sopracciglio. Poi ruppe il silenzio: — Lei ha detto, tenente Baden-Powell, che permette espressamente gli errori?

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— Sì. Ad ogni capo di squadriglia io dico: decida secondo la sua responsabilità. E non abbia paura di sbagliare. Ci fu di nuovo silenzio nell’osteria. Dopo un istante, si sentì la voce di B.P. — Inoltre io dico sempre al capo della squadriglia: un uomo che non abbia mai commesso errori, non ha mai fatto niente. Come lei sa, questo detto non è mio, ma di Napoleone.

Un cavallo da sella che non ha bisogno di cibo Dopo due anni B.P. ottenne una licenza, che doveva essere soprattutto un periodo di riposo, perché l’incessante attività durante e dopo il servizio aveva scosso le sue energie. Il 6 dicembre 1878 — due anni esatti dopo il suo arrivo — salpò, sempre a bordo della «Serapis», da Bombay verso Londra. Al suo arrivo notò subito che i velocipedi in uso fino allora — le primitive biciclette con enormi ruote anteriori e piccolissime ruote posteriori — non si vedevano più in giro. C’erano invece le cosiddette biciclette basse con ruota libera, freni a contropedale e ruote quasi della stessa altezza, che da due anni venivano prodotte in serie ed erano ormai un elemento caratteristico dell’ambiente cittadino. B.P. si comprò subito una di tali biciclette e pedalava spesso per tutta Londra. «La bicicletta nella grande città è come un cavallo da sella nella natura selvaggia — disse a un amico —. Ti dà la possibilità di percorrere velocemente tratti più estesi, di sperimentare e vedere di più. Inoltre c’è un grande vantaggio: la bicicletta è un cavallo da sella che non ha bisogno di cibo». In compagnia di sua madre e dei fratelli frequentava sale di concerto e teatri. Lo affascinava in modo particolare un lavoro teatrale che a quell’epoca ebbe molto successo: «I pirati di Penzance», una commedia musicale che volle vedere parecchie volte. Si procurò la musica e il testo, poiché intendeva metterla in scena per i soldati di Lucknow. Ma a Lucknow in quel periodo nessuno se la sentiva di fare teatro. Infatti, nel vicino Afganistan era scoppiata la guerra, e Lucknow era in continuo stato di allarme. Sui giornali londinesi B.P. lesse che gli

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Afgani insorti, nel maggio 1879 avevano assassinato il Console britannico, sua moglie, i suoi figli e tutto il personale del Consolato. Scoppiò la guerra, e i combattimenti si svolsero secondo i metodi strategici più disparati. Nascosti nelle montagne, sempre in agguato e pronti a ritirarsi nei nascondigli, i partigiani incalzavano le truppe britanniche. Gli ufficiali coloniali, irritati da quelle scaramucce, non potevano usare le tattiche apprese all’Accademia Militare e cercavano perciò la battaglia in campo aperto. Di fatto gli Afgani ci cascarono, e dopo qualche giorno vennero sconfitti nella battaglia di Charasia, secondo tutte le regole del l'arte bellica europea. La pace venne ristabilita; ma solo per breve tempo. Infatti, nel luglio 1880 gli Afgani proclamarono la Guerra Santa e lottando con i metodi partigiani e improvvisando in continuazione, nella battaglia di Maiwand sconfissero i Britannici, che operavano secondo le strategie classiche, bloccati per così dire dalla propria tattica. Lord Roberts, il comandante in Afganistan, vide come unica soluzione la ritirata verso sud, nella guarnigione fortificata di Kokoran non distante da Kandahar, vicino alla frontiera indiana. Gli Afgani gli stavano alle calcagna, attaccavano di notte e con la nebbia, tendevano imboscate e durante la leggendaria «marcia dell’inferno» misero i Britannici talmente alle strette che Lord Roberts dovette decidersi a inviare a Kokoran degli ambasciatori a cavallo, con l’incarico di telegrafare di lì al comandante supremo britannico del Ministero della guerra a Londra, Lord Wolseley, per chiedere aiuto. Intanto B.P. — che nel frattempo aveva compiuto 23 anni — salpò da Londra verso Bombay, dove giunse il 5 ottobre 1880, per continuare il viaggio in treno in direzione Lucknow. Già si rallegrava all'idea di rivedere i suoi compagni... Ma la guarnigione era deserta: niente soldati in parata, gli alloggiamenti erano vuoti. Nessun nitrito dalle stalle dei cavalli. Niente cannoni. Solo alcuni ufficiali che uscivano dal bungalow del comandante del reggimento e gli venivano incontro. Uno di questi — un maggiore che egli non aveva ancora mai visto — si fermò davanti a lui e, senza dargli il tempo di presentarsi: — Lei è il tenente Baden-Powell? — Sì, Signore. — Non ha ricevuto il nostro telegramma a Bombay? — No, Signore. — Le ordino di recarsi a cavallo in Afganistan, immediatamente.

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È molto urgente. — Signore, eseguirò subito l’ordine. Ma vorrei delle informazioni sulla situazione attuale. — Tre settimane fa è giunto l’ordine telegrafico di Lord Wolseley: il 13° reggimento ussaro deve recarsi immediatamente in Afganistan, per coprire la ritirata delle nostre truppe sconfitte nella battaglia di Maiwand e per proteggere la guarnigione di Kokoran. Lei è atteso là, e riceverà ulteriori ordini. Inoltre abbiamo un nuovo comandante del reggimento: il colonnello Baker Creed Russel. È suo personale desiderio-ordine che lei lo raggiunga seguendo il percorso più breve. — Il colonnello Baker Creed Russel? Non lo conosco. — Ma lui conosce lei. — All right, partirò al più presto. Dove sono i miei cavalli?

Cavalcata solitaria verso l'Afganistan I suoi passi risuonavano nelle scuderie, pulite e ben tenute. I recinti erano vuoti. Solo dietro a un angolo, al fondo di un lungo corridoio, vide i suoi tre cavalli: il robusto «asino di servizio», il morello Dick e la cavalla saura Sandra, il suo secondo cavallo privato di razza indiana. Tesero le orecchie, lo fissarono con attenzione... lo riconobbero e iniziarono a nitrire e a sbuffare, a scuotere il capo e a scalpitare. B.P. diede loro dei colpetti sul collo, gli accarezzò la fronte e le narici e poi si piazzò vicino a Dick, alzò il braccio in segno di saluto... ed ecco che il morello si mise a ballonzolare e a trotterellare con gli zoccoli anteriori, dapprima esitando, come se volesse riflettere, e improvvisamente si rizzò sulle zampe posteriori, scuotendo la criniera. Non aveva ancora dimenticato il numero da circo per cui era stato addestrato. B.P. decise di montare Dick e prendere Sandra per trasportare il carico; essi infatti, addestrati per il polo e il pigsticking, erano più veloci e svegli del suo cavallo di servizio, perciò offrivano maggiori possibilità di fuga in caso di scontri con i ribelli nel terreno roccioso dell’altipiano afgano. Mentre si dirigeva verso il suo bungalow, gli corsero incontro le sue due piccole amiche, che quattro anni prima, quando era appena

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giunto a Lucknow, si erano nascoste sotto il letto. — Lo aiutammo a sistemare l’attrezzatura in sella — racconterà più tardi la più giovane —. Eravamo tristi, ma in quel momento ridevamo, perché lui era allegro, scherzava, fischiava e cantava canzoni divertenti. Quando poi uscì dalla guarnigione con Dick e il cavallo da soma, ci venne da piangere. B.P. non ebbe difficoltà a trovare la strada. Le orme del 13° reggimento ussaro erano ben segnate sul terreno. Le impronte degli zoccoli e delle ruote dei cannoni e dei carri dei viveri forma vano una specie di sentiero che si snodava a nord-ovest attraverso la valle del Gange e poi — deviando decisamente verso ovest — proseguiva di sbieco nel bassopiano dell'Indo, direttamente verso la frontiera afgana, dove procedeva in salita su sassosi viottoli di montagna. Le tracce del reggimento si potevano ora distinguere solo con difficoltà. L’Afganistan, che si estende per 650. 000 chilometri quadrati, è un altipiano — situato tra 2000 e 3000 metri sopra il livello del mare — con deserti pietrosi, sabbiosi, aride steppe, fiumi, laghi e catene di montagne piene di crepacci e in parte innevate. B.P. vedeva ogni tanto sfrecciare gazzelle, stambecchi immobili sulle rocce come statue scolpite nella pietra, e tante pecore al pascolo, greggi immensi, circondati da cani pastore e pecorai a cavallo. La lana e la pelliccia di pecora afgana sono rinomate in tutto il mondo, in particolare i mantelli di pelliccia persiana delle pecore di Karakul. L’erba cresce in quantità così scarsa che si esaurisce subito e le greggi devono essere trasferite da un pascolo all’altro. Si parla di transumanza. I pastori sono nomadi. Durante il giorno c’era silenzio, rotto soltanto dal mormorio del vento o dall’ululare della tempesta tra le rocce. Ma al calare della notte iniziava il lamento e l'urlo degli sciacalli, dei lupi, delle iene, degli orsi e dei leopardi, che nell'oscurità giravano attorno alle greggi di pecore, cercando l’occasione di catturare la preda. I cani pastore, però, addestrati alla lotta, fiutavano gli intrusi quasi sempre al momento giusto, si riunivano in branchi e, aggredendoli, li mettevano in fuga abbaiando a più non posso. Ma se il predatore era più veloce, allora risuonava l’urlo di morte di una pecora, seguito dal silenzio assoluto. Soltanto dopo un po' il rumore notturno raggiungeva nuovamente la sua intensità abituale.

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Di notte spesso B.P. veniva svegliato dai suoi cavalli, i quali avevano fiutato un predatore che si avvicinava di nascosto, e iniziavano a sbuffare, a muoversi, e a scalciare nel vuoto con gli zoccoli posteriori, impauriti da chissà quale pericolo, che doveva essere nelle vicinanze, ma che non si poteva né vedere, né sentire. Allora B.P. rimaneva sveglio. Con la pistola in mano, il fucile pronto per sparare, con l’orecchio teso nell’oscurità, scrutando alla ricerca di ombre, stava seduto davanti alla tenda, fino a che il paesaggio riaffiorava dall’oscurità e i primi raggi di sole scacciavano i fantasmi. Durante il giorno, i predatori non si facevano vedere. Solo di tanto in tanto egli scorgeva dei gruppi grigi in lontananza. Una volta gli venne incontro una truppa afgana a cavallo, «figure longilinee con visi scuri, lunghi capelli e vesti bianche», come scrisse in una lettera a sua madre. B.P. mostrò loro, secondo le istruzioni militari, i palmi delle mani, facendo quindi capire: non ho armi nelle mani, non intendo attaccarvi. Gli Afgani lo osservarono in silenzio e alla fine segnalarono anch’essi intenzioni pacifiche, aprendo le mani. Esclusi i pastori, non c’era anima viva. Una cavalcata solitaria, per molte settimane.

L’orrore della guerra A metà dicembre arrivò a Kokoran, smagrito, pieno di polvere, esausto, e felice di vedere persone, di sentire voci. La solitudine era finalmente terminata. Subito chiese alle sentinelle di condurlo dal colonnello Baker Creed Russel, il nuovo comandante del 13° reggimento ussaro, che in quel momento si trovava con alcuni ufficiali sulla veranda del suo bungalow. B.P. scese dalla sella e salutò, e Dick contemporaneamente si rizzò sulle zampe posteriori. — Ah... — esclamò il colonnello Baker Creed Russel —, questo è B.P. con il suo famoso cavallo da circo. Benvenuto, tenente, ho sentito parlare molto di lei. Il colonnello Baker Creed Russel, sulla soglia dei quarant’anni, piuttosto giovane per essere il comandante di un reggimento, era un uomo di media altezza, in forma, muscoloso, col viso abbronzato. Il

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tipico uomo sportivo inglese. Egli informò brevemente B.P. sulla situazione: con il 13° reggimento ussaro aveva coperto la ritirata delle truppe logore di Lord Robert ed era tornato nella guarnigione solo da pochi giorni. Guerra o pace con gli Afgani? Qualcosa di imprecisato, una specie di armistizio, benché ancora pericoloso. — Avrei molte cose di cui parlare con lei — disse il colonnello —, specialmente riguardo al sistema dei piccoli gruppi, che ho adottato e nel frattempo introdotto nel reggimento. Una buona cosa. Si è rivelato un ottimo metodo nella copertura della ritirata. Ma ora non c’è tempo di parlarne. È stato comunicato telegraficamente l’ordine di Lord Wolseley di far eseguire il rilevamento cartografico del campo di battaglia di Maiwand e — nei limiti del possibile — di ricostruire gli errori strategici britannici. Ciò che ne risulterà verrà impiegato come materiale di prova in un processo contro gli ufficiali responsabili. Per un compito così delicato — dopo tutto quello che ho sentito dire sul suo conto — non potrei pensare che a lei, tenente Ba den-Powell. B.P. si sarebbe volentieri concesso una pausa, ma gli ordini erano ordini e il giorno dopo cavalcava a capo di una piccola squadra geodetica verso nord: lo stesso tratto sul quale Lord Robert e le sue truppe, sconfitte non molto tempo prima, avevano dovuto conquistarsi la ritirata a sud, metro per metro, costantemente attaccati dai ribelli afgani. Questa volta gli Afgani non si fecero vedere. B.P. era convinto che stavano osservando lui e i suoi soldati da punti di osservazione nascosti nelle montagne e nei precipizi, che soppesavano un attacco, che dietro le rocce i messaggeri a cavallo si spostavano e riferivano nel quartiere generale dei ribelli ogni movimento dei Britannici. Ma non avvenne nulla. Tutte le misure di precauzione si rivelarono superflue. La squadra geodetica procedeva velocemente e già due settimane dopo — il 2 gennaio dell’anno nuovo 1881 — era sul posto: sul campo di battaglia di Maiwand. Sciacalli, lupi, iene avevano occupato il territorio. Parevano poco impressionati dalle truppe in arrivo: rimasero immobili, con i peli della nuca irti, ringhiavano, come se volessero difendere il loro territorio. Ma gradualmente iniziarono a retrocedere e infine se ne andarono. B.P. si avvicinò al campo cavalcando. Prima vide i resti dei cavalli uccisi, e poi, spettacolo raccapric-

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ciante, innumerevoli corpi umani: cadaveri di soldati, in parte ridotti a scheletri. Infatti gli animali da preda li avevano trascinati fuori dalle fosse provvisorie e li avevano divorati. — L’orrore della guerra — racconterà più tardi a un amico — non l’ho vissuto per la prima volta durante la battaglia, ma dopo. Bisognerebbe portare tutti coloro che decidono sulla pace e sulla guerra in un campo di battaglia come quello. Forse sarebbe un modo per evitare la guerra, a partire da quel momento. La guerra riporta gli uomini allo stato primitivo. Sul campo di battaglia di Maiwand mi sono chiesto se mai verrà il tempo in cui tutto questo non accadrà più.

I pirati e il generale — La gente deve di nuovo imparare a ridere — disse il colonnello Baker Creed Russel, quando B.P. tornò da Maiwand a Kokoran. Per essere più chiaro aggiunse: — I sopravvissuti della truppa di Lord Robert hanno la sconfitta ancora nelle ossa. La marcia infernale della ritirata li ha logorati spiritualmente. Molti sono feriti. E i nostri soldati del 13° reggimento ussaro a poco a poco sono vinti dalla noia. Alcuni sono malati di colera e di tifo. La truppa si tormenta il cervello, ha paura di morire. Devono poter pensare ad altro, devono tornare ad essere allegri. Mi hanno raccontato, tenente Baden-Powell, che lei è un regista di teatro e un attore straordinario. Che ne direbbe? A B.P. andava benissimo. Mentre durante il giorno gli si presentava alla memoria la visione raccapricciante del campo di battaglia di Maiwand, redigeva rapporti e disegnava in bella copia le cartine, di sera metteva in scena, alla luce delle fiaccole e dei bivacchi, sulla piazza d’armi della guarnigione Kokoran, il pezzo teatrale di successo: «I pirati di Penzance». I testi e la musica li aveva portati da Lon dra. I soldati vi partecipavano divertiti: come attori, cantanti, musicisti, scenografi, sarti, e come spettatori abusivi durante le prove. Poco prima della rappresentazione, arrivò da Bombay la notizia telegrafica secondo la quale un generale del quartiere generale intendeva ispezionare la guarnigione. — Viene proprio alla prima — disse B.P. al suo comandante. Ma il colonnello Baker Creed Russel era pensieroso:

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— Io ritengo tali rappresentazioni teatrali dei mezzi legittimi per ottenere che i soldati pensino a qualcosa di allegro. E li approvo anche. Ma come lei sa, tenente Baden-Powell, ci sono alcuni generali che non ammettono cose di questo genere, perché non sono previste dal regolamento. Se questo generale, che io non conosco, dovesse essere un tipo ostinato e se proibisse ulteriori rappresentazioni, dovrò ubbidire al suo ordine. Se non viene a sapere nulla, allora non può proibire nulla. E quando sarà andato via, faremo teatro come vorremo. — Ma se lui le approva, allora consiglierà tali attività anche in altre guarnigioni. E questo sarebbe sensato. — Non sappiamo come reagirà. La prudenza non è mai troppa. Prima studierò il generale. Poi deciderò se potremo mostrargli gli spettacoli oppure no. Intanto, tenente Baden-Powell, esegua le prove generali, secondo il programma. Sono già curioso. Le prove generali vennero fissate tre giorni prima dell'arrivo del generale. Tutti i soldati che non erano di guardia — e per i quali il giorno dopo avrebbe avuto luogo un’altra prova generale — si precipitarono ai posti per gli spettatori, formati dalle panche dell’osteria e da sedie. I tecnici delle luci entrarono in azione, accesero bivacchi e fiaccole, e il palcoscenico dalle quinte sfarzose apparve nella penombra. Poco prima dell’inizio, il corpo degli ufficiali andò a sedersi nei posti in prima fila. Poi tutto procedette senza contrattempi. Ma improvvisamente, durante lo spettacolo, ci fu del movimento tra gli spettatori. Dapprima si alzarono alcuni soldati delle file posteriori, poi a poco a poco, anche altri che si trovavano davanti. Gli ufficiali dei posti anteriori si guardarono attorno... e balzarono dalle sedie. Il generale! Era arrivato con tre giorni di anticipo. E ora si dirigeva verso la prima fila, scortato da guardie della guarnigione, seguito dalla sua scorta. Il generale era visibilmente stupito, chiaramente indignato per via dello spettacolo a cui stava assistendo. Il comandante del reggimento e gli ufficiali di Kokoran gli andarono incontro, e irrigiditi, lo salutarono. — Benvenuto nella guarnigione Kokoran, signore — disse il colonnello Baker Creed Russel —. La aspettavamo fra tre giorni. Voglia scusare l’accoglienza informale. Il generale — indubbiamente prossimo al pensionamento, con i capelli grigi, barba grigia, invecchiato prematuramente — salutò in si-

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lenzio. Il tipo ostinato! Proprio il tipo, così immaginavano tutti gli ufficiali di Kokoran, che non avrebbe mostrato alcuna comprensione per tali divertimenti. Era uno che insisteva sul rispetto delle regole. «I pirati di Penzance» erano già belli e morti. — Signore — disse il colonnello —, se lo desidera, farò interrompere lo spettacolo. Il generale farfugliò qualcosa di incomprensibile e proseguì, insicuro, quasi un po’ tremolante; si fermò di nuovo e osservò il palco con evidente disagio. Se la Gran Bretagna invia tali generali come ispettori, allora, povera Corona inglese: così pensò il colonnello Baker Creed Russel, come racconterà più tardi a persone fidate.

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Sul palcoscenico, illuminato dai bivacchi e dalle fiaccole, la rappresentazione andò avanti. Ora finalmente il generale sembrava aver preso una decisione: si diresse lentamente verso la prima fila di sedie e si sedette gemendo. Gli ufficiali tornarono ai loro posti. Di tanto in tanto il generale farfugliava qualcosa di incomprensibile al colonnello che gli stava seduto vicino, evidentemente secondo il suo modo di fare. Al colonnello Baker Creed Russel non rimaneva altro da fare che annuire e dire: «Naturalmente, signore». E poi il generale si alzò, vacillò fino al palcoscenico, mescolandosi agli attori... e cantò a squarciagola l’aria del capo dei pirati. Poi, inchinandosi come un commediante, si tolse il casco coloniale con gesti solenni, si tolse come se fosse un cilindro la capigliatura grigia dalla testa e si strappò la barba dal viso: ora lo riconobbero tutti. Non era un vecchio generale... era il tenente Baden-Powell!

Fuga tra una pioggia di pallottole Il vero generale — giunto nella guarnigione tre giorni dopo, secondo i programmi — si rivelò un ispettore sportivo e leale, che vide la rappresentazione teatrale con benevolenza e divertimento. Il suo commento: «Una buona idea che dovrebbe essere imitata da tutto l’esercito britannico». Poco dopo, la guarnigione Kokoran venne temporaneamente abbandonata. Per allentare la tensione e per non danneggiare le prime trattative politiche tra il governo britannico e i principi afgani, le truppe d’occupazione ricevettero l’ordine di ritirarsi a circa 400 km a sudest nella guarnigione Quetta, situata al confine con l’Afganistan. Durante la ritirata si verificarono parecchi scontri con i partigiani. Evidentemente non ancora al corrente delle trattative, assalivano alle spalle in maniera fulminea, colpivano la colonna in marcia, abbattendo alcuni soldati, per poi scomparire senza lasciare traccia. Per ordine del colonnello Baker Creed Russel, B.P. e la sua squadra dovettero costituire la retroguardia e sventare ulteriori attacchi. Nell’ammasso di rocce che formano il passo del Kojad, egli s’imbattè in alcuni armati nascosti tra i cespugli, che stavano proprio progettando un attacco alla truppa, ed ora, ostacolati all’ultimo momento, presero di mira B.P. e la sua pattuglia. B.P. fuggì con i suoi

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soldati sotto una pioggia di pallottole, e quando già si credevano al sicuro, fu colpito da un dolore lancinante alla gamba destra. Si toccò il ginocchio: sentì un liquido appiccicoso e tiepido. Solo con estrema fatica riuscì a mantenersi in sella e a raggiungere la colonna. Il medico militare esaminò la ferita con ritenzione del proiettile al di sopra del ginocchio e lo operò sul posto estraendogli la pallottola. B.P. continuò la marcia su di una barella, febbricitante. Poi nel lazzaretto di Quetta guarì proprio al momento giusto per partecipare a una manovra fra le truppe locali e i reggimenti di Kokoran acquartieratisi provvisoriamente. Fece da arbitro il generale di Bombay. Il colonnello Baker Creed Russel era al comando della squadra di Kokoran. Alcuni giorni prima dell’esercitazione di combattimento, riunì i suoi ufficiali per un colloquio all'aria aperta, al di fuori della guarnigione, ai piedi di un’altura. Gli ufficiali erano seduti in cerchio, su alcuni massi. Il colonnello non vedeva di buon occhio le riunioni nell’osteria. — Ho un’idea — disse Baden-Powell. — L’ascolto volentieri. — Durante le mie esplorazioni sui campi di battaglia di Maiwand ho constatato, tra l’altro, che gli Afgani hanno potuto conseguire la

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vittoria contro la superiorità delle truppe britanniche solo mediante l’impiego programmato di ricognitori appositamente addestrati e la conoscenza precisa dei nostri piani d’attacco. A quanto pare, i ricognitori afgani sono riusciti a penetrare passando inosservati nelle nostre centrali di comando e forse anche a origliare i colloqui degli ufficiali. Anche noi abbiamo bisogno di tali ricognitori. — Il nostro esercito ha dei ricognitori. Ogni ufficiale viene addestrato per la ricognizione. — Questo addestramento è relativamente superficiale. Corrisponde — mi perdoni se lo dico chiaro — a quello che ho imparato da piccolo giocando agli Indiani. Il colonnello sorrise. — Coraggio, tenente Baden-Powell. Parli liberamente. Non abbia timore. — Il nostro tipo di ricognizione — mi esprimo volutamente in maniera esagerata — consiste in questo: un soldato, in caso di necessità, riveste il ruolo di ricognitore: si arrampica su di una montagna, osserva di lì il campo nemico nella vallata e poi trae le sue conclusioni. Talvolta esamina anche le tracce che trova per caso. Ma è proprio nella valutazione delle tracce che il nostro addestramento per la ricognizione lascia a desiderare. — Questo è vero. Continui, tenente Baden-Powell. — Per sapere qualcosa di più preciso sul nemico, finora ci siamo serviti di spie, di traditori del nemico, che si mettono in contatto con noi e forniscono informazioni in cambio di denaro. Mi permetta un’osservazione personale, signore: gli affari con i traditori sono affari meschini, infami, anche quando le informazioni acquisite sono esatte. Ma, lo sa anche lei, sicuri non potremo mai esserlo! Spesso e volentieri le informazioni sono false, e ci vengono procurate da false spie, dietro ordine del nemico. Quindi informazioni più dannose che utili. La questione è questa: come procurarci informazioni dettagliate e attendibili riguardo al campo nemico. — Immagino cosa sta per propormi. — Abbiamo bisogno, signore, di ricognitori specializzati perfettamente addestrati, che non hanno altro compito se non quello di procurare in maniera programmata informazioni dal campo avversario. Questi specialisti — riuniti in piccoli gruppi ben armonizzati tra loro da un minimo di cinque a un massimo di otto uomini — devo-

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no insinuarsi, tra la catena di sentinelle nemiche, fino al quartiere generale, origliare i colloqui dei comandanti, sentire i piani d’attacco, trovare il deposito di armi e scoprire quante munizioni possiede il nemico. Poi devono ritornare, senza lasciare tracce della loro presenza nel campo nemico. — Un’idea audace. Il colonnello Baker Creed Russel si alzò. Gli altri ufficiali fecero altrettanto. — Con tali conoscenze specializzate — continuò il colonnello — si aprono possibilità impensate. Ad esempio, si può evitare una battaglia in campo aperto e catturare il nemico di sorpresa, senza versamento di sangue. — Ne sono convinto anch’io — disse B.P. —. Chi ha le informazioni, ha la possibilità di evitare carneficine. — Tutto molto bello — disse il maggiore Cowley, il sostituto del colonnello —, ma mi viene da pensare che questi specialisti debbano essere proprio dei super-uomini. Dovrebbero trovare le tracce, valutarle, senza lasciare tracce dietro di sé. Devono vedere e sentire tutto senza essere visti o sentiti. Come facciamo a realizzare tutto questo? Con un mantello che rende invisibili? — Con un addestramento speciale. Gli specialisti che ricevono questo tipo di addestramento non sono dei superuomini. Sono solo persone che sfruttano al massimo le loro capacità, che hanno più possibilità di altri. Infatti, questo addestramento speciale risveglia e stimola capacità e talenti del tutto naturali: spirito di osservazione, ingegnosità, resistenza, capacità decisionale... creando in questo modo i presupposti per il successo. E anche per la fiducia in se stessi. — Crede che sia così semplice? — chiese Cowley. — Abbiamo già detto abbastanza, — disse il colonnello —. La manovra offre l’occasione di provare il valore delle truppe speciali. Inizi subito con l’addestramento, tenente Baden-Powell. Non abbiamo più molto tempo. Le concedo la completa libertà d’azione. Come intende procedere, riguarda solo lei. Lei solo si assume la responsabilità. Ancora una cosa: non abbia paura di sbagliare. Un uomo che non ha mai fatto errori, non ha ancora fatto nulla. Il colonnello fece una pausa a effetto, divertito dello stupore dimostrato da B.P. Poi continuò: — Sì, è sorpreso, tenente, di sentire queste parole da me. Lo so

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che sono parole sue, riferite da lei a Lucknow al capo squadriglia della sua compagnia. Me l’hanno raccontato. Lo stesso vale ora per lei. Dunque: buona fortuna con i suoi specialisti, o che dir si voglia. Tra l’altro, bisognerà effettivamente chiamare questi specialisti in un determinato modo, per distinguerli dai ricognitori tradizionali. Ci vuole un nome. Ha qualche idea, tenente Baden-Powell? — Chiamiamoli Scouts: Esploratori. A questo punto bisogna dire che naturalmente gli esploratori del successivo movimento giovanile non hanno niente a che vedere con il servizio di ricognizione militare; ma nello «scautismo pacifico» dei giovani vengono stimolate le stesse capacità e gli stessi talenti che B.P. voleva risvegliare nella sua truppa di ricognizione di Quetta: spirito di osservazione, ingegnosità, resistenza, capacità decisionale. E non è tutto. Ciò che B.P. ha realizzato a quel tempo a Quetta e — sotto una forma del tutto diversa — utilizzato per l’educazione dei giovani, non è che un frammento nel mosaico del metodo scout. Solo più tardi verrà riconosciuto il nesso logico, solo la vita successiva di B.P. offrirà una spiegazione. Perciò è opportuno attendere la fine di questa evoluzione e per il momento raccontare, senza particolari commenti, la storia degli esploratori durante le manovre militari a Quetta. A quell’epoca B.P. aveva 24 anni.

Partenza a mezzanotte Le due fazioni avversarie andarono ad occupare le loro posizioni. A nord la truppa del colonnello Baker Creed Russel, a sud le truppe d’occupazione locali della guarnigione Quetta, comandate da un colonnello chiamato Tempie, il quale era stato informato che contro di lui sarebbe stato sperimentato un nuovo sistema di ricognizione non meglio specificato. Tra gli accampamenti delle due truppe si estendeva per 40 km un deserto roccioso, interrotto da piatte catene montagnose. A ovest e a est di quel territorio desertico, le boscaglie, le steppe e il terreno roccioso con rupi, colline, gole e crepacci offrivano agli esploratori buone possibilità di rendersi invisibili durante l'avanzata verso il campo nemico. D’altro canto, anche le sentinelle del nemico avevano la possibilità di spiare di nascosto gli esploratori e catturarli,

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prendendoli alla sprovvista. Le armi delle truppe in esercitazione erano state caricate a salve. Per precauzione, ciascun soldato portava con sé anche vere munizioni, in caso di attacco dei ribelli afgani. I soldati delle due parti si distinguevano come avversari nelle manovre per mezzo di fasce gialle e blu che portavano al braccio. Gialle le truppe del colonnello Tempie, blu quelle del colonnello Baker Creed Russel. — Siamo fortunati — commentò B.P. — perché le fasce blu non spiccano nel buio. Verso mezzanotte, uno sparo diede il segnale di inizio per le manovre. B.P. stava con cinque soldati del suo comando di esploratori davanti al colonnello Baker Creed Russel. Avevano il viso annerito con fuliggine. — Tutto chiaro? — chiese il colonnello. — Tutto chiaro, signore. B.P. aveva avuto solo pochi giorni di tempo per addestrare la sua squadra a questo nuovo tipo di attività. Ma credeva nel successo. I cinque collaboratori erano capi pattuglia della sua compagnia, quindi persone che conosceva bene e sulle quali poteva contare. Dal quartiere generale cavalcarono in direzione sud. Come ombre scomparvero nella luce della luna piena. Giunti ai propri avamposti, lasciarono i cavalli. A piedi, badando di essere sempre coperti, utilizzando ogni roccia per mimetizzarsi, raggiunsero all’alba l'avamposto nemico. Lì cercarono di proseguire attraverso gli ammassi di rocce di un gruppo di colline. Ma non ebbero successo, perché tutti i passaggi stretti erano doppiamente sorvegliati. Con la luce del giorno non ce l’avrebbero fatta. L’unica soluzione era quella di fermarsi per tutto il giorno presso una sorgente ben riparata dalla pista, collocando le sentinelle per non essere scoperti. Al calare della notte andarono avanti, a fatica, e usando la massima prudenza. Dovevano strisciare carponi, talvolta rotolare incollati al terreno, sempre all’erta per via delle sentinelle, appostate in ogni possibile nascondiglio del terreno roccioso. Circa un’ora prima di mezzanotte sentirono il fumo dell’accampamento trasportato dal vento che veniva da sud-est. Strisciarono ancora contro vento e verso le tre del mattino videro parecchi bivacchi e le ombre delle tende: il quartiere generale del nemico.

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— Dobbiamo avvicinarci ancora — bisbigliò B.P. ai suoi uomini. Sentinelle dappertutto. Tuttavia, senza che nessuno li vedesse, si avvicinarono talmente da poter vedere gli ufficiali durante una conversazione seduti tra i fuochi di bivacco, circondati da un cordone di guardie che parevano ombre. Di lì era impossibile passare. Non c'era modo di origliare la conferenza notturna. B.P. si guardò attorno. A circa trecento metri di distanza si ergeva all’estremità deH’accampamento una ripida collina, alta solo 120 metri, coperta di arbusti, un punto di osservazione ideale. Gli esploratori strisciarono fino a quel punto. Pullulava di sentinelle. Alcuni giravano con le fiaccole, altri stavano rannicchiati nell'oscurità e si scorgevano a malapena. In un cespuglio ai piedi della collina, B.P. aspettò che i suoi uomini fossero tutti presenti. — Adesso lei prosegue con me, Collins — disse a un capo pattuglia, e agli altri —: Voi aspettate qui, fino a che non saremo di ritorno, non importa se passerà molto tempo. Se dovessero catturare Collins e me, sarete voi responsabili per l’ulteriore perlustrazione dell’accampamento. Con Collins strisciò carponi — talvolta a soli pochi metri di distanza dalle sentinelle — attraverso il sottobosco umido di rugiada su per la collina centimetro per centimetro, provando a tastoni ogni passo e ogni appiglio, per non tradirsi con un fruscio o col rumore di rami spezzati. Proprio sotto la vetta si misero in osservazione. Potevano scorgere tutto l’accampamento, senza essere visti. A un tiro di sasso sentirono sulla vetta le voci delle guardie, ma indistintamente. Al sorgere del sole, il panorama dell’accampamento militare apparve dalla penombra come un enorme teatro all’aperto. Si udirono dei fischi. I soldati uscirono dalle tende, si stiracchiarono, iniziarono a cucinare la colazione sul fuoco del campo. La discussione degli ufficiali non era ancora finita. Per ore rimasero seduti in cerchio attorno ai bivacchi spenti. Poi, verso le dieci, si alzarono. Alcuni si affrettarono a raggiungere le proprie unità, gridando degli ordini. Squillò il segnale di tromba per mettersi in marcia. C’era del movimento fra le truppe. Le tende vennero disfatte, i sacchi a pelo arrotolati e messi via, i cavalli sellati e attaccati davanti ai carri e ai cannoni. Infine si formarono tre colonne di marcia: la più grossa si schierò

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in ordine di battaglia con la fanteria e l’artiglieria; attraverso il deserto sabbioso si sarebbe diretta a nord, evidentemente con l’intenzione di costringere il colonnello Baker Creed Russel a uno scontro frontale. Gli altri due gruppi — tutti soldati di cavalleria — iniziarono un po’ più tardi a cavalcare in direzione sud-ovest e sudest, scomparendo subito alla vista dietro i massi di rocce. Allora B.P. intuì chiaramente il piano strategico del colonnello Tempie: le truppe di cavalleria che si dirigevano di nascosto a sudest e a sud-ovest avrebbero dovuto effettuare una manovra a tenaglia, circondando di sorpresa e attaccando da tutti i lati la squadra del colonnello Baker Creed Russel, se questa si fosse concentrata sulla truppa centrale nella battaglia in campo aperto. Il colonnello Baker Creed Russel sarebbe caduto in trappola, avrebbe perso il gioco di manovre. Verso sera, col sopraggiungere dell'oscurità, B.P. si mise in marcia con Collins, dopo essersi ancora annotato qualche dato sul blocchetto. Con prudenza iniziarono la ritirata. Dopo un paio di metri Collins gli diede un colpetto sulla spalla. — Ha dimenticato il suo guanto — bisbigliò. — Lo so.

La storia del guanto Senza essere notati, raggiunsero gli altri quattro esploratori, che nel frattempo non si erano mossi e bruciavano dalla voglia di fare qualcosa. B.P. divise il suo gruppo di ricognitori in tre squadre, ciascuna di due soldati. Lui e Collins volevano osservare le truppe di cavalleria a est, le altre due squadre ricevettero l’incarico di tenere d’occhio la precisa direzione di marcia delle truppe al centro e a ovest. — Ci incontriamo domani dopo il tramonto alla sorgente presso la quale abbiamo trascorso la giornata ieri l’altro. Furono tutti puntuali al punto d’incontro. Il risultato delle loro perlustrazioni: le veloci truppe di cavalleria avevano già occupato le loro posizioni nell’ammasso di rocce a ovest e a est del deserto sassoso — dove il colonnello Baker Creed Russel sarebbe stato costretto ad affrontare la battaglia decisiva — protetti da innumerevoli guardie ben in vista. La truppa centrale — relativamente lenta con la fanteria e l’arti-

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glieria — avanzava in direzione dello scontro, verso il quartier generale del colonnello Baker Creed Russel attraverso il deserto roccioso. — È giunto il momento di ritornare — disse B.P. Di notte oltrepassarono strisciando i primi avamposti del nemico, fino a raggiungere il proprio territorio, dove presero in consegna dalle guardie i cavalli lì custoditi e galopparono verso il quartier generale. Arrivarono alle sei del mattino. Il colonnello Baker Creed Rusel fece subito radunare a suon di tamburo i principali ufficiali per una riunione. B.P. comunicò le sue osservazioni. Basandosi su quelle informazioni, gli ufficiali svilupparono la seguente strategia: volevano dapprima far girare a vuoto la truppa centrale del colonnello Tempie e catturare di sorpresa in un’imboscata notturna le truppe di cavalleria appostate a ovest e a est, che credevano di non essere state scoperte. Da queste posizioni programmarono poi a loro volta un movimento a tenaglia rispetto alla truppa centrale del nemico, la quale — preparata solo a un attacco frontale — non avrebbe avuto altra scelta che quella di arrendersi. E così avvenne. La manovra si concluse sei giorni dopo con la cattura di tutte le truppe nemiche. La battaglia decisiva non ebbe luogo. Se fosse stata una vera guerra, non ci sarebbe stato spargimento di sangue. Durante la riunione finale sotto la presidenza del generale di Bombay — questa volta nell’osteria — il colonnello Baker Creed Russel concentrò il suo rapporto sul successo della truppa di esploratori appena formata. Raccontò come B.P. da una collina nelle vicinanze dell’accampamento avesse osservato fin dall’inizio i piani di avanzata del colonnello Tempie e come sulla base di tali informazioni fosse giunto alla sorprendente cattura della squadra nemica. Infine il colonnello Tempie espresse il suo punto di vista: — Ammetto di aver perso l’esercitazione. Credo anche che i nostri piani di avanzata siano stati spiati. Ma — prima di scendere nei dettagli — devo dichiarare: escludo che il tenente Baden-Powell sia riuscito ad addentrarsi fino al nostro quartier generale, fino alle tende dell’accampamento. Ed escludo anche che sia perfino riuscito ad arrampicarsi sulla collina nelle immediate vicinanze del campo. Ero stato messo al corrente prima della manovra che sarebbe stato sperimentato un nuovo sistema di ricognizione, e ho preso le relative misure precauzionali: raddoppiato le sentinelle, collocato un cordone ininter-

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rotto di vedette. E prima di tutto ho pensato a salvaguardare la pericolosa cima della collina nelle immediate vicinanze del campo — un punto di osservazione eccellente, in effetti — in modo che nessun ricognitore nemico potesse raggiungerla. La collina era interamente custodita da sentinelle. Sulla cima vi erano appostati tre soldati. Impossibile arrampicarvisi e scoprire in questo modo i nostri piani di avanzata. Gli ufficiali seduti ai tavoli dell’osteria diventarono irrequieti e cercarono con lo sguardo B.P. Egli se ne stava seduto e sogghignava. — Ma non c’è dubbio — disse il generale — che il tenente Baden-Powell e i suoi esploratori avevano precise conoscenze riguardo ai vostri piani di avanzata. Come si spiega tutto questo, colonnello? — È stato un caso. Il tenente Baden-Powell e i suoi esploratori possono aver scoperto casualmente delle tracce delle nostre unità di cavalleria, da qualche parte sul terreno, a sinistra e a destra della truppa centrale. Da tali vaghe osservazioni hanno tratto delle conclusioni, che questa volta, sempre casualmente, erano esatte, ma che avrebbero potuto benissimo essere errate. Gioco strategico da lotteria, appoggiato dalla fortuna: questa è stata la prestazione del tenente Baden-Powell. La prossima volta non è detto che gli venga in aiuto un tale colpo di fortuna. Per questo vi sconsiglio di continuare a proporre il sistema degli esploratori creato da Baden-Powell. Se il tenente BadenPowell fosse realmente riuscito — come egli afferma — a penetrare nel nostro campo e a raggiungere quel punto di osservazione, allora avrebbe certamente potuto conoscere fin dal principio i nostri piani di schieramento. E io sarei l’ultimo a negargli il rispetto. Ma ripeto: ciò che egli dice è impossibile. Non può essere stato su quella collina! — Con questo vuole dire — chiese il generale — che il tenente Baden-Powell ha raccontato fandonie? — Non mi servirei, signore, di una tale espressione nei riguardi di un ufficiale di Sua Maestà. Ma in sostanza il concetto è quello. — Tenente Baden-Powell! — urlò il generale. B.P. si alzò in piedi accanto al tavolo: — Signore? — Ha sentito. Il colonnello Tempie dubita che lei sia mai stato sulla collina in questione. Cosa ha da dire in proposito? — Sapevo che avrei dovuto affrontare tali obiezioni. Perciò mi sono permesso di lasciare il mio guanto in un cespuglio, proprio sotto

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la cima in questione: la prova della mia presenza.

Parcheggio di acciughe e stallone da ufficio B.P. ricevette l’incarico di addestrare un totale di 25 soldati del 13° reggimento ussaro nello scautismo, come da allora in poi venne chiamato ufficialmente il metodo di ricognizione che aveva introdotto. Si mise in contatto con cacciatori e i cercatori di tracce indiani, li accompagnò nelle loro escursioni ed elaborò i metodi impiegati in quelle attività adattandoli al programma dello scautismo. Alla fine del 1881 il 13° reggimento ussaro venne trasferito da Quetta nella guarnigione Muttra tra Delhi e Lucknow, dove a B.P. e ai suoi 25 soldati fu assegnato un bungalow che egli battezzò «parcheggio di acciughe». Infatti era così stretto, che gli scout non avevano più spazio delle acciughe in una scatola di conserva. Tanto più spesso quindi uscivano nella steppa e nella giungla per l'addestramento. «È sorprendente come lo scautismo risvegli istinti atrofizzati — scriverà più tardi —. Persino l’istinto dell’olfatto, che nell’uomo è in genere così poco sviluppato, l’abbiamo talmente migliorato che siamo riusciti a fiutare animali da preda nelle vicinanze, oppure il fumo di bivacchi molto distanti, che altrimenti non avremmo potuto scorgere. Ho consigliato ai miei soldati di smettere di fumare, in quanto il fumo danneggia i nervi dell’olfatto. Anche l’udito e la vista, persino la ricchezza di idee e di pensieri si sviluppano a contatto con la natura in maniera sbalorditiva, molto più che nella guarnigione e nella grande città». Decise di scrivere le sue esperienze di scautismo. Il suo comandante, colonnello Baker Creed Russel, inviò il manoscritto ultimato allo stato maggiore generale, che lo fece stampare e lo distribuì a tutte le guarnigioni. Titolo del libro: «Servizio di controspionaggio e ricognizione». Nel frattempo B.P. raccoglieva successi nel pigsticking. A circa 300 km da Muttra nella giungla di Kadir, vicino alla città guarnigione di Meerut, si svolgeva ogni anno una gara tra i migliori cacciatori di pigsticking di tutta l’India. Nel 1882 B.P. conquistò il quinto posto.

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Nel 1883 fu il vincitore dell’ambita coppa di Kadir: il massimo trofeo di questo sport popolare, a quel tempo inaudito. I suoi successi di sportivo e di scout lo resero famoso e gli pro curarono infine un onorevole incarico di cui avrebbe volentieri fatto a meno: il duca di Connaugh, ispettore generale delle truppe britanniche in India, gli conferì il titolo di ufficiale di stato maggiore personale: di «stallone da ufficio», come B.P. definiva tale incarico. Da un giorno all’altro, niente più scautismo nella steppa e nella giungla. B.P. doveva accompagnare l’ispettore generale di guarnigione in guarnigione, rappresentare, organizzare riunioni e scrivere verbali. «Il peggio che mi potesse capitare», si lamentò in una lettera a sua madre. Neppure la promozione a capitano servì a rallegrarlo. Digrignando i denti, constatò che gli altri ufficiali in tutte le guarnigioni britanniche dell’India imparavano il suo programma di scautismo e lo praticavano, mentre lui ammuffiva in ufficio. Scout diventò il termine di uso comune per indicare i ricognitori addestrati. C’erano anche gli scout che venivano sottoposti ad esame. Venivano interrogati in base al libro «Servizio di controspionaggio e ricognizione» di B.P. E lui, l’autore del libro, lui che aveva scoperto lo scautismo e lo aveva sviluppato, non poteva più occuparsi di scautismo, non aveva nemmeno passato l’esame scout! Un giorno si presentò per scherzo all’esame scout. Un colonnello che esaminava i candidati aveva il libro di B.P. davanti a sé sul tavolo. Anche gli esaminandi, che in una stanza vicina aspettavano di essere chiamati uno per volta, sfogliavano in continuazione la loro copia, leggevano qua e là, fino all’ultimo momento. — Il prossimo, per favore. B.P. entrò nella sala d’esame e salutò: — Capitano Baden-Powell, ufficiale di stato maggiore dell’ispettore generale. L’esaminatore sollevò lo sguardo, prese il libro in mano, guardò il nome dell’autore: — Lei è lo stesso tenente Baden-Powell, che ha scritto questo libro? — Sì, Signore. — Allora posso risparmiarmi l’esame. Come mai è qui? — Vorrei superare l’esame scout. — All right. Lo ha superato, capitano. Mi permetta di darle un ot-

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timo. Dopo un minuto B.P. era di nuovo fuori nella stanza vicina tra gli altri esaminandi. Uno chiese: — Già fatto? Cattivo segno. Bocciato su due piedi? — No, è andato bene. Promosso. Con «ottimo». — In un minuto, come è possibile? — Molto semplice. Si scrive il libro sul quale si viene addestrati ed esaminati. — Ah... Lei è quel Baden-Powell? Non si sente più parlare di lei. Dove si è nascosto? — In esilio. Ufficiale di stato maggiore dell’ispettore generale, lavoro d’ufficio. — Non può fare qualcosa? B.P. scrollò le spalle rassegnato. Ma poi — del tutto inaspettatamente — venne esonerato dal lavoro d’ufficio. Verso la fine dell’anno 1884, infatti, il 13° reggimento ussaro doveva essere trasferito dall’India in Inghilterra. B.P. — che rimaneva un membro del reggimento ussaro e che per così dire era stato prestato per il compito di ufficiale di stato maggiore — ricevette l’ordine di presentarsi a Muttra per l’imminente viaggio di ritorno. Si occupò ancora per qualche settimana dell’ulteriore addestramento degli scouts e nell’inverno del 1884 — liberato dal lavoro d’ufficio — partì da Muttra per Bombay. Ma proprio prima della partenza della nave, quando tutti erano già saliti a bordo, il colonnello Baker Creed Russel ricevette un telegramma da Londra. Lo lesse e radunò gli ufficiali nel refettorio. — Niente viaggio di ritorno. Il 13° reggimento ussaro ha ricevuto l’ordine telegrafico da Londra — e sventolava il telegramma — di recarsi immediatamente a Port Natal (oggi Durban) in Sudafrica, per appoggiare le truppe britanniche lì stazionate. Il terreno in Sudafrica, signori miei, attualmente scotta più che mai.

Boeri, negrieri, cercatori d'oro Il terreno in Sudafrica scottava già da qualche secolo, precisamente dall’anno 1595, quando per la prima volta alcuni commercianti della compagnia olandese delle Indie Orientali approdarono a Città

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del Capo, e praticarono un commercio attivo: con le ricchezze del sottosuolo, le spezie, la frutta, le pellicce, l'avorio e... gli schiavi! Gli schiavi erano indigeni che venivano rapiti, esportati soprattutto in Nordamerica per poi essere rivenduti dai loro nuovi proprietari, sfruttati, maltrattati e persino uccisi. È naturale che gli indigeni si ribellassero contro i bianchi, cacciatori di uomini e i mercanti di schiavi. Nuove tensioni si ebbero a partire dal 1650, quando giunsero gli immigrati olandesi e ugonotti, chiamati Boeri (boer in olandese = contadino), che si insediarono nelle zone dell’entroterra fino a 150 km della cosiddetta Colonia del Capo. Non desideravano altro che procurarsi delle fattorie sullo stile di quelle olandesi, rendere il terreno coltivabile, seminare i campi e raccogliere i frutti; e tuttavia incontrarono ostilità. Infatti era la terra degli indigeni che essi volevano coltivare. E gli indigeni difendevano quella terra che era la loro patria; ma furono confinati nelle zone al margine della Colonia del Capo con la violenza. Con il 1795 a Città del Capo arrivarono gli Inglesi, dapprima truppe, in seguito colonizzatori, che si attirarono l'ira dei commercianti, dei Boeri e degli indigeni. Infatti, non solo costituivano una concorrenza per i commercianti, ma vietarono il lucroso commercio di schiavi; introdussero l’inglese come lingua ufficiale, ferendo in tal modo l’orgoglio dei Boeri, che avevano elaborato una propria lingua — l’africano — partendo dai dialetti tedeschi settentrionali introdotti nella Colonia del Capo. Si spinsero nelle terre in cui i Boeri già praticavano l'agricoltura, scatenando continue controversie di confine. E cercarono di scacciare gli indigeni dagli unici territori selvaggi della Colonia del Capo che i Boeri avevano lasciato ancora liberi. Ma dovettero affrontare una resistenza organizzata. Sotto la continua e sempre crescente pressione esercitata dai colonizzatori europei, «l'Attila del Sud-Africa» — il principe della foresta Chaka — aveva nel frattempo fondato lo stato guerriero degli Zulù, il quale, governato come uno stato maggiore militare, si batteva contro Inglesi e Boeri. I Boeri cedettero per amor di pace. Per cercare un po’ di tranquillità lontano dagli Inglesi e dagli indigeni, circa diecimila Boeri,nel «grande esodo» diventato leggendario, si ritirarono verso nord e nordovest, negli anni tra il 1836 e il 1844, con carri trainati da bufali, nei

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luoghi selvaggi ancora inviolati, dove coltivarono nuove terre, costruirono nuove case e fondarono tre stati liberi: Orange, Transvaal e Natal. Ma proprio in quel territorio che supponevano selvaggio e disabitato, ebbero meno pace di prima. Gli indigeni incendiavano case, aggredivano i raccoglitori sui campi, uccidevano di notte uomini, donne e bambini... Insomma, misero talmente alla prova i Boeri, che questi furono sul punto di rinunciare alla loro nuova patria. All’ultimo momento giunsero in soccorso le truppe di protezione britanniche. Sconfissero gli Zulù nella battaglia di Ulundi, scacciarono dai tre stati liberi gli indigeni che opponevano resistenza, ma a loro volta accumularono altro materiale incendiario restituendo ai Boeri solo lo stato libero di Orange. Transvaal e Natal rimasero sotto la loro amministrazione! I Boeri rifiutarono tali imposizioni. Nel 1880 si ribellarono, cacciarono i Britannici dal Transvaal e minacciarono di riappropriarsi negli anni successivi — incitati dal loro presidente Krüger detto «Dom Paul» — anche del Natal. La guerra era imminente. Ma non era tutto qui. Contemporaneamente vennero scoperte in quei territori delle miniere d’oro. E in un batter d’occhio i Britannici, i Boeri e gli indigeni, già in contrasto tra di loro, dovettero combattere ancora contro la canaglia criminale dei cercatori d’oro provenienti dai paesi più disparati, che penetravano nelle colonie, si introducevano con la violenza nelle proprietà terriere altrui e rubavano le ricchezze del sottosuolo. Nel contempo divampava nuovamente il commercio di schiavi, questa volta illegale, ma non meno lucroso, esercitato da bande di «desperados» organizzate e potenti, che divennero un’ulteriore minaccia per Britannici, Boeri e indigeni. Nello stesso tempo le tribù dei luoghi selvaggi del nord della Beciuania (attuale Botswana) intrapresero una guerra contro Boeri e Inglesi, guidati da capi, che nell’anno 1884 — come segno della loro risolutezza — penetrarono a sud nei territori dei bianchi e massacrarono i residenti britannici. Il Sudafrica rischiava di diventare un inferno. Non c’era mai stata un'atmosfera così infiammata. I Britannici avevano bisogno di rinforzi. E perciò il 13° reggimento ussaro venne improvvisamente deviato durante il viaggio di ritorno dall’India, verso Port Natal sulla costa orientale del Sudafrica.

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Verso ovest attraverso i Monti dei Draghi A B.P. la cosa andava a genio. Lasciava un paese tanto sognato per un altro altrettanto desiderato, l'India per l'Africa. In occasione del ricevimento formale degli ufficiali nel circolo ufficiali di Port Natal — un bungalow di aste di bambù — conobbe Sir Charles Warren, il comandante supremo delle truppe britanniche in Sudafrica, noto per il suo contegno sgarbato. — Allora lei è questo capitano Baden-Powell? — chiese Sir Warren, quando B.P. gli venne presentato. — Mi conosce, Sir? — Lei è l’autore del «Servizio di controspionaggio e ricognizione», su cui si basa qui da noi la formazione degli esploratori? B.P. era sconcertato. Allora... i suoi libri scritti in India venivano utilizzati anche in Africa come materiale didattico. È una fortuna — continuò Sir Warren — che ci siamo conosciuti qui. In ogni caso vi avrei fatto venire domani. Infatti vorrei vedere se lei è capace di mettere in pratica le sue teorie. Mostrò a B.P. una cartina che era appesa alla parete di bambù: — Qui vede Natal sulla costa orientale. E qui, a ovest — come confine naturale e difficilmente sormontabile dello stato libero dell’Orange e Transvaal — i cosiddetti Monti dei Draghi, una catena montuosa e selvaggia che si estende per ben 300 km di lunghezza ed è alta 3600 metri. Se dobbiamo attaccare i Boeri oppure appoggiare le nostre truppe nella Beciuania siamo costretti a oltrepassare queste montagne. Però non possediamo conoscenze precise sui Monti dei Draghi. Non conosciamo neppure i passi valicabili dalle nostre truppe. Il suo compito, capitano Baden-Powell, è di esplorare questo territorio e di cercare passaggi, valichi, nascondigli, eventuali tranelli e cose del genere, redigere un rapporto e tracciare una cartina. Si guardi dagli Zulù, che sicuramente si aggirano da quelle parti e sono pronti a torcere il collo a ogni inglese che vedono. Si guardi dai Boeri. E si guar di anche — aggiunse sogghignando — dai draghi che dimorano lì. Non per niente si chiamano Monti dei Draghi. I Monti dei Draghi devono il nome al loro aspetto particolare; sembra quasi che lì abbiano i loro nascondigli i draghi leggendari: pieni di crepacci, un insieme di precipizi e gole, grotte grandi e piccole, caverne, fasce detritiche e precipitose cadute di massi.

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Attraverso quegli ammassi di rocce, su terre prive di sentieri, B.P. si arrampicò sulla cresta con il suo cavallo da sella e un cavallo da soma. Nemmeno i suoi migliori amici lo avrebbero riconosciuto: non portava la divisa, ma una tenuta coloniale civile e il suo viso lentigginoso era circondato da una barba rossa, che non è permessa ai militari. Portava anche un paio di occhiali da studioso con lenti non levigate. Si era travestito da giornalista, incaricato da un giornale londinese di fare un servizio sul territorio in crisi. Non c’era anima viva, solo svolazzamenti di cornacchie e avvoltoi, e di notte le urla degli animali da preda. Dopo tre giorni raggiunse la cresta della montagna, e da un passo potè scorgere, a ovest, un vasto paesaggio che è tipico di quasi tutto il Sud-Africa: montagne, colline, catene montuose, valli a forma di conca, steppe, savane, foreste tropicali e scintillanti nastri di fiumi. Territori desertici — come nel Nordafrica — mancavano nel sud. Giù nella valle si potevano scorgere alcune fattorie dei Boeri, piccole come giocattoli, circondate da terreni rettangolari ben delimitati. Per parecchi giorni B.P. cavalcò e si arrampicò sulla cresta dei Monti dei Draghi in direzione nord e sud, per compiere un esame cartografico del territorio con una prospettiva a volo d’uccello e perlustrare sentieri di marcia accessibili alle truppe. Poi cavalcò a ovest in discesa, attraverso un paesaggio roccioso abbandonato da tutti i buoni spiriti, quasi fiabesco.

Ospite nel Kral dei bellicosi Zulù Dopo aver raggiunto le propaggini della macchia africana sui pendii della montagna, notò di non essere più solo: dietro le rocce spuntavano qua e là delle teste nere, immobili come pietre, che poi, se egli distoglieva lo sguardo per un po', scomparivano. Scese di sella, legò i due cavalli saldamente, preparò il suo giaciglio notturno, srotolò il sacco a pelo, e al calar della notte strisciò via dal posto in cui si era accampato per osservare da un nascondiglio le misteriose figure. Dopo qualche istante vide un guerriero zulù che avanzava di soppiatto verso la sua tenda, seminudo, con un perizoma ai fianchi, a piedi scalzi, una lancia in mano, dei ciuffi a frange legati al di sotto delle ginocchia.

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In seguito B.P. scriverà a questo proposito: «Osservare come un guerriero zulù utilizza un’altura o un’ondulazione del terreno per scrutare l’ambiente circostante, è molto istruttivo. Egli striscia carponi, il più possibile attaccato al suolo. Quando vuole dare un’occhiata, solleva lentamente la testa, centimetro dopo centimetro, fino a che riesce a vedere qualcosa. Tiene il capo ben fermo, così il nemico lo scambierà per una pietra. Sa che un movimento rapido e improvviso del capo in linea orizzontale lo tradirebbe anche in lontananza. Quindi ritira nuovamente la testa verso il basso, lentamente, centimetro dopo centimetro, fino a che non è al coperto. Poi continua a strisciare come un serpente». Dal suo luogo di osservazione B.P. scoprì successivamente parecchi zulù, che si avvicinavano strisciando al suo giaciglio, ma senza attaccare, anzi ritirandosi a poco a poco. Allora uscì dal suo nascondiglio, ciondolando verso la tenda, come se stesse tornando da una marcia a piedi. Agli zulù non rimase altro che alzarsi e salutare B.P. — che si mostrò piacevolmente sorpreso — a braccia distese e senza armi. Parlavano bene l'inglese e chiacchierarono con il «giornalista di Londra» senza alcuna ostilità, come se non ci fosse la minima tensione tra Britannici e Zulù. Al contrario: si vedeva chiaramente che erano propensi ai contatti pacifici, e lo condussero nel villaggio vicino, dove le donne e i bambini vivevano in abitazioni disposte in cerchio e protette da un reticolato di spine e da piante di bambù: un cosiddetto kral. Lì B.P. venne accolto dal capo con tutti gli onori, servito e invitato a fermarsi per qualche giorno. Il giorno dopo vide un giovane di circa 15 anni con il corpo tinto di bianco, che, accompagnato da guerrieri che danzavano e cantavano, lasciava il kral e scompariva da solo nella foresta. I suoi accompagnatori ritornarono continuando a danzare e a cantare; si procurarono le armi e poi seguirono le sue tracce. B.P. chiese spiegazioni riguardo al singolare rituale. Le racconterà più tardi così: «Gli Zulù sono la tribù migliore del Sudafrica. Ciò dipende dal fatto che ogni zulù viene preparato all’esplorazione già da ragazzo. Quando ha raggiunto l’età per diventare un guerriero, il suo corpo viene interamente tinto di bianco. Per la protezione personale e per combattere contro i nemici riceve uno scudo e una corta lancia, poi viene mandato nella foresta. Chiunque lo veda — anche un membro della sua tribù — deve, finché il suo corpo è tinto di bianco, se-

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guirlo e ucciderlo. Questa tinta bianca non si può lavare via, ma sparisce dopo circa un mese. Così il giovane deve nascondersi per un mese nella natura selvaggia. Per procurarsi nutrimento e vestito, deve seguire le tracce degli animali e avvicinarsi a questi di soppiatto, a una distanza tale che gli permetta di abbatterli con la sua corta lancia. Per cucinare i pasti deve accendere un fuoco strofinando tra loro due pezzi di legno. Ma deve fare attenzione che il fumo del suo falò non attiri gli avversari, che sono tutti tenuti a ucciderlo. Egli deve percorrere vasti tratti e attraversare a nuoto fiumi, per sfuggire ai suoi inseguitori. Deve anche resistere nella lotta contro gli animali selvaggi, persino contro i leoni. Deve abitare ben nascosto in una capanna da lui stesso costruita, per ripararsi dal freddo e dalla pioggia. Solo dopo un mese, cioè quando la tinta è scomparsa, può ritornare nel suo villaggio. Allora è orgoglioso e cosciente del proprio valore, perché ha dimostrato di essere in grado di badare a se stesso. Per-

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ciò viene accolto con gioia e introdotto nel gruppo dei giovani guerrieri della sua tribù». B.P. rimase alcuni giorni con i tanto temuti, ma in realtà così amichevoli Zulù. Poi si mise in cammino per arrivare fino alle prime case dei Boeri. Dapprima strisciò intorno alle abitazioni osservando, poi venne allo scoperto di nuovo in veste di giornalista, che doveva fare dei servizi sui paesi e le persone. I Boeri lo accolsero amichevolmente, gli raccontarono le proprie preoccupazioni, i loro problemi economici, politici e sociali, i loro desideri e la loro nostalgia di pace, di un lavoro nei campi tranquillo e indisturbato. Quando B.P. dopo un mese attraversò nuovamente i Monti dei Draghi per tornare a Port Natal, consegnò i disegni cartografici e scrisse il rapporto segreto per Lord Warren, non si trattenne dall'esprimere la sua opinione: «Ho l’impressione — scrisse — che queste persone, Boeri e Zulù, non vogliano altro che il consolidamento dell’attuale situazione politica. Pretendono i loro diritti, sono pronti a difendere questi diritti, se minacciati, ma sono anche disposti a scendere a compromessi. Per quanto riguarda gli Zulù, vedo un certo pericolo che essi — evidentemente facili a lasciarsi influenzare — possano essere sfruttati da capi demagogici o da altri gruppi interessati e con chissà quali scopi. Per questo dobbiamo cercare di avere contatti con loro e parlare. L’abilità diplomatica da parte nostra potrebbe, secondo la mia convinzione, fare miracoli nei rapporti con Boeri e Zulù». Con uno dei suoi amici — il capitano di cavalleria McLaren — si espresse ancora più chiaramente: «Mi spaventa e mi disturba il pensiero che la Gran Bretagna possa nuovamente combattere contro i Boeri e gli Zulù. I Boeri sono persone meravigliose, ospitali e gentili! Gli Zulù sono persone straordinarie. I tanti bianchi che disprezzano gli indigeni fanno loro un grave torto, e creano così i presupposti perché i neri possano essere aizzati contro i bianchi da chissà quali demagoghi. L'idea che le persone che ho conosciuto direttamente possano diventare di nuovo nostri nemici, mi è insopportabile! ».

La morte della ragazza zulù A metà del 1885 la tensione politica in Sud-Africa si allentò a tal

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punto che gli ussari del 13° di Port Natal poterono intraprendere il viaggio di ritorno in patria. Arrivarono prima alla guarnigione di Norwich, poi a Colchester e infine al quartiere di caserme annerite dalla fuliggine, vicino alla città industriale di Liverpool, oscurata dallo smog e dalla nebbia: «in esilio», come soleva definirlo B.P. Infatti, egli era abituato alla vita libera sotto il sole africano e indiano. E aveva nostalgia dell’Africa, che era diventata la sua seconda patria e lo attirava e lo affascinava ancora più dell’India. Però non vedeva alcuna probabilità di ritornare in Africa. Il 13° reggimento ussari avrebbe dovuto rimanere ancora qualche anno a Liverpool, per poi essere di nuovo trasferito in India. Sui giornali B.P. leggeva notizie allarmanti riguardo l’Africa: negrieri illegali e cercatori d’oro — messi alle strette da Britannici, Boeri e indigeni — si erano uniti in una potente associazione segreta, e inoltre si erano alleati al capo Dinizulu, un principe con un notevole talento demagogico. Dinizulu attirò sempre più seguaci, in totale 16. 000 Zulù, e per ordine dell’associazione segreta li aizzò in una guerra su due fronti contro Britannici e Boeri. A nord del Natal e nel Transvaal occidentale, su entrambi i lati dei Monti dei Draghi, pattuglie armate di assassini tendevano quasi ogni giorno imboscate ai colonialisti bianchi. La loro tattica era sempre la stessa: attacchi notturni, carneficina di soldati, donne e bambini, ritirata fulminea tra le rocce dei Monti dei Draghi. Ivi, da qualche parte, aveva la sua sede anche il quartier generale di Dinizulu, ma il luogo preciso le truppe coloniali non l’avevano ancora scoperto. Britannici e Boeri dovevano concentrarsi sulla difesa dai guerrieri Zulù, e di conseguenza i cercatori d’oro e i negrieri acquistarono la desiderata libertà d’azione per le loro attività criminali. Anche Dinizulu prendeva parte al commercio dell’oro e a quello illegale degli schiavi. Addirittura vendeva ai bianchi, come schiavi, i membri della tribù che non vedeva di buon occhio. E tuttavia la maggior parte degli Zulù, facilmente influenzabile, gli era devota in maniera incondizionata. Solo 2000 Zulù combattevano a fianco degli Inglesi. Avevano — un fatto del tutto nuovo nella storia coloniale — eletto un capo bianco: l’avventuriero scozzese John Dunn. Alla fine di marzo del 1887 B.P. lesse sul giornale che il generale Henry Smith del Ministero della Guerra di Londra era stato nominato nuovo comandante supremo delle truppe britanniche in Sudafrica e

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che si sarebbe recato immediatamente a Port Natal. Henry Smith! Era suo zio, fratello di sua madre, figlio del vecchio ammiraglio Smith. L'ultimo giorno di marzo, B.P. venne chiamato nell'ufficio del comandate del reggimento. Persino le pareti erano nere di fuliggine, spiccava soltanto il ritratto della regina Vittoria. Il colonnello Baker Creed Russell con un gesto della mano invitò B.P. a sedersi. La poltrona di cuoio scricchiolò quando B.P. si sedette. — Dovrò sentire la sua mancanza per un po' di tempo, capitano Baden-Powell — iniziò il colonnello —. Suo zio, il generale Smith, ha richiesto lei come aiutante per la sua attività in qualità di comandante supremo in Sudafrica. La vostra nave parte fra tre giorni. Faccia le valigie. Questa sera dovrà prendere il treno per Londra. Il colonnello Baker Creed Russel si alzò, andò alla finestra e guardò la grigia nuvola di smog che stagnava su Liverpool: — Buona fortuna, capitano Baden-Powell. B.P. aveva allora 30 anni. «Raccomandato! », sussurravano gli invidiosi. Ma non tenevano conto del fatto che B.P. doveva accompagnare in Sudafrica il comandante supremo britannico solo per la sua conoscenza precisa dei luoghi nei Monti dei Draghi, che gli avrebbe reso possibile trovare il quartier generale segreto del capo Dinizulu. Che il comandante supremo fosse suo zio, non c’entrava per nulla. Zio e nipote giunsero il mattino presto del 7 luglio a Port Natal, e B.P. fu subito coinvolto in una pericolosa avventura: qualche giorno prima il Residente britannico aveva fatto visita ad un villaggio coloniale inglese di Port Natal ed era stato accerchiato da zulù. Quaranta inglesi — contadini, donne, bambini, il Residente e alcuni soldati del suo commando — si erano trincerati in una fattoria ed erano intrappolati. Uno dei soldati aveva galoppato di notte attraverso la cintura d’assedio e sanguinante per le ferite riportate, più morto che vivo, aveva consegnato la richiesta di soccorso del Residente a Port Natal. Lo stesso giorno B.P. partì con una truppa d’assalto di 400 soldati britannici e i 2000 zulù dell'avventuriero John Dunn, in direzione nord. Dopo cavalcate forzate sotto una pioggia torrenziale, il 12 luglio, all’ultimo momento, riuscì a liberare i suoi connazionali dalla fattoria circondata. Gli zulù si ritirarono, secondo la loro tattica, tra le montagne, per evitare perdite. Il Residente e molti inglesi erano stati feriti, ma in maniera non

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preoccupante. Invece una ragazza zulù, di circa 12 anni, che aveva abitato con gli Inglesi come bambinaia, lottava contro la morte a causa di una ferita allo stomaco. La ferita suppurava intensamente. Nessuno sapeva come aiutarla. B.P. osservò la ferita, applicò una fasciatura, ma poi la tolse, perché pensò che il pus dovesse scorrere liberamente. Poi però gli venne il dubbio che così poteva causare una perdita di sangue, con il pericolo di un'ulteriore infezione. Allora fasciò nuovamente la ferita, tormentato da nuovi dubbi, non sapendo se quello che stava facendo fosse giusto o no. — Accidenti! — gridò improvvisamente —. Non so cosa si deve fare. Non ne ho la minima idea! Non ho mai imparato cose del genere. La piccola era per lo più fuori dei sensi. Quando si riaveva, guardava B.P., che rimase al suo capezzale tutta la notte. Stringeva la sua mano, talvolta piangeva... Ad un tratto, quasi in trance, gli diede in regalo la sua collana di perle. Il giorno dopo morì. In seguito B.P. avanzerà la richiesta che tutti i soldati dell’esercito britannico ricevessero un’istruzione in materia di pronto soccorso. E più tardi — dopo aver lasciato il servizio militare — inserirà lezioni di pronto soccorso nel programma pedagogico del movimento scout. Lo stimolo venne dalla morte della piccola ragazza zulù il 13 luglio 1885 a nord di Port Natal.

Ingonyama - gonyama B.P. lasciò 100 soldati britannici e 500 zulù alleati nella fattoria distrutta. Dovevano proteggere gli inglesi liberati e accompagnare i feriti che erano in grado di affrontare un viaggio a Port Natal. Con i rimanenti 300 soldati, 1500 zulù e il capitano bianco John Dunn, tornò indietro a cavallo seguendo la strada più breve. Giunta la notte, si accamparono nella steppa quasi al margine di una foresta tropicale. Vennero collocate doppie sentinelle. I fuochi cominciarono a tremolare. Alcuni alberi, illuminati dal riflesso delle fiamme, formavano figure fantastiche sul fondo scuro del bosco. Fuori nella steppa si vedevano le ombre degli alleati zulù, centinaia di ombre che — lentamente, con gravità, quasi solennemente — avanzavano l’una verso l’altra come per una funzione e si fondevano

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in un unico gruppo nero. Restavano immobili, in silenzio assoluto. E in quella quiete notturna risonava — come un urlo prolungato, aumentando e diminuendo d’intensità — la voce di un cantante negro: «Ingonyama - gonyama...! ». Per qualche secondo non si sentì più nulla. Poi echeggiò il coro di 1500 guerrieri zulù: «Inwubu, yabu, yabu, inwubu...! ». Un canto primitivo, che sembrava erompere dalla terra, dalla foresta, dalla steppa. Poi di nuovo la voce del solista... e subito dopo il coro. Lo stesso testo, la stessa melodia. Il canto alterno tra il solista e il coro continuò a lungo. B.P. tirò fuori la sua agenda, tratteggiò cinque linee e scrisse le note e il testo:

— Cosa significa questa canzone? — bisbigliò B.P. a John Dunn, che sedeva vicino a lui, come al solito puzzando di whisky, con la barba e i capelli arruffati. Alla luce del fuoco, la barba e i capelli dello scozzese sembravano ancora più rossi e più arruffati del solito. — Gli Zulù cantano la vittoria. La liberazione degli Inglesi dalla fattoria assediata. Il canto è rivolto al capo. — Quindi a lei. — Forse. È possibile che sia rivolto anche a lei. Infatti è lei che ci ha condotti alla vittoria. — Può tradurre il testo? John Dunn annuì, aspettò che la voce del solista risonasse nuovamente: «Ingonyama - gonyama». — Significa: è un leone, è un leone — bisbigliò John Dunn.

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E di nuovo il canto del coro risonò: «Inwubu, yabu, yabu, inwubu... ». — Questo significa... Ehm, suona un po' strano se lo traduco... Significa: sì, lui è meglio ancora, è un ippopotamo. Deve sapere, signore, che per gli Zulù l'ippopotamo è il re degli animali. Questo paragone è un grande onore. Come ho già detto, non so chi di noi due venga onorato come ippopotamo: lei o io... «Ingonyama - gonyama...! ». «Inwubu, yabu, yabu, inwubu...! ». Gli indigeni cantarono a lungo. Poi il solista e il coro divennero sempre più silenziosi e infine, a poco a poco, la canzone terminò. Gli indigeni si staccarono e si allontanarono l’uno dall’altro. Ombre apparvero nella luce del bivacco, riacquistarono i loro profili. I loro corpi cosparsi di olio luccicavano. Nessuno parlava. Gli zulù si sdraiarono per terra e si avvolsero nelle coperte. B.P. rimase sveglio a lungo. Stranamente turbato da quel canto, fissava il fuoco. «Ingonyama - gonyama... ». Non riusciva a toglierselo dalla testa. Molti anni più tardi la canzone «Ingonyama» diventerà famosa in tutto il mondo. B.P. l’ha resa popolare. Milioni di giovani scout la conoscono. Presso il bivacco e agli incontri scout mondiali — i jamborees, che si svolgono ogni quattro anni con decine di migliaia di giovani provenienti da oltre cento paesi — ancora oggi gli scouts cantano la canzone degli Zulù del Sudafrica.

Segnavia A Port Natal, B.P. si accinse subito a scoprire il nascondiglio del principe della foresta Dinizulu nell’ambiente roccioso e selvaggio dei Monti dei Draghi. Suo zio gli lasciò completa libertà d’azione. B.P. formò cinque squadriglie di sei uomini ciascuna. Tutti erano istruiti secondo i suoi principi ed erano stati esaminati in base al manuale «Servizio di controspionaggio e ricognizione». Le cinque squadriglie dovevano essere indipendenti, ma non troppo lontane Luna dall’altra, cercare su percorsi diversi le tracce degli zulù nemici e incontrarsi ogni tre giorni nei punti stabiliti precedentemente, allo scopo di scambiarsi le informazioni.

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In caso di situazioni impreviste che rendessero necessario un immediato incontro delle cinque squadriglie, si sarebbero imitate le urla di uno sciacallo, eseguite con un ritmo particolare. — Un'ultima cosa — disse B.P. durante la discussione preliminare —. Se una pattuglia trova delle tracce interessanti, per cui sarebbe opportuno continuare a seguirle, allora naturalmente non aspetterà al punto d’incontro. Ma vi lascerà dei segnavia, in modo che gli altri possano seguirla. Non aveva nient’altro da aggiungere. I segnavia segreti erano descritti nel suo manuale e noti ad ogni esploratore istruito: la direzione da seguire viene indicata mediante una piccola incisione sulla corteccia di un albero; o con rami spezzati e orientati in una determinata direzione; oppure con tre pietre collocate secondo la grandezza in una direzione. O ancora mediante rami collocati a forma di freccia, che naturalmente sono da cercare al di fuori del normale campo visivo. Due rami incrociati significano: strada sbagliata. Un rettangolo con freccia e un numero romano, per es. V che sta per 5, significa: a cinque passi di distanza in questa direzione è nascosta una informazione. Un triangolo: pericolo. Due angoli di fronte a un angolo: nemico nelle vicinanze. Un rettangolo piccolo in un rettangolo grosso: qui nuovo punto d’incontro. Un cerchio con un punto dentro: ho svolto il mio compito e sono tornato a casa. La notte le squadriglie partirono da Port Natal in direzione nord. B.P. volle perlustrare di propria iniziativa i Monti dei Draghi, accompagnato solo da uno zulù in servizio presso l’esercito britannico, che aveva adottato il nome olandese di Jan Grootboom e parlava bene l’inglese. Cercarono a lungo, ma non riuscirono a individuare alcuna traccia degli zulù nemici che avrebbe potuto condurli al nascondiglio di Dinizulu. Dopo tre giorni, quando si incontrarono, neanche i membri delle squadriglie furono in grado di dare informazioni. Era evidente che il nemico aveva cancellato sapientemente tutte le tracce. È vero che neanche il migliore escursionista sarebbe riuscito a cancellare le sue orme su lunghi percorsi, ma sui Monti dei Draghi anche i minimi segnali che potevano tradire la presenza di qualcuno venivano insabbiati e lavati via dalle continue bufere e precipitazioni stagionali nel giro di poco tempo. Solo una traccia fresca avrebbe forse condotto al traguardo. Ma non c’era alcuna traccia fresca. E non si riusciva a vedere nes-

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suno zulù che si potesse seguire. I Monti dei Draghi sembravano del tutto disabitati, benché non ci fosse dubbio che vi girovagavano migliaia di guerrieri zulù e il loro capo doveva avere il suo quartier ge nerale nascosto da qualche parte. I membri delle pattuglie erano piuttosto giù di morale. B.P. cercò di incoraggiarli e fissò un altro punto d'incontro. Poi si divisero nuovamente. Dopo due giorni, al calare della notte, B.P. si trovava con Jan Gootboom nella radura di un pendio montano coperto di cespugli, appena al di sotto del limite della vegetazione. Guardò verso la cima della montagna e si chiedeva se non fosse possibile salire lassù per i crepacci rocciosi senza essere visti. Ad un tratto alcuni corvi si alzarono rumorosamente dai cespugli, e in quel momento Jan Grootboom urlò: — Attento! Con un riflesso immediato, come era stato addestrato migliaia di volte nel cortile della caserma, B.P. si gettò a terra, e accanto alla sua spalla sfrecciò una lancia. Si rotolò su se stesso, estrasse la rivoltella, vide una figura nera scomparire nella boscaglia, vide Jan Grootboom afferrare il fucile e puntarlo verso il fuggiasco. Ma Jan Grootboom sparò a vuoto. Infatti B.P., alzatosi con una mossa fulminea, si era lanciato su di lui per togliergli di mano il fucile. — Perché? — gridò Jan Grootboom, fuori di sé dalla rabbia —. L’avevo già preso di mira. Sarebbe stato un uomo morto. — Un uomo morto — disse B.P. — non ci può portare da Dinizulu.

Il nascondiglio del capo Ora sì che avevano delle tracce fresche! Ora potevano seguire uno zulù, che — forse — li avrebbe condotti al quartier generale del capo. A condizione però che il fuggiasco si sentisse sicuro e non prendesse particolari precauzioni. Così B.P. e Jan Grootboom procedettero come due giovani inesperti: brancolando dietro di lui, pestavano rami, passavano a fatica attraverso la fitta boscaglia, per poi allontanarsi dalla traccia, schiamazzando e chiamandosi l’un l’altro come se stessero seguendo una pista sbagliata.

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Dopo qualche tempo ritornarono silenziosamente sulla traccia giusta. La loro tattica si dimostrò indovinata: lo zulù evidentemente non si sentiva più seguito, infatti aveva cancellato le sue orme con trascuratezza. Prima era passato nella boscaglia, dove non poteva essere visto, appena al di sotto del limite della vegetazione, e poi lungo un ripido pendio era salito sulla nuda roccia. B.P. si mise a cercare le tracce, Jan Grootboom restò dietro di lui, emise più volte l’urlo dello sciacallo come era stato concordato e lasciò dei segnavia, perché le squadriglie chiamate potessero raggiungerli in fretta. Per tutto il giorno e per tutta la notte, sotto la luna piena, B.P. e Jan Grootboom stettero alle calcagna del fuggiasco. Le sue tracce erano ben visibili, ma c’era il pericolo che la bufera notturna le spazzasse via. Inoltre in quella stagione era sempre possibile che piovesse. E la pioggia avrebbe cancellato totalmente le tracce. B.P. e Jan Grootboom non avevano tempo da perdere, non potevano concedersi una sosta, né aspettare i rinforzi. All’alba si arrampicarono, sempre seguendo le orme del fuggiasco, per una salita a forma di camino su di un altopiano, dove fra rocce e rupi scoprirono parecchie impronte di uomini, donne e persino bambini: fatto molto insolito per un terreno così inaccessibile, sulle alture dei Monti dei Draghi, dove in genere non saliva mai nessuno. Senza dubbio c’era un campo segreto nelle vicinanze, un nascondiglio di ribelli, che avevano buone ragioni per tenersi lontani dai luoghi abitati. Era necessaria la massima prudenza. Quando all’alba il sole illuminò i Monti dei Draghi come un palcoscenico, divenne impensabile continuare l’inseguimento. B.P. e Jan Grootboom si nascosero in una nicchia di rocce e aspettarono la sera. Durante il giorno osservarono alcuni zulù che si aggiravano per l’altopiano e dalle estremità delle rocce guardavano verso il basso. Gli indigeni venivano tutti dalla parte meridionale dell’altipiano, e poi vi ritornarono. Dopo il tramonto B.P. e Jan Grootboom strisciarono in quella direzione, fino a che non scoprirono una grotta nella quale confluivano innumerevoli tracce di passi. La grotta si presentava come un passaggio stretto che al crepuscolo era già completamente buio e conduceva, attraverso una parete di rocce ripide e a forma di scale, in una gola illuminata dal fuoco di un bivacco. Lì si vedevano parecchie centinaia di uomini, donne e bambini. Il nascondiglio di Dinizulu?

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B.P. voleva tornare indietro e aspettare fuori sull'altopiano le pattuglie che sarebbero sicuramente arrivate durante la notte... ma proprio dinanzi a lui risonò un grido d’allarme. Una sentinella! Nel buio non avevano potuto individuare la sua figura scura. Ora, uscita dalla penombra, correva verso il bivacco. Per un secondo B.P. rifletté: ritirarsi o attaccare? Se si fosse ritirato, il campo sarebbe stato evacuato immediatamente; Dinizulu avrebbe potuto fuggire; la sua pericolosa influenza sarebbe rimasta. Un attacco offriva la possibilità di spezzare l’influenza di Dinizulu. Ma era il caso di rischiare di fronte a quella superiorità? B.P. puntò tutto su una carta. Con la rivoltella in mano, seguito da Jan Grootboom, penetrò nella conca della valle. In un batter d’occhio fu circondato da uomini e donne. Si girò e gridò alcuni ordini verso la grotta, come se lì fosse nascosto un gran numero di soldati britannici. Un bluff che però ebbe effetto solo al primo momento. — Dica a questa gente, che devono arrendersi, presto! — urlò a Jan Grootboom, che immediatamente tradusse. Ma quelle centinaia di persone non si mossero. Evidentemente esitanti, prima guardarono B.P., poi la grotta, dalla quale però non compariva alcun soldato. Avevano intuito il tranello. L’astuzia non aveva avuto effetto. Nessuno parlava. Un bimbo in braccio a sua madre si mise a piangere. B.P. tirò fuori dalla tasca dell’uniforme la catena di perle — il regalo della ragazza zulù morente — e la diede al bimbo, che la prese e smise di piangere. Di nuovo silenzio. Improvvisamente si sentì urlare una voce in lontananza, breve, energica, evidentemente un «commando». Ci fu come una scossa tra i guerrieri... ma nessuno lasciò il suo posto. «Sembra un rifiuto di obbedienza», pensò B.P. Di nuovo echeggiò la voce acuta in sottofondo, questa volta adirata, in falsetto... e ancora nessun movimento tra i guerrieri zulù. E poi: ressa, spintoni, incitamenti continui lì dove si era sentita la voce. Alcune figure sfrecciarono verso la grotta e poco dopo scomparvero. In quell’istante gli uomini e le donne si destarono come da un incantesimo. Iniziarono a danzare e a cantare! Un guerriero zulù, riconoscibile come vicecapo per via delle piume di struzzo che aveva sulla testa, si rivolse a B.P., ricoprendolo di una valanga di parole: dialetto indigeno, incomprensibile per B.P. Solo qualche volta sentiva il nome Dinizulu.

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Jan Grootboom traduceva: «L'uomo dice: Questo è il nascondiglio di Dinizulu. Era Dinizulu che in lontananza ha urlato il comando di attacco. I suoi guerrieri dovevano scagliarsi su di noi. Ma nessuno gli ha obbedito. Quindi Dinizulu è fuggito con alcuni seguaci. Ora gli uomini e le donne sono come redenti, come liberati... Per questo danzano e cantano. Tutti i guerrieri vogliono continuare a combattere dalla nostra parte contro Dinizulu». «Era come in una sala da ballo», scriverà poi B.P. nel suo rapporto. Per questo ancora oggi quella conca valliva viene chiamata «sala da ballo», e la grotta con la salita a forma di scale «scala alla sala da ballo». Entrambi i nomi si possono leggere sulla cartina attuale dei Monti dei Draghi in scala 1: 100.000. Dinizulu ora non aveva più scampo. Dopo due ore giunsero nella gola le altre pattuglie. Con esse B.P. iniziò la caccia al capo, che con gli inseguitori sempre alle calcagna non aveva tempo di cancellare le tracce. Quando capì la sua direzione di fuga, B.P. inviò due membri della pattuglia a Port Natal per chiedere al comandante supremo di impiegare tutte le truppe a disposizione per una caccia spietata. Dinizulu si nascose come un animale braccato nella boscaglia di Zesa, dove venne accerchiato e infine, implorando il perdono, si arrese. Al momento della sua cattura, consegnò a B.P. come gesto di sottomissione la sua collana di capo tribù: uno spago su cui erano annodati pezzetti di legno. B.P., grazie alla sua impresa, venne nominato maggiore prima del tempo. La collana del capo tribù, che egli portava come se fosse la collana di un ordine cavalleresco, avrà in seguito la sua importanza.

Il re nero e gli avanzi di galera La notizia della cattura di Dinizulu si sparse per tutto il Sudafrica ed ebbe un effetto miracoloso. Tutti gli Zulù, che avevano subito la sua influenza, smisero di opporre resistenza e fecero la pace con Britannici e Boeri. L’associazione segreta di commercianti illegali di schiavi e dei cercatori d’oro, invece, causò ulteriori disordini. Quando i «desperados» non ebbero più l’appoggio degli Zulù, si rivolsero ai Swazi, un popolo pacifico, che praticava l’allevamento del bestiame, la raccolta

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della canna da zucchero e non aveva alcun risentimento nei confronti dei bianchi. L’inesperto re swazi Umbandeen, che aveva appena 14 anni, rifiutò di concedere l’appoggio militare ai cercatori d’oro e ai negrieri, ma, ingannato dalle belle parole e dal denaro, si lasciò convincere a vendere un territorio a sud-ovest del suo regno, e cioè proprio al confine tra Natal e Transvaal. Così l’associazione clandestina aveva una sicura base operativa. Di lì i «desperados» potevano compiere razzie nel territorio dei Britannici e dei Boeri e — se la situazione diventava preoccupante — ritirarsi nel territorio nazionale di Swaziland rispettato dalle potenze coloniali. La loro terra divenne un ricettacolo di elementi criminali. Circa tremila cercatori d’oro e mercanti di schiavi si nascondevano colà, minacciavano Natal e Transvaal, terrorizzavano i Swazi e rapivano gli indigeni per venderli come schiavi. Così in Sudafrica si apriva una nuova piaga.

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Il re Umbandeen, trovandosi in difficoltà, si rivolse al Residente britannico pregandolo di intervenire come mediatore. Il Residente nominò il colonnello de Winton capo di una commissione di inchiesta. E il colonnello de Winton richiese al generale Smyth il maggiore Baden-Powell, che aveva dato prova della sua competenza nella lotta contro Dinizulu, in qualità di vicecapo. B.P. accettò il compito con entusiasmo. Da un lato lo stimolava il fatto di aiutare gli indigeni a ottenere giustizia e pace. Dall’altro, vedeva un'occasione unica per unire Britannici e Boeri. Infatti, niente spinge a unirsi più saldamente che il combattere contro un nemico comune. Egli elaborò un piano che permetteva di avvicinarsi progressivamente all’obiettivo fissato. Seguendo la sua proposta, la commissione — formata dal colonnello de Winton, B.P., un avvocato e una pattuglia di 25 soldati — si recò prima dal presidente dei Boeri, l’allora cinquantaduenne, Paul «Oom» Krüger, un uomo «di notevole intelligenza, ponderato, tranquillo e di grande ascendente», come in seguito lo descriverà B.P. Paul «Oom» Krüger fu subito disposto a discutere, offrì persino il suo appoggio nella lotta contro quella gentaglia e promise di non ordinare alcun attacco durante l’azione contro l’associazione clandestina in quello che prima era lo stato libero del Natal, ora occupato dai Britannici. Poi la commissione si recò nello Swaziland, dove riunì attorno a un tavolo di trattative nella residenza reale il re Umbandeen con alcuni rappresentanti dell’associazione clandestina. La residenza era un’ampia capanna di bambù, il tavolo delle trattative una lastra di pietra. Non c’erano sedie. I partecipanti stavano accovacciati per terra e formavano un cerchio intorno alla lastra di pietra. Dapprima gli avanzi di galera della controparte si mostrarono piuttosto arroganti: insistevano sul fatto di avere stipulato il loro contratto di acquisto «come cittadini onorabili, secondo diritto e giustizia». — Secondo quale legge? — chiese l’avvocato che accompagnava la commissione britannica —. Secondo il diritto inglese o olandese? O secondo il diritto del Swaziland? — Per chi ci prendete? Siamo cittadini onorabili — disse il rappresentante dell’associazione clandestina, un gangster da libro illustrato con una benda sull’occhio —. Noi non stipuliamo nessun contratto secondo la legge dei selvaggi. Noi trattiamo legalmente, se-

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condo il diritto e le leggi dei popoli coloniali. Che cosa credeva? — Allora il contratto è stato stipulato secondo la legge inglese o olandese? — Faccia lei. Secondo la legge inglese o secondo quella olandese. Scelga lei. In ogni caso, secondo la legge di uno di questi due popoli civili. Con queste parole presuntuose, i pezzi di galera erano caduti da soli in trappola. Infatti l’avvocato fece la seguente constatazione obiettiva: — Le leggi inglesi e quelle olandesi proibiscono di stipulare contratti di vendita con minorenni. Il re Umbandeen è minorenne, ha solo 14 anni. Il contratto di acquisto non è valido. Gli avversari avvicinarono le loro facce da furfante, bisbigliarono, chiesero una pausa per discutere, si ritirarono in disparte, imprecarono, gesticolarono, si tranquillizzarono a vicenda e tornarono al tavolo delle trattative. — Noi abbiamo pagato. Come si conviene. Come stabilito nel contratto. In contanti. — Il re Umbandeen vi restituirà i soldi. Di fronte a noi si è già dichiarato disponibile a farlo. Prenderete i soldi e scomparirete dal suo paese. E noi faremo in modo che il re Umbandeen riabbia i suoi diritti! — Noi chi? — Britannici e Boeri. — Britannici e Boeri sono nemici. Noi siamo uniti. Tremila uomini. Il nostro possedimento è solido. Se i Britannici ci attaccano, vengono sorpresi alle spalle dai Boeri. Se sono i Boeri ad attaccarci, vengono traditi alle spalle dai Britannici. Chiunque ci attacchi, si romperà le corna e verrà trafitto alle spalle dal coltello di un popolo civile. — Errore. Britannici e Boeri non si attaccheranno l’un l’altro, se si tratta di eliminare il commercio illegale di schiavi, lo sfruttamento illegittimo delle miniere d’oro e l’occupazione illegale delle terre di Swaziland. Britannici e Boeri sono uniti. Per quanto tempo, si chiedeva B.P. segretamente, per quanto tempo saranno uniti? Esattamente tre mesi: i cercatori d’oro e i negrieri partirono dal Swaziland, non tornarono più nel sud, così insicuro per loro, e fecero prosperare la loro attività criminale nel nord del Mozambico. Dopo tre

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mesi la minaccia dell’associazione clandestina era terminata. Ma non appena il nemico comune fu sconfitto, ripresero le ostilità tra Britannici e Boeri. Tuttavia B.P. non avrebbe più vissuto in Africa gli ulteriori sviluppi della situazione. Suo zio, il gen. Smyth, venne infatti esonerato nel 1890 dal comando supremo delle truppe britanniche in Sud- Africa e nominato governatore di Malta. Ovviamente desiderò portare con sé suo nipote B.P. Raccomandazione? Anzi, il rovescio della medaglia nelle relazioni di parentela. B.P. infatti avrebbe preferito rimanere in Africa. Lo zio lo voleva con sé. Lo zio era il suo superiore. E gli ordini erano ordini. Il 1 ° marzo 1890 il generale Smyth e il maggiore Baden-Powell partirono da Port Natal diretti a Malta.

Agente segreto di Sua Maestà Malta, un piccolo arcipelago nel Mediterraneo, che si estende per circa 315 chilometri quadrati, carsico, interamente privo di vegetazione, senza boschi, senza risorse minerarie, è sempre stata una base strategica tra l’Europa e l’Africa, disputata da conquistatori della Fenicia, Bisanzio, Arabia, Roma e Normandia: a 93 km di distanza dalle coste della Sicilia e 288 km da quelle tunisine. Nel 1590 l’imperatore Carlo V diede l’isola in feudo all’Ordine dei Gerosolimitani, profughi di Rodi. Nel 1798 arrivò Napoleone Bonaparte che scacciò i Gerosolimitani, e due anni dopo le sue truppe vennero cacciate dai Maltesi appoggiati dai Britannici. Dal 1814 Malta era una colonia della Corona Britannica e base navale, e da allora migliaia di soldati di marina si annoiavano nella capitale La Valletta.

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B.P. si diede subito da fare per combattere la noia: organizzò rappresentazioni teatrali, serate canore, gare sportive e — con l’aiuto di un medico militare — il corso volontario di pronto soccorso per la truppa. Inoltre impiegò i soldati nei lavori di scavo presso le rovine e i palazzi distrutti dalle guerre, perché supponeva che sotto le macerie ci fossero ancora le testimonianze delle molteplici culture, portate sull'isola dalle potenze occupanti. I risultati furono sensazionali: una collezione di documenti culturali fenici, arabi, bizantini, normanni e romanici, soprattutto sculture e rilievi che mise in mostra nel Palazzo Sant'Antonio di La Valletta, ponendo così le basi per il museo, famoso in tutto il mondo, che venne costruito più tardi. Un giorno di maggio del 1891 B.P. fu chiamato da un attendente dei lavori di scavo e accompagnato nella sala delle conferenze, vicino al circolo ufficiali. Lì lo aspettava uno sconosciuto in borghese, che — sebbene la stanza fosse protetta dalla luce mediante le persiane — non si era tolto gli occhiali da sole, e sin dal primo momento mantenne un atteggiamento talmente riservato che B.P. pensò subito: un atteggiamento così palesemente circospetto può averlo solo un agente dell’Intelligence Service, un membro del servizio segreto britannico. In effetti, l’uomo si presentò come un inviato dell’Intelligence Service, che aveva l’incarico di consegnare a B.P. una lettera sigillata. B.P. l’aprì e lesse che doveva eseguire gli ordini comunicati oralmente dal latore del messaggio e che inoltre avrebbe dovuto mantenere il segreto più assoluto. — Letto? — chiese lo sconosciuto. B.P. annuì e immediatamente gli venne tolta di mano la lettera, strappata e bruciata in un portacenere. Poi l’uomo iniziò a recitare sommessamente un testo che evidentemente aveva imparato a memoria: — Lei è stato prescelto dal Ministero della Guerra, in base ai successi finora riscossi, per eseguire, per conto dell'Intelligence Service, delle indagini segrete in Italia, Albania, Grecia, Turchia, Bosnia ed Erzegovina riguardo alle fortificazioni, al potenziale di armi e agli effettivi. Come lei sa, la Gran Bretagna non è in guerra con i governi di quei paesi. Lì vi sono anche ambasciate della Gran Bretagna con addetti militari, che naturalmente potranno sapere e vedere solo ciò che lei dovrebbe sapere e vedere. Ora è compito suo, signore, raccogliere maggiori informazioni nelle vesti di un civile.

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Come intende farlo — questo devo dirlo — riguarda solo lei che si assume tutta la responsabilità. I governi di questi paesi non devono assolutamente scoprire che lei è un agente segreto di Sua Maestà la regina Vittoria. Le è espressamente proibito, in caso di cattura, rendere noto il suo vero nome, il suo grado di ufficiale e la sua appartenenza all’esercito britannico. Altrimenti, il nostro governo la farà passare per un imbroglione sostenendo che lei non è assoluta- mente il maggiore Baden-Powell. Lei può farsi riconoscere in qualità di agente segreto solo nelle nostre ambasciate, e anche lì solo con gli ambasciatori stessi. Solo di lì potrà trasmettere informazioni a Londra. E lì riceverà anche i mezzi finanziari per il suo viaggio. — Ma, agente segreto non è il mio... — Non ho altro da aggiungere, signore. Ho comunicato l'ordine. Il mio compito è finito. Lo sconosciuto polverizzò con un dito i resti di cenere della lettera bruciata, si alzò, fece un inchino civile e scivolò via dal circolo ufficiali, senza dare nell’occhio come quando era arrivato, irriconoscibile come un personaggio del servizio segreto. B.P. restò infastidito per quell’incarico speciale, ma cercò di fare del suo meglio: nelle vesti di un bizzarro collezionista di farfalle e botanico, attrezzato di acchiappa-farfalle, libri specializzati, matita e quaderno per appunti, si mise in viaggio. Non cercò di nascondersi, ma si arrampicava nei pressi delle diverse guarnigioni e dalle cime dei monti disegnava le fortificazioni, i campi di manovre e le posizioni dei cannoni e dei depositi di munizioni. Se gli ufficiali lo costringevano a parlare, egli mostrava loro, evidentemente pieno d’orgoglio, ciò che aveva disegnato nel quaderno: farfalle, insetti, foglie, piante. Con una modulazione simile a un bisbiglio, tipica di una persona bizzarra e originale, dava spiegazioni all’apparenza altamente scientifiche, ma del tutto incomprensibili, che inventava sul momento e che non capiva neppure lui. Confabulando, impartiva una lezione sulla presenza, in quel paese, di varietà di farfalle e piante rare, anzi uniche e sulla loro incredibile differenza dal sistema Linneo. In tali occasioni constatò uno strano fenomeno: quanto più incomprensibile era quello che diceva, tanto più intelligente lo consideravano i suoi interlocutori; quanto più importante egli appariva, • tanto più lo trattavano con timore reverenziale, e tanto meno cercavano di investigare sulla sua attività o di fare domande, per paura di

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tradire la propria ignoranza. Così a nessuno passò per la testa che i disegni delle farfalle e delle foglie in realtà non erano altro che mappe ben camuffate delle fortificazioni, guarnigioni e posizioni dei cannoni. Per due anni B.P. viaggiò nella sua zona di operazioni. Poi ne ebbe abbastanza. «Mettersi nei panni di qualcun altro provvisoriamente, per recitare una parte in teatro, è divertente. Recitare continuamente una parte, per non essere riconosciuto come agente segreto, per ingannare altre persone, non fa per me, a lungo andare», scriverà più tardi. Chiese all’Intelligence Service di essere esonerato dal suo compito e all’inizio del 1893 venne trasferito al 13° reggimento ussaro, che allora stazionava ancora in Inghilterra e tre anni dopo sarebbe stato inviato nuovamente in India.

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Dopo due anni e mezzo di vita di guarnigione e di servizio ordinario, B.P. ricevette con sorpresa l’ordine di recarsi di nuovo in Africa. Ecco come avvenne.

L'uomo dal largo cappello All’inizio di ottobre 1895 B.P. venne chiamato a Londra dal Ministero della Guerra. L’imponente Lord Wolseley — barba grigia, uniforme color cachi, sciabola e rivoltella alla cintura — lo ricevette personalmente nel suo ufficio rivestito di mogano, sotto un dipinto superdimensionale della regina Vittoria. — Una missione speciale per lei — disse Wolseley —. Deve recarsi nella Costa d’Oro (oggi: Ghana). Nell’Ashanti. Lì è tutto sottosopra. Sir Francis Scott, il comandante supremo delle nostre truppe in quel territorio, ha richiesto lei. — Non conosco Sir Francis Scott, Sir. — Ma lui conosce lei. Evidentemente lei ha la reputazione di un esperto dell’Africa. Il nome Baden-Powell è comunque tenuto in considerazione nella Costa d’Oro, nell’Africa equatoriale occidentale, sebbene lei finora sia stato impegnato solo nella costa orientale del Sud-Africa. — E la mia missione speciale, Sir? — Una faccenda delicata: gli Ashanti della Costa d’Oro dopo la guerra del 1873-1874 sono vissuti in pace con i bianchi. Ora, una porzione degli Ashanti è stata aizzata contro i Britannici dal re Prempeh. Questi ha in pugno circa la metà degli Ashanti. L’altra metà della popolazione si trova in una posizione critica nei suoi confronti. Ashanti contro Ashanti. Dobbiamo intervenire, tanto più che Prempeh ha

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un'influenza sempre maggiore, non certo a vantaggio del suo popolo. Con questo Prempeh c’è poco da divertirsi. Del resto ha solo 15 anni. — Il re dei Swazi Umbandeen aveva 14 anni quando salì al trono. Inesperto, amante della pace. E ha commesso errori. — Lo so. Però Prempeh è tutta un’altra pasta. Indubbiamente una forte personalità, che ha subito l’influenza di una madre crudele. A questo proposito devo dirle che nell'Ashanti vige il cosiddetto matriarcato. Il re rappresenta il Paese in pubblico, ma in realtà non è che il burattino di sua madre. E la madre del re Prempeh è stata una donna dalle tendenze brutali: ha fatto trucidare esseri umani come vittime di feste rituali, ha venduto membri della popolazione come schiavi e ha consumato quasi trecento mariti! — In che senso: consumato? — Ha divorziato da ognuno di loro alla sua maniera: con la decapitazione. Il marito che non le andava più a genio... — Lord Wolseley fece passare il dito indice attorno alla gola e continuò —: Uno di questi mariti era il padre di Prempeh. La madre è morta recentemente, ma il burattino nel frattempo ha sviluppato una propria esistenza. Questo figlio — allevato in maniera crudele, fissato sulla madre sin dall’infanzia — si comporta come un dittatore, sacrifica vittime umane come sempre, continua a vendere schiavi, e inoltre si presenta come un monarca con uno sviluppato senso del lusso: a Kumasi, la sua città di residenza, si è fatto fare un trono d’oro. Sembra una fantasia, ma è la verità. Del resto: il suo palazzo consiste in 333 capanne di bambù collegate l'una all’altra. Sa perché? — Forse ha 333 mogli. Tradizione di famiglia. — Ha indovinato. È sposato contemporaneamente con 333 donne. È stato gentile a non fame decapitare neanche una, fino ad oggi... — Sorprendente quello che si sa di questo re. — Un uomo pericoloso. Che ha un’influenza incredibile, per noi inspiegabile, sugli Ashanti. Un pericolo. Dobbiamo porre fine alla sua influenza. Il problema è questo: la sua città di residenza, Kumasi, si trova a quasi 300 km dalla nostra base Cape Coast Castle sulla costa, protetta dalla foresta, paludi e un intrico di fiumi. Noi non possiamo arrivarvi né con la cavalleria, né con l’artiglieria. Dovremo impiegare gli esploratori. E per questi lei è l'ufficiale adatto. Lord Wolseley si infilò una sigaretta sotto i baffi, l’accese, soffiò fuori il fumo e disse:

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— Non è il caso che le offra una sigaretta; so che lei non fuma perché il tabacco ha un effetto negativo sui nervi dell’olfatto. L’ho letto nel suo libro «Servizio di controspionaggio e ricognizione». Come vede, sono ben informato sul suo conto. Ma tornando all’argomento: il suo compito, maggiore, è di trovare il modo di liberare il popolo Ashanti dalla dittatura del capo Prempeh. Come intende farlo, riguarda solo lei, la responsabilità è tutta sua. Non ho altro da aggiungere. Good luck, maggiore Baden-Powell, buona fortuna. Quando B.P., il 13 dicembre 1895, scese a terra a Cape Coast Castle, indossava oltre alla solita divisa, uno «stetson» a tesa larga che aveva acquistato a Londra. Gli stetson erano Limitazione di moda dei cappelli da cowboy americani, e in Europa erano diventati popolari. La tesa larga sembrava particolarmente utile a B.P. per proteggersi dai raggi del sole quasi verticali nelle vicinanze dell’Equatore. A differenza della moda borghese, aveva alzato la tesa da un lato. Tale cappello era un’infrazione al regolamento circa la divisa. Ma ben presto verrà adottato da tutte le truppe coloniali e diventerà parte essenziale della divisa. Allora, nel dicembre 1895, egli era il primo a portarlo, e quando poco dopo incontrò gli Ashanti, venne soprannominato: «Katankya», l’uomo dal largo cappello.

I Krobos: associazione segreta della Costa d’oro Ora sarebbe inutile descrivere nei minimi particolari le avventure vissute da B.P. in Africa. Però alcuni avvenimenti devono essere riferiti. Infatti furono decisivi per la sua idea di fondare il grande movimento giovanile internazionale degli scouts. Al suo arrivo a Cape Coast Castle, B.P. seppe che tra le truppe britanniche vi erano solo 40 scouts addestrati ed esperti, quindi troppo pochi per accerchiare la residenza nella foresta controllata da parecchie migliaia di nemici Ashanti e per catturare Prempeh. Non gli rimase altro che aprirsi un varco nella giungla con i soldati britannici e gli Ashanti alleati, costruire ponti sui fiumi e sulle paludi, per rendere possibile lo schieramento davanti a Kumasi della cavalleria e dell’artiglieria. Lo svantaggio di questo piano: perdita di tempo. Ci sarebbero vo-

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luti mesi perchĂŠ l'artiglieria fosse sul posto. Mesi che Prempeh avreb-

be potuto sfruttare per adottare contromisure. Mesi che sarebbero costati vite umane. Infatti la voluttĂ di Prempeh di vittime umane e di commerciare schiavi non si era esaurita. Sotto la guida di B.P., Britannici e indigeni iniziarono la co-

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struzione del sentiero nella giungla. Allora gli fu dato un nuovo soprannome: «Larkwei», l'uomo a testa alta. Durante quei lavori da pioniere, B.P. constatò che la maggior parte degli Ashanti non sapevano fare nodi, mentre alcuni di loro conoscevano un completo sistema di allacciamento per mezzo di funi: non solo il semplice nodo del tessitore o il nodo rete incrociato, ma il nodo parlato o da barcaiolo usato dai marinai, il nodo del pescatore, il nodo del carpentiere, diversi nodi per legature, cappi e nodi scorsoi, addirittura legature diagonali e quadrate. B.P. cominciò a osservare quei pochi indigeni esperti nell'arte dei nodi e constatò: erano evidentemente più muscolosi, più abili, più forti, più dotati, più svelti per intelligenza e più sicuri di sé nel comportamento rispetto agli altri. E poi notò ancora qualcosa: quando si sentivano inosservati, si stringevano la mano sinistra per salutarsi. Gli altri Ashanti, invece, non si salutavano mai con una stretta di mano. B.P. ebbe un’intuizione: non poteva darsi che gli Ashanti avessero una truppa scelta, addestrata in maniera particolare, paragonabile agli scouts dell'esercito britannico? Una truppa scelta segreta, della quale i bianchi non sapevano nulla? Uno di loro, che evidentemente deteneva la carica di capo, si chiamava Ossomtse Narh. Con lui B.P. iniziò a dialogare. Ossomtse Narh dapprima rifiutò di parlare, ma poi smise di opporre resistenza e concesse la propria fiducia a B.P.: effettivamente c’era una truppa scelta tra gli Ashanti, una fraternità legata da giuramento, che si chiamava Krobos. Era composta da appartenenti agli Adansis, che all’interno della popolazione Ashanti formavano una tribù a parte. Ogni menbro dei Krobos riceveva un addestramento particolare a partire dal 10° anno di vita: nei metodi della caccia agli animali da preda, nella ricognizione e nella trasmissione di informazioni, in medicina della foresta, nell’orientamento e in altre arti di esploratore. Questi metodi erano simili a quelli degli scout britannici, in parte inferiori, in parte superiori, e talvolta anche molto superiori, perché l’antica fraternità dei Krobos per generazioni non aveva fatto altro che raccogliere esperienze nella giungla e sfruttarle. Ora B.P. vedeva la possibilità di porre fine alla dittatura di Prempeh prima del previsto: divise circa 680 Krobos della Costa d’Oro in pattuglie di cinque soldati e lasciò che scegliessero da soli il proprio capo. Poi li sottopose a un addestramento in comune assieme agli

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scout britannici, anche per uno scambio di esperienze. Così in breve tempo ottenne una truppa scelta formata da Britannici e indigeni, che egli battezzò «Special Selected Scouts»: esploratori speciali selezionati. Nessun osservatore nemico si accorse che all’inizio di gennaio del 1896 più di 700 «Special Selected Scouts» dopo aver percorso 200 km attraverso la giungla e le paludi, erano giunti alla residenza di Prempeh. Il 17 gennaio avevano accerchiato Kumasi. Prempeh s’accorse di essere in trappola quando sentì risonare nella giungla davanti alla sua residenza il rullo di un tamburo della savana, prima forte poi piano, interrotto da brevi pause: era il linguaggio dei tamburi, comprensibile solo per gli indigeni di quel territorio; telegrafia della foresta, trasmessa mediante un tamburo di pelle di elefante da Sacitey Ninye, il telegrafista dei Krobos. Il telegramma a suon di tamburo rivolto a Prempeh diceva pressapoco: la tua residenza è circondata. Arrenditi. Due ore di silenzio assoluto. Poi risonò il rullo di un tamburo dalla residenza. Prempeh

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rendeva noto che era disposto ad arrendersi. B.P. restò sbalordito quando vide il suo nemico prigioniero: un ragazzo, particolarmente delicato e piccolo di statura, il viso pieno di paura e occhi spalancati. Questo era dunque il grande dittatore! Il proprietario di un harem di 333 mogli! Un monarca che trucidava esseri umani nei sacrifici rituali e vendeva membri della tribù come schiavi. Un demagogo al quale i seguaci furono devoti fino all’ultimo! Il figlio di una madre che aveva fatto decapitare 300 mariti! Durante il viaggio di ritorno a Cape Coast Castle, nei tanti accampamenti notturni, B.P. si mise più volte a parlare con il re caduto. «Era — scrisse poi in un rapporto — un giovane molto intelligente, una forte personalità, ma, conosciuto da vicino, si rivelava del tutto deformato dall’educazione di una madre crudele e quindi incapace di pensare secondo il criterio europeo». Prima del suo viaggio di ritorno in Inghilterra, B.P. ordinò che Prempeh rimanesse prigioniero nella colonia britannica e che apprendesse il modo di pensare e i costumi dei bianchi. Tutto il resto suona come una favola: la residenza nella foresta Kumasi, grazie al sentiero nella giungla iniziato da B.P. e successivamente collegato alla Costa d’Oro, divenne una prosperosa città commerciale. Prempeh — completamente trasformato dai lunghi anni trascorsi con i bianchi — venne liberato; gli fu permesso di ritornare a Kumasi e lì di rivestire sotto i Britannici una specie di carica di sindaco. E nel 1919 Prempeh, su richiesta di B.P., diventerà membro fondatore e presidente dei giovani scouts del Ghana! Nel 1896, nel viaggio di ritorno a Londra, B.P. portò con sé la mannaia e la coppa del sangue, utilizzate da Prempeh per i suoi sacrifici umani. E grazie al suo successo in Ashanti, venne promosso colonnello. Aveva 39 anni.

Il lupo che non dorme mai B.P. avrebbe potuto risparmiarsi il viaggio in Inghilterra. Infatti, non appena sbarcò a Southampton, ricevette l’ordine di tornare in Africa con la prossima nave, questa volta di nuovo a Port Natal. Nel Matabele, a nord del Transvaal, gli indigeni avevano aggredito e in gran parte ucciso i Britannici che vivevano in fattorie solitarie e di-

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sperse. Ora minacciavano di attaccare Bulawayo, la più grande città coloniale del Matabele. Per il viaggio in nave B.P. si comprò alcuni romanzi polizieschi dello scrittore Arthur Conan Doyle, che allora cominciava a diventare popolare e più tardi si conquistò una fama mondiale. Il protagonista dei romanzi era Sherlock Holmes, un detective che sapeva il fatto suo e che risolveva i suoi casi con l'analisi delle impronte e astutissime deduzioni. Il giusto tipo di lettura per B.P. Da Port Natal B.P. cavalcò fino nel Matabele, nella città coloniale di Bulawayo. Era appena giunto, quando gli venne incontro tutta affannata la moglie di un fattore, Jane Selous, che sul suo cavallo era fuggita da nord. Quasi senza respiro, raccontò che i Matabele avevano dato fuoco alla sua fattoria e ucciso suo marito. All'ultimo momento era riuscita a scappare a cavallo verso Bulawayo. A Bulawayo nessuno si sentiva sicuro di fronte ad un attacco. Circa 10. 000 guerrieri del popolo Matabele si erano trincerati nelle vicine montagne del Matopo, un bastione di pareti rocciose e coni montuosi, difficilmente accessibili e facili da difendere. Soltanto canaloni e stretti valichi conducevano alle loro capanne, appollaiate sulle rocce come nidi di uccelli rapaci. Lassù risiedeva il capo della rivolta Matabele, uno stregone di nome Uwini, un agitatore dalla parola facile, che si definiva profeta del dio della guerra Miimo, e inoltre affermava di essere immortale. Il dio della guerra Miimo, così dichiarava, gli aveva conferito l'ordine di uccidere tutti i bianchi. I Matabele gli credevano, credevano alla sua presunta immortalità, credevano all’ordine del dio della guerra. Seguivano lo stregone ciecamente. Parecchi sintomi facevano capire che i Matabele avrebbero presto attaccato Bulawayo e trucidato i circa 1000 Britannici che vivevano raccolti colà. I soldati britannici a Bulawayo aspettavano con impazienza l’artiglieria, perché non vedevano altra possibilità di salvezza che prevenire i guerrieri Matabele, superiori di numero, sferrando un attacco e radendo al suolo le loro roccaforti sui monti Matopo. B.P. però non volle neanche sentir parlare di artiglieria con l’inevitabile massacro dei 10.000 indigeni. — Possiamo acciuffare i Matabele diversamente —, disse al maggiore Plumer, uno degli ufficiali di stato maggiore di Bulawayo.

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— Ma come? Le fortezze degli indigeni sono inespugnabili. — In un modo o nell'altro li faremo arrivare al punto di dichiararsi disposti a trattative di pace. Come, è ancora da vedersi. A questo colloquio era presente Frederic C. Burnham, un famoso esploratore nordamericano, esperto nelle relazioni con gli Indiani, che all’inizio del 1896 si era fermato per caso a Città del Capo, ingaggiato provvisoriamente dai Britannici come consulente nella lotta contro i Matabele. — Io sono della stessa opinione del colonnello Baden-Powell — disse Frederic C. Burnham —. È possibile portare giù i Matabele dalla montagna anche senza artiglieria. — Ma come? — insistette il maggiore Plumer. — Neanche io lo so ancora, ma insieme al colonnello Baden- Powell troveremo una soluzione. A partire da quel primo colloquio, una sincera amicizia legò B.P. e Frederic C. Burnham. «Mi considero enormemente fortunato — scriverà in seguito Burnham — per avere, anche se per breve tempo, conosciuto Baden-Powell. Era il migliore scout dell’esercito britannico. Possedeva notevoli conoscenze circa la ricognizione, che in parte aveva elaborato egli stesso e in parte, come diceva, aveva acqui-

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sito dagli indigeni africani, soprattutto da una truppa scelta chiamata Krobos, nell’Ashanti. Potei imparare ancora molto da lui, ma anch’egli potè apprendere da me qualcosa di ciò che avevo imparato dagli Indiani del Nord-America». Insieme, B.P. e Burnham intrapresero prolungate esplorazioni nelle montagne Matopo, dove perlustrarono il terreno, senza — per il momento — intravedere la possibilità di un colpo di mano nel nido di rocce difficilmente accessibile, fortificato e sorvegliato dei Matabele. Durante quelle ricognizioni facevano spesso discorsi confidenziali, che Burnham ricorda così: «Baden-Powell era un ufficiale che detestava la guerra. Egli rifletteva sul modo di poterla evitare. Secondo lui la migliore possibilità stava nell’educazione dei giovani. Mi raccontava che in India aveva fatto giocare insieme ragazzi britannici e indigeni, e che quei giovani, malgrado le differenze di origine, si capivano tra loro meglio degli adulti britannici e indiani. Raccontò anche del quindicenne re Prempeh, che nonostante evidenti buone predisposizioni, era diventato un dittatore assassino a causa di una educazione sbagliata. Baden-Powell mi disse: “Dobbiamo affrettarci a inculcare il bene nei giovani, la comprensione reciproca, la tolleranza nei confronti di contrasti razziali e nazionali, il desiderio di pace”. Baden-Powell paragonava gli educatori della gioventù ai giardinieri che proteggono lo sviluppo delle piante. Ma spesso mi chiedeva: “Come può un adulto conquistarsi la fiducia dei giovani? Come si può affascinare i giovani? Con quali metodi? ”. Ebbi sovente la sensazione che BadenPowell già allora — più o meno inconsciamente — fosse interessato più alla fondazione di un movimento giovanile che alla battaglia imminente contro i Matabele». Nelle vicinanze delle roccaforti Matabele, B.P. e Burnham sentirono spesso verso sera e di notte dei canti di guerra. Di continuo emergeva una parola, che gli indigeni cantavano quasi minacciosamente, tra il cupo rimbombo dei tamburi con voci sempre più acute: — Im-pee-sa... Im-pee-sa... — Cosa significa Impeesa? — chiese Burnham. — Non ne ho la minima idea. Non parlo il dialetto dei Matabele. L’enigma di quelle parole venne risolto quando una sera B.P. e Burnham catturarono una spia, che aveva ispezionato il loro accampamento e si era avvicinata di soppiatto. Il Matabele osservò B.P. e disse:

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— Impeesa. — Cosa significa? — chiese B.P. Il prigioniero parlava discretamente l’inglese: — Tu — disse rivolgendosi a B.P. — tu sei Impeesa. — Io? — I Matabele sanno: tu sei Baden-Powell. Tu sei qui, tu sei Impeesa. Frederic C. Burnham rise: — Però, colonnello, lei è una persona famosa in questo paese. Gli indigeni sanno persino che si chiama Baden-Powell, sanno che lei è qui. — Il Matabele confina con i territori degli Zulù — disse B.P. —. È possibile che qui mi conoscano. E che i Matabele abbiano in qualche modo saputo della mia presenza. Rivolgendosi al prigioniero, chiese poi: — Allora voi mi chiamate Impeesa?

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— Tu sei Impeesa. — E cosa significa Impeesa? — Il lupo che non dorme mai.

Sherlock Holmes Poco dopo, B.P. ricevette un nuovo soprannome: Sherlock Holmes. Ecco come avvenne. Durante una esplorazione, B.P. e Burnham scoprirono all’alba alcune impronte di passi nella steppa, che conducevano al quartier generale dei Matabele in direzione dei monti Matopo. B.P. scese da cavallo, si chinò e disse: — Queste erano donne. Sono sicuramente passi di donne che risalgono a circa due o tre ore fa. I fili d’erba sono ancora schiacciati. Le tracce dei passi sono però più marcate del solito. Quindi le donne portavano qualcosa. Si alzò e guardò Burnham. — Cosa avrebbero potuto trasportare di notte, nell’oscurità, due o tre ore fa? — Lo scopriremo a tutti i costi — disse Burnham. A piedi, tenendo i cavalli per le briglie, seguirono prudentemente le tracce.

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— Qui! — B.P. diede a Burnham le sue redini, sollevò una foglia da terra e la osservò pensieroso —. Una foglia dell’arbusto Mahobahoba. È caduto da poco per terra, perché non è ancora appassito, è quasi fresco. Chi l’ha portato qui? A perdita d’occhio non ci sono arbusti Mahobahoba. Gli arbusti di questo tipo più vicini crescono 12 km a nord di qui, in una boscaglia. Lì si trova anche un villaggio dei Matabele, nel quale ora vivono solo donne. Non c’è dubbio: la foglia viene da li. Deve avere qualcosa a che fare con le donne che sono passate di qua. Ma cosa? Attorcigliò la foglia tra le dita e annusò: — Birra! La annusi, Burnham. La foglia odora di birra. E ora mi è tutto chiaro: i rami degli arbusti Mahobahoba vengono posti dagli indigeni sui vasi di terracotta per tenere al fresco la birra. Le donne quindi hanno portato la birra nei boccali ai loro uomini sui monti Matopo. E da uno di questi recipienti, che le donne usano portare sul capo, il vento ha soffiato via una foglia. Annusi anche lei, Burnham, è birra, senza ombra di dubbio. — Birra sì, ma strana — disse Burnham, arricciando il naso —. Che sapore ha questo intruglio? Non sarà qualcosa di speciale? — Non l’ho ancora bevuta. Ma so che la birra degli indigeni diventa rapidamente acida. Perciò deve essere bevuta il più presto possibile, al massimo quattro o cinque ore dopo la preparazione. Di qui ai monti Matopo ci si mette un’ora a piedi. Due ore fa le donne sono passate di qui. Indubbiamente hanno portato la birra al quartier generale dei Matabele, quindi allo stregone Uwini e ai membri più intimi del suo stato maggiore. Uwini e i suoi uomini avranno subito ingoiato la birra, e ora sono brilli. Forse dormono anche. In ogni caso sono annebbiati, disattenti e assonnati. Infatti la birra degli indigeni è forte e, come tutti sanno, rende presto spossati. Quindi questa foglia — B.P. la gettò in aria — ci dice che abbiamo un’occasione unica per assalire di sorpresa il quartier generale dei Matabele e catturare Uwini. — Sherlock Holmes — rise Burnham —, Sherlock Holmes in carne e ossa! Quello che seguì è presto raccontato: B.P. e Burnham galopparono a Bulawayo, presero quattro squadre di cavalleria, tornarono con tali rinforzi sulle tracce delle donne e lasciarono i cavalli fuori del campo visivo dei monti Matopo, in un boschetto. Poi seguirono strisciando le tracce e giunsero veramente inosservati e senza intoppi su

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una rupe del Matopo, di solito attentamente sorvegliata, dove sorpresero nel sonno Uwini e i suoi capi più importanti e li catturarono.

Lo stregone Uwini — basso di statura, piuttosto anziano, solo pelle e ossa — ebbe bisogno di un po’ di tempo per smaltire la sbornia. Appena riacquistata la lucidità mentale, annunciò anche ai Britannici di essere immortale e di aver ricevuto dal dio della guerra Miimo l’ordine di uccidere tutti i bianchi. B.P. ora sperava che i guerrieri Matabele in rivolta — visto che avevano perduto il loro capo — si sarebbero presto arresi. Inviò due parlamentari con bandiere bianche sui monti Matopo per proporre ai nuovi capi un’offerta di pace. La fine del conflitto Matabele gli sembrava solo più questione di tempo. Guerra e carneficina sarebbero state evitate. Ma B.P. aveva sottovalutato l’influenza dell’immortale. I parlamentari tornarono verso sera. Le loro figure si profilarono davanti al sole del tramonto. Da nord-ovest avanzava un temporale. Lampi all’orizzonte. Tuoni in lontananza. — Allora? — chiese B.P. quando i parlamentari scesero di sella. — Niente da fare — disse uno di loro —. I nuovi capi sono in balia dello stregone. La loro combattività è intatta. Ci hanno detto chiaro che attaccheranno Bulawayo. Vogliono vendicarsi e liberare Uwini. La situazione è più pericolosa di prima. — La cattura di Uwini non li ha impressionati, irritati? Non ha spezzato la loro resistenza? — Neanche un po’. Essi credono alla sua immortalità, al suo contatto con il dio della guerra Miimo, anche se «il profeta» è stato catturato. — Avete detto loro che faremo giustiziare Uwini? — Certo! — E allora? — Ci hanno riso in faccia. Per loro è impossibile uccidere Uwini. Né pallottole, né pugnali, né frecce o lance potrebbero fargli del male. Signore, mi permetta un'osservazione: finché Uwini è vivo, i Matabele crederanno alla sua immortalità. Finché credono alla sua immortali-

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tà, crederanno anche al suo contatto con il dio della guerra Miimo. E finché credono a questo contatto, nessuno può trattenerli dall'eseguire l’ordine del loro dio della guerra: uccidere tutti i bianchi e attaccare Bulawayo. Iniziava a cadere una pioggia leggera. Il temporale si spostò da nord-est verso Bulawayo e poi in direzione sud. Sotto la pioggerella, B.P. attraversò la piazza d’armi, le braccia incrociate, il capo chino. Doveva decidere da solo sul da farsi. Nessun ufficiale poteva aiutarlo, nessuno poteva sottrargli la responsabilità. La responsabilità per 1000 Britannici a Bulawayo. La responsabilità anche per i 10. 000 guerrieri Matabele, che sotto l’influenza, si direbbe diabolica, dello stregone erano pronti a lanciarsi contro il fuoco dei cannoni. Ci sarebbe stata una carneficina per entrambe le parti. Ma c’era una possibilità di evi-

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tare il massacro. «Finché Uwini è vivo — aveva detto uno dei parlamentari —, i Matabele crederanno alla sua immortalità». Fino a quel momento opporranno resistenza. La morte di Uwini sarebbe la prova che lo stregone non è immortale. I Matabele si arrenderebbero. B.P. si sforzò di prendere una decisione che gli ripugnava profondamente: l’attacco che immineva gli dava la possibilità di applicare il diritto bellico. Poteva fare processare Uwini dalla corte marziale, farlo condannare a morte per omicidio e sobillazione, e farlo giustiziare. Quella stessa notte. Senza perdere tempo. Spegnere una vita umana per salvarne migliaia? Un problema d’aritmetica, semplice e crudele. L’esecuzione capitale in base alla legge marziale si poteva effettuare solo dietro ordine dell’ufficiale più elevato di grado. E l’ufficiale più elevato di grado era il colonnello Baden-Powell. Spettava a lui decidere. B.P. mandò a chiamare di nuovo i due parlamentari: — Cavalcate ancora una volta fino ai monti Matopo. Sì, subito. Dite ai nuovi capi dei Matabele di venire. Gli concediamo il salvacondotto, parola d’onore. I due parlamentari presero i cavalli e galopparono nella notte. La corte marziale — convocata da B.P. in tutta fretta — condannò Uwini alla fucilazione. All’alba tornarono i parlamentari con cinque capi Matabele. Uwini venne messo al muro. Un plotone d’esecuzione si schierò. Poi echeggiò l’ordine: «Fuoco! ». I cinque capi Matabele si avvicinarono al cadavere dello stregone che credevano immortale. Lo osservarono a lungo. Poi si diressero verso i loro cavalli. In silenzio tornarono indietro. Il giorno dopo erano pronti alla resa. Dopo la conclusione delle trattative di pace, regalarono al «lupo che non dorme mai» il corno di un’antilope Kudu, che i Matabele usavano come corno per i segnali. In seguito una commissione d’inchiesta dell’esercito britannico esaminò la regolarità della corte marziale e dell’esecuzione. Giudicò che «il colonnello Baden-Powell era giustificato dalla situazione di guerra e dalla minaccia costituita dall'imminente attacco a Bulawayo all’impiego del diritto bellico, e che aveva agito giustamente».

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Giuridicamente ineccepibile, strategicamente funzionale, creò tuttavia in B.P. un conflitto di coscienza, un problema umano tormentoso. Amici e ufficiali a Bulawayo raccontarono che era notevolmente avvilito e che si mostrava poco socievole. B.P. stesso non ne parlò mai. Più tardi, capi scout, pedagoghi e psicologi discuteranno questo episodio tentando di chiarire in che misura si fosse trattato di un avvenimento chiave, di un’esperienza che avrebbe influito in maniera decisiva sulla maturazione di B.P. Molti di essi — ad esempio il dr. Laszlo Nagy, segretario generale dell’associazione mondiale scout — saranno dell’opinione che quel conflitto di coscienza portò B.P. a sviluppare ulteriormente le sue idee sul mantenimento della pace e infine a metterle in pratica. Ma non siamo ancora arrivati a quel momento. Siamo ancora nell’anno 1896, B.P. è ancora un ufficiale britannico. Alla fine del 1896 lasciò l’Africa.

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La guerra dei Boeri Durante il viaggio di ritorno in Inghilterra, B.P. scrisse un nuovo libro di addestramento per gli scouts militari: Aids far Scouting (Aiuti per gli scouts), nel quale espose le sue esperienze di esploratore con i Krobos e i metodi di ricognizione indiani di Frederic C. Burnham. Inviò il manoscritto a Lord Wolseley. «Chiedo — scrisse in una lettera di accompagnamento — che il manoscritto venga esaminato per una pubblicazione destinata all’uso del servizio militare e — se l’esito dell’esame sarà positivo — che il mio libro “Servizio di controspionaggio e ricognizione”, ormai invecchiato e superato, venga ritirato». Prima di sapere se Lord Wolseley avesse accettato la sua proposta, venne trasferito in India, nella guarnigione di Meerut, dove praticò l’addestramento degli scouts secondo i nuovi metodi e dove suscitò ancora l’entusiasmo generale per le recite teatrali. In quel periodo, Winston Churchill, il futuro primo ministro, allora tenente, di ventitré anni, si trovava in India in qualità di inviato militare. Conobbe B.P. in occasione di una delle tante rappresentazioni teatrali e scrisse a tale proposito: «La cosa migliore fu una canzone vivace con danza di un ufficiale della guarnigione, che indossava la smagliante uniforme di un ussaro austriaco. Ero entusiasta dello spettacolo, che sarebbe stato un vanto per qualsiasi buon teatro di Londra. Si diceva: questo è Baden-Powell, un uomo straordinario, un ottimo sportivo e ufficiale, che farà ancora molta strada. È un colonnello e non si vergogna a cantare e danzare davanti ai suoi subalterni. Fui felice di fare la conoscenza di quella versatile celebrità». Nel 1898 B.P. venne nominato generale di divisione dal comandante supremo britannico in India... ma solo per quattro giorni. Infatti, quattro giorni dopo la sua promozione giunse un telegramma dal ministero della guerra di Londra che annunciava che essa doveva essere revocata con la seguente motivazione: il colonnello Baden- Powell, nonostante i suoi meriti, era ancora troppo giovane per la carica di generale di divisione. B.P. aveva allora 41 anni. Gli amici raccontarono che non lo avevano mai visto ridere tanto quanto per quella baggianata militare. Poco dopo a B.P. passò la voglia di ridere. In Sudafrica stava infatti accadendo proprio ciò che aveva sempre temuto: Britannici e Boeri si preparavano alla guerra. E al ministero della guerra venne de-

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ciso di inviare immediatamente nelle zone in crisi il tanto stimato esperto dell’Africa colonnello Baden-Powell.

In trappola Quando il 14 luglio 1899 B.P. giunse in Sudafrica, la situazione era già critica. Dappertutto vi erano scontri, combattimenti sanguinosi tra Britannici e Boeri. La guerra era nell’aria, si fiutava già l’atrocità e la putrefazione. B.P. dovette ricorrere a un procedimento rapido per addestrare due reggimenti di fanteria a cavallo nelle città di Bulawayo e Mafeking, secondo il metodo scout. Il suo quartier generale era Mafeking, una importante posizione chiave dei Britannici, deposito di munizioni, centro per l’approvvigionamento dei viveri, stazione terminale e deposito di materiale dell'appena costruita ferrovia, a metà strada tra la Colonia del Capo e il Matabele, situata proprio al confine con il Transvaal. I Boeri avevano saputo del suo arrivo in Sudafrica, e fecero ogni sforzo per catturare il pericoloso «lupo che non dorme mai» ancora prima dello scoppio della guerra. B.P. notò che durante le sue cavalcate tra Bulawayo e Mafeking era costantemente seguito da cavalieri sconosciuti che tentavano di tendergli un agguato per circondarlo. Una volta si nascose per lasciar avvicinare ancora di più gli inseguitori e scoprire chi aveva alle calcagna. A distanza ravvicinata potè vedere e sentire che una pattuglia speciale di Boeri lo inseguiva, capeggiata — quale onore! — da un uomo in uniforme da generale, il «generale Botila», come lo chiamavano i soldati. Questo generale usava dei metodi che erano ben noti a B.P. e di cui egli stesso si sarebbe servito in un inseguimento. B.P. non riusciva a liberarsi dal sospetto che il generale Botha avesse letto il suo libro per l’addestramento degli scouts dell’esercito britannico: «Servizio di controspionaggio e ri- cognizione», sospetto che si rivelerà fondato molti anni più tardi. Senza le esperienze acquisite nel frattempo nei rapporti con i Krobos e con lo scout americano Burnham, B.P. si sarebbe trovato più volte in difficoltà. Ma grazie ad esse riuscì sempre a giocare un tiro al generale Botha. Viveva la caccia a inseguimento più che altro come una specie di gara sportiva.

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B.P. si trovava proprio a Mafeking, quando l’11 ottobre 1899 giunse la notizia telegrafica dello scoppio ufficiale della guerra, e quasi contemporaneamente 9000 Boeri armati fino ai denti sotto la guida del famoso generale Cronje, tanto temuto dai Britannici, accerchiarono la città. «Il lupo che non dorme mai» era in trappola. In trappola erano anche le truppe britanniche nelle città di Lady smith e Kimberley, dove altrettanto immediatamente dopo la dichiarazione di guerra si erano schierate le potenti unità dei Boeri. Ai tre comandanti delle città assediate giunse dal quartier generale britannico l’ordine telegrafico di opporre resistenza in tutti i modi possibili e di non arrendersi. Così, finché i Boeri dovevano impie 121 gare le loro truppe per l'assedio delle città, non potevano penetrare nel Natal e nella Colonia del Capo. Per i comandanti delle città di Ladysmith e Kimbcrley era relativamente semplice fronteggiare la situazione, perché disponevano di un numero di difensori quasi uguale a quello degli assedianti. Invece la difesa di Mafeking sembrava proprio senza speranza: contro i 9000 attaccanti, al comando di B.P. c'erano solo 700 soldati britannici, rinforzati in maniera insignificante da circa 300 civili, per lo più uomini di una certa età e ferrovieri che sapevano usare discretamente il fucile. Inoltre, si trovavano a Mafeking molte donne, giovani, bambini e qualche indigeno. L’assediante, il generale Cronje — che gli indigeni definivano «il leone del Transvaal» — era consapevole della sua notevole superiorità e credeva di avere buon gioco sull'avversario. B.P. comprese che l’unica soluzione per difendersi era quella di ingannare il generale nemico simulando una quantità di difensori molto maggiore a quella reale. Perciò fece costruire in gran fretta centinaia di spaventapasseri che, muniti di finti fucili di legno, vennero collocati nelle trincee, e di tanto in tanto venivano mossi dai soldati, in modo da sembrare in carne e ossa. Utilizzando le trebbiatrici, scatole di conserve e la lamiera dei vagoni ferroviari, fece costruire mostri simili a cannoni, che tuttavia avevano un grande svantaggio: non potevano sparare... Fece interrare in casse di sabbia una grande quantità di razzi dei fuochi d’artificio, petardi, razzi matti, pallottole traccianti e razzi giocattolo, che erano stati immagazzinati per i fuochi della notte di Capodanno, e li faceva accendere di notte davanti alle mura cittadine, per far credere ai Boeri che quello fosse un campo minato e far loro temere gravi perdite in caso di attacchi.

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Il reticolato di filo di ferro teso dagli assedianti per fare inciampare non si poteva tirare nella città, che era a corto di fil di ferro. Ma B.P. lo simulò ugualmente ordinando ai suoi soldati di farsi vedere di tanto in tanto, alla domenica — che secondo la tradizione di quei tempi era un giorno in cui non si combatteva — davanti alle mura cittadine e di fingere di scavalcare prudentemente i fili di ferro o persino di inciampare. Inoltre faceva cambiare di nascosto le posizioni dei soldati, in modo che comparissero una volta qui, una volta lì, di giorno e di notte, affinché il generale si convincesse a poco a poco che le sue informazioni riguardo ai 700 difensori erano false e che B.P. disponeva di una capacità di difesa molto più consistente. Cronje poteva anche temere che i Britannici — con il loro notevole potenziale umano — facessero un tentativo di liberazione. Divise quindi i suoi 9000 soldati attorno alla città e non rischiò di concentrarli per un attacco. B.P. invece era pronto a rischiare quando si trattava di ingannare il generale Cronje. Il 16 ottobre un ufficiale Boero si avvicinò alla città con la bandiera bianca per parlamentare; B.P. fece subito ritirare tutti i 700 soldati dalle mura cittadine e li schierò nelle immediate vicinanze. Ai confini della città c’erano solo più spaventapasseri! Il parlamentare dell’accampamento boero ovviamente credette che le mura della città fossero sorvegliate e quindi rimase sbalordito nel vedere che 700 soldati stavano incuriositi nelle vicinanze del comandante, come se non avessero niente da fare, come se non fossero per niente utilizzati per la difesa. — Signore — disse il parlamentare a B.P. —, vengo per ordine del generale Cronje. Vi comunica: arrendetevi. Consegnate la città! B.P. inarcò annoiato le sopracciglia e chiese: — Perché? Il parlamentare attese ancora qualche istante, alzò le spalle, salutò e tornò dai Boeri, dove riferì che Mafeking era piena di difensori: — Si immagini, generale, attorno al bungalow del comandante della città, Baden-Powell, ci sono 700 soldati e non sanno cosa fare. Lo stesso giorno i Boeri iniziarono a sparare su Mafeking con i cannoni.

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I ragazzi di Mafeking Nel frattempo, i Boeri avevano fatto saltare le linee telegrafiche interrompendo la trasmissione delle informazioni, ma solo per breve tempo. Infatti B.P. addestrò degli indigeni di Mafeking nello scautismo e affidò loro l’incarico di attraversare di notte le linee nemiche per consegnare messaggi alle truppe britanniche più vicine, che erano in contatto telegrafico con il quartier generale. Di lì, tornavano indietro di soppiatto con le notizie. I messaggi, scritti su minuscoli fogli di carta, venivano messi dentro palline di mollica di pane: in caso di cattura, potevano essere ingoiati. Uno dei messaggeri riferì da Città del Capo la notizia che forze armate dall’Inghilterra, guidate da Lord Roberts e dal generale Mit123 chener, stavano arrivando in Sudafrica, e avevano ricevuto l'ordine da Lord Wolseley di liberare prima Kimberley, poi Ladysmith e per ultima Mafeking. Infatti Wolseley riteneva che il colonnello Baden-Powell, da lui stimato profondamente e nel frattempo definito suo «protetto», fosse capace della resistenza più ostinata. Secondo questo piano non si poteva prevedere la liberazione di Mafeking prima del maggio del 1900. B.P. dovette prepararsi a un lungo assedio e gli venne l’idea di impiegare tutti i ragazzi da dieci anni in su per i compiti più semplici. In tutto erano 18 ragazzi che egli — secondo lo sperimentato sistema dei piccoli gruppi — divise in pattuglie di cinque guidate da un capo liberamente scelto tra loro. Il comandante del drappello era anche lui un ragazzo. Si chiamava Goodyear. Dapprima B.P. incaricò i ragazzi di trasportare a piedi o in bicicletta delle lettere ufficiali e private all'interno della città. Per queste lettere l’ispettore delle poste di Mafeking aveva fatto stampare per scherzo nella tipografia locale dei francobolli con il ritratto del comandante della città Baden-Powell, infrangendo così una legge dell’epoca, secondo la quale solo le teste dei regnanti in carica potevano essere raffigurate sui francobolli. B.P. però eliminò quei francobolli con il suo ritratto e ne fece stampare di nuovi che rappresentavano un ciclista del gruppo giovanile di Mafeking. I Boeri spararono sulla città per mesi senza attaccarla. Alla fine di febbraio tuttavia B.P. dovette fare i conti con una nuova strategia del nemico. Un indigeno di Mafeking, che già più volte si era avvicinato

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di soppiatto ai Boeri e aveva origliato i loro discorsi, tornò con la notizia che il generale Cronje era stato sostituito, «per insuccesso», e proprio dal generale Botha! A Mafeking alcuni burloni facevano dello spirito: «Il leone del Transvaal si è rotto le corna con il lupo che non dorme mai». B.P. era preoccupato. Il generale Botha: era l’uomo che aveva tentato di catturarlo prima dell’inizio della guerra; un uomo da considerare di gran lunga più pericoloso del generale Cronje; uno stratega che sembrava conoscere molto bene i metodi scout. A B.P. venne di nuovo in mente che il generale Botha avesse letto il suo libro di scautismo «Servizio di controspionaggio e ricognizione». Che ne era del nuovo manoscritto «Aiuti per lo scautismo», che in più conteneva le esperienze dei Krobos e dello scout americano Bumham? Chissà se Lord Wolseley lo aveva consigliato come manuale... Ma ora B.P. non poteva preoccuparsi di questo. Tutta la sua attenzione era rivolta alla minaccia rappresentata dal generale Botha. Mobilitò i soldati solo per la difesa e affidò ai giovani di Mafeking tutti gli altri incarichi fino a

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quel momento sbrigati dall’esercito: dovevano portare ordini scritti, viveri, armi e munizioni fino alle guardie preposte alla difesa davanti alle mura cittadine, portare in salvo i feriti e aiutare gli infermieri. — Voi siete responsabili delle vostre azioni — disse ai giovani —. Potete anche sbagliare, perché un uomo che non ha mai sbagliato, non ha mai fatto nulla. Dapprima non si sentì molto tranquillo nell’affidare ai ragazzi dei compiti da adulti; ma poi constatò con sua sorpresa che essi, lasciati a se stessi, erano tanto efficienti, abili e responsabili quanto gli adulti. Nessuno di loro commise errori gravi, nessuno si trovò mai in serio pericolo, nessuno venne mai ferito o ucciso. «La dimostrazione di efficienza dei giovani di Mafeking rappresenta una delle esperienze più impressionanti di quel difficile periodo», scriverà più tardi B.P.

Attacco e liberazione All’inizio di marzo, B.P. ricevette tramite un messaggero la notizia che Lord Roberts e il generale Mitchener con l’esercito di spedizione avevano liberato le truppe britanniche assediate a Kimberley il 15 febbraio e quelle a Ladysmith il 1° marzo. Ora Roberts e Mitchener marciavano in direzione di Mafeking. La liberazione sembrava imminente. Ma tardò ad arrivare. Infatti i Boeri fecero di Mafeking una questione di prestigio. L’esercito di spedizione non doveva assolutamente raggiungerla. E Mafeking doveva cadere, senza riguardo per le perdite. Il generale Botha venne ritirato da Mafeking e nominato comandante supremo di un potente esercito boero, che si sarebbe scagliato contro Lord Roberts e il generale Mitchener. Il comando degli assediami di Mafeking passò al generale Snyman, un tipo impetuoso e risoluto, che ordinò l’attacco senza esitazioni. B.P. stava seduto nella veranda del suo bungalow, quando risonò il campanello di una bicicletta. Poco dopo un ragazzo sfrecciò da dietro l’angolo, saltò giù dalla bicicletta e — mentre la bici tintinnava al suolo — comunicò ansimando la notizia: — Messaggio dalle sentinelle di difesa a ovest: circa 1000 Boeri stanno attaccando! — 1000 Boeri? Solo 1000? Sei sicuro? Non ti sei sbagliato?

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— Devo riferirvi per conto del colonnello Hore: 1000 soldati attaccano da ovest. — Bene. Allora pedala con gli altri ragazzi di Mafeking lungo le mura della città e da’ a tutti il seguente ordine: tutti i soldati disponibili immediatamente verso est. — Ma... Ho capito bene...? — Verso est! Tutti a est. Presto! A est! Il ragazzo saltò sulla bicicletta e pedalò via. B.P. cavalcò con 50 soldati di una truppa appostata permanentemente nelle sue vicinanze, «truppa per intervento eccezionale», verso ovest, dove 1000 Boeri avevano già scavalcato le mura cittadine e catturato gli 80 difensori lì collocati. Quando giunse, stavano proprio disarmando i prigionieri. B.P. reagì fulmineamente: indietreggiò con i suoi 50 cavalieri, accerchiò i Boeri tenendoli in scacco da alcuni nascondigli. I prigionieri britannici capovolsero la situazione e disarmarono a loro volta i Boeri. Poco dopo, un ragazzo di Mafeking arrivò di corsa sulla sua bicicletta, affannato, e disse a B.P.: «Messaggio dalla posizione di difesa a est: attacco dei Boeri a est. Evidentemente attacco principale. Molte migliaia di uomini». — I nostri soldati sono già lì? — Sì, tutti concentrati a est! I Boeri avevano progettato di effettuare prima un attacco diversivo con 1000 soldati a ovest, in modo che la difesa si concentrasse lì e poi — sempre secondo il loro piano — di travolgere la parte orientale della città solo debolmente difesa. Però B.P. aveva intuito il piano e concentrato la difesa a est, proprio a causa dell’attacco da parte di 1000 soldati a ovest! In questo modo riuscì a respingere l’attacco principale e a tenere la città. Quando B.P. tornò al suo bungalow, vi incontrò il colonnello Hore, che gli volle presentare il comandante dei 1000 Boeri catturati a ovest: un giovane con capelli e barba neri, alto come un gigante, che appariva molto depresso. B.P. osservò il prigioniero... e non credette ai suoi occhi. Era Sarei Eloff, nipote del presidente Boero Paul «Ohm» Krüger! — Buona sera, Eloff — disse B.P. —. Arriva giusto in tempo per la cena. Si accomodi.

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L’eroe di guerra dato per morto In quel periodo, fuori dei confini di Mafeking B.P. era dato per morto. Secondo le dicerie era caduto vittima di un subdolo attentatore nella città. In Inghilterra apparivano già dei cauti necrologi. Immaginarsi quindi la sorpresa quando l’esercito di spedizione la sera del 16 maggio 1900, liberando la città dopo 217 giorni di assedio, trovò il comandante in piena salute. Attraverso linee telegrafiche create in fretta e furia, i corrispondenti di guerra inviarono telegrammi in tutto il mondo, e in Inghilterra scoppiò un giubilo senza uguali. Solo allora si venne a sapere che «l'intera difesa si era basata su un puro e semplice bluff, e che i Boeri avrebbero potuto prendere la città senza particolare abilità. Ma non è stata solo l’intelligenza a salvare Mafeking, anche il cuore aveva avuto la sua parte in quei lunghi, pericolosi 217 giorni di assedio. Il comandante della guarnigione, il colonnello Baden-Powell, era veramente un uomo di spirito e di cuore». Così diceva il rapporto di un corrispondente di guerra. I giornali inglesi pubblicarono edizioni straordinarie sulla liberazione di Mafeking e sull’incredibile capacità di resistenza dimostrata dal comandante della città Baden-Powell. La gente camminava per le strade delle città inglesi gridando in coro il suo nome. Davanti alla casa di sua madre si raccoglievano masse di persone esultanti. E Winston Churchill — che, come è già stato detto, a quel tempo era corrispondente di guerra — scriverà su «Great contemporaries»: «In quei giorni, la fama di Baden-Powell in Inghilterra superò quasi ogni altro esempio di riconoscimento pubblico. Gli Inglesi guardavano alla sua persona come all’eroe di guerra tanto atteso. Persino le persone che disapprovavano la guerra non poterono fare a meno di riconoscere la lunga, abile, tenace difesa di Mafeking contro un esercito di assedianti di notevole potenza». Però anche gli invidiosi si fecero sentire: «Avventuriero» lo chiamavano alcuni, «un ufficiale che ha semplicemente fortuna, che altrimenti è del tutto mediocre». E quando si venne a sapere che per scherzo a Mafeking — all’insaputa di B.P. — erano stati stampati dei francobolli con il suo ritratto, allora ci fu qualcuno che lo chiamò spaccone megalomane, un deficiente vanitoso che si attribuiva la popolarità di un capo di stato. Nello stesso tempo, molti suoi nemici cer-

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carono di procurarsi quei francobolli che B.P. stesso aveva ritirato dalla circolazione e di conseguenza erano diventati rari, per trarne dei profitti.

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LO SCAUTISMO

«Non voglio essere un eroe di guerra» Ritorniamo a Mafeking, nella piccola città di frontiera, dove B.P. — come disse Churchill — divenne «l’eroe di guerra» dell’Inghilterra. La gioia più grande per B.P. fu quando subito dopo la liberazione gli comparve davanti un maggiore britannico che lo salutò con esagerata rigidezza e poi scoppiò in una risata. — Baden! — urlò B.P. Corse incontro al maggiore dandogli amichevolmente dei pugni allo stomaco —. Baden, com’è possibile? Come stanno a casa, come stanno la mamma e gli altri? Il maggiore era Baden Baden-Powell, suo fratello più giovane di lui di tre anni, che nel frattempo era diventato ufficiale di stato maggiore presso il generale Mitchener. — A casa stanno bene! La mamma non ha mai creduto alle voci che correvano sulla tua morte. Anche gli altri stanno bene. — Vieni! B.P. lo condusse al suo bungalow; situato su di una piccola altura, offriva un’ampio panorama sulla città distrutta dai fuochi dell’artiglieria. — Che pazzia — disse B.P. Attraverso il telaio della finestra privo di vetri, fissò per alcuni secondi il paesaggio di macerie e poi si rivolse a Baden: — Siediti, faccio portare del tè. — Adesso è tutto finito — disse Baden. — La guerra non è ancora finita. — Ma per te l’assedio è finito. Ce l’hai fatta. È cosa passata. E tu in Inghilterra sei popolare quasi quanto la regina. Sei diventato un eroe di guerra. Tutti gli ufficiali ti invidiano. — Eroe di guerra! Io non voglio essere un eroe di guerra. Per me la guerra è il certificato di incapacità dei politici. Questa guerra continua. Mentre noi stiamo qui seduti, la gente si spara a vicenda. Per cosa? Credimi, Baden: per quanto fosse duro e difficile, in questa guerra contro i Boeri ho preferito fare il difensore anziché l’attaccante. No, non voglio essere un eroe di guerra! Di una simile po-

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polarità posso proprio fare a meno. — Tu non sei diventato popolare in Inghilterra solo come eroe di guerra, ma anche come autore di best seller. Autore di libri per la gioventù. — Stai scherzando? Un soldato portò due tazze, una teiera, versò il tè nelle tazze e uscì. — Non sto scherzando, B.P. Il tuo libro «Aiuti per lo scautismo» è diventato un best seller. — Cosa? Io ho scritto quel testo per l'addestramento militare degli esploratori! L’ho inviato a Lord Wolseley pregandolo di farlo pubblicare per l’esercito e di ritirare dalla circolazione il libro «Servizio di controspionaggio e ricognizione», che nel frattempo era diventato vecchio e superato. — Lo so, Lord Wolseley lo ha fatto pubblicare come libro di addestramento per l’esercito britannico. Ogni ufficiale e ogni recluta lo deve leggere. Lettura obbligatoria per i soldati. E poi accadde l’incredibile: chissà come, alcuni giovani — figli dei soldati probabilmente — si ritrovarono tra le mani questo libro. Divenne famoso. Le vendite aumentarono, divennero centinaia di migliaia. Dovettero ristamparlo continuamente. Oggi sono più i ragazzi che i soldati a conoscere gli «Aiuti per lo scautismo»! — Ma è un libro per i soldati! — È diventato un libro per ragazzi. I ragazzi in Inghilterra giocano secondo il tuo manuale. B.P. si alzò e guardò la città distrutta. Nuvole grige si avvicinavano da ovest. Presto sarebbe piovuto. Disse: — Questa è l’ultima cosa che volevo: che dei ragazzi adoperassero un libro di addestramento per soldati — per giunta scritto da me — come guida per i loro giochi. — Non inquietarti. Siediti di nuovo. Non giocano mica alla guerra. — A che cosa allora? — Siediti! Giocano all’orientamento, per esempio. Escono dalle città per andare in campagna, nei boschi, sulle coste, con bussole e cartina, si prefiggono una mèta e marciano in quella direzione, per giorni, fino a che non la raggiungono. Durante le soste si accampano. Accendono dei bivacchi senza incendiare i boschi, cuci-

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nano alla griglia i loro pasti sulla brace, proprio come è descritto nel tuo libro. Seguono le tracce di caprioli, volpi e lepri, si arrampicano sugli alberi e si costruiscono dei posti d’osservazione. Per divertirsi costruiscono dei ponti sui ruscelli, persino sui fiumi. Sono diventati dei veri meteorologi, infatti ascoltano il gracidio delle rane e interpretano i segni naturali prima del cambiamento di tempo, proprio secondo i tuoi insegnamenti. Utilizzano i segnavia degli scouts, trasmettono le loro notizie mediante l’alfabeto Morse oppure con certe tecniche di cifratura, che tu hai consigliato nel tuo libro. Hanno elaborato tutta una serie di giochi, gare e cose simili, che si basano su conoscenze precise delle tecniche scout. Giocano a tutto fuorché alla guerra. E per questo si servono, è davvero strano, del tuo libro per lo scautismo militare. Ehi! Ma mi stai ascoltando? — Altro che. — Sembri del tutto assente. — Sto riflettendo. Penso di aver trovato la chiave.

La chiave — Puoi esprimerti meno misteriosamente? — Fai attenzione, Baden: mi sono sempre chiesto come si possano evitare le guerre, questo orrore, questa pazzia. A quanto pare gli adulti non ci riescono. Non riescono a liberarsi dei pregiudizi dovuti alle differenza di razza, religione e nazionalità, alla povertà e alla ricchezza. Non si comprendono tra di loro. Ci sono quasi solo dissidi, nessuna comunanza tra adulti di origini diverse. In India, quando ero dislocato a Lucknow, mi sono reso conto di questo per la prima volta. Perciò ho fatto incontrare i figli e le figlie dei Britannici con quelli degli Indiani, per giochi, danze, feste e spettacoli teatrali in comune. Ed ecco: i giovani si capivano tra loro meglio degli adulti, non c’erano differenze di razze, religioni e nazionalità, di povertà e ricchezza. Sono convinto: oggi i ragazzi di allora che sono cresciuti si comprendono tra di loro meglio dei coetanei che nella loro infanzia hanno giocato solo con bambini del loro stesso ambiente. — Ti credo sulla parola. Ma cosa c’entra questo con la chiave di cui parlavi prima? Ignorando la domanda, B.P. continuò:

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— Qui a Mafeking ho affidato a ragazzi sopra i dieci anni dei compiti e delle responsabilità che generalmente vengono assegnati soltanto agli adulti. E cosa è successo? I ragazzi hanno eseguito i loro incarichi come se fossero adulti, hanno dimostrato un senso di responsabilità pari a quello degli adulti. Era sorprendente. — Sorprendente davvero. Forse è stata la situazione di emergenza a renderli così maturi? L’assedio? — No, posso raccontarti un caso simile. In India ho sentito parlare di un ragazzo di dodici anni, un indigeno proveniente da non ricordo più quale zona della giungla, che era di gran lunga superiore ai nostri soldati per quanto riguarda le arti dell’orientamento e della ricerca delle tracce. Venne definito «un ragazzino cosciente del proprio valore». Mi ricordo anche: il ragazzo aveva imparato la lingua inglese, sebbene nessuno lo avesse incoraggiato a farlo, creando i presupposti per una futura carriera. Autostima, tenacia di propositi, senso di responsabilità, queste erano le caratteristiche più evidenti del giovane cercatore di orme. — Logico per un ragazzo che è cresciuto nella giungla! Se è capace a leggere le orme e a rispettare l’orientamento, allora la sicurezza di sé e la risolutezza possono svilupparsi molto bene. — E i giovani in Inghilterra? I ragazzi della grande città? Perché vanno in campagna? Perché giocano all’orientamento e a cercare le orme? — Ma anche tu eri attirato dalla natura, hai partecipato a grandi escursioni con i nostri fratelli maggiori, Warrington, George e Frank. Mi ricordo: allora ero troppo piccolo e non potevo venire. Quando sono cresciuto, ho fatto anch’io delle gite nei boschi con gli amici, perché ero rimasto affascinato dal vostro esempio. — Ora arriviamo al nocciolo della questione: il mio libro «Aiuti per lo scautismo» fornisce proprio tali sollecitazioni! Offre una guida per l’orientamento, la ricerca delle orme, la trasmissione delle informazioni, le osservazioni e molteplici attività nella natura. Ma per soldati. Ogni soldato deve leggerlo, deve imparare, deve passare l’esame. E ora i ragazzi vogliono questo libro! Ragazzi che non sono obbligati a leggerlo, non sono obbligati a studiarlo, che non devono sottoporsi a nessun esame. Questi ragazzi leggono il libro di propria iniziativa! Giocano all’orientamento, a leggere le orme, a trasmettere le informazioni e cose simili. Di propria iniziativa!

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— È così. Credimi, l’ho constatato a Londra: i ragazzi non si possono frenare. Niente attira il loro interesse quanto il tuo libro. Tutti gli altri libri per ragazzi, tutti gli altri giochi vengono dimenticati. Ma ora dimmi, che cosa intendevi dicendo che hai trovato la chiave? — Te lo spiegherò subito, Baden. Lasciami dire ancora una cosa: ho più volte pensato — e ne ho parlato anche con lo scout americano Burnham — che il modo migliore per evitare la guerra è di inculcare nei giovani l’amore per la pace, di non lasciar nascere tra loro i contrasti dovuti alle differenze di razze, religioni, nazionalità e classi sociali. E mi sono chiesto come si possa entusiasmare i giovani per questa idea, come si possa affascinarli, come si possa conquistare la loro fiducia. Con la teoria non va. Che dire della pratica? Dove sta la chiave per un sistema pedagogico? — Intendi dire che la chiave si trova nello scautismo? — Chiaro. Mi chiedo solo: perché? — Una volta mi dicesti — mi ricordo, eravamo entrambi molto giovani —, che nella natura riuscivi a pensare più liberamente che nella città, che il tuo spirito di osservazione, le tue sensazioni si affinavano molto più di quanto fosse possibile a Londra. — Mi ricordo. L’ho constatato anche più tardi, durante l’addestramento degli scouts militari nella natura. — Allora: educazione nella natura! — Non può essere solo questo. Mi chiedo: perché i giovani sono così affascinati dall’orientamento, dalla lettura delle orme e cose del genere? Sembra così semplice. In questi giochi deve esserci qualcosa di più profondo. Forse bisognerebbe prendere queste constatazioni come qualcosa di scontato, rielaborarle adeguatamente e poi non pensarci più. Ma fa’ attenzione. Mi viene in mente proprio la definizione di orientamento: l’orientamento non è altro che perseguire una mèta su di una direzione determinata, costantemente controllata e corretta attraverso il paesaggio, e raggiungerla. Questo può essere affascinante per un giovane, un gioco avvincente. E se egli ha sperimentato da giovane il successo di un tale gioco di orientamento, allora anche da adulto controllerà e correggerà nella vita privata come in quella professionale la giusta linea del suo comportamento umano, non si metterà sulla cattiva strada e non perderà d'occhio il suo obiettivo. Anche in altri metodi scout può esserci un significato profondo del genere. Trovi che questa interpretazione sia troppo pretenziosa?

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— Per niente! Un paio d’anni fa ti avrebbero deriso per una tale spiegazione. Ma proprio in questi ultimi tempi — tu non puoi saperlo, perché eri relegato a Mafeking — c’è un medico di Vienna che fa parlare di sé e che cerca di individuare tali concatenazioni e di spiegarle. Egli parla di reazioni dell’inconscio. Si chiama Sigmund Freud. La sua teoria è ancora contestata. È ancora all’inizio. Ma credo che le sue idee saranno rivoluzionarie, anche per l’educazione dei giovani. Si potrà riconoscere molto meglio il valore profondo del gioco. Si troveranno forse le chiavi per nuovi... già, ecco la parola misteriosa: chiavi. — È quello che pensavo: che lo scautismo possa essere la chiave di un nuovo metodo pedagogico. Devo riflettere ancora parecchio a questo proposito. Cambiare molte cose. Ma io credo che questa sia la chiave per affascinare i giovani. Migliaia e centinaia di migliaia di giovani! La chiave per un grande movimento giovanile, impegnato al mantenimento della pace, una fraternità senza differenze di razza, provenienza, credenze religiose, classi sociali. Credimi, Baden: proprio ora capisco che questa idea occupava i miei pensieri già da parecchio tempo. Solo che non ne ero direttamente consapevole. Era nascosta in me, senza che io... si, insomma, come posso dire? — Era nel tuo inconscio — disse Baden ridendo —. Così si esprimerebbe Sigmund Freud. E ora è affiorata. Forza, B.P., sviluppa la tua idea!

Scopo, principi, metodo Le idee gli vennero con estrema facilità. Era come se per tutta la vita non avesse pensato ad altro che ad una grande fratellanza internazionale di giovani. Aveva le idee chiare su ciò che voleva realizzare. Il movimento scout deve essere un movimento educativo per i giovani, volontario, non politico, aperto a tutti, senza distinzioni di provenienza, razza o credenza religiosa. Scopo del movimento scout deve essere quello di contribuire allo sviluppo dei giovani, in modo che essi possano impiegare interamente le loro capacità fisiche, intellettuali, sociali e spirituali, come personalità, come cittadini responsabili e come membri di una comunità locale, nazionale e internazionale. Tre principi dovevano essere i pilastri del movimento giovanile.

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Primo principio: impegno verso Dio, inteso come rispetto dei principi spirituali di una professione di fede e fedeltà alla religione alla quale lo scout appartiene. Secondo principio: impegno verso il prossimo. Con questo si intende: fedeltà verso il proprio paese, ricerca della pace nazionale e internazionale e comprensione dei popoli, collaborazione nell'evoluzione della società, prestando una particolare attenzione alla dignità del prossimo e all'inviolabilità della natura. Terzo principio: impegno verso se stessi, responsabilità per lo sviluppo positivo della propria personalità. B.P. intendeva il metodo scout come un sistema di auto- educazione progressiva con quattro punti: 1. Lo scout fa una Promessa, con la quale si impegna a vivere secondo il motto scout e la legge scout. (Promessa, motto scout e legge scout verranno spiegati nel prossimo capitolo). 2. Lo scout «impara facendo». L’espressione inglese «learning by doing», coniata da B.P. per la prima volta, significa appunto «imparare facendo», oppure «imparare con l’esperienza» e rappresenta oggi un concetto fondamentale della pedagogia. 3. Lo scout è membro di un piccolo gruppo, all’interno del quale l’autosufficienza, la fermezza di carattere, il senso di responsabilità, la fiducia in se stessi e la coscienziosità si sviluppano nel modo migliore. 4. Allo scout viene offerto un programma progressivo e interessante di svariate attività: giochi, gare sportive, attività manuali ingegnose, servizio nell’ambito della comunità, eccetera. Questo programma deve essere svolto a stretto contatto con la natura e l’ambiente. Questi gli scopi essenziali che B.P. — li anticipiamo qui — è riuscito a realizzare in pieno e che oggi corrispondono alla definizione ufficiale di scautismo.

Giglio, motto, promessa e legge Questi obiettivi generali dovevano però essere ancora sostenuti da idee che avrebbero reso lo scautismo particolarmente interessante e affascinante per i giovani. Ed ecco: anche queste idee — basate sulle

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esperienze della sua vita — scaturirono da B.P., come se pensasse per la prima volta alla fondazione di un grande movimento giovanile. Si ricordò di una esperienza che risaliva a quando aveva dodici anni: a quel tempo, durante le sue visite negli slums di Londra, aveva notato che i ricchi e i poveri si riconoscono a prima vista dal loro abbigliamento. Ora voleva studiare una specie di divisa per i suoi scouts, un'uniforme uguale per tutti, adatta per lo sport e per il gioco, che non permettesse più di riconoscere se un ragazzo proveniva da una famiglia povera o ricca. Questa divisa doveva dimostrare l’appartenenza dello scout alla grande fraternità. Come sarebbe stata questa divisa, B.P. doveva ancora pensarci. B.P. volle risvegliare e rendere operante lo spirito comunitario di tutti gli scouts in diversi modi: ad esempio, per mezzo di un simbolo, un distintivo da portare sulla camicia della divisa scout e sulla fibbia della cintura, oppure come spilla da appuntare. Non dovette riflettere troppo a lungo: l’ago della bussola — che sempre gli aveva indicato la strada giusta per raggiungere la mèta — aveva a quel tempo la forma di un giglio. Per questo il giglio, che tra l’altro è il simbolo della purezza, divenne il distintivo scout. Di questo giglio fece un disegno. Sotto il giglio disegnò un nastro con le estremità rivolte verso l’alto. Dovevano simboleggiare la bocca sorridente di uno scout. Su quel nastro scrisse «Be prepared», «Estote parati», «Sii preparato», il motto di tutti gli scouts, che gli venne subito in mente. Il senso di questo

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motto è che uno scout deve preoccuparsi di essere sempre fisicamente e spiritualmente sano e pronto a compiere il suo dovere. B.P. volle introdurre come altro segno di comunanza una promessa, paragonabile all’accollata nella cerimonia di investitura di un nobile nel Medioevo, che doveva essere fatta in un contesto solenne.

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Eccone il testo: «Con l’aiuto di Dio prometto sul mio onore di fare del mio meglio per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio Paese, per aiutare gli altri in ogni circostanza e per osservare la legge scout». La legge scout menzionata nella promessa venne formulata da B.P. in questo modo: 1. Lo scout pone il suo onore nel meritare fiducia. 2. Lo scout è leale. 3. Lo scout si rende utile e aiuta gli altri. 4. Lo scout è amico di tutti e fratello di ogni altro scout. 5. Lo scout è cortese. 6. Lo scout ama e rispetta la natura. 7. Lo scout sa obbedire (il concetto di obbedienza comprende lo spirito critico e il senso di responsabilità). 8. Lo scout sorride e canta anche nelle difficoltà. 9. Lo scout è laborioso ed economo. 10. Lo scout è puro di pensieri, parole e azioni.

Saluto, fischio e sistema di squadriglia Come ulteriore simbolo di fraternità, tutti gli scouts per salutarsi fanno un segno particolare con la mano: alzano la mano destra con il palmo rivolto in avanti fino all’altezza delle spalle. Il pollice si posa sul mignolo come gesto simbolico che significa: il forte protegge il debole. Le tre dita tese verso l’alto ricordano i tre punti della promessa. Inoltre, durante il saluto gli scouts si stringono la mano sinistra,

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come i Krobos, il gruppo scelto degli Ashanti, sulla Costa d’Oro. Le forme di saluto sono nello stesso tempo segni di riconoscimento degli scouts tra di loro. B.P. pensò anche a un segnale acustico di riconoscimento: compose il fischio scout, oggi conosciuto da tutti i membri della grande comunità:

La suddivisione organizzativa degli scouts era chiara a B.P. sin dall’inizio: la base sarà il sistema di squadriglia, che egli aveva sperimentato con successo a Lucknow per la prima volta e che poi aveva sempre più perfezionato. Doveva solo armonizzare il sistema delle pattuglie praticato dai soldati con le necessità dei giovani. L’effetto pedagogico, poi, sarebbe stato lo stesso.

Capo di una squadriglia non deve essere un superiore gerarchico,

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ma un ragazzo leggermente più anziano e maturo, un tipo in gamba che goda della stima dei più giovani. B.P. adoperò a questo proposito — con qualche leggera modifica — il sistema del «fagmaster», che aveva sperimentato negli anni di scuola al Charterhouse- College. Tante squadriglie vengono guidate da un adulto, preparato a svolgere il ruolo di «capo scout» in appositi centri di formazione del movimento scout. Ciascun gruppetto deve tenere un giornale di bordo, nel quale si possa rileggere ciò che si è vissuto, imparato ed elaborato durante le riunioni. I giornali di bordo sono generalmente diari nautici prescritti dalla legge, con annotazioni riguardanti la rotta, la velocità e avvenimenti particolari. Scopo del giornale di bordo degli scout è di fornire informazioni sulla rotta che un piccolo gruppo segue nel suo sviluppo.

Totem, buona azione, patrono e Jamboree Ogni squadriglia deve scegliersi un totem. Gli animali totem sono venerati dagli indigeni come divinità protettrici demoniache, le cui caratteristiche vengono considerate esemplari. L’animale totem di un gruppetto naturalmente non ha niente a che vedere con le divinità demoniache. Però B.P. era dell’idea che i giovani dovessero indagare sulle abitudini di vita dell’animale totem da loro scelto, per creare un legame più stretto con la natura. Egli sviluppò un’idea particolare, affinché lo scout si ricordasse dei suoi doveri verso il prossimo, e specialmente di essere disponibile, ogni giorno: consigliava di fare ogni giorno una buona azione. Come modello per tutti gli scouts e patrono della grande comu-

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nità, B.P. scelse san Giorgio, «l’unico cavaliere tra i santi», come lo definiva. B.P. riteneva che la cavalleria e la fede in Dio fossero degli importanti presupposti per la formazione del carattere: «Colui che non crede in Dio non vale molto. Perciò ogni scout deve appartenere a una comunità religiosa». A quale comunità religiosa appartenere è una scelta del singolo. Infatti la tolleranza nei confronti delle altre credenze religiose era per B.P. una delle norme fondamentali. Tra le norme più importanti c’era anche la tolleranza nei confronti delle usanze degli altri paesi. B.P. era convinto che la comprensione reciproca tra i membri di diverse nazioni e di ambienti culturali opposti avrebbe favorito un atteggiamento pacifico. Questa comprensione però — secondo l’esperienza che B.P. aveva fatto con i ragazzi britannici e indiani a Lucknow — si può raggiungere meglio organizzando

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incontri tra giovani di diversi paesi, di diverse razze e comunità religiose. Perciò gli scouts dovrebbero intraprendere il più spesso possibile dei viaggi all’estero — «crociate per la pace», come scrisse B.P. — e incontrarsi ogni quattro anni per un raduno scout mondiale. Per questo raduno mondiale gli venne subito in mente un nome: Jamboree. Lo aveva sentito dire dagli indigeni. Il termine stava a significare un «incontro pacifico delle tribù». Oggi i Jamborees sono famosi in tutto il mondo. Vi partecipano ogni quattro anni fino a 50. 000 scouts provenienti da 118 nazioni. Tuttavia queste idee di fondo, a cui B.P. aveva pensato dopo la liberazione della città assediata di Mafeking, non bastavano. C’era ancora molta strada da percorrere. Anzitutto lo preoccupava il fatto che dei giovani leggessero così entusiasticamente il suo libro di addestra-

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mento militare «Aiuti per lo scautismo»: un libro di scautismo per soldati, un manuale per il servizio militare scout. Ma egli voleva accattivarsi il favore dei giovani per la pace. Quindi doveva affrettarsi a scrivere al più presto un libro che i giovani avrebbero letto più volentieri di «Aiuti per lo scautismo»: un libro scout per la gioventù, una guida per il gioco dello scautismo. Infatti «lo scautismo — sono parole di B.P. — è un gioco eccellente, se impieghiaino tutte le nostre forze e se lo affrontiamo nel modo giusto e con entusiasmo». Ciò che avrebbe scritto in questo libro lo sapeva già. Sapeva anche come l’avrebbe intitolato: Scouting for Boys. Solo non sapeva quando avrebbe trovato il tempo per scriverlo.

Udienza dal re C’era ancora la guerra, gli uomini morivano ancora sui campi di battaglia, B.P. non aveva ancora trovato il tempo per fondare un movimento giovanile che si impegnasse per la pace. In seguito al successo ottenuto a Mafeking, B.P. venne promosso generale di divisione: il più giovane dell’esercito britannico. Aveva 43 anni. «Raccomandato», si diceva in giro; «avventuriero», urlavano alcuni invidiosi; «troppo giovane per rivestire tale carica», affermavano altri. Ma questa volta la promozione, ordinata da Lord Wolseley personalmente, non venne più revocata. Nel corso della guerra, B.P. aveva avuto spesso come nemico il generale supremo dei Boeri de Wett, e di tanto in tanto anche il generale Botha, un nemico a cui paradossalmente era legato da vincoli di amicizia. Anche il generale Botha sembrava che nutrisse simpatia per B.P. «Le nostre ostilità — scriverà più tardi B.P. — si basavano, se così si può dire parlando di guerra, sulle regole della lealtà sportiva. Ciascuno cercava di comportarsi in modo che dopo la guerra ci si potesse riconciliare». Appena quattro mesi dopo la liberazione da Mafeking, B.P. venne ritirato dal fronte e gli fu affidato un incarico che richiedeva un grande talento organizzativo e capacità d’immedesimazione psicologica. Doveva fondare in Sudafrica un corpo di polizia a cavallo di circa 10. 000 uomini e addestrarli entro un anno: la cosiddetta S. A. C. (South

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African Constabulary). Durante la guerra, in caso di necessità, le unità della S. A. C. dovevano entrare in azione, soprattutto però come truppe d’occupazione nei territori conquistati per mantenere l’ordine. B.P. aveva completa libertà d’azione. Secondo un sistema già collaudato, fece in modo che i poliziotti si autoaddestrassero in piccoli gruppi, agendo in maniera indipendente e consapevoli delle loro responsabilità. — Pensate — diceva sempre nei suoi discorsi — che la conclusione della pace, come spero, è vicina. Nei confronti dei Boeri, oggi ancora nemici, comportatevi nei territori occupati in modo che dopo la conclusione della pace possa subito aver inizio una comune ricostruzione delle terre devastate. Britannici e Boeri dovranno poter collaborare amichevolmente, di comune accordo. Create già da ora i presupposti, create già da ora la fiducia nella popolazione, che ancora ci considera nemici. Cercate di conquistarvi la loro amicizia. Per favorire questa iniziativa, B.P. ideò una divisa che distinguesse chiaramente la sua polizia sudafricana di pubblica sicurezza dai militari: calzoni sportivi alla cavallerizza con stivali, come quelli indossati per il gioco del polo, camicie aperte color cachi, foulards, comode giacche e cappelli a tesa larga e circolare, che riparavano bene dal sole. Un cappello simile a quello che portava lo scout americano Burnham. I cappelli vennero acquistati in America e trasportati in Sudafrica. Quando arrivarono, si trovò che portavano incise in metallo le iniziali B.P., cioè il nome della marca «Boss of thè Plains». Una coincidenza del tutto casuale, ma naturalmente ci furono persone che accusarono B.P. di vanità e lo definirono un gradasso vanitoso e insaziabile, che ora — dopo aver fatto stampare il suo ritratto sui francobolli di Mafeking — aveva anche il culto per le iniziali del suo nome. Per B.P. invece la coincidenza di tali iniziali cadeva giusto a proposito. Corrispondevano infatti anche al motto «Be Prepared» «Sii preparato» —, che aveva pensato per i giovani esploratori e che ora consigliava anche alla S. A. C. Molti anni dopo, la divisa non militare della polizia sudafricana divenne famosa in tutto il mondo come divisa degli scouts. Solo che i ragazzi indossavano dei pantaloncini corti invece dei pantaloni alla cavallerizza. Quando nel 1901 morì la regina Vittoria, il suo successore, il re

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Edoardo VII, volle subito conoscere personalmente l’eroe di guerra di Mafeking. B.P. tornò in Inghilterra, e si recò al Castello di Balmoral in uniforme di gala da generale, e stupì il monarca con la sua proposta di fondare un movimento giovanile impegnato per la pace. — Per questo compito — disse l’eroe di guerra — dovrei però essere esonerato dal servizio militare. Il re Edoardo VII promise un esame benevolo della situazione, «ma per il momento — concluse — siete indispensabile come generale. Nel Sudafrica c’è ancora la guerra». B.P. tornò in Sudafrica e quando, il 7 luglio 1902, venne finalmente conclusa la pace, egli fu il primo a tendere la mano ai Boeri per la riconciliazione: propose di far entrare i generali dei Boeri più esperti — fra i quali il generale Botha — nella S. A. C. come comandanti! Questa proposta, che sembrò sbalorditiva e da molti fu definita «idea balorda», venne realizzata e si rivelò pionieristica per la normalizzazione del Paese. Infatti i Boeri consideravano ormai la S. A. C. come la «loro» truppa di pubblica sicurezza, nonostante fosse sempre sotto il comando supremo del generale di divisione Baden-Powell. In breve tempo la S. A. C. svolse un’attività veramente benefica. Già nel 1903 il ministro coloniale di allora, Joseph Chamberlain, annunciò al Parlamento britannico: «Attribuisco alla S. A. C. la massima importanza... degno di lode è il contatto amichevole che è riuscita a creare. Si può constatare di continuo che i poliziotti sono legati ai coloni da sincera amicizia, soprattutto attraverso le azioni di soccorso immediato. Rendendo piccoli servizi si guadagnano l’affetto e la fiducia della popolazione: recapitano lettere e pacchi, danno informazioni e consigli e appianano le discordie tra la gente. Mi hanno raccontato di un giudice che si lamenta di sentirsi quasi inutile nella sua onorevole carica, perché quelli della S. A. C. appianano tutte le discordie prima ancora che finiscano in tribunale». Il verbale registrò a questo punto «risate benevole» in Parlamento.

Il primo campo scout Ora B.P. sperava di trovare il tempo per fondare il movimento scout e poter finalmente scrivere il libro Scouting far boys. Ma fu proprio il suo successo a mandare a monte i suoi piani.

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La polizia a cavallo da lui fondata si distinse a tal punto che politici e militari vollero organizzare l’intera cavalleria britannica secondo tale metodo. Ovviamente, per quel compito nessuno era più adatto di B.P. Perciò nel 1903 venne nominato ispettore generale della cavalleria di tutto il Regno Unito; così ebbe ancora meno tempo di prima. Per quattro anni viaggiò di guarnigione in guarnigione, dapprima in Inghilterra, poi in India, in Africa e in tutti i territori coloniali della Corona Britannica. Solo nel 1907 — quando la cavalleria era diventata un’arma rimodernata secondo le sue concezioni — avanzò nuovamente la richiesta di essere esonerato dal servizio militare. Ma Lord Wolseley non voleva rinunciare del tutto a B.P. Accettò soltanto una specie di pensionamento a metà: B.P. era esonerato dall’incarico di ispettore generale della cavalleria, ma doveva rimanere generale in carica ed essere a disposizione delle truppe territoriali dislocate in Inghilterra in qualità di istruttore e consulente. Però avrebbe avuto il tempo sufficiente per la fondazione del movimento scout. Seguendo il suo temperamento, B.P. mise subito in pratica le idee già da tempo maturate. Radunò 22 giovani di diversi strati sociali, provenienti da castelli principeschi, case borghesi e dagli slums di Londra, figli di aristocratici, milionari, politici, stallieri, manovali e disoccupati. Con essi il 15 luglio 1907 partì su una barca a remi dal

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porto della città inglese di Poole diretto a Brownsea, un isolotto situato proprio di fronte alla costa, che allora era disabitato e selvaggio come l’isola di Robinson nell’Oceano Pacifico. Lì iniziò il primo campo scout. La storica bandiera di Mafeking — presa in prestito dal museo dell’esercito — sventolava sopra le tende. Al mattino B.P. svegliava i ragazzi con il suono di un corno hudu, che i capi dei Matabele gli avevano donato dopo la conclusione delle trattative di pace. Per 25 giorni B.P. mise in pratica il programma educativo del movimento scout. «Il reparto di ragazzi — scriverà più tardi a questo proposito — venne diviso in pattuglie di cinque elementi. Il più anziano divenne capo pattuglia. Questa suddivisione in piccoli gruppi fu il segreto del nostro successo. Ogni capo pattuglia era pienamente responsabile del comportamento del suo gruppo in ogni momento e per tutta la durata del campo. La pattuglia costituiva un’unità-base per l’istruzione, il lavoro e il gioco. Ogni pattuglia era accompagnata in un posto diverso. I ragazzi si impegnavano sul loro onore ad eseguire ciò che veniva loro ordinato. In questo modo veniva stimolata la responsabilità e un sano spirito di rivalità. Ogni giorno si faceva un buon addestramento di

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base per l’intero reparto, che veniva così progressivamente esercitato nelle tecniche dello scautismo». Il 9 agosto i ragazzi tornarono dall’isola di Robinson: erano i primi giovani esploratori che avevano pronunciato la promessa scout, bruciati dal sole, carichi di fiducia in se stessi, liberi da orgogli di classe. I giornalisti diffusero in tutta l’Inghilterra la notizia del successo di quel campo scout. Anche allora ci fu chi si scagliò contro: gli invidiosi affermavano che l’eroe di guerra di Mafeking, l'ex- ispettore generale delle truppe di cavalleria britannica, il generale sovraccarico di onorificenze, altro non era che un fanatico perditempo; gli snobs imprecavano contro B.P. perché faceva vacillare le distinzioni sociali dominanti. Ma la maggior parte degli inglesi, soprattutto i giovani, si mostrarono entusiasti di B.P. e del suo metodo scout. Uno dei suoi seguaci fu l’editore Pearson, che creò un giornale scout intitolato «The Scout» e spronò B.P. a scrivere articoli. L’offerta cadeva proprio a puntino per B.P., che voleva porre mano al suo libro Scouting for Boys il più presto possibile. Così si decise a redigere gli articoli per «The Scout» in modo tale che — anche se pubblicati a puntate — potessero alla fine venir riuniti in un libro. Scrisse tali articoli in un vecchio mulino del Wimbledon Common di Londra, dove nello stesso tempo allestì il quartier generale del movimento scout. Scrisse in una forma sciolta, comprensibile, stile chiacchierate al fuoco del bivacco. Presentava il suo programma educativo con racconti di avventure e stimoli per giochi avventurosi. Nel 1908 questi articoli vennero raccolti nel libro Scouting for Boys, che divenne immediatamente un best seller, e in seguito, tradotto in tutte le lingue più diffuse, si rivelò il più prezioso strumento pedagogico del nostro secolo. Il numero della tiratura attuale non è più accertabile. In ogni caso si tratta di milioni di copie.

«Un ragazzo non può stare chiuso in casa» Subito dopo la comparsa del libro in Inghilterra, il movimento scout si diffuse in misura tale che sorprese persino B.P., che pure era abituato al successo. I giovani fondavano ovunque, secondo i suoi consigli, pattuglie e associazioni scout, pronunciavano la promessa

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scout e — vestiti con calzoni corti, camicie color cachi, fazzolettoni e cappelli da esploratore — costituivano un quadro caratteristico sia in città come nella campagna. Winston Churchill, futuro primo ministro, ricorderà nelle sue memorie: «Subito dopo (la comparsa del libro) vedevamo dappertutto, nei giorni di vacanza, piccoli reparti e gruppi di scouts, grandi e piccoli, che fiduciosi marciavano nei boschi e nei parchi, portavano zaini sulle spalle oppure tiravano carretti a mano con il materiale da campeggio. Dappertutto guizzavano i fuochi dei bivacchi di un nuovo gigantesco esercito, che non aveva nemici, e la cui avanzata non si arresterà mai, finché il sangue scorrerà nelle vene dei giovani». B.P. non dormi sugli allori del successo. Si accinse subito a comporre una nuova serie di articoli sulla rivista «The Scout», per capi scout, per capi pattuglia e anche per «Scoutmasters» adulti, che sarebbero stati responsabili di più pattuglie. Ai capi pattuglia, ad esempio, B.P. consigliò: «Se lo scout ha im-

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parato a capire cos’è il suo onore, tu in qualità di capo pattuglia puoi avere piena fiducia che eseguirà bene gli incarichi. Affidagli un compito, non importa se per breve o lungo tempo, e pretendi da lui che lo svolga meglio che può. Non spiare per vedere come lo fa. Lascia che agisca a modo suo, lascia, se necessario, che si lamenti, ma in ogni caso lascialo solo e abbi fiducia che farà del suo meglio». Ciò che B.P. scrisse per gli «Scoutmasters» adulti suona come una sfida contro il sistema educativo arretrato di allora: «So per esperienza che i ragazzi hanno un proprio mondo, un mondo che costruiscono per se stessi. Né l’insegnante, né le ore di scuola fanno parte di quel mondo. Nonostante gli insegnanti e i genitori, i ragazzi rimangono fedeli al loro mondo. Obbediscono alla propria legge, anche se è una legge del tutto diversa da quella che viene loro insegnata dai genitori o a scuola. Preferiscono subire un martirio da parte di adulti incomprensivi, anziché infrangere le proprie leggi. Per questo noi adulti dobbiamo adeguare le nostre esperienze e le nostre conoscenze in modo che vengano afferrate e accettate dai giovani. Quindi è ora di abbandonare gli inefficaci metodi educativi che appartengono al passato e armonizzarli con l’evidenza dei fatti. Perché gli adulti vanno contro corrente, come hanno sempre fatto fino ad ora, quando è invece molto più semplice seguire la corrente, che scorre nella giusta direzione? Un ragazzo non è un animale da scrivania, non è un topo di biblioteca, né un filosofo o un casalingo. Egli è — Dio lo benedica per questo — colmo di voglia di divertirsi, di rischiare, di provare emozioni, di curiosare e di lottare. Se non lo è, allora è degenere. Il nostro compito è quello di guidare in un giovane queste incoercibili tendenze nella giusta direzione, soprattutto la sua voglia di lottare. Questo si realizza nel modo migliore con la competizione, secondo le leggi della lealtà sportiva e con la lotta costruttiva. Sì, anche questa. Intendo la lotta costruttiva contro la miseria, la fame, l’analfabetismo, contro la povertà, l'intolleranza, l’incomprensione. Anche la disponibilità — se sufficientemente energica — non è altro che lotta, lotta per il bene. Se riusciamo a guidare nella giusta direzione il desiderio incontestato di lottare che c’è in un giovane, allora abbiamo sfruttato in maniera positiva la forza del tutto normale e indomabile

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che c’è in lui».

«L’acchiappatopi di Hameln» Lo scautismo passò come un turbine sull'antiquata pedagogia di quel tempo. Nessuno stupore se i giovani — e molti adulti — erano entusiasti di B.P., il fondatore, e divennero a schiere seguaci del metodo scout. «L’acchiappatopi di Hameln» lo chiamarono perciò alcuni osservatori, invidiosi del suo successo... ma solo fino al 1909. Poi le accuse velenose cessarono improvvisamente. Infatti in quell’anno il re Edoardo VII si assunse la protezione del movimento scout. Il paragone con i topi e gli acchiappatopi non sembrò più opportuno agli invidiosi. Il 1909 portò una bella serie di sorprese. B.P. intraprese un viaggio nell’America del Sud, e quando giunse in Cile, c’era una schiera

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di ragazzi ad aspettarlo, in camicia color cachi, con fazzolettoni al collo e cappelli da esploratore. — Ehi! Chi siete voi? — chiese B.P. — Siamo scouts cileni. Ciò significava che i ragazzi si erano fatti inviare il libro Scouting for Boys e avevano fondato di propria iniziativa gli «Scout del Cile». B.P. ricevette la loro promessa scout e li dichiarò membri fondatori del primo gruppo scout oltre i confini dell’Inghilterra. Nello stesso anno due pattuglie scout inglesi si recarono in Germania. Nel 1909 B.P. organizzò due grandi campi scout in Inghilterra e un raduno scout nel Palazzo di Cristallo di Londra, con 11.000 partecipanti. Lì, con sua sorpresa, incontrò ragazze che indossavano camicie color cachi, fazzolettoni, cappelli da esploratore e gonne. — È incredibile! — esclamò B.P. —. Cosa vedo? Potete spiegarmi perché indossate la divisa scout? — È molto semplice, Sir Baden-Powell, siamo giovani esploratrici: Girl Scouts. Scouts in Inghilterra, scouts nei territori coloniali, scouts all’estero... e ora anche le giovani esploratrici! Per B.P. l’organizzazione del movimento scout diventò un lavoro a tempo pieno, una vocazione che lo assorbiva completamente. Ormai doveva abbandonare definitivamente la sua attività di generale, per quanto non lo impegnasse più come un tempo. Perciò richiese nuovamente un esonero definitivo dal servizio militare. Questa volta la sua domanda fu accettata da tutti. Il re Edoardo rispose alla richiesta di congedo con una lettera personale: «L’organizzazione del movimento scout è il servizio più prezioso che possiate rendere al nostro Paese». Il 7 maggio 1910 B.P. andò ufficialmente in pensione. E dovette creare una direzione generale degli scouts, con impiegati e segretarie, un vero e proprio ufficio, che si occupasse dell’organizzazione dello scautismo. Da tutte le parti gli comunicavano che erano stati fondati gruppi scout, in ogni continente, in quasi tutti i paesi più grandi, e per questo decise di fare un lungo giro del mondo, che lo avrebbe portato a incontrare i giovani scouts in Giappone, Australia, Nuova Zelanda, nelle Indie occidentali, in Sudamerica, negli Stati Uniti e in Panama. Il 3 gennaio del 1912 salì su una nave a Southampton... e fu colpito, come scrisse egli stesso, «da una bomba di un genere del tutto nuovo, in mezzo al cuore».

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Una bomba nel cuore del generale in pensione La vicenda è narrata dallo stesso B.P. «La mia vita era sempre stata così piena che non avevo mai avuto il tempo di pensare ad altre cose, per esempio al matrimonio. I miei migliori amici mi stuzzicavano spesso per questo motivo, e mi rimproveravano di essere uno scapoione incallito. Rispondevo che nessuna donna avrebbe avuto voglia di sposarmi, ne ero sicuro. Ma essi ribattevano: “Prima o poi capiterà anche a te tra capo e collo, come a tutti gli altri”. E in effetti fu così. Ma prima devo raccontare un antefatto. Studiando l'arte di leggere le tracce, constatai che dalle impronte di una persona, e quindi dalla sua andatura, si poteva perfino dedurre il suo carattere. Un giorno del 1910, non lontano dalla caserma di Knightsbridge, vidi di spalle una giovane donna, con un cane pezzato marrone scuro. Non vidi il suo volto, ma la sua andatura rivelava in modo evidente caratteristiche di sincerità, buon senso e vivacità. Due

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anni più tardi, quando salii a bordo per il mio giro del mondo, a Southampton, vidi — ancora di spalle — una donna la cui andatura non mi era nuova. Era la padrona del cane che avevo visto due anni prima. A bordo potei rivolgerle la parola e le chiesi: — Lei ha un cane pezzato bianco e marrone? — Sì — rispose lei stupita. — Lei per caso — continuai a chiedere — non è passata tempo fa nelle vicinanze della caserma di Knightsbridge con il suo cane? — Sì, ma molto tempo fa... due anni circa — rispose». Quella giovane donna, snella, scura di capelli, piuttosto alta, stava compiendo anch'essa con i suoi genitori — suo padre era un fabbricante di birra — un giro del mondo. Il suo nome era Olave St. Clair. Aveva 22 anni, nata il 22 febbraio 1889 — esattamente lo stesso giorno 32 anni dopo B.P., che allora aveva 55 anni. La differenza di età per ambedue non contò nulla. Si fidanzarono ancora sulla nave e si sposarono subito dopo il ritorno, il 30 ottobre 1912, a Parkstone, una piccola parrocchia nella contea di Dorset. — Non intendo — così salutò B.P. i suoi ospiti in occasione delle nozze — dire per ordine i vostri nomi, perché nel frattempo avete già fatto conoscenza tra di voi. Ma c’è una persona a cui voglio rivolgere un saluto particolare, dandogli il benvenuto fra di noi: l’uomo che mi ha procurato tanti grattacapi, che per lungo tempo mi è stato alle calcagna come nemico... e al quale oggi posso tendere la mano come a un amico: il generale Botha! Ci fu un grande applauso. Il generale Botha si alzò, salutò con un cenno del capo, si sedette... ma poi, come colto da un’ispirazione improvvisa, si rialzò e fece un brindisi: — Mi permetta di brindare in onore della sposa, che gode della mia più profonda ammirazione. Infatti è riuscita in qualcosa in cui io ho sempre fallito: catturare B.P.!

Le dicerie La coppia intraprese il viaggio di nozze alla maniera scout: con due cavalli, tenda e sacchi a pelo, nella natura selvaggia nordafricana dell’Algeria. Tornati in Inghilterra, B.P. e Olave affittarono una casa vicino a

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Ewhurst Place, nella contea del Sussex, a sud di Londra, in mezzo alla natura, lontano dalla grande città. Lì sarebbero cresciuti i loro figli. Nel 1913 venne al mondo il figlio Peter. B.P. non potè godersi gran che la famiglia e la vita di campagna. Nei giorni feriali lavorava presso la direzione generale scout di Londra, dove, sotto il tetto, aveva sistemato un giaciglio spartano. Il movimento scout stava incontrando un successo enorme. B.P. era oberato di lavoro. Solo durante il fine settimana tornava da sua moglie e dal figlioletto. Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale. In qualità di esperto generale, 57 anni, anche se pensionato, avrebbe dovuto nuova mente essere richiamato per il servizio militare. Ma nessuno pretese questo da lui, né il re Giorgio V, successo al trono al defunto Edoardo VII, né il generale Kitchener, nel frattempo promosso ministro della guerra e nobilitato col titolo di Lord. Infatti: «Lo scout è amico di tutti e fratello di ogni altro scout». Così aveva formulato B.P. il quarto articolo della legge scout. Era molto spiacevole che gli scouts dovessero spararsi tra di loro, fratelli contro fratelli, solo perché i politici avevano deciso la guerra. Che B.P. dovesse anche dare ordini in conseguenza di tale pazzia, questo nessuno lo pretendeva da

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lui, nessuno mai avrebbe potuto chiederglielo. B.P. rimase in Inghilterra, concentrò la sua attività sull’educazione dei giovani e preparò tutto in modo che, alla conclusione della guerra e il più rapidamente possibile, si potesse stringere un nuovo accordo tra i popoli che prima erano stati nemici, attraverso la grande fraternità scout. Le notizie degli orrori della guerra dominavano i quotidiani. Non si parlava più di B.P. E ora i suoi invidiosi avversari preparavano gli attacchi più infami che si fossero mai permessi. Poiché B.P. era un ufficiale fuori servizio, poiché non si sentiva più parlare di lui, sparsero la voce che era stato smascherato come spia del nemico, condannato a morte, giustiziato e sepolto fuori dalle mura del cimitero, come traditore della patria. B.P. dapprima non reagì in nessun modo a tali cattiverie. Ma quando le dicerie aumentarono, quando persino un giornale americano diede notizia della sua esecuzione capitale, come spia, aggiungendo un benevolo commento su «uno dei soldati inglesi più coraggiosi ed eroici», B.P. uscì allo scoperto, non con energiche smentite, ma con fine umorismo. Definì la notizia della sua morte «esagerata» e aggiunse che «per un necrologio così lusinghiero, come quello riportato dal giornale americano, sarebbe valsa la pena essere stato giustiziato davvero, come le voci andavano dicendo». Durante la guerra, nel 1915 e nel 1917, nacquero le sue due figlie Heather e Betty. A partire dal 1916 sua moglie si occupò dell’organizzazione delle giovani esploratrici, che intanto venivano chiamate «Girl Guides». «Guida» nel senso di accompagnatore esperto del posto. Come simbolo le «Girl Guides» scelsero il trifoglio, un antico simbolo di fortuna e di amore per il prossimo. Nel frattempo aumentava continuamente il numero dei ragazzi più giovani che entravano a far parte degli scouts, in parte già dai sei anni, e perciò B.P. ritenne opportuna una suddivisione in base all’età. Da quel momento in poi i ragazzi al di sotto dei 12 anni venivano preparati allo scautismo in qualità di lupetti, e solo a partire dal dodicesimo anno di età potevano chiamarsi scouts. In seguito B.P. fonderà un terzo gruppo di età: i rovers, dai 19 ai 21 anni. Alla fine della guerra, nel 1918, B.P. iniziò immediatamente a lavorare di nuovo a livello internazionale e a mettersi in contatto con le

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associazioni scout del continente.

Lord of Gilwell Nel 1919 gli scouts ricevettero in regalo da un gentiluomo di campagna scozzese il Parco di Gilwell, nei pressi di Londra. B.P. vi allestì un campo scuola per scoutmaster, per adulti quindi, che si erano votati allo scautismo e che avrebbero dovuto svolgere funzioni direttive. Chi aveva terminato il primo corso, riceveva da B.P. due pezzetti di legno, che potevano portare su una correggia di cuoio attorno al collo. Quei pezzetti di legno erano ricordi del suo avventuroso passato. Provenivano dalla collana che il principe Dinizulu gli aveva regalato dopo la sua cattura. Imitazioni di quei pezzetti di legno — si chiamano «woodbadge» — le riceve ancora oggi ogni scout che abbia portato a termine un corso per scoutmaster riconosciuto a livello internazionale. «Woodbadge» letteralmente significa: distintivo di legno. Nel 1920 B.P. realizzò il suo desiderio di un grande raduno scout mondiale: 8. 000 scouts provenienti da 27 Paesi — anche da quelli che durante la guerra erano stati nemici — parteciparono al primo Jamboree nell’Olympia-Hall di Londra. B.P. venne proclamato «Chief Scout of the World», capo scout mondiale. Guidato da Olave Baden-Powell, il movimento delle giovani esploratrici aveva avuto nel frattempo un incremento straordinario. Sull’esempio del Gilwell-Park, sorsero centri di formazione per capigruppo femminili a Foxlease e a Waddow-Hall.

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Da molti paesi giungevano ora inviti di associazioni di guide e scouts, appena fondate. B.P. e sua moglie furono d’allora in poi più in viaggio che a casa. Per molti anni girarono per tutto il globo terrestre, accolti ovunque con entusiasmo da guide e scouts. B.P. ringraziò per questi inviti con i disegni che oggi posseggono un notevole valore da collezione. Nel 1924 ebbe luogo il secondo Jamboree, questa volta a Ermelunden, presso Copenhagen. Vi parteciparono 12. 000 scouts da 36 Paesi. 50. 000 scouts da 69 Paesi furono quelli che giunsero a Birkenhead, in Inghilterra, per il terzo Jamboree nel 1929. In quell’occasione B.P. ricevette dal re il titolo nobiliare di «Lord of Gilwell». Un anno più tardi Olave Baden-Powell ricevette il titolo di «Chief Guide of the World», capo guida del mondo. Nel 1933 ebbe luogo il quarto Jamboree, a Gödollö, presso Budapest. B.P. appariva arzillo e intraprendente al fianco della moglie trentacinquenne. Nessuno si accorse che aveva già 76 anni.

Presagio di guerra presentimento di morte Quattro anni dopo, nel 1937, durante il quinto jamboree a Vogelanzang, Olanda, B.P. prevedeva — come rivelò nelle conversazioni private — che presto ci sarebbe stata un’altra guerra. E presagiva ancora qualcos’altro: «È giunto il momento — diceva all’altoparlante, rivolto ai partecipanti del raduno scout mondiale — di dirvi goodbye. Voi sapete che molti di noi non si incontreranno più su questa terra. Io ho 81 anni e mi avvicino alla fine della vita. Ma la maggior parte di voi sono all’inizio della vita». Lo scoppio della guerra — 1939 — fu vissuto da B.P. nella sua seconda patria: l’Africa, dove si era costruito una casa alla periferia di

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Nyeri in Kenia. Lì ricevette visite di cacciatori, indigeni e ufficiali coloniali, di amici, parenti e soprattutto di scouts e guide. A questi, ragazzi e ragazze, raccomandò di occuparsi subito dopo la fine della guerra della riconciliazione dei popoli organizzando più in fretta possibile il sesto jamboree. Il sesto jamboree, il grande raduno scout mondiale dopo la guerra, la grande riconciliazione tra i giovani: ne parlava così spesso nel suo ultimo anno di vita! Agli scouts di tutto il mondo scrisse lettere con un tono quasi di scongiuro: «La guerra u ccide alcuni dei nostri amici, ma non può uccidere lo spirito scout. Voi che sopravvivrete alla guerra, voi dovete incrementare questo spirito con tutte le vostre forze, affinché diventi più forte che mai». E scrisse ancora due lettere, segretamente, senza che sua moglie se ne accorgesse. Lettere che dovevano essere trovate dopo la sua morte, gli ultimi messaggi del grande scout a tutte le guide e scouts del mondo.

Gli ultimi messaggi Ecco il testo di queste due ultime lettere. «Care guide! questa è la mia lettera d’addio e quindi l’ultima volta che vi parlo. Quando non ci sarò più, non dimenticate, vi prego, il vostro compito nella vita, e cioè di essere felici e rendere felici gli altri. È così semplice! Prima cercate di rendere felici gli altri, facendo loro del bene. Poi non dovrete più preoccuparvi della vostra felicità, perché verrà da sé. Dovrete lavorare molto, ma la ricompensa non mancherà. Se i vostri figli potranno crescere sani, puri e intraprendenti, saranno felici. E i bambini felici amano i propri genitori. Non esiste gioia più pura dell’amore di un bambino. Sono convinto che Dio desidera la nostra felicità in questa vita. Possiamo vivere su di una Terra piena di bellezze e meraviglie, e Dio non ci ha donato solo gli occhi affinché ci accorgessimo di tutto ciò, ma anche l’intelligenza per comprendere tutto questo splendore. Ma non dobbiamo mancare di spirito di adattamento. Quanto più

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seminerete amore e felicità, tanto più il vostro consorte e i vostri figli vi saranno affezionati, e non esiste niente di più bello sulla terra. Scoprirete presto che il Paradiso non è una felicità lontana, chissà dove tra le nuvole, che viene solo dopo la morte. La felicità si trova già in questo mondo, nel vostro focolare. Quindi, date felicità agli altri e sarete felici voi stessi. Se lo farete, adempirete ad un compito che vi è stato affidato da Dio. Che Dio vi assista. Baden-Powell». Agli scouts scrisse questa lettera d’addio: «Cari scouts! Nella commedia teatrale “Peter Pan”, che voi forse conoscete, il capo dei pirati è sempre in procinto di redigere la sua orazione funebre, per timore di non trovarne più il tempo quando giungerà l’ora della sua morte. A me succede qualcosa di simile. Non sono ancora in punto di morte, ma il giorno non è più tanto lontano. Perciò vorrei rivolgervi alcune parole d’addio. Pensate che questo è il mio ultimo messaggio per voi e ascoltatelo bene. La mia vita è stata felice e mi auguro che ciascuno di voi abbia una vita altrettanto felice. Io credo che Dio ci abbia messi in questo mondo per essere felici e godere la vita. La felicità non dipende dalla ricchezza o dal successo professionale e tanto meno dal cedere alle proprie voglie. Un passo importante verso la felicità consiste nel rendervi utili e nell’essere contenti della vita quando sarete uomini. Lo studio della natura vi mostrerà tutte le bellezze e le meraviglie di cui Dio ha riempito il mondo. Perché possiate goderne. Contentatevi di ciò che vi è stato donato e usatelo nel modo migliore possibile. Sforzatevi di ricavare il lato migliore di ogni cosa. Ma la vera felicità la troverete nel rendere felici gli altri. Cercate di lasciare il mondo un po’ migliore di come lo avete trovato. Quando poi la vostra vita giungerà al termine, potrete morire in pace, consapevoli di non avere sprecato il vostro tempo, ma di avere sempre fatto del vostro meglio. Siate in questo senso “sempre disponibili”, per vivere felici e morire felici. Mantenete sempre la vostra promessa scout, anche quando

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non sarete più ragazzi. Il vostro amico Baden-Powell of Gilwell». Nei primi giorni del gennaio 1941 B.P. parlò dei suoi funerali. Chiese che si evitasse un cerimoniale pomposo. Alcuni giorni dopo, l’8 gennaio 1941, morì. La bara, che venne portata nel sepolcro su di un affusto di cannone, era coperta da tre bandiere: la bandiera dell’Inghilterra, la bandiera scout con il simbolo del giglio, la bandiera delle guide con il simbolo del trifoglio. Sei capi scout trasportarono la bara dall’affusto verso la fossa aperta. Quando la bara venne calata, un trombettiere suonò il fischio scout. Sulla sua pietra tombale venne inciso un cerchio contenente un punto. È un segnavia, un messaggio cifrato, che solo gli scouts possono capire. Questo messaggio significa: «Ho eseguito il mio incarico e sono tornato a casa». Due anni dopo la fine della guerra — nel 1947, quando le città delle nazioni un tempo nemiche erano ancora un mucchio di macerie — ebbe luogo a Moisson, in Francia, il sesto Jamboree.

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L’EREDITÀ

Lo scautismo dei nostri giorni Oggi l’eredità di B.P. viene amministrata secondo i metodi manageriali moderni. Altrimenti non si potrebbe far fronte all’organizzazione del movimento giovanile più grande del mondo, con 18 milioni di ragazzi e otto milioni di ragazze. L’organizzazione mondiale dei giovani si chiama «The Worl Organisation of the Scout Movement» (abbreviata in WOSM). La sede centrale a Ginevra — l’Ufficio Mondiale Scout — è il segretariato della conferenza mondiale scout e del comitato mondiale scout. L’organizzazione mondiale delle guide si chiama «World Association of Girl Guides and Girl Scouts» (abbreviata in WAGGGS). Ha sede a Londra ed è costruita press’a poco sullo stesso sistema dell’organizzazione mondiale degli scouts. La conferenza mondiale scout è l’assemblea generale dello scautismo, composta dai delegati di 118 federazioni nazionali. In ogni Paese viene riconosciuta soltanto una organizzazione scout, che dispone di oltre sei voti. Più associazioni scout di uno stesso Paese vengono riunite in federazioni. Il compito dei delegati di una conferenza mondiale scout è quello di portare avanti lo scautismo secondo il concetto di Baden-Powell e di adeguarlo alle esigenze moderne, dando indicazioni di massima. All’interno di queste linee fondamentali sorvegliate dai delegati, le singole associazioni nazionali possono determinare lo sviluppo dello scautismo armonizzandolo con le particolari condizioni di vita dei Paesi in questione. Sullo scautismo dei nostri giorni si è pronunciato il segretario generale dell’associazione scout mondiale, il dr. Laszlo Nagy, in uno studio commissionatogli nel 1966 dalla fondazione Ford. Nel cosiddetto rapporto Nagy si legge fra l’altro: «Lo scautismo è oggi una forza viva a servizio della nazione, dalla boscaglia africana fino alla giungla delle grandi città d’Ame165 rica o d’Europa. Lo scautismo oggi: è un movimento giovanile che sa

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in ogni istante cosa può fare, che sa dove va, e che conosce anche la strada che deve imboccare. Infatti lo scautismo, benché sia divenuto un'organizzazione educativa extrascolastica, è anche un’organizzazione mondiale che nell’epoca della programmazione e del management si trova nella posizione più moderna... Questo movimento deve però rimanere sempre al passo con i tempi, rinnovarsi di continuo, lasciarsi impregnare dalle realtà del mondo moderno, senza però tradire la linea fondamentale dello sforzo giovanile... Lo scautismo esiste in 108 Paesi [oggi 118], ma lo scautismo praticato in Svezia non è uguale a quello praticato nel Kongo. Le attività che possono svolgere i disoccupati involontari dell’Algeria sono necessariamente diverse da quelle proposte ai giovani cittadini di Parigi. I reparti degli indi Chulupis del Paraguay non svolgono le stesse occupazioni dei gruppi composti dai “sophisticated boys” di São Paulo; le necessità dei giovani milanesi riguardo all’educazione non sono identiche a quelle dei giovani del mezzogiorno d’Italia; nei quartieri aristocratici di Boston i giovani non si entusiasmano per lo stesso gioco o avventura per cui si entusiasmano i Portoricani degli slums di New York. E così via... Ma si tratta pur sempre di scautismo, che ovunque viene praticato in nome degli stessi principi, con l’ausilio degli stessi metodi e in vista di uno stesso scopo: formare il carattere dei giovani, affinché diventino buoni cittadini».

Organizzazione del movimento scout in Italia Per potersi dire tale, un’organizzazione scout maschile o femminile deve essere riconosciuta rispettivamente dall’Organizzazione Mondiale dello scautismo maschile (WOSM), con sede in Ginevra, o dall’Associazione Mondiale delle Guide ed Esploratrici (WAGGGS), con sede in Londra. Ambedue questi organismi internazionali riconoscono, per ogni Paese, una sola organizzazione, che può a sua volta federare più associazioni. L’organizzazione riconosciuta in Italia è la F. I. S (Federazione Italiana dello scautismo). Riunisce le medesime associazioni e cioè il Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani (CNGEI) e l’Associazione

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Guide e Scouts Cattolici Italiani (AGESCI). Ambedue le associazioni, pur con strutture e formule educative differenti, sono aperte a ragazze e ragazzi. Il CNGEI, fondato nell’ottobre 1912 con il nome di «Corpo Nazionale dei Giovani Esploratori Italiani e Unione Nazionale delle Giovinette Esploratrici», eretto in Ente Morale nel 1916, ha assunto la sua denominazione attuale con il nuovo Statuto del settembre 1976. Ha sede in Roma, via dei Gracchi 116, telefono numero 316768. Esso pratica uno scautismo «aperto», al quale possono aderire giovani di qualsiasi confessione o tendenza religiosa: ogni giovane segue il suo culto e le sue convinzioni, e durante le attività viene lasciato il necessario spazio per permettere ai soci di adempiere ai propri doveri religiosi. Inoltre, il CNGEI tutela la libertà di pensiero di ogni socio, ma, se capi, li impegna affinché le convinzioni personali non ne influenzino l’azione educativa. L’AGESCI, nata nel 1974 dalla fusione dell’ASCI (fondata nel 1916) e dell’AGI (fondata nel 1943), ha sede in Roma, Piazza Pasquale Paoli 18, telefono 6877711. È un’associazione rivolta a tutti i ragazzi e ragazze, nella quale gli adulti educatori (tra cui un ruolo specifico è riservato agli Assistenti Ecclesiastici) fanno una esplicita proposta di fede cattolica. L’AGESCI realizza il suo impegno politico nell’azione educativa al di fuori di ogni legame o influenza di partito. Un documento chiamato «Patto Associativo» esprime in tre parti fondamentali (scelta scout; scelta cristiana; scelta politica) le idee e i valori, maturati nel corso della storia dello scautismo di ispirazione cattolica in Italia, nei quali si riconoscono coloro che hanno scelto di svolgere un servizio educativo nell’AGESCI.

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Come diventare scout In Italia e nella Svizzera di lingua italiana lo scautismo ha forti tradizioni ed è radicato ovunque, sia nelle grandi città che nelle piccole località. Essendo impossibile elencare ogni indirizzo, segnaliamo quelli delle sedi nazionali e cantonali, a cui ci si può rivolgere per avere maggiori dettagli. Generalmente gli Scouts cattolici fanno capo a parrocchie o comunità religiose, mentre gli aconfessionali a scuole ed istituti. Italia A. G. E. S. C. I. C. N. G. E. I. M. A. S. C. I.

Associazione Guide ed Esploratori Cattolici Italiani Piazza Pasquale Paoli, 18 - 00186 ROMA - Tel. 06/6877711 - 6875112 Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani Via Ennio Quirino Visconti, 8 - 00193 ROMA Movimento Adulti Scouts Cattolici Italiani Via G. Castellini, 24 - 00197 ROMA - Tel. 06/877647

Svizzera - Canton Ticino A. E. C. A. G. E. T. A. G. E. S. C. I. C. N. G. E. I.

A. E. C. e A. G. E. T. M. A. S. C. I.

Associazione Esploratrici ed Esploratori Cattolici Via Nassa, 66 - 6900 LUGANO - Tel. 091/228043 Associazione Giovani Esploratori Ticinesi Via Vedreggio, 13 - 6963 PREGASSONA - Tel. 0 9 1 / 513032 Fanno parte della F. I. S. - Federazione Italiana e del lo scautismo, riconosciuta dal Bureau Mondiale dello scautismo come membro dell’Organizzazione Mondiale del Movimento Scout e dell’Associazione Mondiale Guide ed Esploratrici. fanno parte della Federazione Esploratori Ticinesi (F. E. T. ) a sua volta associata alla F. E. S. (Federa- zione Esploratori Svizzeri) membro dell’organizzazione Mondiale del Movimento Scout. È la componente cattolica della Federazione Italiana Adulti Scouts (F. I. A. S. ) aderente alla International Fellowship of Former Scouts and Guides (I. F. O. F. S. A. G. ).

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INDICE Presentazione Premessa Introduzione Soprannomi, insulti, onori e riverenze Infanzia e giovinezza Avventuriero, artista, scienziato La natura selvaggia di Hyde Park Nella giungla della grande città Esploratore per la prima volta Nave in pericolo Arrendersi? Mai e poi mai! Lealtà e inflessibilità Un educatore in gamba L’Africa davanti al portone del college Attore e cantastorie Una brutta figura Brillante successo Avventure ed esperienze Paese da favola, terra delle meraviglie e ballo in maschera La terra ardentemente desiderata: una polveriera Esercitazioni, segnalazioni, tattica e balistica La storia del giovane ricognitore Visite al quartiere indiano A caccia con carta e matita Il sistema dei piccoli gruppi o squadriglie Un cavallo da sella che non ha bisogno di cibo Cavalcata solitaria verso l’Afganistan L’orrore della guerra I pirati e il generale Fuga tra una pioggia di pallottole Partenza a mezzanotte La storia del guanto Parcheggio di acciughe e stallone da ufficio

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Boeri, negrieri, cercatori d’oro Verso ovest attraverso i Monti dei Draghi Ospite nel Kral dei bellicosi Zulù La morte della ragazza zulù Ingonyama - gonyama Segnavia Il nascondiglio del capo Il re nero e gli avanzi di galera Agente segreto di Sua Maestà L’uomo dal largo cappello I Krobos: associazione segreta della Costa d’oro Il lupo che non dorme mai Sherlock Holmes Lo stregone La guerra dei Boeri In trappola I ragazzi di Mafeking Attacco e liberazione L’eroe di guerra dato per morto Lo scautismo «Non voglio essere un eroe di guerra» La chiave Scopo, principi, metodi Giglio, motto, promessa e legge Saluto, fischio e sistema di squadriglia Totem, buona azione, patrono e Jamboree Udienza dal re Il primo campo scout «Un ragazzo non può stare chiuso in casa» «L’acchiappatopi di Hameln» Una bomba nel cuore del generale in pensione Le dicerie Lord of Gilwell Presagio di guerra - presentimento di morte Gli ultimi messaggi L’eredità Lo scautismo dei nostri giorni Organizzazione del movimento scout in Italia Come diventare scout .

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BIBLIOGRAFIE ELLE DI CI ANDRÉ RAVIER, San Francesco di Sales, pp. 200. TERESIO BOSCO, Don Bosco. Una biografia nuova, pp. 478. TERESIO BOSCO, Don Bosco. Storia di un prete, pp. 368. MARCELLE PELLISSIER, La magnifica avventura. La vita di San Giovanni Bosco, pp. 160. WALTER NIGG, Don Bosco un santo per il nostro tempo, pp. 112. SAN GIOVANNI BOSCO, Vita di Domenico Savio, pp. 148 JOSE COTTINO, Mons. Luigi Anglesio, pp. 192. MARGUERITE FIÉVEZ - JACQUES MEERT, Cardijn. Una vita per i giovani operai, pp. 208. ADOLFO L’ARCO, Alberto Marvelli, pp. 176. GIAN PAOLO MINA, La vita per nulla, pp. 148. ALFONSO PANICHI, Sorridere ai poveri. Padre Guido, pp. 208. MARY CRAIG, Un uomo da un paese lontano, pp. 176. JOSE COTTINO, Federico Albert, pp. 224. PAOLO RISSO, A migliaia lo vollero prete, pp. 124. Nico DE MARTINI - MASINO PAUTASSO, Don Giorgio, un prete felice, pp. 200. LUIGI CASTAGNO, Madre Mazzarello, pp. 260. GUIDO BOSIO, Martiri in Cina, pp. 502. MARIA DOMENICA GRASSIANO, Un carisma nella scia di Don Bosco, pp. 308. ANTONIO ALESSI, Una vita per l’India, pp. 304. JACQUES FESCH, Luce sul patibolo, pp. 152. SERGEI KOURDAKOV, Perdonami Natascia, pp. 240. CLAUDE OLIEVENSTEIN, Non esistono drogati felici, pp. 304. ANTONIO GLIOZZO, Enrico Medi. Scienziato e credente, pp. 160.

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