A million dollar banknote

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la mia predilezione è per l’Isola dei Morti: per lunghi minuti immobili fisso la tela ritornando al cimitero degli inglesi di Firenze, che aggiravo a quindici anni iniziando il mio Grand Tour sepolcrale, o a San Michele a Venezia che emerge dall’acqua fetida come un iceberg fronzuto e suo malgrado vivente; ritorno alla stanza della famiglia altoborghese in cui risuonavano casi, modi, coniugazioni e regole sintattiche e in cui, precettore postmoderno, costringevo il loro pupillo a mandare a memoria la tavola dei giudizi kantiana al cospetto di quel falso Böcklin, involontaria reliquia fasulla del Reich. Le innumerabili produzioni dello spirito già mi sovrastano e mi prostrano, obnubilata dagli stimoli in serie e stordita dalla gravità dell’aria museale, resa densa come cenere bellica dal sudore secolare delle opere. Forse ne ho abbastanza, sospetto mentre mi sorprendo a rifugiarmi sotto le lampadine da due soldi dei bar sulle sponde del fiume, che illuminano le acque tetre come occhi vitrei di creature degli abissi. Mentre bevo la prima birra di questo viaggio incontro anche il primo essere umano: perché a Berlino le persone sono mute e impenetrabili come l’arte e come l’arte si lasciano contemplare senza rispondere; al contrario il ragazzo di strada che lavora al bar non esita a prendersi gioco della mia indecisione e non solo replica ma persino chiede, lui che arriva da ben al di qua del muro. Forse ha lasciato la Spagna per scrollarsi di dosso quella coltre di familiarità che pervade pure la mia, di penisola. Forse come me era convinto che i climi miti poco si addicessero allo spleen, specialmente a quello che contamina abbondante lo scorrere delle chitarre distorte. Ma la città fa uscire allo scoperto le illusioni innescate dalla favola della sottocultura e alimentate dalle sostanze psicotrope: non devo attraversare il Tiergarten e raggiungere lo Zoo per vedere esemplari di quei vecchi ragazzi, perché anche alla fermata di Schlesisches Tor i passanti sono sfiorati da figure invisibili, sacchi di ossa ricoperti di croste e sangue rappreso che dagli occhi lanciano bagliori freddi come stelle morenti. Il cuore nero d’Europa ingoia come un sacco i suoi figli reietti, esponendo nella normalità dell’alienazione quotidiana tanto i fori di proiettile sulle facciate degli edifici quanto i corpi chimici di questa popolazione silente di cittadini spauriti. Non so quanto valgano i tentativi di spavalda bellezza apocalittica che imbrattano i muri e invadono le strade, in uno spasmo tanto più efficace quanto più disperato, a redimere il vecchio continente dal peso dell’ipertrofia dello spirito e dallo strazio dell’orrore incarnato; per questo io temo Berlino, che somiglia alla mia malattia di una ragione preponderante ma difettosa e alla ferocia sopita del mio sentimento. Per questo mi fermo al centro del parco sterminato e invoco a salvarmi il potere ultraterreno della Siegessaüle: inclino la testa correndo con lo sguardo fino al corpo sfavillante che protegge la città con severa benevolenza;

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