Qualcosa che non va

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alternative. E' possibile prevedere uno piccolo incremento di popolazione, circa 20-30 mila abitanti provenienti da ogni regione d’Italia e d’Europa per integrare la cultura contadina col know-how di nuovi modelli organizzativi, gestionali e comunicativi (biblioteche civiche comunali, nuove agorà, Esco, reti libere, autoproduzioni …). L’integrazione culturale può arrestare l’abbandono delle terre e di territori non considerati dalla cultura demolitrice della crescita infinita e dell’ossimoro sviluppo sostenibile. L’integrazione culturale può aiutare gli abitanti locali nel saper conservare e tutelare il territorio alimentando la speranza di comunità non più isolate, ma vive, genuine e più felici grazie alla prospettiva di un ritorno a casa di giovani emigrati abbagliati da un finto sviluppo e più felici per le nascite di nuovi esseri umani in famiglie unite nei reali valori (etica). In questo territorio è possibile far emergere il progetto beni comuni gestito da reti di comunità. La storia ci insegna che durante la dominazione longobarda (fine VI secolo), quando non si conosceva il possesso derivato dalla proprietà privata, l'economia cilentana divenne fiorente grazie alla presenza di monaci italo-greci prima, e benedettini poi, e grazie l'assenza di oneri, tasse, per chi volesse impegnarsi nell'agricoltura e nel dissodamento della terra. Fu in quel periodo che si sviluppò la reciprocità grazie ai gruppi che partecipavano all'uso dei beni comuni, questo modello divenuto consuetudine ricevette il riconoscimento giuridico negli Usi Civici. Fu allora che nacquero le prime comunità rurali dette Consortia per la gestione dei beni comuni. Si trattava di un'unione di carattere economico necessariamente vincolante per l'usufrutto della terra, ed ogni partecipante possedeva una sors (quota di terra) avendo in comune anche gli attrezzi agricoli e gli animali da lavoro. Anche oggi a distanza di secoli, il Governo per aiutare comunità in difficoltà costituisce zone freetax, cioè zone franche, ove le imprese non pagano tasse per consentire un periodo di crescita a sostegno dell'economica locale, il rischio di questa strategia sta nell'assenza di controlli etici sui progetti proposti dalle aziende private (conflitto di interessi). Nella sostanza è possibile valutare progetti virtuosi di rigenerazione urbana e farli finanziare da imprese che non inquinano. Tali imprese possono contribuire alla rigenerazione tramite il loro gettito fiscale sui progetti e/o la classica defiscalizzazione dei costi sul salario. Il Parco del Cilento potrebbe diventare un'entità fiscale autonoma, facendo rimanere le tasse sul territorio, razionalizzando comuni e comunità montane riducendo il numero dei comuni stessi, accorpando Sindaci e Consigli comunali. In questo modo lo Stato risparmia risorse e la riduzione degli Enti potrà consentire l'accorpamento gestionale dei servizi locali con un ulteriore risparmio ed efficienza dell'amministrazione stessa. Bisogna evidenziare che tale prospettiva ribalta totalmente la cultura dominante che scambia la crescita industriale, materialista, come progresso e disprezza la natura e la vita di campagna. Questa prospettiva indica lo sviluppo fra le piccole comunità, in armonia con la natura, ma tecnologicamente avanzate grazie all’uso di un mix-tecnologico e di reti di comunicazione avanzate per scambiarsi e donare le conoscenze socialmente utili. Comunità che vivono la polis e decidono direttamente. Comunità che si alimentano di cibi sicuri ed autoprodotti rispetto ai cittadinimetropolitani che possono essere intossicati da cibi industriali e meno controllabili. Nel 1891 (cioè dopo trent’anni di furti, tasse maggiorate al Sud, spesa statale solo al Nord) il reddito pro-capite della Campania è ancora superiore a quello nazionale. […] «Da quasi tredici secoli i Meridionali sono uniti, essi sono pacifici come i popoli veramente civili, il loro sistema economico mira più al benessere sociale che al profitto di pochi, l’amministrazione pubblica è oculata e ponderata, la pratica religiosa colora i loro caratteri» riassume Vincenzo Gulì (Il saccheggio del Sud). […] I prodotti pregiati dell’agricoltura meridionale, per dire, son troppo cari per il resto d’Italia. Solo 11,8% delle esportazioni e l’8,5% delle importazioni delle Due Sicilie è con gli altri stati preunitari, perché «l’economia meridionale apparteneva al circuito commerciale che la ricollegava saldamente ai paesi del Nord e del Centro Europa». Soltanto dopo l’occupazione, il saccheggio e l’inutile resistenza armata, i meridionali cominceranno a emigrare, a milioni. 296

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PINO APRILE, Terroni, Piemme 2010, pagg. 103, 106

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