GIORNALE ITALIANO DELLA RICERCA EDUCATIVA

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno VIII – numero 15 – Dicembre 2015


Direttore | Editor in chief ACHILLE M. NOTTI | Università degli Studi di Salerno Condirettori | Co-editors PIETRO LUCISANO | Sapienza Università di Roma PIER CESARE RIVOLTELLA | Università Cattolica di Milano Comitato Scientifico | Editorial Board JEAN-MARIE DE KETELE | Université Catholique de Lovanio VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV | City University di Mosca GIOVANNI BONAIUTI | Università degli Studi di Cagliari ETTORE FELISATTI | Università degli Studi di Padova MARIA LUCIA GIOVANNINI | Università di Bologna MARIA LUISA IAVARONE | Università degli Studi di Napoli “Parthenope” PERLA LOREDANA | Università degli Studi di Bari Aldo Moro PATRIZIA MAGNOLER | Università degli Studi di Macerata GIOVANNI MORETTI | Università degli Studi di Roma Tre ELISABETTA NIGRIS | Università degli Studu di Milano-Bicocca Comitato editoriale | Editorial management ANNA SERBATI | Università degli Studi di Padova MARIA CINQUE | Università di Roma LUMSA ROSA VEGLIANTE | Università degli Studi di Salerno Note per gli Autori | Notes to the Authors I contributi, in formato MS Word, devono essere inviati all’indirizzo email del Comitato Editoriale: rivista@sird.it Ulteriori informazioni per l’invio dei contributi sono reperibili nel sito www.sird.it __________________ Submissions have to be sent, as Ms Word files, to the email address of the Editorial Management: rivista@sird.it Further information about submission can be found at www.sird.it Consultazione numeri rivista http://ojs.pensamultimedia.it/index.php/sird

Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010 Finito di stampare: Dicembre 2015 Abbonamenti • Subscription Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Progetto grafico copertina Valentina Sansò


Obiettivi e finalità | Aims and scopes Il Giornale Italiano della Ricerca Educativa, organo ufficiale della Società Italiana di Ricerca Didattica (SIRD), è dedicato alle metodologie della ricerca educativa e alla ricerca valutativa in educazione. Le aree di ricerca riguardano: lo sviluppo dei curricoli, la formazione degli insegnanti, l’istruzione scolastica, universitaria e professionale, l’organizzazione e progettazione didattica, le tecnologie educative e l’e-learning, le didattiche disciplinari, la didattica per l’educazione inclusiva, le metodologie per la formazione continua, la docimologia, la valutazione e la certificazione delle competenze, la valutazione dei processi formativi, la valutazione e qualità dei sistemi formativi. La rivista è rivolta a ricercatori, educatori, formatori e insegnanti; pubblica lavori di ricerca empirica originali, casi studio ed esperienze, studi critici e sistematici, insieme ad editoriali e brevi report relativi ai recenti sviluppi nei settori. L’obiettivo è diffondere la cultura scientifica e metodologica, incoraggiare il dibattito e stimolare nuova ricerca. ___________________________________ The Italian Journal of Educational Research, promoted by the Italian Society of Educational Research, is devoted to Methodologies of Educational Research and Evaluation Research in Education. Research fields refer to: curriculum development, teacher training, school education, higher education and vocational education and training, instructional management and design, educational technology and e-learning, subject teaching, inclusive education, lifelong learning methodologies, competences evaluation and certification, docimology, students assessment, school evaluation, teacher appraisal, system evaluation and quality. The journal serves the interest of researchers, educators, trainers and teachers, and publishes original empirical research works, case studies, systematic and critical reviews, along with editorials and brief reports, covering recent developments in the field. The journal aims are to share the scientific and methodological culture, to encourage debate and to stimulate new research. Comitato di referaggio | Referees Committee Il Comitato di Revisori include studiosi di riconosciuta competenza italiani e stranieri. Responsabili della procedura di referaggio sono il direttore e il condirettore della rivista. ___________________________________ The Referees Committee includes well-respected Italian and foreign researchers. The referral process is under the responsability of the Journal’s Editor in Chief and Co-Editors. Procedura di referaggio | Referral process Il Direttore e Condirettore ricevono gli articoli e li forniscono in forma anonima a due revisori, tramite l’uso di un’area riservata nel sito della SIRD (www.sird.it), i quali compilano la scheda di valutazione direttamente via web entro i termini stabiliti. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori esprimono un parere positivo. I giudizi dei revisori sono comunicati agli Autori, assieme a indicazioni per l’eventuale revisione, con richiesta di apportare i cambiamenti indicati. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non sono pubblicati. Per consultare il codice etico consultare il link: http://ojs.pensamultimedia.it/index.php/sird/about/editorialPolicies#custom-0 ___________________________________ Editor in chief and co-editor collect the papers and make them available anonymously to two referees, using a reserved area on the SIRD website (www.sird.it), who are able to fulfill the evaluation grid on the web before the deadline. Only articles for which both referees express a positive judgment are accepted. The referees evaluations are communicated to the authors, including guidelines for eventual changes with request to adjust their submissions according to the referees suggestions. Articles not modified in accordance with the referees guidelines are not accepted.


INDICE 9

EDITORIALE DI LUCIANO GALLIANI

Buona università per la buona scuola

Studi 17

EDWARD W. TAYLOR

Teacher transformation: a transformative learning perspective Trasformazione del docente: una prospettiva di apprendimento trasformativo 27

GUGLIELMO TRENTIN, STEFANIA BOCCONI

Didattica ibrida e insegnamento universitario: linee guida per una progettazione efficace Hybrid Instruction in Higher Education: guidelines for effective design

Ricerche 43

DEBORA AQUARIO, ALBA MARIA FODALE, FRANCESCA PULINA, ERIKA VITANTONIO

Strumenti per arricchire il pensiero: una ricerca in una scuola primaria Thinking Enrichment instruments: a research in a primary school 63

ARIANNA GIULIANI, GIOVANNI MORETTI, ARIANNA MORINI

Servizi di tutorato didattico e Obblighi Formativi Aggiuntivi, un’indagine empirica esplorativa: il caso del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre Didactic tutoring services and Obligations for Additional Learning, an empirical exploratory research: the case of the Department of Educational Science at Roma Tre University 79

CRISTINA LISIMBERTI, KATIA MONTALBETTI

Oltre il successo scolastico, verso il successo formativo. Presentazione di una ricerca empirica Not only grades. An integrative approach over school achievement 97

PIETRO LUCISANO, CRISTIANO CORSINI

Docenti e valutazione di scuole e insegnanti Teachers’ point of view on school and teacher evaluation

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MARCO PICCINNO, EMANUELA FIORENTINO

Modelli narrativi e dimensioni temporali Narrative models and temporal dimensions 131

ALESSANDRA ROSA, ELISA TRUFFELLI

Il punto di vista degli insegnanti rispetto a un percorso innovativo di formazione in servizio: percezioni e problematiche Teachers’ perceptions about an innovative path of in-service training 151

SILVIA ZANAZZI

Valutare e finanziare la ricerca universitaria: un confronto tra atenei in Italia, Francia, Germania e Spagna Evaluating and financing research: a comparison among universities in Italy, France, Germany and Spain

Informazioni 167

indice

Elenco dei referees che hanno collaborato agli ultimi quattro anni della rivista (2012-2015)

anno VIII | numero 15 | Dicembre 2015



Editoriale LUCIANO GALLIANI

BUONA UNIVERSITÀ PER LA BUONA SCUOLA Con l’approvazione della legge 107/2015 siamo entrati da agosto scorso entro un processo di riforma della scuola italiana che, al di là dell’assunzione epocale dei precari e delle collegate rivendicazioni sindacali, presenta luci e contraddizioni, conferme e prospettive di cambiamento e tante buone intenzioni, collegate a numerosi Decreti attuativi, per i quali dobbiamo offrire contributi sia come Società pedagogiche di ricerca scientifica sia come Università, impegnate nella formazione iniziale e di abilitazione professionale degli insegnanti, e per quanto riguarda la SIRD come esperti e formatori sul campo nell’ambito delle didattica scolastica, delle tecnologie digitali e della valutazione di processo, di prodotto e di sistema. Prima che qualcuno arricci il naso sull’opportunità di entrare in un campo ritenuto politico e perciò pericoloso o addirittura proibito, pongo una domanda, a partire da una constatazione condivisa. Per tutto il XX secolo, ad un tempo “secolo della scuola” e “secolo dei media”, la ricerca educativa in tutto il mondo ha fortemente influenzato le riforme dei sistemi di istruzione, penetrando negli stili di pensiero e di azione delle società contemporanee. Perché nel XXI secolo in Italia non riusciamo più a fare la stessa azione nonostante il moltiplicarsi “fantasmagorico” di articoli e riviste, libri e convegni? Forse c’è una arretratezza della cultura educativa nel nostro Paese nel riconoscere la centralità dell’apprendimento e dunque della didattica, rispetto ad una scuola secondaria trasmissiva di conoscenze disciplinari senza appeal per i ragazzi e i giovani, per i quali i docenti faticano ad essere promotori di autonomia personale e di capacità di ragionamento critico, e così il “diritto all’accesso” non diventa “diritto al successo”. Si è persa la grande occasione in questa legge di portare l’obbligo formativo a 18 anni, magari ripristinando i cicli della riforma Berlinguer, sanando il buco nero della scuola media e della dispersione del biennio, sfruttando “alla tedesca” l’alternanza scuola-lavoro, pur introdotta per tutti, e generalizzando la formazione tecnica superiore, parallela all’Università, in tutto il paese. Forse c’è anche una arretratezza della pedagogia – al di là di aspetti corporativi del sindacalismo e di colpe della politica, senza giustificazioni nell’accarezzamento del precariato per un decennio – nel non aver adottato come bussola di riferimento il processo di professionalizzazione degli insegnanti, investendo poco nella ricerca collaborativa sul campo e nella formazione in servizio per il miglioramento delle Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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azioni educative e delle pratiche didattiche e valutative, che qualificano la dimensione collettiva e sociale del loro lavoro. E presupponendo spesso che i percorsi di laurea, di abilitazione all’insegnamento e la selezione concorsuale fossero sufficienti a certificare il possesso delle competenze, che invece vengono messe alla dura prova di realtà nelle classi e nelle scuole, spesso senza tenere conto appunto di quanto le concezioni, le pratiche e i contesti influiscano in modo determinante a definire la “professione docente”. Le concezioni riguardano l’immaginario simbolico dell’insegnante, i codici deontologici, la carriera, la condizione sociale ed economica, i modelli formativi iniziali e in servizio. Le pratiche riguardano i compiti lavorativi descrivibili con le azioni didattiche (progettuali, comunicative, valutative) e le relazioni educative ed organizzative interne ed esterne all’istituto scolastico. Il contesto è quello culturale, tecnologico, sociale, politico, con una rilevanza determinante del passaggio d’epoca nei processi di socializzazione precoce, “on line” e “senza famiglia”, dei ragazzi e quindi della ricerca di un nuovo ruolo educativo della scuola. Concezioni, pratiche e contesti si sono rivelati indicatori inequivocabili del vero disagio della scuola ed anche delle difficoltà dei pedagogisti nell’offrirne spesso non le ragioni teoriche ma vie di uscita praticabili.

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Con la nuova legge – mentre viene confermata la Laurea Magistrale 85 bis, a ciclo unico e a numero programmato su base regionale, abilitante per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria – verranno definite da uno specifico Decreto Delegato del Governo la formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria e le procedure per l’accesso alla professione. Queste ultime prevedono, oltre la laurea magistrale coerente con le specifiche classi disciplinari di insegnamento, almeno 24 CFU “acquisiti nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e in quelle concernenti le metodologie e le tecnologie didattiche” per accedere a “concorsi nazionali per l’assunzione, con contratto retribuito di durata triennale di tirocinio”. I vincitori, assegnati ad una istituzione scolastica o ad una rete di scuole, dovranno conseguire nel primo anno di contratto “un diploma di specializzazione all’insegnamento secondario… istituito dalle università… destinato a completare la preparazione nel campo delle didattiche delle discipline…., della pedagogia, della psicologia e della normativa scolastica”. Conseguito il diploma nei due anni successivi i vincitori dovranno svolgere “tirocini formativi” con “graduale assunzione della funzione docente” presso l’istituzione scolastica o rete di assegnazione e dopo valutazione positiva potranno “sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo indeterminato”. Nel DM 249/2010, finora in vigore, erano giustamente richiamate le competenze degli insegnanti da acquisire con la formazione iniziale, confermate dalla ricerca pedagogica e condivise in ambito europeo: “disciplinari, psico-pedagogiche, metodologico-didattiche, relazionali, organizzative e di sviluppo dell’autonomia ”. Oltre a queste venivano richiamate per tutti le competenze di lingua inglese livello B2, le competenze per l’integrazione degli alunni con disabilità e le competenze digitali. Con la nuova normativa occorre garantire, come Università, che il Diploma di specializzazione (non più di abilitazione!) all’insegnamento sia integrato con le attività pratiche di tirocinio in aula e vengano valutate le attitudini e le capacità di insegnamento dei tirocinanti, ai quali solo dopo il superamento dell’esame potrà nei due anni successivi essere affidata progressivamente la responsabilità delle classi. E occorre soprattutto che il Diploma, provenendo tutti da lauree magistrali non destinate all’insegnamento, sia totalmente direzionato ad acquisire competenze di didattica generale (saper progettare, saper comunicare, saper valutare) e di di-

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dattica disciplinare (saper “cosa” e “come” è insegnabile di quella disciplina/e ai ragazzi di una specifica età secondo i diversi curricoli). Si porrà di conseguenza il problema dei due insegnamenti di italiano/storia/geografia e di matematica/scienze nella scuola secondaria di primo grado, con il recupero di CFU disciplinari, da acquisire prima assieme ai 24 CFU di discipline antropo-psico-pedagogiche e di metodologia e tecnologie didattiche, indispensabili per partecipare ai concorsi per il triennio a tempo determinato. Va poi ricordata la “perla sindacale” inserita al comma 181, per cui anche chi non supera la prova di concorso o non vuole parteciparvi, potrà a sue spese ottenere il “diploma di specializzazione”. E poi? Nuovo precariato con supplenze? Nella legge 107/2015 vi sono però tre provvedimenti da ritenere sicuramente positivi e innovativi, almeno nelle intenzioni, rispetto alla situazione attuale, potendo finalmente realizzare l’autonomia scolastica, basata sulla progettualità dei singoli istituti e non sulla privatizzazione della scuola di tutti: •

la modifica sostanziale del POF – Piano dell’Offerta Formativa, attualmente in vigore, deliberato da ogni istituzione scolastica, che contiene anche la programmazione delle attività formative rivolte al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) nonché la definizione delle risorse occorrenti;

il Piano Nazionale per la Scuola Digitale, che ha già trovato una sua completa definizione con il recente documento di indirizzo del MIUR, che individua quattro passaggi fondamentali: gli strumenti tecnologici , gli spazi e gli ambienti di apprendimento, la costruzione di competenze digitali per gli studenti e la produzione di contenuti, la formazione del personale docente e amministrativo;

il Piano nazionale di Formazione ( triennale) degli insegnanti in servizio – da varare con Decreto Delegato MIUR, sentite le organizzazioni sindacali – con individuazione delle priorità nazionali e dotazione di 40 milioni all’anno a decorrere dal 2016, oltre alla Carta elettronica (500 euro all’anno) per la formazione e l’aggiornamento professionale di ogni docente di ruolo, da utilizzare per scelte individuali coerenti con il profilo professionale o con iniziative scelte dal POF.

In relazione al primo punto la legge al comma 3 (Piano Triennale dell’Offerta Formativa): …. “individua gli insegnamenti e le discipline tali da coprire: a. Il fabbisogno dei posti comuni e di sostegno dell’organico dell’autonomia……; b. Il fabbisogno dei posti per il potenziamento dell’offerta formativa”. Al comma 7 la legge individua infatti numerosi obiettivi, che le istituzioni scolastiche autonome possono inserire nel piano scegliendone alcuni e avvalendosi per questo anche di un organico potenziato di insegnanti. È un elenco di ben 17 obiettivi che trova una logica solo nella sequenza delle lettere dell’alfabeto che li distinguono, affastellando competenze disciplinari fondamentali per tutti (linguistiche, matematico-scientifiche, artistiche, motorie, digitali) alle cosiddette educazioni ancora una volta per tutti (cittadinanza attiva, interculturalità, legalità, rispetto delle differenze, contrasto al bullismo, sostenibilità ambientale, etc.) e a questioni di innovazione didattica (individualizzazione dell’insegnamento, metodologie laboratoriali, orientamento) ancora per tutti. Si rischia così di ottenere

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l’effetto contrario quando gli Istituti Scolastici dovranno individuare le priorità su cui intervenire e chiedere docenti specifici in organico per potenziare l’Offerta Formativa. Con quale logica inserire nello stesso elenco di prima l’apertura pomeridiana delle scuole e collocarla assieme alla prevenzione e al contrasto della dispersione scolastica, all’inclusione e al diritto allo studio degli allievi con bisogni educativi speciali, all’alternanza scuola-lavoro? Fra l’altro di queste ultime due questioni se ne tratta ampiamente e positivamente in altri commi specifici della legge, mentre “prevenire e recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica” è solennemente indicata all’Art.1 comma1 fra le finalità della legge di riforma. Eppure il principio di indicare le priorità dell’ offerta formativa da parte del Consiglio di Istituto, anche in conseguenza del Rapporto di Valutazione interno e delle azioni di miglioramento da intraprendere con azioni educative specifiche, potendo impegnare una parte potenziata dell’organico docente e tecnico a ciò destinata e potendo anche decidere circa l’apertura pomeridiana delle scuole in funzione dei bisogni degli alunni e delle famiglie, va considerata una sostanziale innovazione di grande valore pedagogico. Almeno se le opere, ovvero i finanziamenti e la scelta di insegnanti preparati per queste attività, verranno concessi alle scuole.

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In relazione al secondo punto, il Piano nazionale per la Scuola Digitale, in sinergia con il Piano strategico per la banda ultra larga, si pone obiettivi di assoluta rilevanza educativa e didattica, che richiedono la collaborazione sapiente dell’università e in particolare dei nostri Dipartimenti e Società scientifiche (SIRD e SIREM). Rispetto al Piano Nazionale, che merita una valutazione approfondita, va ricordata prioritariamente la “formazione all’innovazione didattica a tutti i livelli (iniziale, in ingresso, in servizio)” degli insegnanti, essendo il problema delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione innanzitutto sociale prima che educativo. Proprio per questo non può essere affrontato senza il supporto delle evidenze della ricerca non solo pedagogica nel settore e dell’accompagnamento di specialisti alla realizzazione e sperimentazione di nuovi modelli formativi, che sappiano integrare abilità tecnologiche, conoscenze disciplinari, competenze didattiche. Il terzo punto riguarda proprio la formazione in servizio degli insegnanti, condizione fondante per dare continuità e sviluppare le competenze attraverso un apprendimento riflessivo sulle pratiche; per assicurare e innovare la qualità del servizio scolastico attraverso un apprendimento trasformativo dell’organizzazione; per accrescere autonomia e creatività personale attraverso un apprendimento autodiretto e libero. Finalmente, come recita la legge, “nell’ambito degli adempimenti connessi alla funzione docente, la formazione in servizio dei docenti è obbligatoria, permanente e strutturale. Le attività formative sono definite dalle singole istituzioni scolastiche in coerenza con il piano triennale dell’offerta formativa e con i risultati emersi dai piani di miglioramento – secondo il nuovo regolamento di autovalutazione e valutazione esterna applicato per la prima volta nell’anno scolastico 2014-15 – sulla base delle priorità nazionali indicate dal Piano nazionale triennale di formazione”. Oltre questi tre punti l’QQ importante comma 181 contiene al suo interno alcune innovazioni di grande portata culturale e sociale come: •

la ridefinizione complessiva dell’inclusione degli studenti con disabilità e del ruolo del personale di sostegno da formare nelle Università, nella di-

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stinzione tra studenti con Bisogni Educativi Speciali e studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento; •

la revisione dei percorsi di Istruzione Professionale regionale da collegare maggiormente all’istruzione scolastica, prevedendo un canale autonomo superiore di formazione tecnica parallelo all’università;

l’istituzione di un “sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino ai sei anni” in collaborazione con le Regioni, con la qualificazione universitaria anche per personale dei servizi per l’infanzia, integrando la formazione universitaria per i servizi 0-3 anni, oggi non obbligatoria, con quella obbligatoria e abilitante della laurea per la Scuola dell’Infanzia e Primaria;

garanzia del diritto allo studio su tutto il territorio nazionale, con interventi di sostegno soprattutto nel Mezzogiorno e contro la dispersione, e revisione della Carta dello studente;

promozione della cultura umanistica e valorizzazione del patrimonio e della produzione musicali, teatrali, coreutici e cinematografici, con potenziamento della formazione alle arti nei curricoli delle scuole di ogni ordine e grado;

revisione e riordino delle istituzioni scolastiche e iniziative culturali all’estero, con promozione della conoscenza della lingua italiana.

Qualcuno potrebbe ritenere questa lunga, seppur solo accennata, informazione su ciò che cambierà nella scuola italiana con la nuova legge 107/2015, non solo in riferimento alla formazione e alla valutazione degli insegnanti e dei dirigenti o all’assunzione dei precari, una digressione lontana dagli interessi di ricerca propri di una società scientifica come la SIRD. Come Consulta delle Società Pedagogiche e come Conferenza dei Direttori di Dipartimento abbiamo predisposto, dopo una serie di incontri e convegni, Documenti con le nostre proposte sulla formazione iniziale e in servizio degli insegnanti, illustrate anche alle Commissioni Parlamentari. Oggi, soprattutto dopo il puntuale seminario con Luigi Berlinguer e Maria Ajello alla nostra Summer School del giugno scorso a Roma, dobbiamo non solo avere il coraggio di discutere tra noi, ma di aprire un grande dibattito nei nostri Atenei, che dovranno impegnarsi nella nuova formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria con le lauree e il Diploma di specializzazione e sostenere la formazione in servizio di insegnanti e dirigenti scolastici, collaborando all’aggiornamento disciplinare, didattico, tecnologico e organizzativo. Ancor più propositivi dovremmo essere, anche come SIRD, nei progetti di formazione in servizio relativi alla costruzione e diffusione delle competenze didattiche e digitali nei docenti impegnati a gestire le attività di potenziamento dell’offerta formativa delle reti di scuole e, in coerenza con gli obiettivi del Piano nazionale per la Scuola digitale, partecipare alla realizzazione di una “Rete nazionale di centri di ricerca e formazione sulle tecnologie didattiche”. E da ultimo dovremmo finalmente supportare i decisori politici e amministrativi non solo nella stesura dei numerosi Decreti applicativi della legge 107 prima richiamati, senza protagonismi individuali o correntizi di partito, ma con un servizio

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permanente di consulenza di esperti indicati dalle nostre Società Pedagogiche. Un servizio basato sulle evidenze derivate dalla ricerca storico-teoretica sulle finalità dell’educazione e da quella empirico-fattuale sul funzionamento dei sistemi di istruzione, in modo da assicurare un consenso ampio a scelte scientificamente motivate per il miglioramento dei processi di insegnamento dei docenti e di apprendimento degli studenti. Un servizio che punti prioritariamente a lavorare assieme ai nostri colleghi universitari, esperti nelle specifiche discipline di insegnamento della scuola secondaria, nella ricerca e nella sperimentazione didattica dentro le scuole. Memori degli errori, ma anche delle molte esperienze positive delle SSIS, e di ciò che non va assolutamente riproposto dei TFA e dei PAS, si deve aprire una nuova stagione collaborativa con gli insegnanti, che devono sentirsi attori e protagonisti del cambiamento della scuola italiana. Una “buona scuola” non sarà però garantita senza una “buona università” al suo fianco. E ciò va ricordato alle troppe burocrazie ministeriali con improvvisate conoscenze educative o settoriali competenze tecniche.

Un ringraziamento e un augurio

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Lascio dopo sette anni, con questo n.15, la direzione del Giornale Italiano della Ricerca Educativa – avendo ricevuto nel 2009 il lascito testimoniale di un n.1 on line di prova di Raffella Semeraro e Gaetano Domenici – a cui abbiamo dato forme editoriali stabili con il supporto qualificato della Pensa MultiMedia e in particolare di Carla. Devo innanzitutto un ringraziamento a tutti i colleghi dei Direttivi SIRD e del Comitato Scientifico, ad iniziare dal condirettore Piero Lucisano. La mia riconoscenza va poi ad Anna Serbati e a Maria Cinque, che si è aggiunta negli ultimi anni, per l’intelligente, accurata e riservata azione editoriale di supporto alla mia attività di responsabile nella scelta e nelle interlocuzioni con i quasi 200 referees, a cui va la mia stima per aver compreso che una comunità scientifica può affermarsi e migliorare solo se chi ha competenze specifiche, anziano o giovane che sia, le mette a disposizione di tutti. È stato per me un impegno faticoso – al di là degli oltre 170 articoli pubblicati e di un 10% di respinti – che ho accettato con la consapevolezza di una grande occasione di crescita culturale e politica, non tanto nel costruire modalità condivise per valutare la ricerca educativa basata sulle evidenze empiriche e su metodi qualitativo/quantitativi in ambito pedagogico, quanto piuttosto nel considerare la complessità multidimensionale della valutazione dei prodotti della ricerca. Sono convinto che oggi abbiamo tutti più chiaro che quando esprimiamo un giudizio di peer review dobbiamo costruirlo distinguendo per ogni ricerca l’ individuo /gruppo, lo scopo perseguito, l’impatto culturale/sociale, gli indicatori biblio/grafici/metrici di riferimento, ma dobbiamo anche considerare che quel giudizio avrà influenze sulle politiche di reclutamento, sullo stato giuridico dei professori e sulla loro retribuzione, sulle procedure concorsuali, sulla scelta dei progetti da finanziare, sull’attribuzione di risorse agli atenei. Quando è partita questa avventura non esisteva ancora l’ANVUR, ma abbiamo perseguito come presidenti di SIRD e SIPED, assieme ai nostri rappresentanti CUN, una strada per una valutazione di qualità delle Riviste nelle aree delle scienze umane e sociali, arrivando a costruire assieme criteri e requisiti condivisi per una classificazione (A-B-C), anche in funzione della VQR 2004-10. Un lavoro responsabile di selezione è stato svolto dalla Commissione composta dai rappresentanti

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delle nostre Società Scientifiche e coordinata con intelligenza da Massimo Baldacci. Oggi, dopo il proliferare di Riviste, ma anche di Collane e di Monografie all’inseguimento del “particulare” pedagogico (quando non l’indice “maledetto” delle mediane), forse sarebbe necessario che le nostre Società Scientifiche riprendessero una riflessione posta a Otranto nel 2011 (La formazione alla ricerca attraverso la ricerca) sulla difficile sostenibilità di 35 riviste di qualità e da quasi altrettante Case Editrici per una comunità di 600 pedagogisti. Esprimo comunque l’augurio che la SIRD riesca a premiare ogni anno almeno una ricerca didattica giudicata rilevante, prestigiosa, innovativa in un qualche contesto formale, non formale o informale di apprendimento e che il Giornale Italiano della Ricerca Educativa sia sempre più luogo aperto di confronto scientifico e metodologico.

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Teacher transformation: a transformative learning perspective

Edward W. Taylor • Penn State University, Harrisburg, USA - ewt1@psu.edu

Trasformazione del docente: una prospettiva di apprendimento trasformativo Supportare la trasformazione del docente e cambiare le credenze di insegnamento rappresentano una sfida significativa nella formazione dei docenti. Questo articolo esplora la trasformazione del docente secondo la prospettiva teorica dell'apprendimento trasformativo, con particolare riferimento alle pratiche che supportano l'apprendimento trasformativo. In risposta a questo interesse, l'articolo affronta una prospettiva critica sulla trasformzione, indagando ruolo e implicazioni di quattro costrutti essenziali: riflessione critica, esperienza, empatia e relazioni e cosa essi significhino per la pratica di supporto all'apprendimento trasformativo e alla trasformazione del docente.

Keywords: Teacher change, transformative learning theory, critical reflection, empathy, experience, relationships

Parole chiave: Cambiamento del docente, teoria dell'apprendimento trasformativo, riflessione critica, empiatia, esperienza, relazioni

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studi

Fostering teacher transformation, change in beliefs about teaching, is a significant challenge in the education of teachers. This paper explores teacher transformation, from the theory of transformative learning with a specific focus on growing interest in the practice of fostering transformative learning. In response to this interest this paper takes a critical perspective of fostering transformative exploring the role and implications of essential four constructs: critical reflection, experience, empathy and relationships and what they mean for the practice of fostering transformative learning and teacher transformation.


Teacher transformation: a transformative learning perspective

Researching teacher transformation for me began 10 years ago, when I followed 14 adult educators over a period of two years during their initial entry, and continued participation, in a Master’s degree in Adult Education. The intent was to explore how practicing adult educators’ beliefs about teaching were influenced and possibly changed by participating in a graduate program in adult education. Despite the emphasis in graduate programs on a more constructivist, learner-centered approach to teaching, the majority of participants:

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– retained a teacher-centered view of teaching, – epistemologically, continued to view knowledge as separate from the learner, and – maintained an instrumental (technical) view of teaching. I shouldn’t have been surprised by these findings. This lack of change was consistent with the research on teacher transformation –such that to change teaching beliefs is often challenging and quite difficult (Taylor, 2003). When a transformation in beliefs about teaching occurs a way of making sense of this transformation can be seen through the application of transformative learning theory. As many of you know, transformative learning (TL) is a theory of change that is considered uniquely adult and is situated in human communication where “learning is understood as the process of using a prior interpretation to construct a new or revised interpretation of the meaning of one’s experience in order to guide future action” (Mezirow, 1996, p. 162). Based on a constructivist philosophy, it is rooted in the idea that an individual’s worldview is framed by structures (e.g. a frame of reference) of assumptions that form the bases of individuals’ thinking, beliefs, values and actions. These assumptions are often tacit, outside the awareness of the individual, and mirror collectively held, unintentionally assimilated, shared cultural values and beliefs. This structure, the frame of reference, both limits and shapes an individuals’ perception and provides a context that filters to what experiences individuals choose to give meaning and how they construct that meaning. Furthermore, most learning reinforces and elaborates on existing frames of references. For example, in looking at transformative learning in relationship to teacher change, teacher beliefs give meaning to their practice and are continually reinforced through institutional norms and traditions. However some teachers, as result of a significant experience (such as a powerful in-service training experience, educational reform or a challenging student(s) in the classroom) find their frame of reference incompatible with or inadequate to provide understanding about the experience, and are emotionally provoked to question their deeply held assumptions about teaching. Often through a process of dialogue (with oneself or others) in concert with critical reflection and reflection on feelings about a significant experience leads to what Mezirow (2000) refers to as a “perspective transformation”— a worldview shift, reflecting a more dependable frame of reference. In the

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case of teacher transformation, a teacher begins to think about her students differently and about her role as an educator differently. Often he or she experiences an increase in self-efficacy, engages new approaches to teaching in the classroom and possibly takes on new roles in the larger institution. This perspective transformation potentially leads to a perspective that is “more inclusive, discriminating, permeable (open to other viewpoints), critically reflective of assumptions, emotionally capable of change and integrative of experience” (p. 19). Transformative learning theory first emerged on the academic landscape over 35 years ago. Early influences included the work of Kuhn (1962) on paradigms, Freire’s (1970) conscientization and Habermas’s (1971; 1984) domains of learning (Kitchenham, 2008), followed by much theoretical critique in the 90’s and early 2000’s. In addition, research about the theory continues to grow exponentially, with hundreds of studies published annually. Recently, there has been a Special Interest Group established at the ESREA (European Society for Research on the Education of Adults) Conference that focuses specifically on transformative learning. However, it is important to note that this movement has been a predominantly a North American phenomenon. A recent review exploring the degree to which European adult educators incorporate transformative learning as a framework in the development of their research revealed that “the theory of transformative learning does not have concrete roots in the conceptual formation of the European adult educators [and] authors do not see the need to place their work within the relatively new theory of transformative learning theory” (Kokkos, 2012, p. 297). This is unfortunate, particularly considering that there is rich European scholarship about adult education that focuses on the social and critical dimensions of adult learning (Bourdieu, Foucault, Mayo and others), that would have much to offer the study of transformative learning theory. Hopefully, this conference will encourage more involvement by European scholars. The most significant research concerning transformative learning theory and teacher transformation has involved the growing interest of using the theory to inform practice/training for fostering change. It is a practice of teaching that is “predicated on the idea that students (in this case, teachers) are seriously challenged to assess their value system and worldview and are subsequently changed by the experience” (Quinnan, 1997, p. 42). Even though transformative learning is conceptualized as a framework for shaping pedagogy, this was not Mezirow’s primary intent. However, this theory, very much like Howard Gardner’s work on multiple intelligences, has inspired a generation of adult educators and scholars to think about teaching in new and innovative ways, and is having an impact on the teaching of adults. The practice of fostering transformative learning holds much promise for enabling teacher transformation; although as a way of teaching, it is not well defined and is continually under development. Like the theory of transformative learning itself, the practice is rooted in constructivism and places a primary emphasis on fostering critical reflection in relationship to experience in the context of dialogue with others and with the self. In addition, there are other strategies (such encouraging an awareness of context, holistic ways of knowing and learner-centered teaching), although these tend to be given less attention. As best as I can ascertain, the application of transformative learning theory as a framework for practice began to show up in the literature in the mid to early 90’s, about 17-19 years after the theory was first introduced to the field of adult education (Taylor, 2000). Even though the practice of TL has experienced a significant growth of interest among adult educators, there is little indication that it

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is systemically shaping educational policy and practice across adult and higher education institutions. This lack of influence is likely due to the quality of research and the limited understanding of the impact of fostering transformative learning on learner outcomes (grades, test scores).

This brings me to the heart of my discussion about teacher transformation Despite the ever-increasing interest in fostering transformative learning as an approach for promoting teacher transformation, there is a need for a more critical perspective about this approach to fostering change. In particular, there are several constructs that have long been seen as central to transformative learning. Most significant are “critical reflection” and “experience,” and more specifically, teaching experience. In addition, there are two additional constructs, “emotions” and “relationships”, that I would argue are equally significant, but have long been given little attention in the study of fostering transformative learning. It is these four constructs (critical reflection, experience, emotions, and relationships) on which I would like to focus my presentation. Let me begin with critical reflection.

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Critical Reflection Critical reflection (CR), more than any other construct, has received the most attention as central to fostering transformation and to fostering teacher transformation. It is generally seen as a process of questioning deeply held assumptions. In the case of teacher transformation, it questions deeply-held beliefs about teaching. However, rarely discussed is the fact that CR is a contested construct that is frequently confused and distorted with various meanings of reflection and critical thinking (Kreber, 2012). To begin to understand the challenges of researching critical reflection, it is important to recognize that as a construct, it is quite complex, particularly in practice. For example, Mezirow (1991) draws a distinction between three forms of reflection: content, process, and premise reflection. It is ‘‘premise reflection that opens the possibility of perspective transformation’’ or change in teaching beliefs (p. 110) and which is often associated with critical reflection. This complexity is further compromised by the inadequate research involving this construct, particularly when it is identified as an outcome/indicator of change/transformation. Data for support of this phenomenon is limited at best. In addition, the research has a tendency to assume that critical reflection inherently takes place among certain education activities (e.g., problem based learning, journal writing, learning contracts and case study), although there is little effort to ensure that there is a direct relationship between critical reflection and these activities. Further raising the complexity of critical reflection is recognizing that it can be distinguished along three dimensions: (a) purpose - the goal of reflection; (b) focus - what is to be reflected upon/the object of reflection (e.g., feelings, thoughts, experiences); and (c) process - how and where reflection is implemented (Procee, 2006). These dimensions raise a number of interesting questions when ‘‘critical reflection’’ is fostered, such as: Can it be assumed by the instructor and the learner(s) that there is a shared purpose (goal) of reflection and focus of what is reflected upon?

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– Can the instructor assume that learners are reflecting on relevant and/or related assumptions? For example, can we assume that in teacher training programs, teachers are questioning deeply held assumptions about teaching that are the focus of the instructor and/or about the same context (classroom)? Furthermore, researchers have found that efforts to promote critical reflection are often demonstrated by ‘‘examples of poor practice being implemented under the guise and rhetoric of reflection . . . [and] that reality falls very far short of the rhetoric’’ (Boud & Walker, 1998, p. 192). Furthermore, there is a tendency to: – Assume that all reflection leads to learning, not recognizing that some students may not be reflecting in productive ways. – Overlook that much of reflection occurs at a tacit level, outside of one’s consciousness. – Overlook that some scholars argue that “mature cognitive development” is foundational for – CR. Meaning that CR is an acquired skill, not an inherent trait, that develops over time as individual gains greater cognitive abilities. – Intellectualize reflection, downplaying the role of emotions in the process of reflection. Recognizing these challenges of CR are imperative, particularly when conducting research. Also scholars should explore more creative approaches in researching CR, such as engaging multiple methods of collection (video recall, journaling), and technological innovation that allow participants to capture their thoughts in the moment, instead of retrospectively.

Experience Another concept that is central to transformative learning and teacher transformation in general is “experience,” particularly prior classroom teaching experience. It is considered the primary medium of critical reflection and it is the revision of the meaning of experience that is the essence of transformation. As Mezirow (2000) states: “Learning is understood as the process of using a prior interpretation to construe a new or revised interpretation of the meaning of one’s experience in order to guide future action (p. 8).” It is also experience that forms the basis for habitual expectations (ideologies, beliefs, values), creating the lens from which learners perceive, interpret and make meaning of their world. Reflecting about teaching includes the exploration of significant prior teaching experiences, the impact of more immediate experiences (individual and group) created in the in-service and training session designed to foster transformative learning, and the degree or depth of experience. Despite the potential of deep reflection on experience as a medium for transformation, the approach of analyzing experience as an individual endeavor raises two concerns about understanding experience as a construct. – There is an assumption that experience can be interpreted by an individual unproblematically, overlooking the non-unitary and fragmented nature of the Self, such that individuals can hold both multiple and contradictory perspectives of an experience simultaneously (Kilgore & Bloom, 2002; Merriam & Kim, 2012).

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– In the research there is over-reliance on the use of retrospective interviews when exploring transformation of prior experience, reflecting an attempt to lift “experience” from the individual in totality, frozen in time and space stripped of context (both the original context where the experience was generated and the context where the experience is being recalled) which, as argued by some, includes the very mediating structures (cultural, historical, social) that give meaning to that experience (Clark & Wilson, 1991).

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For future research on teacher experience and the transformation of teacher experience, it is imperative that researchers recognize the dialectical nature of experience and context – which is recognizing the role of the sociocultural and historical setting, social recognition and the personal interpretation of change. This means that when exploring “teacher experiences” it needs to be understood in the context (exploring mediating factors) in which it unfolded originally, and how the context in which the experience is being recalled shapes the telling of the experience. In contrast to the CR and Experience there are two, equally essential constructs to fostering transformative learning that have historically been given much less attention, emotions and teacher – learner relationships, that warrant much more serious attention to the practice of fostering transformation in general, and in particular, teacher transformation.

Emotions Teacher transformation often results in significant emotional experiences, such that change in practice can be perceived as threatening, scary and leading to a heighten sense of vulnerability. For many teachers it is this depth of emotions associated with change that cause many to avoid change. Consequently, they further inhibit much-needed self-awareness of assumptions about teaching, assumptions which are so deeply tied to strong emotions. Supported by the field of neuroscience, we know of a deeply integrated relationship between the physiological processes (both separate and interacting systems) of cognition and emotion (Damasio, 2005). Historically, emotions have been seen as separate from, less complex than, and primitive in relationship to higher order thinking (cognition). Contemporary research, on the other hand, reveals that emotions are inherently cognitive, because “emotions anticipate future needs, prepare for actions, and even prepare for thinking certain types of thoughts’ (Parrot & Schulkin, 1993, p. 56) filling the “gaps left by ‘pure reason’ in the determination of action and belief ” (de Sousa, 1991, p. 195). Emotions predominantly reside in the subcortical structures of the brain; however, at the same time, they have an interdependent relationship with the neocortex, which is responsible for managing cognitive processes. Within this subcortical structure (a part of the limbic system) “where the systems concerned with emotion/feeling, attention, and working memory interact so intimately that they constitute the source for the energy of both external action (movement) and internal action (thought, animation, reasoning” (Damasio, 1994, p. 139). It is emotions that provide a value (valence) to the various decisions individuals have to make in their everyday life, helping to prioritize the decisions, many of which take place outside their conscious awareness (Mälkki, 2010). For example, looking at the traditional view of critical reflection; more specifically, rationality, reason, or formal logic, assumes that decision-making devoid of

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emotions provides the best available means for solving a dilemma/problem. However, as Van Woerkem notes, “purely objective reasoning cannot determine what to notice, what to attend to, and what to inquire about.” Emotions can be understood as “guiding the process of reasoning—or distorting them, depending on the describer’s assessment of their appropriateness” (de Sousa 1991, p. 197). It is emotions that provide people with the ability to respond quickly to emergencies, prioritize their goals, coordinate their behavior, plan and prepare for proper action, and make progress towards goals. They address the challenge often associated with the slow and error-prone process of objective rationality (Johnson-Laird and Oatley 1992). Emotions focus attention and provide guidance and motivation for action. Emotions, often powerful emotions, are related to experience when engaging in critical reflection—a process of challenging how an individual makes meaning of his or her world. It is these emotions, even very positive ones, that become the catalyst for critical reflection. This means that in the training of teachers, feelings about engaging in new educational reforms and teaching approaches need to be given as much attention as critical reflection. Despite the recognition of emotions in relationship to the process of critical reflection, emotions are still given little attention when critical reflection is discussed in literature, particularly in relationship to activities that are designed to foster critical reflection. There is often little guidance on how to give meaning and application to the role of emotions in the context of critical reflection. In response to this concern, trainers of teachers need to develop a greater sense of empathy, that of the capacity to identify, acknowledge and process feelings. It is empathy that provides a framework for understanding the role of emotions in relationship to critical reflection, and the means to inform practice of fostering critical reflection and transformative learning more effectively.

Relationships The last construct I will speak about, although equally significant, is that of the role of relationships. This construct is one of the least appreciated and understood, particularly when it comes to transformative learning and teacher transformation. It is through the medium of relationships that all the previous constructs manifest. Like the constructs CR and experience, relationship is also poorly defined and understood, and is one of the most challenging to put into practice in fostering change. To a large extent, all change, rests “on establishing meaningful, genuine relationships with students” (Cranton, 2006, p. 5). Research has found that establishing positive and productive relationships with others is one of the essential factors in a promoting change (Taylor, 2007; 2012). It is through building trusting relationships that teachers develop the necessary confidence to engage in critical reflection in concert with learning on an affective level, where transformation at times can be perceived as threatening and an emotionally charged experience. Characteristically, trainers of teachers should strive for what is referred to in the literature as authentic relationships with novice teachers. Authentic relationships reflect: – a strong sense of self-awareness; – a deep awareness of the needs and interests of learners and how they may differ from the interest of the educator; – a modeling of the ability (of educators and students, for example) to be genuine and open with others;

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– a deep awareness of how context shapes practice, and – a modeling of critical self-reflection about practice (Cranton, 2006). By striving for a more authentic practice, the teacher trainer integrates all the core elements of fostering transformative learning. In essence, the teacher trainer is willing to change as the novice teacher transforms his or her practice. It is in the context of authentic relationships that individuals are encouraged to have questioning discussions, share information openly, and to achieve greater mutual and consensual understanding. Without the medium of healthy and significant relationships, critical reflection is impotent and hollow, lacking the genuine discourse necessary for thoughtful and in-depth reflection. It is through authentic relationships that teachers and learners establish a foundation for transformative learning.

Conclusion 24

These issues about fostering transformative learning for teacher transformation are really just the tip of the iceberg. Other challenges include, for example, the constant reference in the literature to providing a supportive and safe environment without any discussion of how this works with a teaching approach that is often about ‘‘confronting participants with the unexpected, unfamiliar, surprising, and perhaps even disturbing ideas” (Kreber, 2012, p. 330). It begs the question of whether ethically, educators should explicitly inform learners about the goal of TL and its related implications at the beginning of a course. Furthermore, how do educators of teachers challenge new teachers (e.g., with a disorienting dilemma) within a safe and supportive learning environment? These are just a few of many questions that need to be better understood. More specifically, based on this previous discussion for scholars engaged in the study of fostering TL and teacher transformation, it means that: More research is needed that focuses on the essential constructs (e.g., critical reflection, experience, role of emotions, relationships,) associated with fostering TL, providing opportunities to more effectively isolate new insights and challenges. These constructs also need to be problematized and limitations discussed that go along with translating these components into the real world. In addition, it means designing creative research approaches beyond singular in situ group studies, convenient and small populations, to comparability, and/or mixed method designs, random samples, and the development of a valid quantitative survey to assess the outcomes and processes of people engaged in TL (Cranton, Stuckey, & Taylor, 2012). Finally, essential to teacher transformation ‘‘more research is needed that simultaneously engages teachers in action research about their practice, theoretically framed by transformative learning so to better understand their relationship, ultimately resulting in a more informed practice for fostering transformative and an effective method of classroom research. Fostering TL for teacher transformation holds much promise for promoting teacher change, however, it must be engaged from a critical perspective!

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References Post script: Major parts of this address drew on several published *articles that offer much more in-depth discussion on critical reflection, empathy, relationships and transformative learning theory. Boud D., & Walker D. (1998). Promoting reflection in professional courses: The challenge of context. Studies in Higher Education, 23, pp. 191-206. Clark M. C., & Wilson A. L. (1991). Context and rationality in Mezirow’s theory of transformational learning. Adult Education Quarterly, 41(2), pp. 75-91. Cranton P. (2006). Understanding and promoting transformative learning. San Francisco: Jossey-Bass. Cranton P., Stuckey H., & Taylor E. (2012). Assessing transformative learning outcomes and processes. Paper presented at the 10th International Transformative Learning Conference, San Francisco, CA. Damasio, A. R. (1994, 2005), Descartes’ error: Emotion, reason, and the human brain (New York: G. P. Putman’s Sons). de Sousa R.(1991), The rationality of emotion. Cambridge, MA: The MIT Press. Freire P. (1970). Pedagogy of the oppressed. New York: Herder and Herder. Habermas J. (1971). Knowledge and human interests. Boston: Beacon Press. Habermas J. (1984). The theory of communicative action. (Trans. Thomas McCarthy). Boston: Beacon Press. Johnson-Laird P. N. & Oatley K.(1992), Basic emotions, rationality, and folk theory. Cognition and Emotion, 6, pp. 201-223. Kilgore D. & Bloom L. R. (2002). “When I’m down, it takes me a while”: Rethinking transformational education through narratives of women in crisis. Adult Basic Education, 12, pp. 123-133. Kitchenham A. (2008). The evolutions of John Mezirow’s transformative learning theory. Journal of Transformative Education, 6(2), pp. 104-123. Kokkos A. (2012). Transformative learning in Europe. In E. W. Taylor & P. Cranton (Eds.), Handbook of transformative learning: Theory, research and practice (pp. 289-303). San Francisco: Jossey-Bass. Kreber C. (2012). Critical reflection and transformative learning. In E. W. Taylor & P. Cranton (Eds.), Handbook of transformative learning: Theory, research and practice (pp. 323341). San Francisco: Jossey-Bass. Kuhn T. S. (1962). The structure of scientific revolutions. Chicago: University of Chicago. Merriam S. B. & Kim S. (2012). Studying transformative learning: What methodology? In E. W. Taylor & P. Cranton (Eds.), Handbook of transformative learning: Theory, research and practice (pp. 56-72). San Francisco: Jossey-Bass. Mälkki K. (2010). Building on Mezirow’ theory of transformative learning: Theorizing the challenges to reflection. Journal of Transformative Education, 8(1), pp. 42-62. Mezirow J. (1991). Transformative dimensions of adult learning. San Francisco: Jossey-Bass. Mezirow J. (1996). Contemporary paradigms of learning. Adult Education Quarterly, 46(3), pp. 158-172. Mezirow J. & Associates (2000). Learning as transformation. San Francisco: Jossey-Bass. Parrott W. G. & Schulkin J. (1993), Neuropsychology and cognitive nature of the emotions. Cognition and Emotions, 7, pp. 43-59. Procee, H. (2006). Reflection in education. A Kantian epistemology. Educational Theory, 56, pp. 237-253. Quinnan, T. W. (1997). Adult students “at-risk”: Culture bias in higher education. Westport, CT: Greenwood Press. *Taylor E. W. (In-press). Empathy and reflection. Educational Reflective Practices. *Taylor E. W. & Laros A. (2104). Researching the practice of fostering transformative learning: Lessons learned from the study of andragogy. Journal of Transformative Education DOI: 10.1177/1541344614548589

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*Taylor E. W. & Cranton P. (2013). Theory in Progress? Issues in Transformative Learning Theory. European Journal for Research on the Education and Learning of Adults (RELA), 4(1), pp. 33-47. *Taylor E. W. & Snyder M. J. (2012). A critical review of research on transformative learning theory, 2006-2012 (Eds). Handbook of transformative learning: Theory, research and practice (pp. 37-55). San Francisco: Jossey-Bass. Taylor E. W. (2007). An update of transformative learning theory: A critical review of the empirical research (1999-2005). International Journal of Lifelong Education, 26, pp. 173191. Taylor E. W. (2003) The relationship between the prior school lives of adult educators’ and their beliefs about teaching adults. International Journal of Lifelong Learning, 22(1), pp. 59-77. Taylor E. W. (2000) Fostering Mezirow’s Transformative Learning Theory in the adult education classroom: A critical review. The Canadian Journal of the Study of Adult Education, 14, pp. 1-28.

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Didattica ibrida e insegnamento universitario: linee guida per una progettazione efficace Guglielmo Trentin • CNR – Istituto Tecnologie Didattiche, Genova - trentin@itd.cnr.it Stefania Bocconi • CNR – Istituto Tecnologie Didattiche, Genova - bocconi@itd.cnr.it

Hybrid Instruction in Higher Education: guidelines for effective design

The paper aims to highlight the role of network and mobile technologies in enhancing the particular characteristics of hybrid instruction solution (HIS) with a view to (a) potentiating/enriching the teaching/learning processes in higher education, (b) exploiting the varied opportunities it offers for their observability, and hence for their monitoring addressed to formative and summative assessment. A possible breakdown of HIS into its key dimensions of the learning process and the learning space will be proposed. The aim is to understand how the characteristics of each dimension can be used to enhance both the teaching/learning and the assessment processes. In this sense, the article will show how this potential can only be captured by solidly integrating the process of instructional design with that of monitoring and assessment. To conclude, the discussion will focus on the different role and responsibility of teachers in a hybrid instruction solution, shifting from a vertical model of knowledge transmission to a more horizontal one, based on collaborative processes as well as individual study.

Parole chiave: hybrid instruction solution; tecnologie mobili e di rete; valutazione; apprendimento collaborativo; progettazione didattica; istruzione universitaria.

Keywords: hybrid instruction solution; network and mobile technologies; assessment; collaborative learning; instructional design; higher education.

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Scopo dell’articolo è mettere in evidenza il ruolo delle tecnologie mobili e di rete nell’esaltare le peculiarità delle hybrid instruction solution (HIS) dal punto di vista (a) del potenziamento/arricchimento dei processi di insegnamento/apprendimento, (b) delle molteplici angolature che offre alla loro osservabilità e quindi al loro monitoraggio e valutazione (formativa e sommativa). Verrà proposta una possibile articolazione delle HIS lungo le dimensioni del processo di apprendimento e degli spazi in cui questo si sviluppa, con l’obiettivo di comprendere come far leva sulle loro rispettive peculiarità ai fini didattici e valutativi. In tal senso, si illustrerà come tali potenzialità possano essere colte solo attraverso una forte integrazione del processo di progettazione didattica con quello di monitoraggio e valutazione. A conclusione dell’articolo si farà riferimento al cambiamento del ruolo del docente nel passaggio da un insegnamento d’aula a un insegnamento di tipo ibrido (h-teaching).


Didattica ibrida e insegnamento universitario: linee guida per una progettazione efficace

1. Una panoramica sulle soluzioni ibride nella didattica universitaria

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Negli ultimi anni, modelli di didattica ibrida (hybrid instruction solution – HIS) si stanno diffondendo nell’istruzione universitaria (Dziuban, Moskal, Kramer & Thompson, 2013). Per quanto il significato del termine “hybrid solution” (spesso usato in modo intercambiabile con “blended solution”) sia ancora in fase di definizione (Kaleta, Skibba & Joosten, 2007; Millichap & Vogt, 2012), sembra comunque esserci un ampio consenso nell’interpretare l’approccio HIS principalmente come combinazione di attività didattiche in presenza e online (Stacey & Gerbic, 2008; Graham & Dziuban, 2008). In realtà, nell’accezione di “hybrid” andrebbero considerate l’integrazione non solo di elementi legati alla spazialità, reale o virtuale che sia, ma anche delle modalità comunicative (sincrone e asincrone), delle strategie didattiche da adottare nei diversi momenti e nei diversi spazi in cui si sviluppa il processo di insegnamento-apprendimento, dei diversi strumenti tecnologici e delle risorse per l’apprendimento da utilizzare a supporto dello studio individuale e/o collaborativo. Dal punto di vista pedagogico, poi, una profonda comprensione delle pratiche consolidate diventa un elemento chiave per assicurare la qualità e l’efficacia di un qualsiasi ambiente in grado di dar luogo a soluzioni di hybrid instruction. Alcuni autori focalizzano l’attenzione sul potenziale che le HIS hanno nell’imprimere una sostanziale trasformazione ai processi di insegnamento-apprendimento (Smythe, 2012; Johnson et al., 2014). Per esempio, nella definizione di Trentin e Wheeler (2009), viene messa in evidenza la potenzialità che tali soluzioni hanno nel migliorare la qualità complessiva del processo di insegnamento-apprendimento, attraverso la pianificazione di strategie didattiche la cui efficacia venga proprio esaltata dalla complementarietà delle attività d’aula con quelle online. Kaleta, Skibba e Joosten (2007) hanno esaminato numerose esperienze sviluppatesi in ambito universitario riguardo la progettazione e l’erogazione di corsi ibridi, identificando i fattori principali che ne determinano l’adozione. Fra questi, la formazione dei docenti, chiave di volta per un reale processo di innovazione nella didattica universitaria (Trentin, 2007; Repetto e Trentin, 2011). Affinché le HIS possano fungere da leva per favorire pratiche didattiche innovative e livelli di apprendimento significativi, dovrebbero essere progettate in modo da supportare strategie collaborative, centrate sul protagonismo degli studenti e, al contempo avere al loro interno strumenti funzionali alla valutazione degli apprendimenti. Kali et al. (2007), per esempio, hanno analizzato i processi che hanno favorito gli apprendimenti in tre corsi universitari ibridi, concludendo che ogni HIS dovrebbe essere progettata sulla base di tre elementi chiave: (a) coinvolgere i discenti in attività di insegnamento alla pari; (b) coinvolgere i discenti in attività di valutazione alla pari; (c) riusare gli artefatti sviluppati dai discenti come risorsa per successive attività di apprendimento e/ confronto (Trentin, 2010).

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Scopo del presente articolo è esplorare il ruolo delle tecnologie mobili e di rete (TMR)1 nel facilitare lo sviluppo di nuove forme di HIS, e questo partendo da esperienze già consolidate (Trentin, 2014) di ibridazione dei processi di apprendimento (individuale e collaborativo) e degli spazi in cui questi si sviluppano (in presenza e in rete), dove il fluire della conoscenza avviene trasversalmente sia ai contesti formali (l’aula), sia a quelli informali (l’extra-aula).

2. Le dimensioni chiave delle HIS per la didattica universitaria Dalla letteratura specializzata emerge chiaramente come siano diversi i modi di concepire le HIS (Graham, Woodfield & Harrison, 2013). È molto probabile che il motivo vada ricercato nel concetto stesso di “hybrid”, ossia di mescolare diversi approcci didattici, nelle più disparate combinazioni, nel proporre attività di studio finalizzate al raggiungimento di uno o più obiettivi formativi. Nella didattica universitaria molti docenti ritengono che le soluzioni miste siano quelle più sostenibili, in quanto portatrici dei vantaggi tipici dei diversi approcci che concorrono a formarle. Fra i motivi che spesso muovono l’adozione di tali approcci vi è la possibilità di: – recuperare tempo d’aula a favore di una maggiore interazione con gli studenti, delegando ai materiali didattici, quando possibile, la funzione espositiva che potrebbe avere il docente durante una lezione frontale. In altre parole, il docente limita l’esposizione in aula riguardo ciò che il discente può studiare in modo autonomo (la conoscenza esplicita veicolata attraverso manuali, pubblicazioni, video), reinvestendo il tempo guadagnato in interazioni dirette con gli allievi finalizzate sia a ulteriori spiegazioni e chiarimenti, sia a trasmettere il proprio know-how professionale (la conoscenza non esplicita, o comunque non veicolabile attraverso manuali e pubblicazioni); – favorire processi strutturati di apprendimento collaborativo altrimenti non proponibili per mancanza di sufficiente tempo d’aula e/o spazi fisici; in aggiunta, grazie alla comunicazione asincrona possibile attraverso l’interazione in rete, offrire a ciascuno studente la possibilità di partecipare attivamente ad attività di gruppo seguendo i propri ritmi di studio e di apprendimento; – ridurre il numero di lezioni frontali, ad esempio, per venire incontro agli studenti lavoratori o molto distanti dalla sede universitaria, oppure ancora per trovare soluzioni (per quanto blande) al problema della disponibilità delle aule dove far lezione. Come si vede, nel primo e nel secondo caso la scelta è più di tipo didattico, tesa cioè all’ottimizzazione del tempo d’aula, senza necessariamente ridurre il numero di lezioni in presenza; nel secondo caso, invece, l’intento è principalmente quello di dare soluzioni a problemi di tipo logistico-organizzativo. È forse questa una delle principali ragioni per cui, nonostante il concetto di “soluzione ibrida” si riferisca all’integrazione di metodi e strumenti didattici più

1

In questo articolo, il termine TMR è usato con un’accezione piuttosto ampia, inglobando sia le tecnologie della comunicazione, sia le risorse di rete fruibili attraverso le stesse (es. social media, instant messaging, applicativi per il collaborative work, ecc.).

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che alla dimensione spazio-temporale, l’aspetto delle HIS che normalmente viene messo in risalto riguarda l’alternanza fra attività di studio in presenza e a distanza. In realtà, dietro il concetto di HIS si nasconde il mixage di più approcci formativi, mixage che può essere realizzato nel proporre attività didattiche esclusivamente in presenza, esclusivamente a distanza e/o nella loro combinazione presenza/distanza. In questo articolo, per mettere maggiormente in evidenza il ruolo delle TRM nell’esaltare le peculiarità delle HIS, invece di porre l’accento sull’alternanza presenza/distanza, si parlerà di onsite/online learning dove – con onsite learning si farà riferimento al processo di apprendimento che ha luogo in uno spazio fisico (durante una lezione in aula, un lavoro collaborativo in laboratorio, lo studio in biblioteca o presso la propria abitazione); – con online learning ci si riferirà al processo di apprendimento (individuale e/o collaborativo) che invece si sviluppa nello spazio virtuale secondo i canoni dell’online education.

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La Figura 1 mostra come le HIS si sviluppino lungo tre principali dimensioni, ossia del processo di apprendimento (collaborativo/individuale), dell’ambientazione in cui avviene (aula/extra-aula) e dello spazio in cui si sviluppa (onsite/online).

Fig. 1: Le dimensioni chiave delle Hybrid Instruction Solution (HIS)

In una HIS il bilanciamento fra attività in presenza e online (spazio di apprendimento) può variare considerevolmente in ragione dell’ambientazione in cui hanno luogo (aula, extra-aula) e delle scelte pedagogiche (processo di apprendimento individuale, collaborativo). Ai fini didattici e valutativi, la nostra discussione si concentrerà di seguito sul processo di apprendimento e sullo spazio in cui questo si sviluppa, considerando l’ambientazione come dimensione trasversale (in altre parole, guarderemo al processo di apprendimento collaborativo/individuale che si sviluppa in spazi reali/virtuali indipendentemente dal fatto che sia in aula/extra-aula). Per essere efficace, lo sviluppo di una HIS deve essere basato non solo su un’adeguata integrazione di metodi e strumenti per l’insegnamento, ma anche su scelte pedagogiche riguardo la complementarietà e il dosaggio delle componenti in presenza e online del processo di insegnamento-apprendimento.

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In altre parole, le attività in presenza devono contribuire a gettare le basi per il più efficace sviluppo della successiva attività in rete, chiarendo obiettivi, assegnazioni, tempi e risultati attesi. Allo stesso modo, le attività in rete devono essere impostate in maniera tale da risultare funzionali (se non addirittura indispensabili) al successivo incontro in presenza (Trentin, 2010). Per aiutare la comprensione di come le caratteristiche specifiche delle HIS possano essere sfruttate in un ambiente di didattica universitaria, in Figura 2 è riportata una matrice le cui due dimensioni si riferiscono rispettivamente agli spazi in cui si sviluppa il processo di apprendimento (onsite/online) e alla caratteristica del processo stesso (individuale/collaborativo). Combinando fra loro queste due dimensioni si vengono a formare i 4 quadranti illustrati in Figura 2, ciascuno dei quali definisce una specifica HIS, identificativa di una particolare situazione disegnata per arricchire, attraverso il supporto delle TMR, sia il processo di insegnamento-apprendimento, sia quello di valutazione degli apprendimenti (Bocconi & Trentin, 2014): 1. 2. 3. 4.

apprendimento individuale in presenza; apprendimento individuale online; apprendimento collaborativo online; apprendimento collaborativo in presenza.

Fig. 2: La matrice combinatoria delle due dimensioni qui prese a riferimento per le HIS

Il primo quadrante (apprendimento individuale in presenza) si riferisce a un processo di apprendimento di tipo individuale all’interno di uno spazio fisico (l’aula, la biblioteca, la propria abitazione). In questa situazione, le TMR possono essere utilizzate come mezzo per amplificare i processi informativi e comunicativi fra docenti e discenti, migliorando e ampliando in questo modo le opportunità di scambio di conoscenze e informazioni. Per esempio, la tecnologia mobile può essere usata dal docente per catturare e condividere al volo impressioni e percezioni degli studenti (usando un hashtag di Twitter) sugli argomenti presentati a lezione (Luckin et al., 2012), dando in questo modo a tutti la possibilità di farsi coinvolgere nel confronto sui contenuti, stimolando al contempo una sorta di auto-valutazione prima di lasciare l’aula. Dalla prospettiva del docente, l’uso della tecnologia mobile in abbinata a servizi di messaggistica istantanea e di consultazione (che consentono di mantenere trac-

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cia degli scambi fra tutti i membri del processo), favorisce la raccolta di numerose informazioni sulle impressioni e le percezioni degli studenti, superando le tradizionali limitazioni imposte dal tempo d’aula che impediscono di rilevare puntualmente i bisogni specifici degli studenti lungo il percorso di apprendimento dei contenuti di un corso. Il secondo quadrante (apprendimento individuale online) riguarda il processo di apprendimento che si sviluppa, a livello individuale, nello spazio virtuale (ambienti immersivi per l’apprendimento, laboratori remoti, simulazioni interattive a distanza). In questo caso, le TMR diventano loro stesse uno strumento realizzativo dello “spazio di apprendimento”. Un esempio per tutti. Utilizzando le TMR è possibile, in tempo reale, accedere online alla strumentazione di laboratori remoti e con essa condurre direttamente esperimenti. Fra l’altro, si tratta di un modo molto efficace per gettare un ponte fra teoria e pratica (Shea, 2007), aumentando così l’efficacia del processo di apprendimento (Luckin et al., 2012). Sappiamo, infatti, quanto funga da forte stimolo per gli studenti il poter agire direttamente su ambienti di simulazione, formulando ipotesi (inquiry-based learning) e verificandone immediatamente la correttezza. Riguardo alla valutazione degli apprendimenti e dei processi che ne sovrintendono il raggiungimento, le TMR offrono ai docenti l’opportunità di tracciare le complesse attività degli studenti, raccogliendo al contempo una vasta gamma di informazioni e dati relativi alle loro decisioni e ai loro modi di operare nei suddetti ambienti remoti di apprendimento. Il terzo quadrante (apprendimento collaborativo online) si riferisce al processo di apprendimento favorito dall’interazione sociale degli studenti all’interno di spazi virtuali (social media, ambienti CVE – collaborative virtual environments, sistemi NSCL – network supported collaborative learning). Qui il fuoco è sull’uso delle TMR come strumento di facilitazione dell’interazione collaborativa online fra pari. Dal punto di vista del processo di apprendimento, le TMR non solo supportano, potenziano e migliorano lo studio collaborativo online, ma incrementano anche le dinamiche di aiuto-reciproco fra gli studenti. In questo senso offrono loro pari opportunità nel partecipare attivamente alle vicende del gruppo di apprendimento e nel supportarsi a vicenda durante lo studio e l’applicazione di quanto appreso, socializzando problemi, soluzioni e strategie d’utilizzo della conoscenza appena acquista. Dal punto di vista della valutazione sommativa, le TMR offrono al docente nuove opportunità nel condurre il processo di monitoraggio e di valutazione, questo attraverso la raccolta di maggiori informazioni riguardo i tre elementi chiave legati all’apprendimento collaborativo: (a) il processo collaborativo messo in atto dagli studenti; (b) le caratteristiche del prodotto realizzato collaborativamente; (c) gli apprendimenti individuali (Swan, Shen & Hiltz, 2006; Trentin, 2010). In questo senso, i dati oggettivi prodotti dal tracciamento automatico dei sistemi online (numero dei messaggi scambiati, analisi della struttura e dell’intensità delle interazioni sociali che si sviluppano in rete) possono essere combinati con dati più soggettivi (valutazione personale del docente, valutazioni tra pari condotte all’interno del gruppo di apprendimento), al fine di consentire una valutazione sia sulla progressione del processo di apprendimento degli studenti, sia sulla partecipazione attiva e contributiva di ciascuno di essi all’intera attività del gruppo (Trentin, 2009; Bocconi, 2012). Infine, il quarto quadrante (apprendimento collaborativo in presenza) riguarda il processo di apprendimento di gruppo che ha luogo in uno spazio fisico (aula, biblioteca, sala di studio, abitazione). In questo senso docenti e studenti possono usare le TMR per supportare e amplificare lo scambio di conoscenze a livello di

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gruppo, anche utilizzando risorse e strumenti reperibili al di fuori dello spazio fisico in cui avvengono l’interazione e lo studio collaborativo. Dal punto di vista dei docenti, le TMR possono facilitare l’organizzazione e la gestione dell’interazione in aula, consentendo loro di raccogliere automaticamente informazioni e dati provenienti dalle interazioni degli studenti, con la possibilità di restituire rapidamente feed-back alla discussione in atto all’interno dei gruppi. Un esempio a chiarimento di questo punto. Le TMR consentono di gestire in tempo reale strategie di interazione educativa mutuate dal metodo Delphi (Jones & Hunter, 1995) attraverso: – la richiesta a ciascuno studente di riflettere su un particolare concetto/problema, inviando contestualmente in rete (utilizzando ad esempio un “modulo” di Google Drive) la propria riflessione/soluzione; – la restituzione all’aula, sempre attraverso la rete e in forma tabellare (quella ad esempio prodotta in automatico dal “modulo” di Google Drive), di tutte le risposte ricevute; – la richiesta a ciascuno studente di confrontare la propria risposta con le altre e, al termine, se è il caso, di modificarla sulla base degli stimoli prodotti dalla lettura degli altri contributi. L’uso di TMR consente l’adozione di un simile approccio anche all’interno di aule numerose, dove, ad esempio, può essere usato come attività di “riscaldamento” degli studenti sugli argomenti oggetto del giorno, stimolandone una prima riflessione e al contempo innescando il coinvolgimento attivo dell’aula alla lezione (Smith et al., 2009). Questo spesso consente al docente di intercettare in anticipo carenze conoscitive, fraintendimenti e idee non corrette su cui poi lavorare, durante la lezione, per porvi rimedio. Provando a sintetizzare quanto detto finora, possiamo dire che: – nella dimensione dell’apprendimento onsite (individuale e/o collaborativo), le TMR sono principalmente usate per realizzare “spazi informativi e comunicativi” funzionali ad amplificare i flussi e la condivisione di conoscenza (Trentin, 2014), mentre il processo di apprendimento (individuale e/o collaborativo) continua ad aver luogo all’interno di spazi fisici; – nella dimensione dell’apprendimento online (individuale e/o collaborativo), le TMR concorrono a realizzare lo “spazio di apprendimento” dove ha luogo il processo di acquisizione di nuova conoscenza. La questione chiave che emerge dall’analisi di ciascuno dei 4 quadranti di Figura 2 è l’esigenza di individuare quali tipologie di pratiche didattiche sono possibili attraverso l’uso delle TMR, nell’ottica di concepire e definire le modalità attraverso cui favorire il processo di apprendimento all’interno di spazi ibridi (Trentin, 2014), dando così vita a HIS pedagogicamente sostenibili. Ma che cosa si intende di preciso per “spazio ibrido”? L’uso di Internet e della comunicazione cellulare, entrambi favoriti dal progressivo diffondersi dell’abitudine a portare con sé i propri dispositivi mobili (bring your own device – BYOD) (Alberta Education, 2012), amplificano la dinamicità delle interazioni (interpersonali e con le risorse online) e degli “spazi” in cui le stesse avvengono.

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Questo fa però nascere l’esigenza di discostarsi dal concetto di netta discontinuità fra spazi fisici e digitali, andando verso una nuova visione dello spazio d’interazione che, per l’appunto, possiamo definire “ibrido”. Gli spazi ibridi sono quindi spazi dinamici, creati dal costante movimento delle persone che hanno con sé i dispositivi mobili perennemente collegati alla rete Internet e/o a quella cellulare. La possibilità di una connettività costantemente attiva quando ci si muove attraverso una città trasforma la nostra percezione dello spazio, includendo contesti remoti in quello vissuto al momento (deSouza e Silva, 2006). In questo senso uno spazio ibrido è concettualmente differente da ciò che definiamo come realtà mista, realtà aumentata o realtà virtuale. La scomparsa dei confini tra spazi fisici e spazi digitali, fortemente interconnessi e non più facilmente distinguibili, genera un nuovo piano d’interazione che offre nuovi modelli comunicativi a supporto dei processi di insegnamento/apprendimento.

3. Linee guida per progettazione HIS nella didattica universitaria 34

Dopo aver scomposto un possibile modello di HIS nelle sue diverse componenti (Fig. 2), e dopo aver discusso come far leva sulle loro rispettive peculiarità con il supporto delle TMR, a questo punto proviamo a immaginare il percorso inverso, ossia, date le suddette componenti, come ricombinarle di volta in volta e in modo sempre diverso, in una HIS, in funzione sia del processo di insegnamento-apprendimento, sia di quello valutativo, formativo o sommativo che sia. È bene subito sottolineare come questi due processi (insegnamento/apprendimento e valutazione) abbiano la necessità di “interloquire” fra loro. In altre parole, nel progettare l’attività didattica è necessario creare le condizioni per cui il percorso seguito dagli studenti sia “osservabile” e “tracciabile”, in modo tale che dalle loro azioni, singole e/o di gruppo, si possano desumere informazioni e dati utili per la valutazione. Il processo valutativo può riguardare: (a) i singoli studenti (es. livello di apprendimento, di contributo attivo al lavoro di gruppo); (b) i prodotti sviluppati durante lo svolgimento dell’attività proposta (artefatti, soluzioni a problemi, esercitazioni, ecc.); (c) il processo didattico messo in atto dal docente per raggiungere gli obiettivi dichiarati. Per “osservabili” intendiamo attività che possano essere, per l’appunto, osservate dal docente. Ad esempio, una discussione su un forum che consenta di trarre conclusioni non tanto (o non solo) sul livello di partecipazione attiva dei singoli studenti all’attività di gruppo, ma anche sul loro modo di usare il lessico proprio della disciplina, il modo di argomentare i loro punti di vista e/o le loro scelte, ecc. Elementi molto importanti per aiutare il docente a comprendere quanto gli studenti stiano progredendo nell’acquisizione delle conoscenze disciplinari e trasversali (lavorare in gruppo, esprimersi in modo corretto, argomentare i propri punti di vista, ecc.). Per “tracciabili” intendiamo delle attività che lascino “tracce digitali” analizzabili in modo asincrono dal docente. Si pensi agli esiti di un test online, allo stesso forum di cui al punto precedente, che oltre a essere osservabile è anche tracciabile, nel senso che lascia traccia scritta dei diversi interventi. Questo ne consente un’analisi a posteriori in supporto della valutazione, sia del livello di contributo attivo alla discussione da parte dei singoli, sia del loro livello di progressione nel raggiungimento degli obiettivi conoscitivi dichiarati. Altre tracce digitali utili ai fini valutativi sono anche quelle registrate dai social media. Si pensi ad esempio alla

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cronologia delle modifiche su un elaborato comune (per esempio un wiki), utile per poter analizzare i contributi via via apportati dai singoli e il loro livello di significatività ai fini della co-costruzione dell’artefatto, i collegamenti ipertestuali (e quindi concettuali) che gli studenti fanno nelle diverse pagine, ecc. È evidente, a questo punto, come non si possa disgiungere la fase di progettazione didattica da quella di progettazione dell’impianto di monitoraggio se si vogliono sfruttare a pieno, ai fini valutativi, le possibilità offerte dall’osservabilità e della tracciabilità delle azioni degli studenti. Quindi, nel progettare una HIS, è buona norma scegliere la migliore combinazione delle sue componenti, sia in ragione dell’obiettivo che si vuol perseguire, sia del modo di condurre la valutazione del suo raggiungimento. In questo senso, il ragionamento andrebbe addirittura ribaltato, ossia, architettato l’impianto di monitoraggio funzionale alla valutazione, costruire l’attività didattica in modo che aiuti nella raccolta di dati e informazioni in grado di alimentare il suddetto impianto. È questo l’approccio seguito nella metodologia di instructional design denominata “Polaris” (Trentin, 2010), sviluppata nel corso dell’omonimo progetto per la formazione online dei docenti della scuola, e affinata successivamente nei progetti di web-enhanced learning in diverse università italiane (Repetto and Trentin, 2011). Il punto chiave della metodologia sta proprio in una chiara e non ambigua definizione degli obiettivi, da cui prima derivare le modalità per valutare il loro raggiungimento e poi strutturare le attività didattiche in modo da creare quel sentiero osservabile e tracciabile di cui si è parlato poc’anzi. Ma vediamo nel dettaglio questo passaggio di progettazione così come è suggerito dalla metodologia Polaris. Come detto, il punto di partenza di tutta la metodologia sta nella meticolosa definizione degli obiettivi formativi e nella loro strutturazione. Gli obiettivi rappresentano l’elenco dettagliato e strutturato di quello che ci si aspetta lo studente abbia imparato al termine del processo formativo. Nella formulazione di ogni singolo obiettivo, quindi, si deve chiaramente esplicitare che cosa lo studente deve sapere o saper fare relativamente ai corrispondenti contenuti di apprendimento. Una buona definizione degli obiettivi è determinante per le successive fasi di progettazione e, in particolar modo, come s’è detto, per ciò che riguarda l’impianto di valutazione, sia degli apprendimenti, sia dell’intero intervento formativo. La formulazione dell’obiettivo, fra l’altro, ha l’importante compito di suggerire la modalità con cui misurarne il raggiungimento. Nella strutturazione degli obiettivi è utile distinguere fra obiettivi generali, che possono corrispondere a un modulo del corso, e sotto-obiettivi, riferibili a una unità didattica o a un suo segmento. Tale strutturazione può essere condotta in vario modo: dall’uso di tassonomie (Bloom, 1956), alla gerarchizzazione degli obiettivi in subordinati e preordinati (Gagné, 1970). Nel modello Polaris viene suggerita una combinazione dei due metodi appena citati, ossia una strutturazione gerarchica degli obiettivi con annessa descrizione sulla base dei “verbi/termini di azione” derivati dalla tassonomia di Bloom. Nel diagramma di Figura 3 è riportato un esempio di tale combinazione.

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36 Fig. 3: La strutturazione degli obiettivi di un corso sull’uso didattico delle reti

Un’ultima osservazione relativa a questa fase. Subito dopo una preliminare definizione degli obiettivi, prima ancora cioè di procedere alle fasi successive di progettazione (strutturazione dei contenuti e delle attività didattiche), la metodologia suggerisce di porsi il problema di come poter valutare il raggiungimento di ogni singolo obiettivo (Trentin, 2010). È un modo molto efficace anche per ricavare importanti feedback sulla coerenza della strutturazione/definizione degli obiettivi e su quali prove di valutazione predisporre per la misurazione oggettiva e/o soggettiva del loro raggiungimento. Si viene quindi a ribadire il concetto secondo cui gli elementi chiave per la definizione delle prove di valutazione dovrebbero essere suggeriti dalla formulazione stessa degli obiettivi (Rowntree, 1981). Tutto ciò mette in evidenza come la formulazione degli obiettivi si ripercuota sulla definizione degli altri elementi di progetto. La formulazione degli obiettivi, infatti, può essere considerata il punto d’innesco di un processo circolare che vede coinvolte le fasi progettuali legate alla valutazione, alla strutturazione dei contenuti e alle metodologie didattiche finalizzate al raggiungimento degli obiettivi dichiarati (Figura 4).

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Fig. 4: La formulazione degli obiettivi come punto di riferimento per le attività progettuali

Come illustrato in Figura 4, il processo logico dovrebbe essere il seguente: 1. formulare l’obiettivo utilizzando “verbi/termini di azione” che lo definiscano in modo chiaro e non ambiguo (es. “saper risolvere le equazione di primo grado”); 2. sulla base della formulazione dell’obiettivo, definire un modo efficace per valutarne il raggiungimento (es. chiedere di risolvere alcune equazioni di primo grado); 3. definire i contenuti funzionali allo studio degli argomenti correlati all’obiettivo didattico (es. teoria ed esempi di risoluzione di equazioni di primo grado); 4. definire la strategia didattica funzionale allo studio dei contenuti e alla preparazione complessiva dello studente finalizzata al superamento della prova di valutazione di cui al punto 2 (es. studio della teoria ed esercitazioni guidate sulla risoluzione di equazioni di primi grado). Per quanto questo percorso logico possa apparire banale, sembrerebbe essere ancora poco praticato, almeno a giudicare dallo scollamento che spesso si rileva fra il modo di proporre le attività di apprendimento e quello di valutarle (Tremblay et al., 2012). La Tabella 1 mostra alcuni esempi di corrispondenza fra (1) obiettivi formativi formulati in accordo alla tassonomia di Bloom, (2) annesse modalità di valutazione per misurarne il raggiungimento, (3-4) attività online e/o in presenza, da proporre agli studenti per favorirne il raggiungimento. L’esempio, in particolare, si riferisce alla progettazione di una HIS adottata nel corso “Network Technology and Knowledge Flow” (NT&KF) tenuto nel 2011 presso l’Università degli Studi di Torino. Scopo dell’attività proposta era lo sviluppo collaborativo di un documento che sintetizzasse le principali teorie e pratiche legate al tema portante del corso. Una sorta di tesina, la cui realizzazione tra pari potesse fungere da attività preparatoria all’esame finale. La colonna più a destra in tabella, si riferisce alle possibili combinazioni delle due dimensioni prese a riferimento per la nostra discussione (Figura 2) (i.e. dimensione ‘processo di apprendimento’ e ‘spazio di apprendimento’) e su in cui ricadono le attività menzionate nelle corrispondenti righe.

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Tab. 1: Esempi di esplicitazione della corrispondenza fra obiettivi educativi, strategie valutative e contenuti/attivitĂ messi in relazioni con le dimensioni del modello HIS descritto in Figura 2

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La scelta di usare un wiki per supportare lo sviluppo collaborativo della tesina finale va ricercata nelle varie possibilità che questo specifico ambiente offre all’osservazione e al tracciamento delle attività degli studenti (cronologia delle pagine, discussione all’interno delle finestre “comments” o dei forum associati al wiki, tagging, creazione di strutture reticolari fra i vari contributi degli studenti, ecc.). Tali possibilità possono essere efficacemente sfruttate per condurre attività di monitoraggio e di valutazione, non solo del prodotto finale, ma anche del processo che ha condotto alla sua realizzazione e del livello di partecipazione attiva e di contribuzione del singolo studente all’intero lavoro del proprio gruppo (Trentin, 2009; 2013). Inoltre, sul versante del supporto al singolo partecipante, l’uso del wiki ha consentito l’attivazione e la gestione di forme di supporto più distribuite e alla pari (Crouch & Mazur, 2001), amplificando due aspetti chiave dell’apprendimento collaborativo: la valutazione fra pari e le dinamiche di self-help (Hill, 2012).

Conclusioni In questo articolo è stato proposto un possibile approccio alla modellizzazione di hybrid teaching solution centrate sull’uso di tecnologie mobili e di rete, funzionali al potenziamento dei processi di insegnamento, apprendimento e valutazione nell’istruzione universitaria. Dalla discussione sono emersi due elementi fondamentali per un’efficace applicazione di tale approccio: 1. una buona progettazione delle HIS che, partendo dalla conoscenza delle particolari caratteristiche di ciascuna delle sue componenti, punti ad amalgamarli in modo efficace al fine del raggiungimento degli obiettivi formativi dichiarati; 2. la consapevolezza dei docenti di come il proprio ruolo venga a modificarsi nella gestione di un processo didattico ibrido. Il primo punto riguarda le competenze nel trovare il giusto mix fra le diverse componenti di una HIS e la pluralità di approcci didattici adottabili: formali e informali, direttivi o auto-regolati, basati sull’interazione sociale, sullo studio individuale o sulla collaborazione online e in presenza. In questo senso, una forte raccomandazione è quella di seguire criteri di progettazione didattica (instructional design) che al tempo stesso integrino approcci alla pianificazione delle attività d’aula con quelli della progettazione della cosiddetta Network-Based Education, tenendo anche conto delle specificità dei media tecnologici di cui si intende far uso, delle loro potenzialità e criticità (McCracken & Dobson, 2004). Nella progettazione di un corso, cioè, si dovrebbe aver cura di garantire un buon bilanciamento fra le attività onsite (lezioni frontali, attività laboratoriali, discussione su quanto avvenuto nel corso delle attività online, ecc.) e quelle in rete (studio individuale, attività di gruppo, ecc.), in modo che le une siano funzionali alle altre e viceversa. Ciò nonostante, nell’istruzione universitaria, raramente si incontrano docenti in possesso di nozioni, anche base, di progettazione didattica (Fill, 2006) 2.

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Ovviamente fanno eccezione i docenti di area pedagogica.

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Infatti, nell’istruzione universitaria, il docente, per sua natura, è prima di tutto esperto disciplinare. La sua pedagogia in genere è, per così dire, “spontanea”, legata cioè all’esperienza diretta, prima di studente poi di docente che, anno dopo anno, affina un proprio stile nel gestire il processo di insegnamento/apprendimento. Ma se nella didattica d’aula tale “spontaneità” può anche essere ammessa, nell’adottare approcci ibridi il docente non può prescindere dall’acquisire nozioni basilari di instructional design. Questo per essere in grado di pianificare, per ciascun obiettivo formativo dichiarato, il più efficace mix di approcci formativi per raggiungerlo, attraverso sia la mediazione delle tecnologie sia l’interazione in presenza. Ciò non significa evidentemente che per adottare un approccio ibrido un docente debba diventare un instructional designer professionista. A lui/lei si continuerà a richiedere principalmente il ruolo di esperto disciplinare e di didattica di quella disciplina. Tuttavia, quanto più un docente è disposto a investire nella progettazione, sviluppo e conduzione di soluzioni didattiche ibride, tanto più verrà innalzato il livello qualitativo del corrispondente processo di insegnamento/apprendimento. Di qui il secondo e fondamentale elemento menzionato all’inizio di queste conclusioni, ossia la consapevolezza del docente di come cambi il proprio ruolo passando da un insegnamento d’aula a un insegnamento di tipo ibrido (h-teaching). Nell’integrare le HIS nella propria pratica didattica, il docente deve modificare atteggiamento nei confronti dell’insegnamento, passando da un modello verticale di trasmissione della conoscenza (la lezione d’aula), a uno più orizzontale, dove il suo ruolo è in buona misura quello di facilitatore del processo di apprendimento di contenuti di cui è esperto, contribuendo alla predisposizione di materiali elettronici e sovrintendendo alle attività interattive, onsite e/o online che siano. Possiamo, quindi, concludere che ciò che distingue una HIS da una semplice alternanza di differenti strategie didattiche è la capacità del docente (a) di scegliere, bilanciare e mescolare le possibili dimensioni di una soluzione ibrida in ragione di un dato obiettivo formativo e (b) di interpretare adeguatamente e consapevolmente il ruolo di h-teacher.

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Strumenti per arricchire il pensiero: una ricerca in una scuola primaria Debora Aquario • Università degli Studi di Padova - debora.aquario@unipd.it Alba Maria Fodale • albamaria.fodale@gmail.com Francesca Pulina • Università degli Studi di Padova - francescapulina1@gmail.com Erika Vitantonio • erika_vitantonio@yahoo.it

Thinking Enrichment instruments: a research in a primary school The study aims to implement two Programmes for thinking enrichment in a primary school. The two Programmes are the following: the Feuerstein’s Instrumental Enrichment – Standard – Level I (IE, Feuerstein et al, 1980) and the Mental Structures by R. Vianello (MS Project, Vianello 2000). Although the 2 Programmes are quite different, they share some aspects: for example the focus on the systematic exploration of the proposed material, and the attention paid to the strengthening of language (through “thinking aloud”). Moreover both Programmes aim to stimulate the acquisition of skills that contribute to empower students to understand, to reflect and think critically and to engage with important cognitive and social issues. Starting from these premises, the research questions are: What are the effects derived from the implementation of these two Programmes and from the group administration? There have been involved 4 classes of a primary school, respectively 18 children involved in IE training and 12 children in MS training. Data from qualitative and quantitative instruments suggest interesting issues for reflection about mediation.

Parole chiave: arricchimento del pensiero, mediazione, scuola primaria

Keywords: thinking enrichment, mediation, primary school.

Il lavoro è frutto di una riflessione condivisa. Il paragrafo di presentazione del PAS è riconducibile all’autrice Alba Fodale, quello sul Progetto MS a Erika Vitantonio. Il paragrafo di presentazione dei risultati è attribuibile a Francesca Pulina. Le restanti parti sono state redatte da Debora Aquario. Le autrici desiderano ringraziare il Prof. Renzo Vianello per il supporto e i preziosi suggerimenti forniti durante l’intero lavoro di ricerca.

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ricerche

L’articolo presenta uno studio realizzato in una scuola primaria, in cui sono stati implementati due Programmi per l’arricchimento del pensiero: il Programma di Arricchimento Strumentale (PAS- Standard I, Feuerstein et al. 1980) e il Progetto MS (Vianello, 2000). Nonostante i numerosi aspetti che contribuiscono a differenziarli, i due Programmi presentano alcuni fattori in comune, tra cui l’attenzione all’esplorazione sistematica e alla percezione accurata del materiale proposto, l’importanza dell’acquisizione delle competenze metacognitive e del consolidamento e arricchimento del lessico attraverso la verbalizzazione di ciò che il bambino osserva e pensa. A partire da queste premesse, sono state formulate le seguenti domande di ricerca: quali benefici porteranno i due Programmi? Quali aspetti nuovi e interessanti emergeranno dalla somministrazione di gruppo? A tale scopo sono state coinvolte 4 classi del secondo anno di una scuola primaria (a 18 bambini è stato proposto il PAS e a 12 il Progetto MS). L’uso di strumenti quantitativi e qualitativi ha permesso di ricavare spunti interessanti di riflessione rispetto all’attività di mediazione.


Strumenti per arricchire il pensiero: una ricerca in una scuola primaria

Introduzione

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Il presente studio si inserisce nell’ambito di una prospettiva di intervento di tipo preventivo finalizzata a sostenere e abilitare (enabling) le persone nella mobilizzazione delle proprie risorse e realizzazione delle proprie potenzialità in vista della promozione del ben-essere e della salute (Carta di Ottawa, OMS, 1986). L’intervento realizzato tramite due Programmi che saranno presentati nei paragrafi successivi si configura infatti come un intervento di prevenzione primaria utile e desiderabile per tutti, che mira ad arricchire le capacità di base necessarie per pensare e apprendere in modo significativo. L’importanza di interventi di questo tipo risiede nella possibilità di potenziare il lavoro svolto nelle aule scolastiche e di contribuire al raggiungimento di quelle capacità (di comunicazione, di analisi, di riflessione) imprescindibili per confrontarsi con rilevanti questioni cognitive e sociali (Ritchhart & Perkins, 2005; Sanz de Acedo et al., 2009): le ricerche in quest’ambito mostrano infatti come l’uso di tali programmi possa avere effetti positivi in termini di arricchimento delle capacità di ragionamento, del pensiero creativo, della capacità di prendere decisioni e di risolvere problemi. Una questione ancora aperta riguarda nello specifico la possibilità di trasferire le capacità apprese in contesti e situazioni diversi, dentro e fuori dalla scuola. Secondo Ritchhart & Perkins (2005) questo costituisce un nodo problematico nell’ambito del potenziamento delle capacità di pensiero, che può essere sciolto facendo leva su un elemento fondamentale, le capacità metacognitive. Se un programma per l’arricchimento del pensiero agisce stimolando anche i processi di riflessione sul pensiero stesso (ad esempio offrendo la possibilità di collegare i contenuti con alcuni aspetti della vita reale, oppure mostrando come principi generali possono essere applicati a situazioni specifiche), può contribuire in maniera significativa al potenziamento delle capacità metacognitive e, conseguentemente, all’attivazione del transfer. Questo aspetto è alla base della scelta dei due Programmi utilizzati nel presente studio, i quali sono caratterizzati, come si vedrà nei paragrafi successivi, proprio dall’enfasi posta sui processi metacognitivi.

1. I Programmi 1.1 Il Programma di Arricchimento Strumentale Il Programma di Arricchimento Strumentale (PAS) ideato da Reuven Feuerstein, utilizzato in 80 paesi e disponibile in 17 lingue, nasce come programma di potenziamento per persone a rischio, deprivate culturalmente, e come programma di recupero, allo scopo di ridurre o neutralizzare le funzioni cognitive carenti. In tal senso, esso è volto ad incrementare le capacità adattive dell’individuo per far fronte ad ambienti mutevoli e mira a modificare l’individuo attraverso strumenti che gli

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consentano di adattarsi all’ambiente, valutando e considerando ciò che può ostacolarne lo sviluppo (Feuerstein et al., 2008). Il PAS si compone di 14 strumenti, tra cui: strumenti non verbali (Organizzazione di Punti, Percezione Analitica e Immagini); strumenti che utilizzano un vocabolario limitato e che potrebbero richiedere l’assistenza da parte dell’insegnante per la lettura delle istruzioni (Orientamento Spaziale 1 e 2, Confronti, Relazioni Familiari, Progressioni Numeriche, Sillogismi); strumenti che richiedono capacità di lettura e comprensione indipendenti (Classificazioni, Istruzioni, Relazioni Temporali, Relazioni Transitive e Sagome). Obiettivo specifico del PAS è l’acquisizione di abilità che stimolino la maturazione mentale, costruiscano le funzioni cognitive necessarie e ripristinino quelle perdute o carenti favorendo un’accelerazione oltre i livelli di prestazione attuali (Feuerstein, et al., 2006). Questo dovrebbe realizzarsi attraverso il potenziamento degli strumenti verbali e delle operazioni logiche necessarie all’apprendimento, il consolidamento di efficaci abitudini di pensiero, la produzione di processi riflessivi e l’incremento della motivazione intrinseca al compito (Vanini, 2003; Minuto e Ravizza, 2008). Sulla scia di Piaget e Vygotskij, Feuerstein concepisce l’apprendimento come un processo attivo e dinamico, che avviene grazie alla figura del mediatore, necessaria per il “salto qualitativo” (Feuerstein et al., 2008), figura che si inserisce tra i livelli di sviluppo attuale e potenziale della vygotskijana zona di sviluppo prossimale. Attraverso la teoria della “Modificabilità Cognitiva Strutturale” (MCS), che costituisce la base teorica del Programma, l’intelligenza viene vista come una propensione dell’organismo a modificarsi per adattarsi a nuovi stimoli e, in quanto potenzialità, non si realizza automaticamente, ma grazie a quella che Feuerstein (2008) definisce “Esperienza di Apprendimento Mediato” (EAM): l’apprendimento avviene grazie alla presenza di un mediatore. La mediazione permette di acquisire una serie di modalità cognitive che l’individuo sarà successivamente in grado di utilizzare autonomamente. Gli interventi di mediazione cognitiva (EAM) possono limitare gli effetti di fattori come la predisposizione genetica, il danno biologico o la privazione culturale, modificando comportamenti e atteggiamenti e mirando al processo di apprendimento in sé, trasformando l’individuo da recettore a produttore attivo di nuove informazioni (Feuerstein et al., 2008). Il mediatore può “creare una realtà mediativa che sia di beneficio a chi viene mediato” (Feuerstein et al., 2008, p.105), scegliendo il contenuto da trasmettere (legato alla trasmissione culturale) e la modalità/linguaggio attraverso cui la mediazione viene espressa. Il mediatore cambia il proprio comportamento al fine di costruire un’efficace e significativa interazione con la persona mediata. Egli modifica intenzionalmente anche gli “stimoli” (in funzione di specifici obiettivi), li seleziona, li filtra e li organizza, cercando di trasmettere l’informazione veicolata da un determinato evento e creando diversi modi in cui gli stimoli possano essere “percepiti, registrati ed elaborati” (Feuerstein et al. 2008, p. 98). In questo modo essi diventano fonte di cambiamento per il soggetto che apprende e che conferisce loro un significato personalizzato. Il ruolo del mediatore risulta pertanto di fondamentale importanza nella misura in cui aiuta l’individuo ad esplorare e definire con precisione un problema, stimola il raggruppamento in categorie (al fine di ridurne la complessità) e lo sollecita a collegare i nuovi apprendimenti con le conoscenze che già possiede. La trascendenza, una delle caratteristiche fondamentali della mediazione, porta l’individuo ad andare oltre l’obiettivo specifico. Il mediatore, in questo senso, crea degli opportuni collegamenti tra ciò che il bambino apprende nell’immediato e la sua esperienza di vita quotidiana, privilegiando un apprendimento che non rimane vincolato alle abilità richieste dagli

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strumenti del PAS. L’obiettivo principale del mediatore è trasformare lo stato mentale del discente, catturando la sua attenzione e favorendo un atteggiamento attivo e orientato agli stimoli coinvolti. La sua azione accompagna il bambino anche nelle successive fasi di elaborazione e produzione delle risposte, affinché non siano il frutto di prove per tentativi ed errori, favorendo così lo sviluppo di una maggiore consapevolezza e senso di controllo del suo personale stile cognitivo, caratterizzato da strategie utili e flessibili (Vanini, 2007). La componente affettiva di questa relazione costituisce la base del rapporto tra mediatore ed educando, volto a promuovere sentimenti di autostima, motivazione intrinseca al compito, assunzione di responsabilità, resistenza alle critiche, regolazione e controllo del comportamento, locus of control adeguato (Vanini, 2006; 2007). I primi studi sul PAS fanno riferimento alla popolazione israeliana. In particolare, Feuerstein e Rand (1977) hanno effettuato un confronto tra l’efficacia del PAS e un Programma di Arricchimento Generale (AG), confermando le ipotesi circa i miglioramenti più significativi per gli studenti destinatari del PAS. Dalle numerose ricerche sulla valutazione dell’efficacia del Programma si evince l’importanza di variabili come la sistematicità di presentazione del PAS, l’intensità di esposizione e della formazione dei docenti coinvolti (Arbitman-Smith et al., 1984, Savell et al., 1986; Romney e Samuels, 2001; Alvarez et al., 1992), come elementi necessari per un training ottimale. Romney e Samuels (2001) hanno realizzato a tal proposito una metanalisi degli studi riguardanti l’efficacia del PAS: l’analisi comprende circa 40 studi, in circa la metà dei quali vennero somministrate più di 100 ore di PAS. I dati riportano un miglioramento significativo, attribuibile al PAS, nel rispetto delle suddette condizioni. Nella rassegna di ricerche condotta da Ben-Hur (2000), si evince che l’utilizzo del PAS agisce sul rendimento scolastico generale e, in particolare, sull’accuratezza e comprensione della lettura, sull’apprendimento di concetti matematici e delle scienze in generale. Risulta quindi necessario un collegamento tra gli strumenti del Programma e i contenuti e gli obiettivi disciplinari, con particolare attenzione alla funzione di mediazione da parte dei docenti. Esiste un’ampia varietà di studi che hanno confermato l’efficacia del Programma, nell’ambito dei quali la varietà è legata anche ai destinatari a cui il Programma stesso è stato rivolto. Le popolazioni sono infatti eterogenee per età, genere e problematiche, quali: difficoltà di apprendimento (Jensen e Singer, 1987; Savell et al.,1986; Shayer e Beasley, 1987); dislessia e difficoltà nella lettura (Sanchez, 1991); scarso rendimento scolastico (Ruiz, 1985; Alvarez et al., 1992); immigrazione e differente cultura (August-Rothman e Zinn, 1986; Kozulin, Kaufman e Lurie, 1997; Skuy et al., 1995). Inoltre, l’efficacia del PAS è stata riscontrata anche con studenti dotati e di talento (Mulcahy et al., 1994). Facendo riferimento ad una letteratura più recente, Dettori (2009) ha condotto uno studio riguardante allievi multiproblematici e a rischio di dispersione, volto a verificare i benefici del PAS sull’apprendimento. La maggior parte dei docenti ha commentato positivamente l’utilizzabilità dei materiali, ritenuti piacevoli per i ragazzi e in grado di attirare l’attenzione anche degli studenti con maggiori difficoltà. Inoltre è stato registrato un miglioramento nel clima della classe, più sereno, disteso e volto alla cooperazione. Per quanto riguarda le considerazioni degli alunni, sono emersi giudizi positivi anche riguardo al rapporto con i docenti coinvolti nel progetto, la curiosità verso nuove strategie, rispetto a quelle tradizionali, e la motivazione verso il compito. Queste testimonianze sono di fondamentale importanza considerando che l’efficacia del Programma risulta ottimale nella misura in cui l’allievo può usufruire di ciò che ha imparato. Nella prospettiva di un ottimismo pedagogico inteso

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come catalizzatore dell’apprendimento (Vanini, 2006), secondo Feuerstein et al. (1995) “mediare all’individuo un atteggiamento ottimista verso la vita e verso se stesso non è solo un modo per farlo sognare, ma è fornirgli le condizioni perché questo ottimismo si possa materializzare”. 1.2 Il Progetto MS La sigla MS (Mental Structures) indica sia il gruppo di ricerca sia il materiale da esso prodotto. Riprendendo gli studi di Piaget sulle fasi dello sviluppo del pensiero (da quello intuitivo a quello operatorio), Vianello e Marin hanno costruito un insieme di strumenti, costituito da test per la valutazione dello sviluppo mentale e da materiale per l’intervento di potenziamento cognitivo sia con bambini normodotati che con difficoltà di apprendimento (Vianello e Marin, 1997, 1998; Vianello, 2000; Vianello et al., 2012). La motivazione principale che ha spinto alla creazione di questi strumenti è “costruire test di valutazione e strumenti di intervento utili per potenziare il pensiero di bambini e ragazzi di età compresa fra i 3 e i 14 anni” (Vianello, 2000, p. 5). MS si compone di due strumenti per la valutazione: OLC1 (Operazioni Logiche e Conservazione), CFV (Corrispondenze e Funzioni: Valutazione) e tre tipi di materiali ideati per l’intervento: CFI (Corrispondenze e Funzioni: Intervento); NST (Nozioni Spaziali e Temporali); SR (Simmetrie e Rotazioni) (Vianello, 2000). Il Programma è orientato a favorire il potenziamento delle strutture mentali, ma può essere utilizzato anche per stimolare un atteggiamento metacognitivo adeguato nelle situazioni di problem solving (Vianello, 2000). Il manuale contiene anche indicazioni pratiche su come strutturare le situazioni di insegnamento. Come già accennato, i materiali proposti, sia per l’intervento che per la valutazione, si fondano teoricamente sugli studi di Piaget, ad esempio per ciò che riguarda la natura del pensiero operatorio concreto e i conflitti cognitivi, ma anche su quelli di Vygotskij (soprattutto per quanto riguarda la funzione di regolazione del pensiero da parte del linguaggio) e sugli studi sullo sviluppo della metacognizione (Vianello et al., 2012). I materiali d’intervento si rivolgono a insegnanti, operatori scolastici, personale sanitario ma anche genitori e in generale tutti coloro che seguono individui, ma soprattutto bambini, in situazione di svantaggio socio-culturale o con disabilità intellettiva. Nell’ottica dell’intervento, gli autori raccomandano di ricercare il massimo adattamento rispetto al singolo bambino, “ciò che conta è che egli ragioni, capisca, impari” (Vianello, 2000, p. 9). L’operatore deve essere un interlocutore attivo e attivante, la consegna è suscettibile di adattabilità e modificabilità, può essere ripetuta e la situazione può essere presentata più volte, commentata e spiegata (Vianello, 2000). La seduta può essere realizzata sia in un rapporto uno ad uno sia in piccoli gruppi di quattro o cinque bambini (Vianello, 2000): la presente ricerca rappresenta uno dei primi studi in cui il materiale di intervento è stato proposto a un gruppo ampio di bambini. Le sedute devono iniziare con un lungo ed esau-

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Nel 2012 è stata pubblicata la versione dinamica del test OLC (OLC-VD; Vianello, Lanfranchi, Pulina e Bidinost, 2012), che permette una valutazione più ampia del funzionamento del bambino, fornendo informazioni anche sulle sue abilità “latenti” o potenziali.

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stivo contatto con il materiale e l’operatore deve contestualizzare l’argomento agganciandolo alla realtà del bambino. Si deve prolungare questo momento ed evitare che il bambino giunga subito alla situazione problematica, per dare importanza all’atto del ragionamento e non alla fretta nell’esecuzione di un compito (Vianello, 2000). È fondamentale presentare ai bambini la sfida ottimale, ovvero la situazione non facile ma nemmeno troppo difficile, lavorando così nella zona di sviluppo potenziale (Vianello, 2000), altro elemento che avvicina il Programma alle teorizzazioni vygotskiane. Per questo motivo l’ordine di presentazione delle singole schede, nonché la scelta dello specifico materiale, non è rigido, ma va adattato di volta in volta alla situazione. Sulla base delle teorie vygotskiane sulla mediazione del linguaggio sul pensiero è opportuno favorire l’utilizzazione di autoistruzioni che diventeranno pian piano interiorizzate, e per questa ragione diviene importante invitare i bambini a verbalizzare i propri pensieri (Vianello, 2000). Gli autori suggeriscono poi di “abituare il bambino a un atteggiamento metodico nella risoluzione dei problemi” (Vianello, 2000, p. 11). A tale proposito sarà fondamentale favorire le metaconoscenze ricordando che la constatazione del conflitto cognitivo agevola la metaconoscenza (Vianello, 2000). L’intervento metacognitivo dovrebbe pian piano divenire parte integrante di uno stile costante di intervento. Infine gli autori raccomandano di privilegiare le situazioni conflittuali, dato che queste aumentano nel bambino la curiosità intellettuale e favoriscono la presa di coscienza di come funziona l’apprendimento. Un’indagine esplorativa sugli effetti dei training generali e specifici del Progetto MS, del 2012, di Vianello, Lanfranchi, Babetto e Pulina, ha inteso valutare gli effetti dei programmi di interventi proposti dal Progetto MS sulle prestazioni di bambini in compiti di pensiero logico, prevedendo: un miglioramento dopo l’implementazione dell’intervento, prestazioni migliori alle prove del CFV in seguito a un intervento specifico e al post-test nel test OLC-VD (Versione dinamica) in seguito al training generale. I risultati riportano che i materiali del progetto MS conducono ad un incremento delle prestazioni, sia per il test CFV che per il test OLC-VD e ciò avviene sia se si utilizza un training specifico che se si sceglie un training “completo”, confermando le ipotesi. Lo studio evidenzia l’efficacia dei training del progetto MS nel potenziare ed accelerare lo sviluppo cognitivo e, nello specifico, le abilità di pensiero logico in bambini di età prescolare; sebbene anche il training specifico porti a risultati rilevanti, la presentazione di materiali diversi risulta più produttiva. Un’altra indagine ha considerato la proposta di un training “misto” e uno specifico riguardante il materiale NST utilizzando il test OLC in fase di valutazione2. Questa indagine, a cura di Salizzoni, Pulina e Vianello, ha coinvolto due gruppi di bambini con età media di sei anni. I risultati confermano l’efficacia del training misto e di quello specifico. Per quanto riguarda invece le abilità valutate dal test OLC i due training sono risultati ugualmente efficaci. A differenza di quanto ipotizzato, gli autori concludono affermando che il solo fatto di somministrare un training, utilizzando il materiale del progetto MS, porti a un potenziamento del pensiero logico. In uno studio curato da Lercorini, Moalli e Vianello si è inteso valutare gli effetti del potenziamento cognitivo attraverso il materiale MS sullo sviluppo del pensiero logico, per mezzo del test OLC e del test CFV, proponendo un training specifico per ogni tipologia di materiale dell’MS (NST, SR, CFI). I risultati mo-

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Una sintesi di queste ricerche è presente nel sito www.disabilitaintellettive.it

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strano un miglioramento al test OLC anche per il gruppo di controllo, ma più evidente in seguito al training. I training che hanno sortito risultati migliori al test OLC sono NST e CFI, analogamente per i progressi al test CFV. Questi studi, oltre a confermare l’efficacia del Programma, forniscono indicazioni preziose sui processi cognitivi sottostanti al pensiero e all’apprendimento e sollecitano a promuoverne l’uso nell’ottica di agire sui “potenziali di apprendimento”, puntando l’attenzione su ciò che ogni individuo può imparare, grazie all’educazione, all’istruzione, all’intervento attivo volto a insegnargli qualcosa (Vianello, 2012, p. 31). 1.3 Aspetti trasversali ai due programmi Nonostante i numerosi aspetti che contribuiscono a differenziarli (non da ultimo anche una differenza nell’uso delle parole prevalentemente associate ai due Programmi, potenziamento e operatore nel caso dell’MS, che diventano arricchimento e mediatore nel caso del PAS), i due Programmi presentano alcuni fattori in comune, tra cui: – l’attenzione all’esplorazione sistematica e alla percezione accurata della scheda/materiale proposta. Sia il PAS che l’MS richiedono che ci si soffermi sufficientemente a lungo sull’analisi del materiale: Feuerstein, ad esempio, utilizza il colore come indicatore della complessità e come canalizzatore dell’attenzione; nell’MS quasi tutte le situazioni richiedono un’attenta analisi che porti il bambino a fare connessioni con la sua quotidianità; – la possibilità di riflettere sulla risposta, ma soprattutto sull’intera situazione senza limiti di tempo, in quanto l’obiettivo è permettere al bambino di ragionare e non richiedergli una risposta immediata; entrambi gli strumenti richiedono che il bambino si soffermi sul ragionamento, impari a dare rilevanza ai processi di riflessione rispetto alla produzione di una risposta rapida e corretta. Questo viene chiarito ed esplicitato nei manuali di entrambi i Programmi. La funzione del mediatore sia per il PAS che per l’MS è anche quella di sostenere il ragionamento, portando l’attenzione sugli aspetti salienti, sulla contestualizzazione, sui passaggi che portano dall’analisi situazionale alla formulazione di una soluzione del problema; – l’importanza dell’acquisizione, del consolidamento e dell’arricchimento del lessico attraverso la verbalizzazione di ciò che il bambino osserva e pensa. È chiaro, a questo proposito, il riferimento comune alle teorie di Vygotskij sulla funzione del linguaggio come mediatore del pensiero. Entrambi gli strumenti propongono che il mediatore incentivi il bambino alla verbalizzazione, al fine di spiegare e chiarire i processi di ragionamento in atto e di giungere pian piano a una loro interiorizzazione, così da costruire e rafforzare le personali impalcature metacognitive; – la possibilità di accrescere le competenze di metacognizione al fine di facilitare l’apprendimento futuro. Entrambi gli strumenti infatti, puntano sull’acquisizione di competenze metacognitive: il mediatore fornisce informazioni su come lavorano i processi mentali, sul ricordo, sull’uso del linguaggio, sui fattori contestuali. Si cerca di intervenire sugli aspetti motivazionali, fondamentali per entrambi i programmi, sulle capacità di problem-solving e sul miglioramento dell’autonomia nella gestione del proprio percorso di apprendimento.

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2. La ricerca 2.1 Obiettivi La presente ricerca mira a mettere a prova in una scuola primaria i due Programmi di potenziamento e arricchimento cognitivo descritti nel paragrafo precedente. Le finalità generali riguardano la possibilità di promuovere l’utilizzo di Programmi di potenziamento cognitivo nelle scuole e, al contempo, di fornire agli insegnanti strumenti nuovi e stimolanti, funzionali sia rispetto al potenziamento di aspetti cognitivi, sia ad un miglioramento della qualità della relazione educativa con gli studenti. Inoltre, la ricerca è finalizzata anche ad offrire un’indagine esplorativa del potenziale che gli strumenti utilizzati (sia a livello valutativo che di intervento) possiedono, in riferimento alla loro fruibilità in contesti in cui vi è un’attenzione specifica per l’arricchimento delle capacità di pensiero e di apprendimento. Le domande che hanno guidato l’intera ricerca sono le seguenti: quali benefici porteranno i due Programmi? quali aspetti nuovi e interessanti emergeranno dal lavoro con un gruppo (e non una somministrazione individuale)?

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3. Metodo 3.1 Partecipanti La ricerca ha coinvolto un totale di 30 allievi appartenenti a quattro classi seconde di una scuola primaria di Padova e le loro insegnanti. I partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi: ad uno è stato proposto il PAS, all’altro i materiali d’intervento Progetto MS. 3.2 Disegno di ricerca Il disegno della ricerca ha previsto due diversi tempi di realizzazione. La ricerca riguardante la messa a prova del PAS è stata svolta nell’anno scolastico 2012-2013, mentre quella riguardante il Progetto MS nell’anno scolastico 2013-2014. Si possono individuare quattro fasi della ricerca, allo stesso modo per entrambi i Programmi: 1. Pre-test. Ai bambini è stata proposta una valutazione iniziale individuale attraverso gli strumenti presentati in seguito. 2. Intervento/Training. Sia per il PAS che per il Progetto MS, l’intervento è stato complessivamente realizzato in 10 incontri collettivi, ognuno della durata di un’ora, una o due volte alla settimana (in base alla disponibilità della scuola). 3. Post-test. Alla fine del training i bambini hanno completato gli stessi strumenti, sempre in forma individuale, per rilevare la presenza di eventuali cambiamenti. 4. Follow-up. A distanza di 6 mesi dal pre-test (per la ricerca sul PAS) e di 3 mesi dal pre-test (per la ricerca sul Progetto MS), ai bambini è stata proposta una nuova valutazione con gli stessi strumenti, sempre in forma individuale, al fine di evidenziare ulteriori cambiamenti nelle prestazioni e la presenza di stabilità e consolidamento dei miglioramenti riscontrati in fase di post-test.

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Come precedentemente detto, la valutazione (pre, post e il follow-up) è stata effettuata attraverso i medesimi test, per entrambi i gruppi. I test utilizzati sono: – CPM (Matrici Progressive Colorate di Raven) (Raven, 1938); – OLC (Operazioni Logiche e Conservazione) (Vianello e Marin, 1997); – CFV (Corrispondenze e Funzioni Valutazione) (Vianello e Marin, 1998). Gli strumenti CFV e OLC rappresentano l’aspetto valutativo del Progetto MSStrutture Mentali (Vianello, 2000): essi sono complementari in quanto l’uno può fungere da conferma per l’altro, ma anche le eventuali differenze fra i due test possono risultare informative, considerando capacità di pensiero logico molto vicine, pur rivolgendosi a fasce d’età diverse (il CFV consente di valutare un arco di età più lungo rispetto all’OLC) (Vianello & Marin, 1998). La scelta delle CPM è giustificata dalla loro presenza all’interno della Batteria per la Valutazione Dinamica della Propensione all’Apprendimento di Feuerstein (2002). In aggiunta a questi strumenti, e allo scopo di raccogliere anche dati di natura qualitativa, è stato utilizzato lo strumento del diario di bordo, al fine di mantenere una traccia del percorso tramite l’annotazione degli eventi significativi e la loro osservazione in una prospettiva longitudinale. Inoltre, a conclusione dell’intervento con il Programma PAS, è stato possibile raccogliere le opinioni delle insegnanti tramite un’intervista, allo scopo di esplorare il loro punto di vista rispetto a due aspetti: la classe come gruppo e l’interesse dimostrato dai bambini verso il Programma.

4. Risultati Di seguito verranno riportati dapprima i risultati emersi dalla ricerca separatamente per i due Programmi3, per poi procedere con una discussione dei risultati che tiene conto dei due interventi congiuntamente. 4.1 Ricerca con il PAS Il PAS è stato presentato4 a 18 bambini (età media 7;07) durante la prima ora di lezione (due giorni alla settimana) per un totale complessivo di 10 ore. Gli strumenti proposti ai bambini sono stati, in ordine di presentazione: Organizzazione di Punti (copertina; pag.1; pag. E15); Immagini (pag.17); Confronti (copertina; pag.1); Orientamento Spaziale 1 (copertina; p.1); Immagini (p.14).

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Dato il numero ridotto sia di ore di training sia di bambini coinvolti, e in relazione agli obiettivi della ricerca, si è scelto di effettuare un’analisi dei dati essenzialmente descrittiva, basata sui punteggi grezzi e sulle medie. Il mediatore che ha proposto il Programma è in possesso dell’attestato relativo al Corso di formazione PAS Standard-Livello I. La lettera “E” indica la pagina degli errori.

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Analisi OLC Dall’analisi dei punteggi ottenuti al test OLC nelle tre fasi di valutazione (pre-test, post-test e follow-up) emerge, a livello di gruppo, un aumento delle prestazioni, come riportato anche nel Grafico 1. In particolare, si passa da una media di 20,6 punti al pre-test a 21,2 punti al post-test e 22,1 punti al follow-up6. In altre parole il punteggio medio aumenta di circa un punto nelle tre fasi di valutazione. Si osserva inoltre un restringimento dei punteggi intorno alla media in particolare al follow-up: la deviazione standard passa rispettivamente da 2,57 a 2,46 a 1,58 nelle tre fasi di valutazione.

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52 Grafico 1 - Evoluzione dei risultati medi di tutti i partecipanti nelle fasi di pre-test, post-test e follow-up (OLC).

Un’analisi più accurata dei dati grezzi evidenzia che, sebbene la maggior parte dei bambini abbia riportato un miglioramento nelle prestazioni al test o, nel caso di punteggi al pre-test quasi a livello di soffitto, un mantenimento, in tre casi si ha un decremento del punteggio grezzo tra pre e post-test. In particolare in un caso il punteggio passa da 20 a 16: è possibile ipotizzare che la prestazione del bambino al post-test sia stata influenzata negativamente da fattori contestuali, anche e soprattutto considerando che il punteggio ottenuto dallo stesso al follow-up è pari a 20 punti. Le stesse considerazioni potrebbero essere adeguate anche per un altro bambino, in cui si passa da 21 punti al pre-test a 19 al post-test e 22 al follow-up. Nel terzo caso, in cui si ha un decremento costante del punteggio, passando da 24 punti al pre-test a 22 al post-test e 21 al follow-up, sembra plausibile ipotizzare che vi sia stata una “sovrastima” iniziale della prestazione del bambino. Va comunque sottolineato che se si considera l’età mentale (o età equivalente di pensiero logico) ottenuta al test, essa rimane stabile nelle tre fasi, ovvero pari a 8;00 anni. Considerando i dati ottenuti dalla fase di follow-up, emerge in linea generale un mantenimento o un miglioramento delle prestazioni rispetto al post-test. In alcuni casi si ha tuttavia un lieve peggioramento. In particolare, in un caso si passa da 23 punti al pre e post-test a 18 nel follow-up: questo trend potrebbe essere spiegato, analogamente a quanto riportato sopra, non come un decremento delle abilità del bambino, ma piuttosto come dovuto all’influenza di altre variabili legate al momento specifico di somministrazione della prova.

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I dati del follow-up fanno riferimento a 17 partecipanti, in quanto non è stato possibile somministrare le prove a un bambino.

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Analisi CFV Dall’analisi dei punteggi ottenuti al test CFV nelle tre fasi di valutazione (pre-test, post-test e follow-up) emerge un aumento medio delle prestazioni, come riportato anche nel Grafico 2. In particolare si passa da una media di 25,8 punti al pre-test a 27 punti al posttest e 28,9 punti al follow-up. In altre parole si ha un aumento medio di circa un punto tra le tre fasi di valutazione. Si osserva inoltre un aumento della deviazione standard dal pre al post-test, mentre al follow-up essa è simile a quella del pre-test (rispettivamente 6,2, 7,3 e 6,4).

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53 Grafico 2 - Evoluzione dei risultati medi di tutti i partecipanti nelle fasi di pre-test, post-test e follow-up (CFV).

Dall’analisi dei dati grezzi emerge che per la metà dei bambini (9 su 18) vi è un miglioramento nelle prestazioni al post-test, per 5 bambini non si osserva alcun miglioramento, mentre 4 bambini riportano punteggi lievemente più bassi al posttest. Solo in un caso emerge una differenza notevole (in negativo) tra pre e post test (da 21 a 16 punti), che, come ipotizzato precedentemente in riferimento ai dati ottenuti al test OLC, potrebbe essere spiegata non tanto in termini di un decremento delle abilità del bambino o di effetti negativi del programma d’intervento utilizzato, quanto come legata ad altri fattori, interni o esterni al bambino, che hanno influenzato negativamente la prestazione. Considerando i dati ottenuti al follow-up, emerge nella maggior parte dei casi un miglioramento delle prestazioni rispetto al pre e al post-test. In alcuni casi si ha tuttavia un lieve peggioramento rispetto al pre e/o al post-test. In particolare, in un caso si passa da 28 punti al pre-test a 34 al post-test a 24 punti al follow-up, mentre in un altro caso si passa da 21 punti al pre-test a 28 punti al post-test a 29 punti al follow-up. Aspetti legati alla modalità di somministrazione della prova, allo sperimentatore o al bambino stesso, potrebbero giustificare l’instabilità delle prestazioni. Analisi CPM L’analisi dei punteggi ottenuti alle CPM nelle tre fasi di valutazione (pre-test, posttest e follow-up) evidenzia una certa stabilità delle prestazioni, come riportato anche nel Grafico 3. Nello specifico, la media dei punteggi al pre-test è pari a 27,1, al post-test a 27,9 e al follow-up risulta di 27,4. Si osserva inoltre un aumento della deviazione standard tra pre e post-test, mentre al follow-up essa è simile a quella del post-test (rispettivamente 4,1 , 5,1 e 5,4).

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Grafico 3 - Evoluzione dei risultati medi di tutti i partecipanti nelle fasi di pre-test, post-test e follow-up (CFV).

Analogamente a quanto riportato sopra, anche in questo caso l’analisi dei punteggi grezzi evidenzia come in alcuni casi sia presente un miglioramento tra pre e post-test, mentre in altri emergano punteggi inferiori alla seconda somministrazione. Lo stesso trend si constata considerando i punteggi al follow-up.

54 4.1.1 Analisi qualitativa Diario di bordo Attraverso questo strumento è stato possibile cogliere informazioni maggiormente dettagliate riguardanti da una parte il comportamento del gruppo classe e dall’altra l’importanza della figura mediativa. Dal diario di bordo emerge che inizialmente i bambini erano distratti dal nuovo ambiente e dai nuovi compagni, non rispettavano le consegne date (tendevano a passare rapidamente alla fase di interpretazione senza soffermarsi sufficientemente sulla fase di descrizione), erano poco accurati, frettolosi ed avevano difficoltà a lavorare insieme. Probabilmente il fatto di provenire da due classi diverse è stata una iniziale fonte di distrazione; inoltre, alcuni bambini tendevano ad isolarsi quando si annoiavano o non riuscivano a completare un esercizio. La figura del mediatore è stata in questo senso molto importante, in quanto ha cercato di coinvolgere l’intero gruppo, soffermandosi sui vari compiti delle schede e chiedendo di volta in volta le strategie utilizzate per risolverli. Durante l’intervento si è potuto assistere ad un miglioramento nel clima del gruppo, maggiormente coeso e collaborativo. I bambini che tendevano ad isolarsi o a copiare dal compagno (quando non riuscivano a svolgere un compito) hanno iniziato a chiedere aiuto cercando di capire “come” l’esercizio fosse stato svolto, mostrando interesse per il processo più che per il risultato. Inoltre i soggetti che tendevano ad isolarsi per noia, hanno affrontato con entusiasmo i compiti più difficili e ritenuti maggiormente stimolanti. Il ruolo del mediatore è stato più incisivo e frequente durante i primi incontri, lasciando una maggiore autonomia al gruppo, ormai compatto, negli incontri finali ma rimanendo sempre presente, confermando o arricchendo i pensieri dei bambini circa le strategie e i metodi utilizzati. Intervista alle insegnanti Dall’intervista rivolta alle due insegnanti della classe sono emersi, attraverso un’analisi carta-matita del contenuto, alcuni punti di vista interessanti in merito ai cambiamenti constatati negli alunni. In generale, dopo i primi incontri e i relativi racconti riportati in aula, l’atteggiamento è diventato maggiormente positivo verso

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il PAS e i bambini hanno cominciato a cogliere l’importanza dell’opportunità che avevano di parteciparvi, soprattutto rispetto ai compagni di classe non coinvolti. Una delle insegnanti riporta che i bambini hanno più volte fatto dei collegamenti tra ciò che emergeva dagli incontri e il lavoro svolto in classe, mostrandosi più curiosi e motivati: ciò mette in primo piano l’importanza di lavorare nell’ottica di una continuità tra le attività didattiche e l’intervento con il PAS, ovvero incoraggiare quella creazione di ponti che Feuerstein (2008) definisce “bridging” e che si riferiscono alla possibilità di effettuare trasposizioni dei principi e delle strategie in altri campi (ad esempio rispetto alla vita quotidiana, all’area delle relazioni ecc.). 4.2 Ricerca con il Progetto MS Il Progetto MS è stato presentato al gruppo di partecipanti7 (12 bambini; media età 7;4) per un totale di 10 ore di training, suddivise in incontri di un’ora. Il materiale proposto ha toccato tutte le aree previste dall’MS. Sono state selezionate di volta in volta le schede più indicate, tenendo conto del grado di difficoltà riscontrato. Si è iniziato con il materiale CFI, complementare al CFV; si è poi continuato, in ordine, con il materiale NST e infine con il training relativo all’SR. Analisi OLC L’analisi dei punteggi ottenuti al test OLC nelle tre fasi di valutazione (pre-test, post-test e follow-up) evidenzia, a livello di media, un miglioramento nelle prestazioni di circa due punti e mezzo e un mantenimento, almeno a breve termine, degli effetti dell’intervento. La media dei punteggi passa infatti da 18,3 al pre-test a 21 punti al post-test e risulta pari a 21,5 al follow-up (come riportato nel grafico 4), mentre la deviazione standard rimane piuttosto stabile (rispettivamente 2,99, 2,34 e 2,88).

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Grafico 4 - Evoluzione dei risultati medi di tutti i partecipanti nelle fasi di pre-test, post-test e follow-up (OLC).

Un’analisi più dettagliata dei dati grezzi evidenzia come la maggior parte dei partecipanti mostri un miglioramento rispetto al pre-test; solo tre bambini riportano punteggi lievemente inferiori, nell’ordine di uno o due punti, al post-test.

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Il training è stato proposto dalle Dottoresse in Psicologia Fodale e Vitantonio, affiancando al programma l’utilizzo del diario di bordo.

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L’analisi dei punteggi ottenuti nella fase di follow-up evidenzia, a livello generale, un mantenimento delle acquisizioni o un ulteriore incremento delle stesse. Analisi CFV Dall’analisi dei punteggi ottenuti al test CFV nelle tre fasi di valutazione (pre-test, post-test e follow-up) emerge un aumento medio delle prestazioni, come riportato anche nel Grafico 5. In particolare si passa da una media di 22,9 punti al pre-test a 26,1 punti al post-test e 32,3 punti al follow-up. La dispersione dei punteggi varia notevolmente tra pre e post-test e follow-up, come evidenziato dalle deviazioni standard, molto simili nelle prime due fasi di valutazione e inferiori al follow-up (rispettivamente 6,84, 6,69 e 2,96).

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Grafico 5 - Evoluzione dei risultati medi di tutti i partecipanti nelle fasi di pre-test, post-test e follow-up (CFV).

Un’analisi più attenta dei dati grezzi permette di rilevare come la maggior parte dei partecipanti mostri prestazioni migliori al post-test rispetto al pre-test, indicando plausibilmente l’efficacia del trattamento. Solo per tre bambini si evidenziano punteggi inferiori, in particolare in un caso, in cui si passa da 28 punti al pre-test a 16 al post-test. Questo dato, anche e soprattutto considerando il punteggio ottenuto dal bambino al follow-up (33), potrebbe essere interpretato come dovuto a fattori, interni o esterni al bambino (per esempio la motivazione del bambino, la concentrazione sul compito, l’approccio dello sperimentatore ecc.), che hanno influito negativamente sulla sua prestazione. Considerando i dati ottenuti al follow-up, emerge come tutti i partecipanti mostrino un ulteriore miglioramento rispetto al pre-test, solo in un caso il punteggio risulta lievemente inferiore rispetto al post-test (37 vs 34). Ciò sembrerebbe indicare un mantenimento delle abilità acquisite a breve termine e/o un “progresso differito”. Analisi CPM L’analisi dei punteggi ottenuti alle CPM nelle tre fasi di valutazione (pre-test, posttest e follow-up) evidenzia un aumento medio dei punteggi tra pre e post-test e un mantenimento a breve termine degli effetti dell’intervento, come riportato nel Grafico 6. Nello specifico si passa da una media pari a 24,5 punti al pre-test a 27,3 al posttest e 27,8 al follow-up. La dispersione dei punteggi, molto simile nelle prime due fasi di valutazione (5,30 e 5,45), diminuisce lievemente al follow-up (4,45).

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Grafico 6 - Evoluzione dei risultati medi di tutti i partecipanti nelle fasi di pre-test, post-test e follow-up (CPM).

L’analisi dei dati grezzi evidenzia, ancora una volta, come la maggior parte dei partecipanti (8 su 12) mostri un miglioramento al post-test, mentre 4 bambini ottengono punteggi inferiori. In due casi, in particolare, i punteggi ottenuti durante la seconda valutazione sono inferiori di 4 o 6 punti, passando da 30 a 26 in un caso e da 31 a 25 nell’altro. Anche in questo caso, osservare i dati emersi dalla fase di follow-up può aiutare a meglio interpretare questi casi. Nel primo caso il punteggio risulta ulteriormente più basso nella terza valutazione (23): ciò potrebbe portare ad ipotizzare che i risultati ottenuti al pre-test non siano realmente rappresentativi delle abilità del partecipante. Nel secondo caso, invece, il punteggio al follow-up (29) risulta superiore rispetto a quello del post-test: in questo caso è plausibile ipotizzare che la prestazione alla seconda valutazione sia stata influenzata negativamente da altri aspetti, come precedentemente suggerito. 4.2.1 Analisi qualitativa Diario di bordo La proposta di training attraverso il Progetto MS a gruppi ampi non ha attualmente molti precedenti, se si tiene conto del fatto che tale strumento è relativamente giovane e utilizzato principalmente nel potenziamento individuale o in piccoli gruppi. Questo aspetto ha comportato la necessità di sperimentare di volta in volta diversi atteggiamenti e strategie operative, anche al fine di apprendere maggiori informazioni sul potenziale dello strumento stesso. Per proporre il training a un gruppo ampio di bambini si è tentato di operare sia a livello di gruppo che di coppie, al fine di stimolare ed incoraggiare un atteggiamento metodico rispetto al compito, le competenze metacognitive, le verbalizzazioni, il rispetto dei turni e la capacità di formulare domande critiche per aiutare i compagni nella risoluzione dei problemi. 4.3 Discussione dei risultati I dati ricavati dalla somministrazione dei diversi strumenti consentono di far emergere riflessioni interessanti in merito alle domande di ricerca che hanno guidato lo studio, nonostante la brevità degli interventi realizzati e di conseguenza la prudenza necessaria nel presentare i risultati stessi.

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In linea generale, poiché il numero esiguo di partecipanti e di ore dedicate ai due Programmi non consente di ricavare risultati statisticamente significativi e dunque di trarre conclusioni generalizzabili, appare interessante offrire una riflessione sui risultati dell’intervento utilizzando come chiave di lettura i criteri della mediazione formulati da Feuerstein (Feuerstein, 2008; Vanini, 1999), ossia i comportamenti e gli atteggiamenti che il mediatore deve sempre tener presenti perché l’interazione con l’allievo si caratterizzi come esperienza di apprendimento mediato (EAM). Tra questi, gli aspetti più significativi sono la mediazione della trascendenza, dell’intenzionalità e reciprocità, e del significato. Questi criteri si riferiscono ad un atteggiamento del mediatore basato sulla esplicitazione chiara e diretta delle intenzioni, sulla cura di aspetti relativi alla sfera relazionale, all’ascolto e alla reciprocità, e sulla ricerca costante del superamento dell’hic et nunc per cercare di cogliere i nessi, i significati più generali. La scelta da parte dei ricercatori di realizzare un training di gruppo è giustificata dalla volontà di tener presente soprattutto il criterio della reciprocità, nonché quello del senso di condivisione. Un gruppo è di natura eterogeneo al suo interno: alcuni bambini erano più motivati di altri, alcuni utilizzavano forme di pensiero superiori rispetto a quelle degli altri, per cui per quanto operare in un gruppo vasto rappresenti un possibile elemento di “rischio” per l’efficacia del training, ha rappresentato un’occasione vantaggiosa per tutti i partecipanti. L’intenzione è stata infatti quella di fare in modo che l’esperienza diventasse per i bambini coinvolti un’occasione di incontro e di sperimentazione attiva del lavoro di gruppo e del senso della collaborazione. Costruire un contesto in cui i bambini hanno avuto l’opportunità di vivere un senso di interconnessione reciproca ha significato ad esempio constatare, come i diari di bordo suggeriscono, che nel corso dell’intervento sempre più i bambini si “appoggiavano” alle idee dei compagni per discutere di qualcosa. Questo è stato particolarmente evidente quando è stata proposta una delle schede dello strumento Immagini del PAS (nello specifico la 17). I bambini, invitati a descrivere cosa vedevano e successivamente ad interpretare ciò che avevano osservato, hanno raccontato la storia della vignetta, appoggiandosi e aggiungendo qualcosa a quello che diceva il compagno che li precedeva, ampliando, sostenendo o proponendo qualcosa di alternativo. Un ulteriore risultato importante (per entrambi gli interventi) è riassumibile nel motto del PAS “Un momento…sto pensando!”. Al di là dell’arricchimento delle funzioni cognitive, desumibile dai risultati ottenuti ai test, il cambiamento ha riguardato l’accresciuta capacità dei bambini di “usare” il motto, e di renderlo parte dei discorsi e delle loro risposte. Se all’inizio del percorso, l’intervento del mediatore era completamente diretto al controllo dell’impulsività (prendere subito la matita in mano, rispondere immediatamente alla consegna della scheda, passare rapidamente all’interpretazione senza soffermarsi sull’osservazione sistematica del materiale sono tutti esempi di azioni e comportamenti messi in atto nei primi incontri, sia nelle ore del PAS sia dell’MS), man mano che l’intervento procedeva, i bambini sentivano sempre più il bisogno di inibire l’azione immediata e soffermarsi su quanto osservavano e veniva loro richiesto, senza timore di esprimere la necessità di avere più tempo a disposizione per riflettere. Questo, nel caso del MS, è stato facilitato dal fatto di chiedere ai bambini, in primo luogo, di osservare bene e pensare a cosa le operatrici avrebbero potuto chiedere, e, in secondo luogo, di formulare dei quesiti in forma individuale e poi collettiva, pensando anche a quali domande avrebbero potuto aiutare i compagni a formulare ipotesi diverse. Questo processo ha permesso di stimolare e favorire atteggiamenti di riflessione e capacità

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metacognitive. Tali considerazioni sono riconducibili sia al criterio del senso di competenza sia a quello di regolazione del comportamento, nel senso che si tratta di azioni mediative che comportano una presa di consapevolezza dei processi cognitivi messi in atto e della necessità di autoregolarsi in funzione degli obiettivi che si intende raggiungere. L’approccio al compito costituisce dunque un rilevante elemento di cambiamento nel corso dell’intervento. Sia nelle ore dedicate al PAS sia in quelle dedicate al Progetto MS, è stato possibile osservare una differenza sempre più marcata nel corso del tempo rispetto alle modalità di approcciarsi alle varie schede e materiali proposti dal mediatore/operatore.

5. Limiti della ricerca e prospettive di sviluppo future Un primo aspetto su cui riflettere potrebbe essere individuato nell’assenza di un gruppo di controllo. Tale assenza risulta tuttavia giustificata dall’obiettivo della ricerca stessa, ossia la messa a prova di due Programmi dei quali non si intendeva tanto verificare l’efficacia (già suffragata da dati di precedenti ricerche), quanto piuttosto valutarne l’utilizzabilità in contesti scolastici. Lo studio condotto ha offerto elementi interessanti di riflessione su alcune caratteristiche di questi Programmi, in una prospettiva didattica e valutativa. Un limite è costituito dal fattore tempo: in primo luogo, il training ha avuto una durata breve, e in secondo luogo il tempo trascorso tra le valutazioni è stato disomogeneo per i due Programmi. Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre ribadire che la letteratura sottolinea la necessità che gli interventi basati sull’uso di Programmi di potenziamento abbiano una durata e una intensità sufficientemente adeguate per poter constatare effetti positivi (in questo caso, seguendo Feuerstein, non sarebbe opportuno parlare di modifiche, quanto di cambiamenti, che rappresentano una sorta di fase preliminare alla vera e propria modifica), mentre, riguardo alla disomogeneità nei tempi di valutazione, bisogna dire che il post-test e il follow-up sono stati effettuati in due momenti estremamente diversi, rispettivamente a fine anno scolastico per il PAS e inizio anno scolastico per MS. Questo può aver comportato una differenza nel livello di motivazione e di fatica dei bambini, di cui occorre necessariamente tener conto. Un altro limite riguarda l’età media dei bambini, soprattutto rispetto agli strumenti di valutazione. Principalmente per il gruppo PAS, infatti, nel follow-up i bambini avevano superato gli otto anni e questo può aver influito sulla sensibilità dei test (soprattutto in riferimento al test OLC e al CPM). Ci chiediamo inoltre se e in che misura l’intera ricerca avrebbe portato a riflessioni diverse coinvolgendo in prima persona le insegnanti nell’implementazione dei Programmi. La letteratura infatti mostra come sia necessario far sì che tali Programmi diventino parte integrante del curricolo, per cui sarebbe auspicabile un coinvolgimento significativo dei docenti in una ricerca futura. Un ulteriore limite riguarda gli strumenti valutativi utilizzati: non solo in quanto focalizzati su specifiche capacità (che hanno limitato certamente la possibilità di constatare ulteriori effetti dei Programmi su altre capacità, diverse da quelle logiche), ma anche perché “statici”, coerenti cioè con una concezione di intelligenza associata alla progressiva acquisizione di capacità di pensiero secondo una visione cumulativa e incrementale. Tenendo conto di questi limiti appena enunciati, è possibile ipotizzare in un’ottica di prospettiva futura l’opportunità di riproporre il lavoro orientando tale pro-

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posta verso un coinvolgimento maggiormente attivo di tutti gli attori, interni ed esterni al sistema scuola. Sarebbe certamente auspicabile ad esempio una maggiore partecipazione dei genitori, che preveda, oltre alla richiesta di consenso informato e a un colloquio conclusivo, un coinvolgimento fin dalle fasi iniziali o addirittura in corso d’opera. Anche l’inclusione del gruppo insegnanti e del dirigente scolastico potrebbe essere incentivata attraverso una richiesta di collaborazione attiva fin dalle fasi iniziali della progettazione, in considerazione del piano formativo curricolare, dei temi extracurricolari affrontati nel corso dell’anno (e quindi cercando di operare all’interno di quella capacità di bridging propria del mediatore a cui Feuerstein si riferisce), progettando inoltre le ore, le aule a disposizione, gli incontri con i genitori. Volendo ampliare ancora di più la prospettiva potrebbe risultare interessante chiedersi quale ricchezza di informazioni potrebbe derivare da un’indagine che coinvolga bambini più piccoli, ad esempio utilizzando come contesto d’intervento l’ultimo anno della scuola dell’infanzia, per poi indagare gli effetti dei Programmi al passaggio alla scuola primaria (in questo caso utilizzando il PAS BASIC, dedicato a bambini più piccoli). Infine, una pista di lavoro certamente interessante riguarda la possibilità di sperimentare l’utilizzo di strumenti dinamici per valutare l’eventuale cambiamento in seguito alla proposta di Programmi di questo tipo: questo aspetto risulterebbe essere maggiormente in linea con una concezione di intelligenza favorevole alle potenzialità individuali, anche quelle in via di maturazione (le developing expertise di Sternberg e Grigorenko, 2004).

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Servizi di tutorato didattico e Obblighi Formativi Aggiuntivi, un’indagine empirica esplorativa: il caso del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre* Arianna Giuliani • Università Roma Tre - arianna.giuliani@uniroma3.it Giovanni Moretti • Università Roma Tre - giovanni.moretti@uniroma3.it Arianna Morini • Università Roma Tre - arianna.morini@uniroma3.it

Didactic tutoring services and Obligations for Additional Learning, an empirical exploratory research: the case of the Department of Educational Science at Roma Tre University The paper presents the results of an empirical exploratory research on tutoring services that deal with the recovery of Obligations Additional Learning by university students. Focusing the themes of individualization, the pedagogy of e-learning and of personalized feedback, the research wanted to help define the hallmarks of some teaching strategies that services can use to qualify their work and to improve students’ learning outcomes. The research was developed in the Department of Educational Science (Roma Tre University). The data collected shows that the active participation of students in that design encourages the development of key competencies for the pursuit of studies.

Parole chiave: Autovalutazione, E-learning, Feedback personalizzato, Individualizzazione, Obblighi formativi aggiuntivi, Tutorato universitario.

Keywords:Self-evaluation, E-learning, Formative feedback, Individualization, Obligations for Additional Learning, University tutoring

Gli autori hanno condiviso la stesura dell’articolo in tutte le sue parti. In particolare, sono da attribuirsi a Arianna Giuliani i §§ 1, 3; a Giovanni Moretti i §§ 2, 5; a Arianna Morini il § 4. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Il paper presenta i risultati di una ricerca empirica esplorativa sui servizi di tutorato didattico che si occupano del recupero degli Obblighi Formativi Aggiuntivi da parte di studenti universitari. Approfondendo i temi dell’individualizzazione, della pedagogia elearning e del feedback personalizzato, si è voluto contribuire a delineare i tratti distintivi di alcune strategie didattiche che i servizi possono utilizzare per qualificare i propri interventi e favorire buoni risultati di apprendimento. La ricerca è stata sviluppata nel Dipartimento di Scienze della Formazione (Università Roma Tre). Dai dati rilevati emerge che la partecipazione attiva degli studenti a una tale progettazione favorisce lo sviluppo di competenze chiave per il prosieguo degli studi.


Servizi di tutorato didattico e Obblighi Formativi Aggiuntivi, un’indagine empirica esplorativa: il caso del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre

1. Contesto della ricerca

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L’impegno profuso per qualificare le attività di insegnamento e apprendimento nel contesto universitario e la sfida di costruire uno spazio europeo dell’istruzione superiore, aspetti caratterizzanti il “Processo di Bologna”, hanno evidenziato l’importanza di alcuni elementi. In particolare, è emersa la necessità di promuovere processi esplorativi, costruttivi e critici di insegnamento-apprendimento (Fry et al., 2008; Ferreira, 2013); di progettare e gestire nuove forme di didattica e allineare le metodologie di insegnamento, apprendimento e valutazione ai learning outcomes (Galliani, 2011; Serbati & Zaggia, 2012; Zago et al., 2014); di garantire l’acquisizione dei risultati di apprendimento valorizzando modalità integrate di attività di orientamento, tutorato e sostegno agli studenti (Truffelli, 2010; Da Re, 2012). Il presente contributo focalizza l’attenzione sui servizi finalizzati al consolidamento e allo sviluppo delle competenze richieste alle matricole per avvalersi pienamente dell’offerta formativa contribuendo a contrastare la dispersione universitaria nelle sue differenti forme (Araque et al., 2009; Fasanella et al., 2010). L’avvio di un’indagine sui servizi di tutorato didattico per gli studenti nasce dalla volontà di contribuire a delineare i tratti distintivi delle principali strategie didattiche che essi possono far proprie affinché gli interventi che mettono in atto possano essere efficaci, anche alla luce della sempre maggiore attenzione dedicata dalle università europee alla progettazione di interventi integrativi rivolti ai propri studenti. Sono in aumento le università che dedicano interesse e fondi per la strutturazione di specifici servizi di tutorato, convinte che azioni di supporto studiate sul bisogno specifico di ogni studente possano «fornire un importante contributo a garanzia dell’efficacia e dell’equità del sistema di istruzione superiore e, nel contempo, del rispetto dell’autonomia dell’individuo» (Torre, 2006, p.67). Benché i servizi di tutorato universitari, in linea generale, si rivolgano per lo più a studenti neo-immatricolati e si occupino di fornire supporto formativo e didattico, gli orientamenti differiscono a seconda del panorama socio-culturale specifico di riferimento. Ad esempio focalizzando l’attenzione su alcune realtà europee è possibile individuare notevoli differenze tra modelli di riferimento e pratiche utilizzate. Volendo approfondire la realtà anglosassone, il modello di riferimento è quello della pastoral care, teorizzato da Marland e Gill (1974). Secondo l’autore il centro dell’interesse del tutor deve essere il tutee, che va seguito nell’intero percorso di formazione e di cui è importante curare l’inserimento professionale, valorizzandone i personali bisogni e interessi. Tale modello prevede che a ricoprire il ruolo di tutor sia un docente, così che possa essere garantita un’azione tutoriale qualificata che sappia intervenire sulle questioni di natura didattica. Oltre ad esso, comunque, nella realtà anglosassone non mancano esperienze di tutorato che fanno leva sulla pratica del peer tutoring (Topping, 1997; Cohen, 1999; Falchikov & Blythman, 2001). Differente è l’approccio tutoriale utilizzato nella tradizione mitteleuropea, che dedica particolare attenzione alla progettazione degli interventi di orientamento

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e di formazione oltre che agli aspetti di natura didattica. In tale contesto lo spazio per svolgere una funzione tutoriale viene lasciato agli studenti, di cui viene incoraggiata la maturazione attraverso attività di progettazione e supporto per i propri compagni. Benché esistano alcune differenze tra una nazione e l’altra, le principali funzioni di tali servizi di tutorato sono guidare gli studenti nel nuovo ambiente di formazione, progettare interventi di natura propedeutica alla didattica, organizzare gruppi di studio e fornire informazioni e supporto per lo sviluppo della carriera universitaria (Pagani, 2007, p. 42). Nella realtà italiana, in particolare, il tutorato è stato introdotto insieme all’orientamento negli atenei nel 1990 con la Riforma degli Ordinamenti didattici universitari (Legge 341, art.13), che ne definisce le finalità generali. Come esplicitato nei documenti ufficiali della Conferenza dei Rettori delle università italiane (CRUI, 1995; Michelon, 2000), ogni università dovrebbe curare le attività di orientamento in entrata, l’accoglienza e il tutorato, accompagnando gli studenti per l’intero corso degli studi. Il modello di tutorato italiano integra alcuni aspetti delle tre realtà europee prima delineate, si articola in maniera differente a seconda degli specifici atenei – grazie all’autonomia didattica di cui essi godono – e sembra mantenere costante la centralità dedicata soprattutto ad alcuni interventi: dare informazioni e consigli per affrontare al meglio il percorso di studi, predisporre percorsi per il recupero di lacune di apprendimento, fornire assistenza per la stesura della tesi di laurea. Interessante, inoltre, mettere in luce come sia progressivamente aumentato il coinvolgimento nelle attività di tutorato da parte dei docenti e da parte degli studenti (CRUI, 2005). Ogni ateneo italiano, in virtù dell’autonomia, può stabilire modalità diverse per l’accesso ai corsi di laurea, e non volendo adottare un approccio di tipo selettivo alcuni di essi prevedono da tempo l’utilizzo di prove per la verifica delle conoscenze in ingresso, consentendo a tutti gli studenti che partecipano alla prova di immatricolarsi. Per gli studenti che non ottengono un punteggio ritenuto sufficiente è prevista l’assegnazione di Obblighi Formativi Aggiuntivi da assolvere entro il primo anno di corso (MIUR, D.M. 22 ottobre 2004, n. 270, art.6). Gli Obblighi Formativi Aggiuntivi (OFA) dovrebbero offrire nuove opportunità di crescita a quegli studenti che hanno mostrato di non disporre al meglio delle conoscenze e delle competenze necessarie per accedere al corso di laurea. Se in grado di configurare e gestire gli OFA in modo adeguato investendo risorse e impegno progettuale per implementare percorsi didattici e integrativi che valorizzano la crescita degli studenti e la loro capacità di gestire autonomamente il percorso di recupero, gli atenei possono interpretare e applicare l’art. 6 allestendo un ambiente inclusivo e promuovendo la responsabilizzazione di propri studenti (Di Biase, 2012). La presenta ricerca si concentra sulla specifico servizio di tutorato predisposto dal Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, che si occupa di progettare per gli studenti con OFA iscritti ai corsi di laurea del proprio Dipartimento percorsi educativi il cui scopo è quello di consentire a tutti gli studenti «il raggiungimento delle competenze fondamentali del curricolo, attraverso la diversificazione dei percorsi di insegnamento» (Baldacci, 2002, pp. 132-133). Con l’obiettivo fondamentale di garantire agli studenti l’acquisizione e la padronanza di competenze strategiche, e in particolare la capacità di autoregolare e autodirigere il proprio apprendimento (Zimmerman, 1989; Pintrich, 2000; Pellerey, 2006), ogni ateneo dovrebbe poter garantire ai propri studenti il diritto di proseguire il percorso di studi a prescindere dalle lacune manifestate inizialmente, ed è per questo che è importante valutare le conoscenze e le competenze che gli studenti posseggono in ingresso, monitorare quelle che sviluppano in itinere e rilevare

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quelle che ottengono al termine dei percorsi didattici loro proposti. Oltre a questo, alcune ricerche hanno evidenziato come sia importante valorizzare la partecipazione attiva degli studenti nell’esprimere il proprio punto di vista su come ritengono sia possibile qualificare ulteriormente la didattica e l’ambiente di formazione in cui sono inseriti e di cui dovrebbero essere protagonisti (ad es.: Fielding, 2004; Smyth, 2006; Grion & Cook-Sather, 2013). La rilevazione sistematica dei livelli di apprendimento degli studenti con OFA potrebbe essere, per ogni ateneo, una delle strategie per qualificare i percorsi didattici progettati dai servizi di tutorato perché possano rispondere in maniera efficace e proattiva ai bisogni degli studenti. A tal fine, rilevati i prerequisiti iniziali con una prova di accesso strutturata che garantisce la validità e l’attendibilità della valutazione, dovrebbero essere previsti interventi di monitoraggio continui, mediante attività didattiche in itinere e una prova finale per la rilevazione dei livelli di apprendimento raggiunti (Domenici, 2009b). Adottando un sistema integrato di orientamento (Domenici, 2009a), gli studenti dovrebbero essere sostenuti nel percorso di acquisizione di competenze orientative e autovalutative mature, così che possa essere favorito il raggiungimento di buoni risultati di apprendimento e il contrasto degli abbandoni e della dispersione degli studi (Isfol, 2005; Clerici et al., 2011). In una società in rete come è quella odierna, gli interventi educativi dovrebbero saper integrare le potenzialità di una didattica frontale e quelle proprie degli ambienti di apprendimento online (Galliani, 2004). Un servizio di tutorato che implementi percorsi didattici e strutturi attività secondo una modalità blended, a tal proposito, potrebbe favorire una crescita dei propri studenti non solo in termini di risultati di apprendimento, ma anche con benefici sul piano relazionale e motivazionale (Osguthorpe & Graham, 2003; MacDonald, 2006; La Rocca, 2010). Se le lezioni frontali favoriscono una comunicazione non mediata e diretta, infatti, la possibilità di interfacciarsi online con i tutor e con i propri compagni e l’opportunità di accedere in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo agli approfondimenti teorici e alle attività autovalutative mette gli studenti nella condizione di sviluppare una certa autonomia nella prosecuzione del proprio percorso di formazione e li incoraggia ad acquisire una certa competenza critica e autovalutativa (Moè & De Beni, 2000; Castoldi, 2009; Cottrell, 2011). La possibilità che le piattaforme e-learning (Maragliano, 2004; Alonso et al., 2005; Downes, 2005) danno di differenziare i percorsi ipermediali e ipertestuali a seconda delle prestazioni fornite, inoltre, può essere utile per la progettazione di interventi didattici che siano ancor più attenti ai bisogni specifici del singolo studente con OFA. Nel predisporre le prove di autovalutazione online, in particolare, una adeguata attenzione dovrebbe essere dedicata all’elaborazione di feedback personalizzati o formative feedback (Butler & Winne, 1995; Kluger & DeNisi, 1996; Nicol & Macfarlane-Dick, 2006), che possano essere restituiti a seguito di ogni risposta data dallo studente. Come evidenziato dal progetto UniSOFIA, condotto dall’Università di Cagliari e Sassari, la funzione del feedback svolge un ruolo significativo nell’ambito del processo di orientamento e di riallineamento universitario online (Calidoni et al., 2009). Nella conferenza internazionale OECD/CERI (2008) sul tema dell’apprendimento e della valutazione nel XXI secolo il feedback assume un ruolo fondamentale per una valutazione che intende essere formativa, ma viene posto l’accento su come non tutte le tipologie di feedback siano ugualmente efficaci. «Il feedback deve essere specifico e restituito nel momento adeguato, e deve contenere proposte su come migliorare le prestazioni future. Un buon feedback dovrebbe anche esplicitare i criteri di valutazione rispetto alle prestazioni degli studenti, rendendo esplicito il processo di apprendimento e favorendo l’acquisizione negli studenti della competenza di

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“imparare ad imparare”» (pp. 9-10). Il feedback personalizzato, più che segnalare l’esattezza o meno della risposta, per poter incidere sui processi cognitivi degli studenti dovrebbe evidenziare loro il gap esistente tra il livello della propria prestazione e il livello considerato adeguato per valutare come raggiunto l’obiettivo di apprendimento. In questo modo può sostenerli nell’individuazione di quali siano le strategie adeguate o inadeguate utilizzate per poter intervenire su di esse prontamente. Considerato uno strumento a sostegno dell’apprendimento di rilevanza strategica, è importante stabilire quando restituire il feedback: per compiti complessi è preferibile una restituzione immediata dopo ogni risposta data, per compiti di natura più semplice è più efficace un messaggio complessivo presentato alla fine del compito contenente i feedback relativi ad ogni risposta. Il feedback è quanto più efficace quanto più guida lo studente in un processo metacognitivo, più che suggerire la risposta: in quel caso, infatti, il processo di apprendimento sembrerebbe essere inibito (Shute, 2008). I temi della valutazione, dell’individualizzazione, degli ambienti di apprendimento online e del formative feedback sono da tempo al centro dell’interesse di ricerche nazionali e internazionali in ambito educativo, tuttavia si ritiene importante dedicare ad essi ulteriori attenzioni, attraverso ricerche sul campo che rendano possibile la rilevazione di evidenze. La ricerca qui presentata, in particolare, ha voluto approfondire alcune di tali tematiche all’interno del contesto universitario.

2. Il disegno della ricerca L’obiettivo della ricerca è quello di osservare e monitorare sistematicamente il percorso di recupero degli Obblighi Formativi Aggiuntivi (OFA) degli studenti iscritti ai corsi di laurea triennale del Dipartimento di Scienze della Formazione1, Università Roma Tre, al fine di contribuire a qualificare gli interventi didattici individualizzati progettati dal Servizio di Tutorato Didattico (S.Tu.Di.). Rivolto agli studenti che a seguito del punteggio insufficiente nella prova di accesso sono stati ammessi al proprio corso di laurea con OFA, il servizio S.Tu.Di. si occupa di progettare attività didattiche ed integrative che possano supportarli nell’assolvimento di tali Obblighi e realizza percorsi di approfondimento tematico – in presenza e online – nelle tre aree oggetto della prova di ingresso (Comprensione della lettura, Decodifica di grafici e tabelle, Analisi deduttiva e situazioni problematiche). La metodologia individuata è la ricerca empirica di tipo esplorativo ed è stata utilizzata un’impostazione mista (Lucisano & Salerni, 2002; Domenici, 2009c; Trinchero, 2012). L’ipotesi della ricerca è che una progettazione didattica flessibile e individualizzata che si avvale di interventi in presenza e online, utilizzando il feedback personalizzato, favorisce negli studenti con OFA il raggiungimento di buoni risultati di apprendimento e lo sviluppo di competenze chiave per il prosieguo degli studi. La ricerca intende osservare e rilevare il modo in cui la qualità delle attività didattiche e integrative individualizzate progettate dai docenti e dai tutor del Ser-

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Corsi di laurea triennale in Scienze dell’Educazione, Educatore Professionale di Comunità, Formazione e Sviluppo delle Risorse Umane.

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vizio di Tutorato Didattico può favorire il consolidamento o l’acquisizione di strategie cognitive e metacognitive da parte degli studenti, incidendo positivamente sui loro risultati di apprendimento. A tal fine, sono stati progettati percorsi di recupero individualizzati, sono stati elaborati feedback formativi personalizzati ed è stata predisposta una prova oggettiva finale per la rilevazione dei livelli di apprendimento raggiunti. Durante il percorso è stato monitorato il livello di partecipazione alle attività proposte nonché la fruizione dei feedback da parte degli studenti. L’unità di analisi della ricerca sono i 132 studenti che, avendo assegnati gli OFA, si sono immatricolati ad uno dei corsi di laurea triennale del Dipartimento di Scienze della Formazione nell’anno accademico 2013/2014 e hanno partecipato al percorso di recupero e alla prova finale nel mese di giugno 2014.

3. Fasi e strumenti della ricerca La ricerca è stata articolata in alcune fasi, che possono essere così riassunte:

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1. analisi dei risultati alla prova in entrata e suddivisione degli studenti con OFA in fasce di punteggio; 2. progettazione e avvio dei percorsi in presenza e online (individualizzato a seconda della fascia di appartenenza); 3. rilevazione dei dati relativi al percorso di recupero e prova in uscita; 4. elaborazione e analisi dei dati. Durante la prima fase della ricerca gli studenti con OFA sono stati suddivisi in tre fasce di punteggio, a ognuna delle quali è stato dedicato uno specifico percorso di recupero individualizzato. Per gli studenti della fascia di punteggio più bassa (15-29 punti) è stata resa obbligatoria la partecipazione al percorso di recupero che prevedeva incontri in presenza e attività online; per la fascia di punteggio medio (30-34 punti) è stata prevista la partecipazione al percorso online ed è stato consigliato di partecipare alla lezione in presenza relativa all’area di competenza nella quale hanno ottenuto un punteggio critico; per la fascia di punteggio più alta (35-39 punti), essendo la meno critica, è stato reso obbligatorio solo il percorso online. Nella seconda fase sono stati progettati e avviati i percorsi di recupero in presenza e online. In particolare, in presenza sono stati strutturati incontri tematici curati da docenti del Dipartimento, e online sono stati predisposti materiali didattici e prove di autovalutazione con feedback personalizzati. Nella terza fase sono stati creati report individuali circa il livello di partecipazione alle attività frontali e online previste dal percorso di recupero specifico assegnato ed è stata somministrata la prova in uscita. La quarta fase è stata dedicata all’elaborazione e all’analisi dei dati raccolti. Gli strumenti utilizzati per la raccolta dati, coerentemente con l’impostazione mista della ricerca, sono di natura sia qualitativa che quantitativa: prove oggettive (prova di verifica per la preparazione iniziale, prove in itinere con finalità autovalutativa, prova finale di verifica del recupero degli OFA), questionario di tipo strutturato per rilevare dati di sfondo sugli studenti facenti parte dell’unità di analisi e feedback personalizzati. La prova di verifica per la preparazione iniziale ha come obiettivo quello di attestare: «le conoscenze e competenze […] di base e trasversali, quali la comprensione della lettura, le abilità logico-linguistiche e logico-matematiche. […] La prova di verifica per la preparazione iniziale degli studenti si articola in sezioni

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relative alle aree menzionate al precedente comma ed è costituita da 80 quesiti a scelta multipla. La prova di verifica non è ostacolante rispetto all’accesso al corso di laurea ma può dar luogo ad obblighi formativi aggiuntivi»2. Degli 80 items, 40 sono relativi all’area di competenza Comprensione della lettura (suddivisi in interpretazione critica del testo e scomposizione e ricomposizione del testo), 20 riguardano l’area Decodifica di grafici e tabelle e 20 sono relativi all’area Analisi deduttiva e situazioni problematiche. I candidati che ottengono un risultato inferiore al 50% del punteggio massimo sono tenuti ad assolvere gli Obblighi Formativi Aggiuntivi relativi alle conoscenze e competenze di cui all’art. 23 del Regolamento didattico dei corsi di laurea. Le prove in itinere sono state implementate sulla piattaforma Moodle “Formonline” (www.formonline.uniroma3.it), un ambiente virtuale mediante il quale il Dipartimento di Scienze della Formazione fornisce ai propri studenti opportunità di apprendimento online e percorsi di formazione a distanza, dando loro la possibilità di comunicare in maniera sincrona e asincrona. La decisione di avvalersi di tale piattaforma open source per l’e-learning nella presente ricerca risponde all’esigenza di disporre di un ambiente in cui progettare azioni didattiche avanzate. La ricerca effettuata dal Laboratorio di Tecnologie Audiovisive del Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma Tre (Lopez et al., 2010), mette in luce in che misura gli strumenti che Moodle mette a disposizione vengono utilizzati dai docenti universitari. Dai dati emerge che le prove autovalutative sono solitamente poco utilizzate, in quindicesima posizione dopo strumenti tra cui risorse di testo, link esterni, multimedia, forum e compiti. Anche sulla base di queste evidenze, la ricerca qui presentata ha voluto focalizzare l’attenzione sulla possibilità di implementare prove autovalutative che prevedessero l’inserimento di feedback personalizzati per gli studenti. Il servizio S.Tu.Di. ha messo a punto un proprio spazio dedicato agli studenti con gli OFA, strutturato in diverse sezioni ognuna delle quali dedicata ad aspetti differenti (comunicazione, approfondimento tematico, autovalutazione). All’interno dell’ambiente online sono state predisposte le prove strutturate di autovalutazione per ciascuna delle tre aree di competenza alle quali gli studenti possono accedere durante il loro percorso di preparazione al recupero degli OFA. Le attività possono essere svolte nel periodo antecedente alla prova; in particolare, al fine di consentire ai tutor di monitorare il lavoro svolto online, è possibile per gli studenti esercitarsi fino a una settimana prima della prova. Attraverso un monitoraggio sistematico, i tutor possono visualizzare le attività svolte in termini di frequenza e risultati ottenuti. L’ambiente online consente di restituire in maniera simultanea agli studenti gli esiti delle singole prove svolte: data la risposta, allo studente appare il feedback “corretto” o “sbagliato”, in modo che possa autovalutare la propria prestazione e, sulla base dei risultati ottenuti, riflettere sul proprio apprendimento. La piattaforma consente di stabilire un numero massimo di tentativi consentiti per accedere alla singola esercitazione: il termine massimo individuato è stato tre tentativi, così da diminuire la probabilità di rilevare risultati positivi a fronte di tentativi casuali di risposta. Nonostante un processo autovalutativo e riflessivo sia possibile anche mediante questi feedback di natura dicotomica, tenendo conto di recenti evidenze di ricerca (Gamlem, 2013; Harks et al., 2014) è stato stabilito di introdurre dei feedback personalizzati che

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Università degli Studi Roma Tre, Bando per l’ammissione ai corsi di laurea triennale del Dipartimento di Scienze della Formazione (classe L-19), a. a. 2013/2014.

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fornissero agli studenti maggiori indicazioni sulla risposta fornita. In particolare si è deciso di iniziare a formulare e inserire questa tipologia di feedback per le esercitazioni dell’area di Comprensione della lettura, dopo aver presentato e discusso nel corso delle attività in presenza la tassonomia degli obiettivi di riferimento che si è deciso di utilizzare per verificare la comprensione di testi scritti (Domenici, 2009b). Nei feedback inseriti, per ogni risposta corretta è stato esplicitato l’obiettivo di comprensione della lettura che si è voluto verificare con il rispettivo item; per ogni risposta errata, il feedback spiega il motivo per cui l’opzione scelta è sbagliata. Di seguito (Fig.1) viene riportato un esempio di alcune domande con i relativi feedback personalizzati che, data la natura autovalutativa delle prove, lo studente visualizza una volta terminata l’attività. La prova di verifica dei livelli di apprendimento raggiungi al termine del percorso recupero OFA, affinché i risultati potessero essere confrontabili con quelli della prova somministrata ad inizio percorso e perché non ci fossero disomogeneità in relazione alla complessità degli obiettivi verificati, ha avuto le stesse caratteristiche della prova di verifica delle conoscenze in ingresso: 80 items a risposta con scelta multipla. Gli Obblighi Formativi Aggiuntivi sono stati considerati assolti rispondendo correttamente a 40 domande (non è stata prevista penalizzazione per le risposte errate o mancanti). Il questionario, costruito al fine di rilevare dati di sfondo sull’unità di analisi, è stato consegnato agli studenti insieme alla prova finale di recupero OFA ed è stato indicato loro di compilarlo prima di iniziare la stessa. Il questionario è composto da 12 domande strutturate e presenta possibilità di scelta predeterminate. Le prime domande chiedono età, titolo di studio e fascia di punteggio in cui si è stati inseriti in seguito alla prova di accesso (in base alla criticità del punteggio, si ricorda, erano state individuate diverse fasce). La seconda sezione del questionario raccoglie dati sul percorso svolto: se sono state seguite le attività in presenza sulle tre aree di competenza e se sono state utili per comprendere meglio gli argomenti oggetto della prova. Nel caso in cui non si siano frequentate le attività, è stata elaborata una sotto-domanda in cui si è chiesto se il materiale messo a disposizione nella piattaforma online è risultato utile ed esauriente per comprendere meglio gli argomenti e svolgere le prove di autovalutazione. Per queste tipologie di domande, le opzioni di risposta sono state scandite su una scala graduata: molto, abbastanza, poco, per niente. Tre delle domande del questionario sono relative ai feedback personalizzati inseriti nelle prove autovalutative dell’area di competenza Comprensione della lettura. In chiusura, due domande verificano se gli studenti hanno riscontrato difficoltà nell’utilizzo della piattaforma. Quanto rilevato mediante il questionario è stato elaborato con il software di analisi statistica SPSS (Statistical Package for Social Science).

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Fig. 1: Estratto della schermata visualizzata dallo studente al termine di ogni prova

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4. Alcuni risultati 4.1 Analisi prova di ingresso e suddivisione in fasce Nell’anno accademico 2013/2014 i casi di studenti con Obblighi Formativi Aggiuntivi iscritti ai corsi di laurea triennale del Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma Tre, sono stati 233. Di essi, gli immatricolati sono stati l’80% (187 studenti), di cui circa il 17,7% con insufficienza grave (tra le 15 e le 29 risposte corrette), il 32,3% con insufficienza media (tra le 30 e 34 risposte corrette) e il 50% lievemente al di sotto della sufficienza (tra le 35 e le 39 risposte corrette). La ricerca prende in analisi gli studenti tra i 187 che hanno seguito l’intero percorso, partecipando alla prima prova di recupero OFA. L’unità di analisi corrisponde, quindi, al numero di 132 studenti. 4.2 Recupero degli OFA e partecipazione alle attività

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La prova finale di verifica OFA, contenente 80 items suddivisi nelle tre aree di competenza, è stata superata da tutti gli studenti. In via straordinaria, per coloro che avevano ottenuto tra i 36 e i 39 punti, è stato stabilito di considerare comunque la prova superata restituendo a ogni studente un feedback articolato, indicante quanto era ancora necessario approfondire. Sono stati cinque i casi di studenti che hanno ottenuto questa soglia di punteggio e per i quali si è provveduto a garantire un percorso con delle attività di approfondimento supplementari. La possibilità di prevedere tale percorso è coerente con l’obiettivo della ricerca di inserire le attività formative nell’ambito di un sistema di servizi di tutorato integrati, che favoriscano il potenziamento delle strategie cognitive e metacognitive necessarie per proseguire al meglio il percorso di studi anche a seguito dell’assolvimento degli Obblighi Formativi Aggiuntivi. Il servizio di tutorato didattico OFA, lavorando in modalità blended learning, ha monitorato la partecipazione alle attività proposte sia in presenza che online. Dai report emerge che gli studenti hanno partecipato alle attività in presenza e online previste dal proprio percorso e, dai risultati della prova di recupero, si può evidenziare una relazione positiva tra livello di partecipazione e risultato di apprendimento ottenuto. Dal Graf.1 emerge che gli studenti che hanno ottenuto nella prova finale un punteggio migliore (tra 60 e 70 risposte corrette) sono quelli che in media si sono esercitati di più, in particolare il 41,7% degli studenti che hanno ottenuto un punteggio alto è risultato essersi esercitato “molto”. Allo stesso modo, gli studenti che hanno ottenuto un punteggio più basso (tra 36 e 47 risposte corrette) sembrano essersi esercitati complessivamente meno.

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! Graf. 1: Relazione tra attività svolte e punteggio finale

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4.3 Dati emersi dal questionario In totale sono stati raccolti 132 questionari. Dall’elaborazione dei dati, in relazione ai dati di sfondo, emerge che la maggioranza degli studenti posseggono come titolo di studio il diploma di Liceo (56,8%), il 25,8% ha il diploma di Istituto Tecnico, il 12,9% proviene da un Istituto Professionale e il 3,8% possiede altre tipologie di titolo di studio. Alla domanda che chiedeva di indicare uno o più modi in cui si è usufruito del servizio S.Tu.Di. per ricevere informazioni e supporto, risulta che il canale preferenziale attraverso il quale avviene la comunicazione servizio/studenti è la piattaforma online (70,5%), seguita dall’altra forma telematica dell’e-mail (58,3%). In seguito è stato domandato quanto le attività in presenza sulle tre aree di competenza fossero state utili per comprendere meglio gli argomenti trattati. Per il 25,8% sono risultate “molto utili”, per il 55% degli studenti sono state ritenute “abbastanza” utili e solo per il 5,3% non sono state considerate utili. In relazione a questa domanda è stato chiesto, a chi non avesse seguito le lezioni in presenza, se il materiale messo a disposizione online per spiegare e approfondire gli argomenti prima di ogni esercitazione fosse stato utile ed esauriente al fine di svolgere la prova di esercitazione autovalutativa. Il 56,8% degli studenti valuta “abbastanza” efficace il materiale didattico, il 20,5% lo considera “molto utile” e il 3% “poco utile”. Per quanto riguarda le esercitazioni presenti in piattaforma, la quasi totalità degli studenti (93,9%) le ha ritenute adeguate per consolidare le proprie competenze. 4.4 Feedback Avendo curato l’elaborazione di feedback personalizzati che rafforzassero il processo di autovalutazione in relazione ad alcune prove dell’area “Comprensione del testo”, è stato chiesto agli studenti se avessero notato la differenza tra questi e i feedback dicotomici presenti nelle prove relative alle altre due aree di competenza. L’87,9% dichiara di aver preso consapevolezza della differenza tra le due tipologie di feedback. A questi 116 studenti è stata posta un’ulteriore domanda volta a rilevare se ritenevano che i feedback personalizzati avessero migliorato la compren-

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sione degli argomenti trattati: il 93,2% ritiene che lo abbiano migliorato “molto” o “abbastanza” (Graf.2).

! Graf. 2: Percezione di quanto il feedback personalizzato ha migliorato la comprensione

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Ritenendo di particolare interesse la scelta di introdurre dei feedback personalizzati, si è voluto approfondire e prendere maggiore consapevolezza dell’esperienza che gli studenti hanno avuto con questa nuova forma di restituzione degli esiti valutativi. In particolare, è stato chiesto loro di indicare in quale momento della prova ritengono essere più efficace la comparsa del feedback. Come illustrato nel Graf.3, il 59,8% dei rispondenti ritiene sia efficace trovare il feedback una volta completata la prova, mentre il 25,8% risponde che è utile riceverlo immediatamente, dopo aver risposto ad ogni singola domanda. Potrebbe esserci, insomma, date le risposte ricevute, una componente di disturbo da parte del messaggio personalizzato in corrispondenza di quelle domande non particolarmente complesse che non richiedono strategie così da elaborate da necessitare di un messaggio specifico di chiarimento.

!

Graf. 3: Momento in cui gli studenti ritengono sia più efficace ricevere il feedback

4.5 Ambiente di apprendimento online Il servizio di tutorato didattico OFA, curando una progettazione che prevede interventi sia frontali che a distanza, ha voluto verificare l’esistenza di eventuali problemi nell’utilizzo dell’ambiente online. Nonostante gli studenti di oggi siano da

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considerare nativi digitali, emerge una difficoltà nell’utilizzo del materiale di approfondimento messo a disposizione online. Sebbene il 57,6% degli studenti risulta non aver avuto alcun problema nell’utilizzo della piattaforma, esiste un 40% che dichiara di aver riscontrato poca o abbastanza difficoltà nell’accedere e utilizzare l’ambiente online. Questo dato riflette, inoltre, la risposta del 48,5% degli studenti che dice di ritenere utile partecipare ad un incontro introduttivo sull’utilizzo base della piattaforma.

5. Riflessioni e prospettive future Sulla base della ricognizione di quanto presente in letteratura riguardo i temi del tutorato, dell’individualizzazione, degli ambienti di apprendimento online e della valenza ricoperta dall’utilizzo del feedback personalizzato, ma soprattutto alla luce dell’indagine condotta sul campo, emergono alcune prime riflessioni. La predisposizione di interventi educativi individualizzati che prevedono momenti di incontro in presenza e a distanza sembra essere una metodologia efficace affinché gli studenti con OFA acquisiscano le competenze necessarie sia per recuperare gli Obblighi Formativi sia per sviluppare competenze utili per dirigere il proprio apprendimento in modo autonomo e responsabile. Un momento specifico di familiarizzazione con l’ambiente virtuale, tuttavia, dai dati emersi nel questionario, sembra essere indispensabile per consentire agli studenti di fruire in maniera consapevole della proposta didattica offerta online e per far sì che il percorso progettato sia efficace in termini di strategie cognitive e metacognitive acquisite. Sulla base delle riflessioni fatte sulle attività didattiche svolte nella ricerca è possibile ipotizzare che esse, pur con i necessari adattamenti ai singoli contesti, potrebbero essere efficaci per quei servizi di tutorato impegnati nella progettazione di interventi educativi in grado di favorire lo sviluppo della capacità di autodirigere il proprio apprendimento e l’ottenimento di risultati di apprendimento positivi. A conferma del fatto che l’elaborazione di feedback personalizzati da restituire agli studenti nelle attività online si inserisce in un sistema integrato che vuole favorire l’acquisizione di competenze autovalutative e critiche, la prospettiva futura è quella di prevedere l’inserimento di essi anche nelle prove relative alle altre aree di competenza oggetto del percorso OFA. In particolar modo rispetto alla riflessione relativa a quando inserire il feedback, essendo emersa dal questionario la preferenza da parte degli studenti a ricevere la restituzione alla fine dell’attività, sarà prestata particolare attenzione a rilevare evidenze in merito. L’estensione del campo di applicazione del feedback personalizzato, inoltre, potrebbe consentire di sviluppare nel medio periodo, attraverso l’utilizzo della piattaforma Moodle, un database di domande e di differenti tipologie di feedback in costante aggiornamento. L’ambito di ricerca in cui si inserisce tale progetto è molto ampio, tuttavia sembra auspicabile che venga dedicato ulteriore interesse per tali tematiche, al fine di evidenziare quelli che potrebbero essere gli interventi adeguati per favorire la strutturazione di servizi di tutorato didattico che sappiano non solo supportare gli studenti nel processo di apprendimento, ma siano in grado anche di renderli autonomi nella prosecuzione del proprio percorso di studi. Rispetto a tale obiettivo, in una prospettiva diacronica, sarebbe interessante proseguire la ricerca anche raccogliendo i punti di vista espressi dagli studenti che hanno partecipato assiduamente e continuativamente alle attività OFA, al fine di rilevare la ricaduta effettiva dell’esperienza svolta sul prosieguo degli studi universitari.

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Oltre il successo scolastico, verso il successo formativo. Presentazione di una ricerca empirica Cristina Lisimberti • Università Cattolica del Sacro Cuore - cristina.lisimberti@unicatt.it Katia Montalbetti • Università Cattolica del Sacro Cuore - katia.montalbetti@unicatt.it

Not only grades. An integrative approach over school achievement The educational success, which means more than attending school with good performance, is a goal for the whole society. The research takes rise from the partnership between CeRiForm and Portofranco, a non-profit organization which provides a service to students having difficulties in their school learning in Milan. In this association aid in facing negative performances at school is considered as a part of a global educational process aiming to support student personal growth at any level. The explorative research aims to underline the impact of Portofranco experience in giving educational support to student development as a whole person, with particular attention to the social dimension.Thanks to this explorative study some interesting data have been pointed out useful to highlight the main dimensions of this complex phenomenon; at the same time the research has put in evidence other questions which need to be analyzed in future empirical studies.

Parole chiave: successo formativo, successo scolastico, volontariato, accompagnamento educativo, ricerca educativa.

Keywords:educational achievement, student achievement, mentoring, educational research, volunteerism.

L’architettura complessiva del contributo, l’introduzione e le conclusioni sono state elaborate insieme dalle due autrici. A Katia Montalbetti è da attribuire la redazione dei paragrafi 2 e 3.1, a Cristina Lisimberti la redazione dei paragrafi 1 e 3.2. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Il concetto di successo formativo è complesso ed articolato, condizionato profondamente dai contesti socio culturali di appartenenza, dai modelli e dai sistemi educativi e formativi dei diversi Paesi. Inteso come il raggiungimento del pieno sviluppo della persona umana, il successo formativo è un obiettivo e un bene per l’intera società: uno studente per cui l’impegno e la fatica scolastica assumono significato non solo ai fini di un voto ma in un cammino di crescita personale e di progressiva costruzione di un progetto di sé è infatti una risorsa per la comunità, la società civile, il sistema produttivo. La ricerca, di cui il contributo rende conto, origina dalla collaborazione fra il Centro Studi e Ricerche sulle Politiche della Formazione e l’Associazione Portofranco Milano onlus, che da anni offre un servizio di supporto allo studio ai giovani delle scuole milanesi; in particolare, obiettivo dell’indagine esplorativa è indagare come lo stile di accompagnamento e di supporto scolastico, concepito come componente di un processo di accompagnamento globale alla crescita dei ragazzi, impatti sul perseguimento del successo formativo, ponendo particolare attenzione alla dimensione sociale. L’indagine ha permesso di raccogliere dati utili a lumeggiare le principali dimensioni del fenomeno e al tempo stesso ha aperto ulteriori interrogativi.


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Introduzione

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Nella letteratura scientifica, nei principali provvedimenti normativi nonché in molti progetti di intervento educativo sempre più spesso all’espressione “successo scolastico” è affiancata (quando non sostituita) quella di “successo formativo” intendendo quest’ultimo come il raggiungimento del pieno sviluppo della persona umana; lavorare nella prospettiva del successo formativo implica un orizzonte di impegno che travalica la mera riuscita scolastica integrandola nel percorso di maturazione complessiva del minore. Particolarmente esplicativo risulta in tal senso il Regolamento dell’Autonomia Scolastica (d.p.r. 275/1999) quando all’art. 1 sancisce che “L’autonomia delle istituzioni scolastiche […] si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo[…]”. L’istruzione dunque non può essere disgiunta dall’educazione (Scurati, 1997). In questo senso il successo formativo è un obiettivo e un bene per l’intera società: uno studente per cui l’impegno e la fatica scolastica assumono significato non solo ai fini di un voto ma in un cammino di crescita personale e di progressiva costruzione di un progetto di sé è una risorsa per la comunità, la società civile, il sistema produttivo. Tale obiettivo non può essere soddisfatto delegandolo alla scuola; l’impatto sul minore delle fragilità che attraversano il tessuto sociale, culturale e familiare rende oggi assai complesso il compito educativo che necessita quindi del concorso delle molteplici forze presenti nel contesto e va sorretto da un adeguato sistema di politiche educative e sociali. In tale quadro attenzione particolare va rivolta al mondo del volontariato che, in diverse forme, pone in atto azioni concrete di supporto allo studio e di accompagnamento alla crescita dei ragazzi.

1. Quadro teorico di riferimento Ragionare sul successo formativo è essenziale poiché il suo perseguimento, come riconosciuto anche dai più prestigiosi organismi internazionali e sovranazionali (Schleicher, 2006), ha profonde implicazioni a livello personale, giacchè pone le premesse per la piena ed autentica realizzazione personale, sociale in quanto fornisce all’individuo l’opportunità di svolgere un ruolo attivo nella società, ed economico poiché contribuisce allo sviluppo complessivo del sistema paese (Consiglio dell’Unione Europea, 2009). Il tema in analisi ha connotazioni diversificate con riferimento all’età dei soggetti

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presi in considerazione e assume particolare pregnanza nel momento della fuoriuscita dall’obbligo scolastico e in concomitanza della conclusione della scuola secondaria di secondo grado. I cosiddetti early school leavers (Colombo, 2010), ossia giovani di 18-24 anni con titolo di studio non più alto dell’istruzione secondaria inferiore e non inseriti in programmi di formazione, nel 2012 in Italia erano il 17,6% a fronte di una media europea del 12,8% (Eurostat, 2012). Nonostante i dati attestino una progressiva contrazione del fenomeno, il divario rispetto all’Unione Europea è ancora elevato ed impone una presa in carico complessiva ed integrata da parte di tutti i soggetti istituzionali coinvolti (Consiglio dell’Unione Europea, 2011) nonché l’individuazione di strategie educative, formative e sociali atte a garantire il successo formativo in gruppi sempre più ampi di popolazione (Brock, 2010). Il concetto di successo formativo è complesso ed articolato, condizionato profondamente dai contesti socio culturali di appartenenza, dai modelli e dai sistemi educativi e formativi dei diversi Paesi (Hattie & Anderman, 2013); la difficoltà di integrare il patrimonio informativo esistente nella letteratura scientifica è altresì acuita dall’impiego, nelle diverse lingue, di termini non sempre corrispondenti. È necessario innanzitutto chiarire il legame esistente tra successo scolastico e successo formativo. Mentre pare decisamente superata, come sopra accennato, la sovrapposizione tra successo scolastico, inteso come la conclusione del percorso di studi nel tempo previsto, con una preparazione scolastica e un’apprezzabile valutazione finale (MPI, 2000), e successo formativo, è al contempo innegabile che tra i due concetti vi siano forti aree di sovrapposizione ed interazione (Bramanti & Odifreddi, 2006). Quest’ultimo, in prospettiva pedagogica, può essere inteso come il pieno compimento della persona. Di conseguenza il conseguimento del successo formativo non attiene esclusivamente ad una prospettiva formativa e scolastica (Smith & Hattam, 2004) bensì implica, più in generale, una presa in carico complessiva ed integrale della persona ed un accompagnamento verso lo sviluppo integrale dell’individuo (Lisimberti & Montalbetti, 2014). Tale prospettiva epistemologica amplia ulteriormente i confini del concetto che, di conseguenza, può essere indagato secondo molteplici prospettive e ponendo attenzione ad aspetti specifici diversi. Nella letteratura di matrice empirica il tema del successo formativo è sovente indagato muovendo dall’indagine delle cause del suo mancato o difficoltoso conseguimento (Frabboni & Baldacci, 2004; Triani, 2006; Terenzi, 2006; Colombo, 2010); l’indagine, presentata in questo contributo, pone invece a tema un caso esemplificativo nel quale è possibile “leggere il fenomeno in positivo” con l’obiettivo di indagare gli elementi in gioco ponendo particolare attenzione alla dimensione valoriale e sociale. La letteratura internazionale (Bowers, Sprott, Taff, 2013; Doll, Eslami, Walters, 2013), nonché la disamina critica delle buone pratiche per il contrasto alla dispersione scolastica ed il perseguimento del successo formativo confermano l’importanza di alcuni elementi tra i quali la centralità dello studente, la personalizzazione dei percorsi e la presa in carico da parte di una rete territoriale integrata (Bramanti & Odifreddi, 2006). Più in generale le cause della dispersione scolastica possono essere individuate all’interno della scuola, nel legame tra scuola e famiglia e tra scuola e mondo professionale (Colombo, 2010); questi stessi soggetti devono essere chiamati in causa per affrontare, anche in termini di prevenzione primaria, il fenomeno (Pozzi, Ripamonti, Triani, 2015). Nello scenario delineato assume un ruolo privilegiato il terzo settore cui è sovente demandato, pur con modalità e a livelli diversificati, il sostegno scolastico (We World Intervista, Associazione Bruno Trentin, Fondazione Giovanni

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Agnelli, 2014). Le cosiddette attività di doposcuola sono svolte in contesti e con modalità estremamente diversificate ma, nel corso degli anni, si è osservata una progressiva professionalizzazione dei servizi nell’ambito dei quali è spesso prevista la compresenza di professionisti e di volontari (De Bernardis, 2006). Tali servizi offrono in genere una proposta formativa articolata che integra, oltre al supporto e all’accompagnamento scolastico, altre attività di tipo educativo e ludico-ricreativo e si confermano essere luoghi favorevoli per l’instaurarsi di relazioni educative significative con gli adulti di riferimento. L’utilizzo del mentoring, ossia di un accompagnamento individualizzato in rapporto uno a uno, ben si coniuga con tale prospettiva generale e garantisce una presa in carico specifica e mirata dei bisogni (Dolan & Brady, 2012; van der Steeg, van Elk, Webbink, 2015) sia per quanto concerne il sostegno scolastico sia, più in generale, come relazione educativa significativa con un adulto di riferimento atta a promuovere la crescita e lo sviluppo integrale della persona (D’Alessio, Laghi, Giacalone, 2010). La promozione del successo formativo non può coincidere con il mero supporto allo studio ma presuppone un’attenzione di tipo educativo allo studente tesa allo sviluppo armonico di tutte le sue dimensioni costitutive; è la tensione allo sviluppo integrale della persona considerata nella sua complessità (Goleman, 1996; Gardner, 2002; Baldacci, 2005) a porre le giuste premesse per il conseguimento del successo formativo. Di conseguenza le modalità, lo stile e il contesto in cui si esercita l’accompagnamento educativo sono essenziali. Come sopra accennato, le organizzazioni di volontariato e il terzo settore costituiscono un contesto particolarmente favorevole per indagare la presa in carico educativa complessiva finalizzata al raggiungimento del successo formativo. L’approfondimento del tema nell’ambito del terzo settore induce a focalizzare l’attenzione alla dimensione valoriale e sociale, particolarmente sollecitate in tali contesti. L’impegno in attività sociali e di volontariato si inserisce all’interno di un percorso di crescita e maturazione consapevole (Marta & Scabini, 2003) e può di conseguenza essere considerato un indicatore dello sviluppo complessivo della persona e di transizione verso la vita adulta sia perché apre alla generatività (Marta, 2006; 2006b) sia perché sottende ed esemplifica l’impegno sociale e civile dell’individuo maturo (Arcidiacono, 2006). È utile in tal senso richiamare che per promuovere l’impegno sociale sono inoltre determinanti, tra gli altri elementi, gli attivatori, ossia tutto quegli stimoli che possono attivare il desiderio o l’opportunità di impegnarsi dal punto di vista sociale (Penner, 2004). Tra gli attivatori dell’impegno sociale giovanile trovano un posto privilegiato proprio le associazioni e le organizzazioni (Youniss & Yates, 1997) che offrono l’opportunità di sperimentare legami incentrati sulla gratuità. La cura e la promozione delle ‘premure fondamentali’ ossia di ciò a cui teniamo in maniera particolare, sono infatti tipiche delle organizzazioni di volontariato e di terzo settore e stimolano, di conseguenza, l’assunzione fattiva di comportamenti solidaristici (Archer, 2008; Boccacin, 2014) che concorrono, come sopra accennato, allo sviluppo complessivo integrato della persona.

2. Impianto metodologico Entro lo sfondo teorico delineato va collocata la collaborazione fra il Centro Studi e Ricerche sulle Politiche della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuo-

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re2 e l’Associazione Portofranco Milano onlus3. Quest’ultima da anni opera sul territorio offrendo un servizio di supporto allo studio ai giovani delle scuole milanesi; l’attività è svolta da volontari (sia insegnanti sia studenti universitari) e coordinata da una equipe educativa che opera stabilmente nell’Associazione. Nell’esperienza di Portofranco il supporto scolastico è concepito come componente di un processo di accompagnamento globale alla crescita dei ragazzi la qual cosa rende interessante approfondire lo studio della realtà in prospettiva pedagogica. L’interesse da parte dell’Associazione di acquisire elementi informativi in modo sistematico intorno ai processi attivati nei ragazzi ha offerto l’opportunità all’équipe di ricerca di condurre un’indagine sul campo. Nella progettazione del dispositivo si sono dovute tenere in considerazione le caratteristiche specifiche del contesto, i meccanismi di funzionamento, i vincoli e i limiti operativi; ciò ha indotto ad optare per un’indagine di tipo esplorativo finalizzata ad individuare ed indagare le principali dimensioni del fenomeno. La ricerca è stata svolta nell’arco temporale maggio – ottobre 2013 ed ha previsto un lavoro congiunto fra l’equipe di ricerca dell’Università e gli operatori di Portofranco. L’oggetto di indagine, come più volte osservato, risulta particolarmente complesso e, per certi versi, sfuggente; ciò ha richiesto particolare prudenza nella definizione dell’impianto metodologico, nell’elaborazione degli strumenti e, in particolare, nell’analisi dei dati e nell’interpretazione dei risultati. La scelta di adottare la prospettiva della ricerca empirica ha richiesto inevitabilmente di semplificare quanto osservato concentrando l’attenzione su alcuni aspetti specifici; tale approccio ha tuttavia permesso di studiare il fenomeno in presa diretta e di avviare la costruzione di una base informativa evidence-based (Vivanet, 2014). Obiettivi. L’indagine ha inteso avviare una prima azione conoscitiva per ricostruire l’esperienza vissuta dai ragazzi nell’Associazione; in particolare, si è cercato di capire come lo stile di accompagnamento e di supporto scolastico impatti sul perseguimento del successo formativo da parte degli studenti, ponendo attenzione specifica alla dimensione sociale. Ipotesi. Come osservato, nell’Associazione l’aiuto scolastico è concepito come componente di un processo di accompagnamento globale alla crescita dei ragazzi; l’influsso dell’esperienza fruita è di conseguenza indagato non solo con riferimento alla risoluzione delle problematiche scolastiche a breve termine ma ponendo attenzione alle scelte di studio e lavoro effettuate e sulla dimensione di impegno sociale e civile, considerando queste dimensioni come elementi costitutivi del successo formativo. Tre ipotesi generali hanno guidato l’azione: a) l’esperienza di un contesto educativo contraddistinto dalla presenza di adulti significativi aiuta i ragazzi ad acquisire maggiore fiducia in sé facilitando l’assunzione di un atteggiamento proattivo di fronte alle sfide e la maturazione di decisioni più responsabili e consapevoli per il proprio futuro; tale atteggiamento è reputato strategico in ordine alla ricerca del successo formativo; b) il confronto con insegnanti volontari incide positivamente sull’approccio alla

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Centro Studi e Ricerche sulle Politiche della Formazione – CeRiForm, http://centridiricerca.unicatt.it/ceriform. http://www.portofranco.org/index.htm.

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scuola contribuendo a sviluppare un atteggiamento più favorevole verso lo studio e ponendo le premesse per il perseguimento del successo formativo; c) la possibilità di beneficiare di un aiuto gratuito sollecita un maggior impegno in campo sociale, dimensione strategica per la maturazione complessiva della persona.

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Target. Coerentemente con le domande di ricerca e le ipotesi formulate si è scelto di coinvolgere studenti che avessero concluso l’esperienza presso l’Associazione ed in particolare quanti avevano conseguito la maturità negli ultimi 5 anni al fine di poter rilevare l’impatto a distanza di tempo. Metodi e strumenti. L’impianto, che come osservato è stato adattato alle caratteristiche specifiche del contesto, adotta un disegno misto ed è articolato in due fasi principali: nella prima è stato somministrato on line un questionario semistrutturato4 a tutta la popolazione; nella seconda è stato condotto un focus group con un gruppo ristretto per approfondire le informazioni rilevate e trarre ulteriori stimoli per l’interpretazione dei risultati. Per quanto concerne la prima fase, in base ai dati forniti da Portofranco, la popolazione è costituita da 929 ex-studenti: di 918 l’Associazione disponeva di un numero di cellulare, di 782 un recapito di posta elettronica; per massimizzare l’adesione sono stati impiegati in maniera simultanea entrambi i canali tenendo altresì conto che nell’intervallo di tempo trascorso alcuni contatti potevano risultare non più attivi e che quindi il numero delle persone raggiunte sarebbe sicuramente stato meno ampio rispetto alla popolazione di riferimento “teorica”. La segreteria dell’Associazione ha inviato una e-mail con il link al questionario a tutti i ragazzi invitandoli alla compilazione; un secondo recall è stato effettuato tramite SMS per sollecitare l’adesione. Il questionario semistrutturato è costituito da tre parti principali a loro volta articolate in domande differenziate. Nella prima parte, volta a ricostruire il profilo, sono state rilevate informazioni utili a tracciare un ritratto dei rispondenti con riferimento particolare a variabili anagrafiche, al percorso formativo pregresso e attuale e alle attività di impegno sociale e civico [domande 1-15]. Nella seconda parte è stata ricostruita l’esperienza dei ragazzi all’interno dell’Associazione; in particolare sono state prese in considerazione le loro aspettative e motivazioni iniziali, il loro stile di frequenza e la tipologia di attività [domande 16-22]. Nella terza parte sono stati indagati il grado di soddisfazione circa l’esperienza compiuta nell’Associazione, l’influsso su alcune principali dimensioni fra cui la concezione di scuola, il rapporto con gli insegnanti, con i genitori e con i coetanei, l’impegno nella dimensione sociale e l’impatto diretto e indiretto su alcune scelte di vita [domande 23-33]. Nella seconda fase, grazie alla mediazione dei referenti dell’Associazione, è stata chiesta e ottenuta, su base volontaria, la disponibilità di un ristretto gruppo di ragazzi con i quali è stato organizzato un focus group. Si è scelto di muovere da alcune parole-chiave ricavate dall’analisi delle risposte fornite alla domanda 33 del questionario “Che cosa ti ha lasciato questa esperienza?”; a ciascun partecipante è stato fornito l’elenco complessivo delle parole-chiave chiedendo di scegliere le 5 parole più significative, motivare il perché della scelta e attribuire una connotazione (positiva, neutra o negativa) ai termini selezionati. La discussione guidata sugli esiti emersi dalla compilazione della scheda ha fornito altresì lo stimolo per

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Il questionario on-line è stato realizzato con l’applicazione on-line Google docs Forms.

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sviluppare un confronto sui risultati complessivi dell’indagine approfondendo, laddove giudicato opportuno, il dato quantitativo già rilevato.

3. Presentazione dei risultati La complessità dell’oggetto ha orientato verso un approccio che tenga opportunamente insieme qualitativo e quantitativo (Cecconi, 2002). A tale complementarità nella rilevazione è corrisposta, in fase di analisi, una duplice prospettiva di lettura: i dati rilevati con le domande chiuse del questionario sono stati tabulati ed analizzati con un software specifico5 mentre per le domande aperte si è proceduto ad una categorizzazione tematica a posteriori (Trinchero, 2002). Il focus group è stato registrato e in seguito trascritto arricchendolo altresì con le informazioni inserite dai partecipanti nelle schede utilizzate. Data la ristretta numerosità del gruppo si è scelto di non condurre un’analisi separata del focus ma di impiegare i risultati a supporto delle evidenze raccolte con il questionario sviluppando una riflessione e un’interpretazione complessiva del dataset. Le frasi più significative registrate nel focus sono riportate di seguito a commento dei dati del questionario. Hanno risposto al questionario nei tempi stabiliti 85 ragazzi, poco meno del 10% della popolazione. In considerazione del tempo ristretto lasciato per la compilazione nonché della possibile obsolescenza degli indirizzi di posta elettronica e nei numeri di cellulari – risalenti fino a 6 anni fa – il tasso di risposta può essere considerato accettabile e non disallineato rispetto a quello di survey on-line. Di seguito sono presentati i principali risultati; in questa sede si è scelto di focalizzare l’attenzione sui dati relativi all’influsso dell’esperienza richiamando le altre informazioni solo se utili per comprendere questo aspetto (Lisimberti & Montalbetti, 2014). Ad una prima parte di analisi descrittiva dei dati segue la presentazione dei dati incrociati secondo alcune variabili significative. 3.1 Analisi descrittiva Fotografia dei rispondenti. Il gruppo dei rispondenti è composto prevalentemente da ragazze di nazionalità italiana e da studenti stranieri, presenti in una percentuale più alta (12% circa) rispetto alla media degli iscritti alle scuole secondarie di secondo grado milanesi6. La distribuzione degli studenti per tipologia di scuola corrisponde sostanzialmente a quella che si rileva nella popolazione di riferimento, con una lieve predominanza degli iscritti ai licei. Come era prevedibile fra i rispondenti risultano più numerosi gli studenti che hanno conseguito la maturità nell’anno scolastico 2011/2012; tuttavia le percentuali di quanti si sono diplomati in anni precedenti sono significative la qual cosa permette di disporre di informazioni utili per valutare l’influsso dell’esperienza vissuta a Portofranco in un orizzonte temporale piuttosto ampio (Graf. 1).

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Per l’analisi è stato utilizzato il software SPSS - Statistical Package for Social Science. Dati Scuole Secondarie di II grado, Anno scolastico 2008-2009, Comune di Milano, http://allegati.comune.milano.it/Statistica/Istruzione/Istruzione%20dati%20statistici/Si ntesiSuperiori0809.pdf (30/09/2013).

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Graf. 1: Anno di conseguimento del diploma

Un primo dato interessante riguarda la percentuale di quanti hanno conseguito il diploma di maturità che si attesta attorno al 95%. Rispetto alla condizione vissuta al momento della compilazione, poco più della metà (54% circa) si dedica esclusivamente allo studio, alla quale vanno aggiunti quanti conciliano tale attività con il lavoro (18% circa); complessivamente, quasi tre quarti dei rispondenti è impegnato in attività di studio. Qualunque fossero le difficoltà scolastiche all’origine della scelta di Portofranco molti ragazzi sono riusciti a farvi fronte come testimonia la scelta di proseguire gli studi al termine della secondaria (Graf. 2). A supporto della bontà delle scelte compiute va segnalato altresì il numero trascurabile di rispondenti che dichiarano di aver iniziato un percorso di studi e di averlo abbandonato (3% circa). Rispetto perciò all’impatto sulla dimensione del successo scolastico i dati indicano che i ragazzi trovano in Portofranco un valido supporto che li aiuta a superare le difficoltà del momento e che, ragionevolmente, concorre a determinare la scelta di proseguire gli studi.

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Graf. 2 – Occupazione attuale

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Per poco meno del 50% dei rispondenti il volontariato ha costituito e/o costituisce un campo di attività; se a costoro aggiungiamo quanti esprimono una dichiarazione di intenti la percentuale sale al 64% circa. In tal senso, è possibile affermare che nei frequentanti Portofranco sia già presente in ingresso una certa apertura alla dimensione di impegno sociale. Per 1 ragazzo su 3 l’esperienza nell’Associazione migliora e rafforza tale scelta come risalta nelle parole di un ragazzo “Ti senti spronato a dare del tuo gratis”. L’influsso di Portofranco in questo importante ambito di vita appare sia diretto sia indiretto e trova forme attuative differenziate: alcuni “si sentono debitori” verso l’Associazione e scelgono questo contesto per rendersi a loro volta utili, altri ampliano il raggio di azione e si aprono ad altri contesti. È possibile perciò affermare che Portofranco rafforza l’impegno in chi già lo pratica e al tempo stesso ne favorisce lo sviluppo: “Se non avessi frequentato Portofranco ora non sarei un volontario”. Va sottolineato come il sentirsi debitori e perciò spronati ad impegnarsi a favore dell’altro non si fermi ai confini dell’Associazione ma si estenda alla comunità indicando, ragionevolmente, una maturazione complessiva dei ragazzi. Motivazioni, aspettative e apprezzamento. Per tutti l’adesione a Portofranco risulta legata in modo significativo all’esigenza di trovare aiuto nel campo scolastico ma anche di ricevere “un aiuto per apprendere un metodo di studio” (43% circa) e “un aiuto per concentrarsi nello studio” (42% circa). Tali dati lasciano supporre che in molti ragazzi vi fosse (o vi sia almeno al momento della compilazione) la consapevolezza di aver bisogno non solo di un supporto circoscritto ad alcune materie percepite come ostiche quanto, piuttosto, di un accompagnamento per imparare a studiare. Significativo risulta altresì il ruolo giocato dal contesto percepito come appropriato per lo studio ed in grado, almeno in alcune situazioni, di compensare la mancanza di luoghi adatti in famiglia. Sebbene la ricerca di adulti di riferimento non emerga in termini quantitativi come aspettativa prioritaria, i ragazzi trovano nell’Associazione più di ciò che cercano: il bisogno di adulti poco presente/consapevole all’inizio diventa poi un elemento di qualità dell’esperienza come risalta nelle parole di uno studente: “a Portofranco ho conosciuto adulti che mi hanno aiutato a crescere e a superare i momenti difficili; ancora oggi sono per me persone importanti”. Il fattore “persona” pare giocare un ruolo strategico: al termine dell’esperienza ci si ricorda dell’Associazione e delle persone incontrate con le quali si sono stabiliti rapporti significativi; anche il luogo fisico sembra mantenere un certo valore nel tempo: “Quando passo davanti all’edificio mi torna in mente la bella esperienza vissuta qui”, “Portofranco fa parte di me”. !

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Tab. 1: Risposte al quesito "A Portofranco hai trovato...."

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Impatto. Per esplorare l’influsso dell’esperienza si è ritenuto opportuno indagare eventuali modifiche indotte (migliorative o peggiorative) nella concezione di scuola dei ragazzi e nei loro rapporti con insegnanti, genitori e compagni. Rispetto alla concezione della scuola, il gruppo si divide più o meno a metà; una volta su due Portofranco riesce a far migliorare l’idea di scuola; questo dato non stupisce data la complessità e multimensionalità degli elementi che costituiscono la concezione di scuola ma rappresenta un elemento nondimeno positivo a supporto della bontà del lavoro svolto dagli operatori. Assai meno significativo appare l’influsso sul rapporto con gli insegnanti: soltanto il 22% circa lo riconosce. È plausibile che il rapporto con i docenti si fondi su elementi concreti di vita come lo stare in classe, la quotidianità scolastica, le attività proposte. Portofranco riesce in qualche caso ad indurre un effetto positivo probabilmente per via indiretta attraverso l’incontro con i volontari-insegnanti che veicolano un “modo diverso di essere insegnante”; come osserva una ragazza nel focus “Portofranco non è la scuola e gli insegnanti che ti aiutano sono diversi, con loro instauri relazioni significative soprattutto se li frequenti con regolarità”; ai ragazzi non sfugge la differenza fra i due contesti, soprattutto la presenza di vincoli significativi in quello scolastico come, primi fra tutti, l’impossibilità di scelta dell’insegnante e il rapporto numerico fra costui e gli alunni. Dalle parole degli ex studenti emerge in modo marcato l’apprezzamento per la possibilità di scelta trovata in Portofranco cui fa da contraltare il riferimento alla responsabilità individuale. “A scuola ci sono regole estrinseche e se fai qualcosa di sbagliato entra in gioco la normativa scolastica, lo devi fare di nascosto. Se vieni scoperto, ci sono sanzioni. Gli attori sono sempre gli insegnanti. A Portofranco si può scegliere, è un posto libero. La condotta è quindi personale e gli attori sono gli studenti in collaborazione con gli insegnanti”. “A Portofranco non ti seguono strenuamente, è la persona che deve avere la volontà con la conseguente assunzione di impegno. La corresponsabilità si misura nei successi e negli insuccessi che sono di entrambi”. I genitori sembrano i grandi assenti; il riferimento a loro non emerge quando i ragazzi indicano chi li ha spinti/consigliati e il rapporto con loro pare non trarre beneficio dall’esperienza svolta. Va riconosciuto che per quanto significativa possa essere l’esperienza, Portofranco resta comunque un luogo/contesto nel quale i ragazzi trascorrono solo una parte del loro tempo; è altresì possibile ipotizzare che i ragazzi, stimolati anche dai meccanismi di responsabilizzazione tipici di Portofranco, desiderino tenere per sé questa l’esperienza, mantenendo i genitori a distanza secondo meccanismi peraltro tipici dell’adolescenza. Stupisce tuttavia non aver rilevato un influsso positivo indiretto connesso con il miglioramento della situazione scolastica spesso motivo di conflitti in famiglia. L’influsso sulla dimensione legata ai pari è giudicato poco rilevante dal 65% circa del gruppo. Le parole degli studenti nel focus, tuttavia, sembrano quasi contraddire o almeno attenuare i dati quantitativi: “Io a Portofranco ho conosciuto tante persone che sono diventate mie amiche e che lo sono tutt’ora a distanza di molto tempo”; “A Portofranco ho incontrato persone molto diverse da me che all’inizio percepivo come estranee ma alla fine siamo diventati amici”. Il riferimento al binomio interno/esterno è emerso più volte durante il focus; alcuni ragazzi hanno sottolineato che all’inizio trovandosi di fronte ad un gruppo coeso “ad una comunità” si ha la sensazione di “sentirsi fuori” ma “poi se vuoi loro ti accolgono”. “Per arrivare a Portofranco è la persona che deve sentire un bisogno e cercare aiuto anche se la prima impressione può essere di sentirsi esterno, se si ha volontà l’aiuto viene ricevuto così come si arriva ad essere integrati”.

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Tab. 2: L’esperienza fatta a Portofranco…

La percentuale di rispondenti che riconosce l’impatto dell’esperienza sulle scelte di studio e di lavoro non è rilevante (17% circa); tuttavia se a tale dato si aggiunge la percentuale di quanti dichiarano che avevano già le idee chiare (47% circa) si può affermare che per 6 rispondenti su 10 l’esperienza vissuta a Portofranco ha in qualche modo, diretto e non, orientato o confermato le decisioni maturate. Significativo è il riferimento alla dimensione della fiducia “A Portofranco ho incontrato persone che mi hanno incoraggiata e che mi hanno fatto capire che ce l’avrei potuta fare; per questo ho deciso di continuare gli studi e sono convinta che raggiungerò gli obiettivi che mi sono prefissata”. Alla domanda più generica circa l’impatto dell’esperienza svolta sul proprio futuro cresce la percentuale di chi non sa rispondere (37% circa) probabilmente a motivo della difficoltà di ritrovare elementi concreti cui riferirsi; in maniera apparentemente contraddittoria cresce anche la percentuale di quanti riconoscono tale influsso (39% circa). I rispondenti identificano in modo più netto l’influsso dell’esperienza fatta a Portofranco sul proprio futuro piuttosto che sulle decisioni specifiche inerenti lo studio o il lavoro.

3.2 Analisi per alcune variabili significative Come si è già avuto modo di osservare, nell’indagine si è inteso raccogliere informazioni non solo sull’impatto dell’esperienza vissuta in Portofranco ma anche sui tempi e i modi di stare nell’Associazione (stile di frequenza) da parte degli studenti. Il funzionamento organizzativo di Portofranco si regge infatti su meccanismi di massima libertà/flessibilità poiché sono i ragazzi a scegliere quando e quanto recarsi in Associazione fissando di volta in volta appuntamenti con i volontari la qual cosa rende possibili stili di fruizione fra loro molto differenziati. L’analisi dei dati relativi allo stile di frequentazione di Portofranco (Lisimberti & Montalbetti, 2014) ha posto in luce l’esistenza di un duplice profilo: quanti hanno scelto l’Associazione in una fase particolarmente impegnativa della vita scolastica (l’anno della maturità) frequentandola in maniera episodica/al bisogno (37%) e quanti invece hanno cercato e trovato un supporto per l’intero percorso di studi frequentandola in maniera regolare e continuativa (50% circa). Tale duplicità di profilo ha indotto ad esplorare se la modalità di fruizione impatti sulla rilettura dell’esperienza e sul suo influsso sulle dimensioni del successo

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scolastico e formativo7; a tale scopo i dati raccolti sono stati incrociati con la variabile “stile di frequenza”. A livello generale, dall’incrocio dei dati con la variabile tipologia di frequenza (regolare vs. al bisogno) emerge un andamento tendenziale abbastanza chiaro. Rispetto alle aspettative la differenziazione dei profili appare piuttosto netta: anche se per entrambe le categorie la motivazione prevalente è la ricerca di un aiuto in una o più materie scolastiche, per chi ha frequentato Portofranco in maniera regolare risultano piuttosto importanti le altre motivazioni, soprattutto l’apprendimento di un metodo di studio (57% circa) e un aiuto per concentrarsi nello studio (50%) attività che, per loro natura, richiedono una frequenza continuativa e costante e che non possono essere assolte con una frequenza sporadica. La tipologia di frequenza sembra incidere anche “su ciò che i ragazzi trovano e apprezzano in Portofranco” (Tab. 3). L’apprezzamento per l’aiuto ricevuto nelle materie scolastiche seppur presente in tutti i ragazzi è decisamente più elevato tra quanti hanno frequentato in maniera regolare (69%) – con ogni probabilità quelli più bisognosi di un aiuto significativo e costante – rispetto a quanti hanno frequentato il centro solo al bisogno (29% circa). In coerenza con ciò e con le aspettative dichiarate, chi ha fruito in maniera continuativa del supporto del centro ha apprezzato in genere moltissimo (41% circa) l’aiuto ricevuto per l’acquisizione di un metodo di studio; è presumibile che chi ha partecipato in modo occasionale non cercasse questo tipo di supporto: di conseguenza solo pochi ragazzi appartenenti a questo gruppo dichiarano di averlo trovato (8% circa). In modo del tutto analogo chi ha frequentato in maniera regolare riconosce inoltre in misura nettamente superiore l’aiuto ricevuto per concentrarsi nello studio (43% circa) rispetto a chi ha frequentato al bisogno (13% circa). Per la maggior parte degli studenti dunque, come afferma un partecipante al focus, la percezione è di avere ricevuto “un aiuto trasversale”, non episodico né settoriale ma rivolto alla totalità della persona, non “solo un aiuto alla didattica ma anche una presa in carico”. Anche la dimensione relazionale emerge in maniera diversa tra i due gruppi di rispondenti: i ragazzi che hanno frequentato il centro regolarmente dichiarano in percentuale molto più alta (36% circa) degli altri (3% circa) di avere trovato sia adulti di riferimento significativi sia un luogo di socializzazione tra coetanei (36% circa di chi ha frequentato regolarmente, 11% circa di chi ha frequentato al bisogno). “Portofranco non è solo un luogo di studio ma anche un luogo dove si può socializzare, fare nuove amicizie” ed il legame che si crea è spesso espresso nel questionario e commentato nel focus in termini di “un’amicizia che nasce tra noi e i volontari, tra noi e i tutor, tra noi e i nostri coetanei”, improntata sul rispetto e sulla “fiducia che diamo noi ai nostri tutor” e che in maniera reciproca, viene data

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Data l’ampiezza ridotta del gruppo considerato, ogni incrocio tra variabili – che comporta la creazione di sottogruppi ulteriormente ridotti – deve essere utilizzato con la massima cautela. Per questo motivo ai fini della restituzione dei dati sono state considerate solo le variabili per le quali è stato possibile evidenziare scostamenti numericamente rilevanti (definiti in una differenza di almeno 15 punti percentuali) e sistematici (ossia osservabili nella maggior parte delle modalità della variabile in oggetto) tra i sottogruppi individuati. Sono stati presi quindi in esame solo gli incroci che hanno evidenziato una tendenza regolare del fenomeno rispetto all’andamento complessivo dei dati e coerente con una o più ipotesi interpretative.

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ai ragazzi portandoli alla consapevolezza che “con la fiducia data cambi comportamento”. Perché si instauri un’autentica relazione educativa tra adulti e minori sono dunque necessari tempi, spazi e modi definiti in maniera intenzionale: la relazione educativa richiede tempo per essere costruita; luoghi consoni e facilitanti perché si possa attuare; professionalità, rispetto e fiducia reciproca per reggere alle sfide educative. !"#$%&$'%()*$"+(,"" #0%")122(3" &%$-(&$./" 4$*$" !"#$%&'()*(+,-% -.% .(,1&$",)"1)("$" <=<>" /"0$1+$% 4,G":(&0%,0" 7*$2(7&,*+0" '(1$.-'(% <=<>" .(,1&$"40%",2" :0&$J$"J,"7&1J,$"

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Tab. 3: Tipologia di frequenza e valutazione dell’esperienza

In linea con l’ipotesi interpretativa sopra accennata, ossia che una frequentazione più assidua e regolare del centro porti a vivere più intensamente tale esperienza anche dal punto di vista relazionale e, di conseguenza possa lasciare un’impronta più forte sui ragazzi, quanti hanno frequentato in maniera regolare riconoscono complessivamente in maniera più netta (50%) degli altri (29% circa) un impatto sul proprio futuro. In linea generale sembra possibile confermare il maggiore impatto dell’esperienza fruita presso Portofranco sui ragazzi che hanno frequentato assiduamente il centro. Questi ultimi dichiarano in maniera sistematicamente più elevata rispetto agli altri che l’esperienza fruita ha avuto un influsso positivo sia per quanto concerne il miglioramento complessivo della propria idea di scuola (48% circa di chi ha frequentato in maniera regolare e 37% circa di chi ha frequentato al bisogno) sia per quanto concerne la dimensione relazionale riferita al rapporto con gli insegnanti (29% circa di chi ha frequentato in maniera regolare e 18% circa di chi ha frequentato al bisogno), con i genitori (14% circa di chi ha frequentato in maniera regolare e 5% circa di chi ha frequentato al bisogno) e con i coetanei (31% di chi ha frequentato in maniera regolare e 21% circa di chi ha frequentato al bisogno) sia con riferimento all’influsso dell’esperienza sul proprio impegno sociale e civile (41% circa di chi ha frequentato in maniera regolare e 29% circa di chi ha frequentato al bisogno).

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Tab. 4: Tipologia di frequenza e percezione modifiche indotte dall’esperienza

92 L’influsso di Portofranco sulla crescita personale è molto forte anche quando è chiesto agli studenti di riflettervi in termini complessivi; anche in questo caso chi ha frequentato regolarmente (41% circa) riconosce il ruolo dell’Associazione in maniera più netta rispetto a chi ha frequentato solo al momento del bisogno (16% circa) (Tab. 5). 12,3#,+",/0'(*'44'('(5$+4$*+'/6$(4"(7'( '".4'4$('(36,&%",+,(67,(#,+3$/'( )"8,/4'+,9(( =( =$( A( =( =$/(3'#+,"( A( =( F"( A( =( ./0123( A(

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( Tab. 5: Tipologia di frequenza e impatto sull’identità personale

Conclusioni Come osservato, in considerazione della caratteristiche specifiche del contesto, l’indagine ha inteso esplorare l’esperienza vissuta dai ragazzi presso Portofranco ponendo particolare attenzione all’impatto di quanto fruito sul perseguimento del successo formativo. Nel contesto in parola non è stato possibile rispettare alcune condizioni metodologiche tipiche della ricerca di matrice sperimentale fra cui, per esempio, la presenza di un gruppo di controllo, il controllo sull’ambiente da parte del ricercatore, l’inclusione nel disegno di ricerca di eventuali variabili parassite; del resto tali caratteristiche accomunano la ricerca in oggetto a molte

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indagini svolte in ambito educativo le quali si confrontano con la complessità di situazioni naturali (Montalbetti & Lisimberti, 2015). Tale assetto sollecita ad interpretare con cautela e prudenza i dati; in tal senso, le ipotesi formulate hanno avuto valore orientativo e hanno guidato l’interpretazione dei risultati. Di là dalle acquisizioni specifiche relative al caso in parola, le piste interpretative emerse assumono significato in quanto generatrici di ulteriori ipotesi di approfondimento. Rispetto alla prima ipotesi formulata, l’esperienza di un contesto educativo contraddistinto dalla presenza di adulti significativi aiuta i ragazzi ad acquisire maggiore fiducia in sé facilitando l’assunzione di un atteggiamento proattivo di fronte alle sfide e la maturazione di decisioni più responsabili e consapevoli per il proprio futuro, i dati paiono corroborare questa lettura sebbene il meccanismo sia tutt’altro che automatico. Alla luce dei dati rilevati pare più corretto osservare che l’esperienza di un contesto educativo con le caratteristiche di Portofranco incide sull’atteggiamento proattivo e sulla maturazione consapevole laddove vi sia da parte del singolo una disponibilità “a stare/starci” e a cogliere le opportunità offerte. In tal senso, risulta vincente uno stile di fruizione regolare (vs episodico). Lo sviluppo di un approccio più favorevole verso lo studio e la scuola, supposto nella seconda ipotesi, appare riconducibile non solo al rapporto che si istaura con gli insegnanti volontari ma anche alla possibilità di fruire di un contesto interamente orientato a sostenere i ragazzi e ad aiutarli a ritrovare “il senso” di ciò che fanno e di ciò che è richiesto loro. La possibilità di sperimentare un rapporto diverso con insegnanti “diversi” può costituire un fattore positivo a patto di evitare letture oppositive fra scuola e Portofranco. È indubbio che l’aiuto ricevuto influisca in maniera diretta sul successo scolastico aiutando i ragazzi a superare le difficoltà incontrate e probabilmente orientandoli a proseguire gli studi; il passaggio e la maturazione di un approccio positivo allo studio restano tuttavia tutt’altro che scontati. Ancora una volta lo stile di fruizione risulta una variabile cruciale. La possibilità di beneficiare di un aiuto gratuito sprona i ragazzi a rendersi a loro volta disponibili dentro e fuori l’Associazione corroborando la terza ipotesi formulata. La sottolineatura della “doppia gratuità” (i volontari mettono a disposizione il proprio tempo e se stessi e lo fanno gratis) che caratterizza l’aiuto ricevuto in Portofranco impatta fortemente sui ragazzi e li sollecita ad interrogarsi sulle ragioni sottese alle scelte dei volontari (perché lo fanno); in tal senso, questa domanda può essere l’inizio di un percorso personale di cambiamento nella concezione di sè e del futuro stimolando un più attivo coinvolgimento nella comunità. L’indagine avviata ha contribuito a far luce su alcuni meccanismi e al tempo stesso ha aperto ulteriori interrogativi che potranno dare origine a successive ricerche per meglio comprendere i fattori che determinano il conseguimento del successo formativo.

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Docenti e valutazione di scuole e insegnanti

Pietro Lucisano • Sapienza - Università di Roma - pietro.lucisano@uniroma1.it Cristiano Corsini • Università di Catania - cristiano.corsini@unict.it

Teachers’ point of view on school and teacher evaluation

The assessment of schools and teachers is a central issue in the debate over the reform of educational system. Firstly, the aim of the present work is to reconstruct the history of latest Italian political and methodological approaches to the issue. Secondly the work wants to investigate attitudes of teachers towards the assessment of teaching.

Parole chiave: rendicontabilità valutazione valore-aggiunto.

Keywords:accountability evaluation valueadded.

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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ricerche

La valutazione di scuole e docenti è argomento centrale nei dibattiti sulle riforme della scuola. Il presente lavoro si propone da un lato di ricostruire il percorso delle scelte che negli ultimi anni hanno caratterizzato in Italia l’approccio alla problematica e, dall’altro, di contribuire all’indagine delle dimensioni relative agli atteggiamenti degli insegnanti nei confronti della tematica.


Docenti e valutazione di scuole e insegnanti

L’innovazione senza sperimentazione è cieca, così come la sperimentazione senza innovazione è vuota. Mario Gattullo, 1984

Introduzione

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Che la scuola se non si vuole chiudere la si debba trasformare non è motivo di discussione. Se un governo intitola un documento programmatico “la buona scuola”, segno è che nella percezione dei decisori nella scuola qualcosa non funziona. Un sistema di valutazione efficace dovrebbe convincere tutti (o almeno una maggioranza di persone ragionevoli) su quali siano gli elementi che fanno funzionare male la scuola e su quali siano i rimedi da sperimentare per ottenere risultati più apprezzabili. Il fatto che il governo utilizzi un aggettivo così scivoloso come “buono” parlando di scuola contiene il rischio di considerare il problema scuola una questione morale piuttosto che un complesso problema al quale applicare una riflessione faticosa. L’impressione è che il vizio da capoclasse delle vecchie scuole elementari di dividere il mondo in buoni e cattivi non sia del tutto superato e che l’esercizio di disegnare una scuola buona sia piuttosto un esercizio di desideri che un piano di lavoro. Siamo abituati ad ascoltare le ragioni dei consulenti del Ministero i quali, trascurando il fatto che le scuole vivono in condizioni di estrema precarietà, ritengono che si possano ottenere miglioramenti miracolosi sulla base di una pseudocultura della valutazione e una spruzzata di meritocrazia. In sostanza si ritiene che aumentando lo sforzo del personale e dei dirigenti (ovviamente quando ci sono) sia possibile nelle condizioni date raggiungere una scuola buona. Negli ultimi anni il Miur si è messo al riparo dal ricevere messaggi problematici. Ascolta consulenti Invalsi e Fondazioni, ma ha ridotto all’essenziale i rapporti con la ricerca, l’associazionismo degli insegnanti e dei genitori e le organizzazioni sindacali. Consulenti e giornalisti filtrano per i dirigenti del Ministero e i salotti della politica i risultati delle indagini internazionali e delle ricerche Invalsi, filtrano e semplificano. È l’apoteosi di quello che Kahneman definisce “sistema 1” o pensiero veloce, intuitivo, d’effetto, da risposta pronta, un aspetto potente e da non sottovalutare della nostra mente, ma anche un aspetto che conduce a errori. Accanto al pensiero veloce, Kahneman descrive un pensiero lento che opera attraverso verifiche e calcoli, un pensiero che ci costa fatica e cerchiamo di evitare quando possibile. Si tratta di una forma di pensiero che controlla le relazioni logiche tra le ipotesi e le nostre conoscenze della realtà, che verifica, che agisce con prudenza e lentezza, verrebbe da dire “che accetta lezioni da tutto e da tutti” in un tempo in cui ci sono politici che si fanno vanto di non accettare lezioni da nessuno. Così, alle difficoltà della scuola, politici, giornalisti e consulenti, avendo lungamente sofferto studi imposti, propongono per contrappasso la valutazione di insegnanti e docenti universitari, ma lo fanno come è stato loro insegnato a scuola: punendo i cattivi e premiando i buoni. “Ci sono stati esperimenti che hanno verificato l’impatto di un modello meritocratico quale quello proposto nel documento sulla buona scuola?” –

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Questo si chiederebbe il pensiero lento. – “Chi lo ha proposto ha scritto e pubblicato su questi temi?” “Ci sono altri paesi in cui questo sistema è adottato?” E ancora: il pensiero lento vorrebbe che prudentemente si facessero delle sperimentazioni prima di assumere decisioni che potrebbero danneggiare il sistema. Per questo nell’introdurre la riflessione sulla valutazione di scuole e docenti merita sottolineare la necessità di procedere con lentezza, di studiare e riflettere, di sperimentare. Sono i prodotti di apprendimento a breve, e misurati attraverso test, a definire la qualità di una scuola? I prodotti della scuola sono solo ciò che si vede da lontano? Possiamo dire che una buona scuola è quella che ottiene alti punteggi nelle prove Invalsi? E così un buon insegnante deve essere colto e preparato, capace di insegnare, capace di voler bene ai ragazzi, e che altro? È necessario rimboccarsi le maniche e studiare, fare ipotesi e verificarle. La ricerca di soluzioni semplici a problemi complessi si è sin qui tradotta in proclami o ipotesi di riforma scritte in emergenza, che non vengono neanche rilette, tanto saranno a costo zero. Quella che segue è un’analisi di alcune di queste.

1. La valutazione di scuole e docenti in Italia (1999-2015) 99

1.1 Le proposte ministeriali Nell’ultimo quindicennio ipotesi e progetti ministeriali di valutazione di scuole e insegnanti oscillano tra la valutazione dei singoli docenti con annessi incentivi economici e quella degli istituti in chiave migliorativa. Il ministero di Luigi Berlinguer (1996-2000) è legato all’infruttuoso tentativo di introdurre meccanismi di valutazione in servizio dei docenti. Il CCNL del 1999 prevede (art. 29) una maggiorazione economica destinata a insegnanti con almeno dieci anni di servizio e selezionati sulla base di tre criteri: il curriculum, un test e una lezione simulata. Dopo il fallimento della proposta di Berlinguer, con Letizia Moratti (2001-06) si affacciano ipotesi di valutazione di scuole e docenti incentrate sui risultati della popolazione studentesca, all’interno di un’ottica di rendicontabilità e premialità dei servizi di pubblica utilità. Moratti affida all’Invalsi il Progetto Pilota, con l’obiettivo di pervenire alla rilevazione standardizzata degli apprendimenti e, nel 2003, l’Aran (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) sottopone ai sindacati un accordo che collega direttamente le carriere dei docenti alle prestazioni di allievi e istituti. L’accordo non è raggiunto, ma le prove Invalsi iniziano ad acquisire sistematicità, con l’obiettivo di farsi censitarie e non campionarie. Giuseppe Fioroni (2006-08), nel Quaderno Bianco, propone l’integrazione tra valutazione esterna degli apprendimenti e autovalutazione d’istituto. La prima è finalizzata alla rilevazione del valore aggiunto, misura di efficacia scolastica che rileva il contributo specifico che ciascuna scuola fornisce all’incremento di conoscenze dei propri studenti, rilevabile attraverso due somministrazioni successive. Con Maria Stella Gelmini (2008-11) si torna al tentativo morattiano di legare la misurazione dell’efficacia dell’insegnamento alla premialità dei docenti. Il modello è costituito dai principi cardine della “riforma Brunetta” per la pubblica amministrazione. Si prevede l’istituzione di un sistema di misurazione e valutazione incentrato sul “grado di raggiungimento degli specifici obiettivi” cui legare incentivi economici individuali. Le rilevazioni dell’Invalsi si fanno così censuarie e all’istituto è affidato dal 2008 (direttiva ministeriale 74) il compito di “rendere possibile la va-

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lutazione del valore aggiunto fornito da ogni scuola”. In tal modo, il “grado di raggiungimento degli specifici obiettivi” è incentrato proprio sui punteggi ottenuti ai test. Le proposte di Gelmini ottengono vasta eco mediatica ma non si realizzano: le prove Invalsi non vengono infatti utilizzate per la misurazione del valore aggiunto. Tra l’estate e l’autunno del 2011 uno scambio di lettere tra BCE e membri dell’esecutivo ha, tra gli altri punti, per oggetto le critiche di Trichet e Draghi rispetto all’assenza di un programma di valutazione dell’efficacia scolastica e di correlati incentivi per i docenti. Tuttavia l’avvicendamento tra Moratti e Francesco Profumo (2011-2013) non comporta l’avvento di un sistema di misurazione della performance individuale. Con il decreto 80/2013 gli incentivi per il singolo insegnante vengono infatti accantonati, mentre permane il richiamo alla rilevazione del valore aggiunto, ma in funzione formativa e all’interno di percorsi di autovalutazione d’istituto. Il sistema di valutazione delle scuole prevede quattro fasi: autovalutazione d’Istituto, valutazione esterna, miglioramento, rendicontazione. Si tratta dello schema che viene effettivamente attivato a partire dal 2015. Nella prima fase ciascuna scuola è chiamata ad autovalutarsi in base a un format fornito dall’Invalsi, il Rapporto di Autovalutazione (Rav), relativo a contesto, esiti (risultati alle prove Invalsi e altri elementi forniti dall’istituto) processo, percorso di autovalutazione e individuazione delle priorità. La seconda fase prevede che l’Invalsi individui scuole da sottoporre a visite ispettive da parte di “nuclei di valutazione” (composti da un dirigente esterno e due esperti selezionati e formati dall’Invalsi) che ne ridefiniscono i piani di miglioramento. La terza fase prevede azioni di miglioramento supportate dall’Indire o dalla collaborazione con università, enti di ricerca, associazioni “nei limiti delle risorse umane e finanziarie disponibili”. Nella quarta fase le scuole provvedono alla pubblicazione dei risultati del percorso. Nel settembre 2014 esce la “Buona scuola”. La ministra Stefania Giannini introduce elementi che reintroducono gli elementi di premialità vanamente perseguiti da Moratti e Gelmini. Gli scatti stipendiali, sganciati dall’anzianità di servizio, sono destinati ai due terzi di docenti più meritevoli di ciascuna scuola o rete di istituti. Il merito viene valutato sulla base del “miglioramento della didattica” (il criterio più importante, basato sulla “capacità di migliorare il livello di apprendimento degli studenti”), la qualificazione professionale, la partecipazione al miglioramento della scuola. Successivamente, con la bozza di decreto del febbraio 2015, una parte rilevante della remunerazione di chi insegna viene ancorata alle valutazioni fornite da colleghi, popolazione studentesca e famiglie. Il 70% della progressione economica è determinata da crediti didattici (relativi alla qualità dell’insegnamento, riconosciuti attraverso la rilevazione dell’attività e l’analisi della documentazione prodotta dal docente, “sentiti anche gli studenti e le famiglie”), formativi (attività di formazione e ricerca) e professionali (legati alla partecipazione attiva all’organizzazione e alle progettualità dell’istituto). A un nucleo interno di valutazione (formato dal dirigente, due docenti “mentori”, un docente di staff e un dirigente esterno) è affidato il compito di valutare la possibilità di assegnare ulteriori bonus. La quota fissa dei due terzi di docenti cui destinare bonus è eliminata. Di norma a tutti i docenti sono destinati aumenti a meno che per due cicli consecutivi non manchino di soddisfare requisiti minimi relativi ai crediti: in quel caso gli insegnanti devono essere sottoposti a “specifiche procedure di verifica”. Infine, con l’approvazione definitiva della Buona scuola, è costituito il Comitato per la valutazione dei docenti in ogni istituto. Il Comitato esprime pareri sia sul superamento del periodo di prova e formazione del personale docente sia sul bonus da assegnare per il merito. Esso è presieduto dal dirigente scolastico e costi-

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tuito da tre docenti dell’istituzione scolastica (due scelti dal collegio docenti e uno dal consiglio di istituto); due rappresentanti dei genitori (per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione), un rappresentante degli studenti e un rappresentante dei genitori (per il secondo ciclo di istruzione) scelti dal consiglio di istituto; un componente esterno individuato dall’ufficio scolastico regionale tra docenti, dirigenti scolastici e dirigenti tecnici. In merito ai criteri per la valutazione dei docenti, la Buona scuola precisa che il Comitato dovrà agire sulla base a) della qualità dell’insegnamento e del contributo al miglioramento dell’istituzione scolastica, nonché del successo formativo e scolastico degli studenti; b) dei risultati ottenuti dal docente o dal gruppo di docenti in re-lazione al potenziamento delle competenze degli alunni e dell’innovazione didattica e metodologica, nonché della collaborazione alla ricerca didattica, alla documentazione e alla diffusione di buone pratiche didattiche; c) delle responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo e didattico e nella formazione del personale. Il documento rinvia al 2018 la discussione sulla predisposizione delle linee guida per il riconoscimento del merito dei docenti a livello nazionale, da effettuarsi sulla base delle relazioni ricevute dagli uffici scolastici regionali in merito ai criteri adottati dagli istituti per la valutazione degli insegnanti.

101 1.2 Il ruolo dell’Invalsi Il DPR 80/2013 assegna all’Invalsi funzioni che, sommandosi a quelle tradizionali (come la partecipazione alle indagini internazionali), gravano su un istituto dotato di risorse limitate e personale esiguo. È vero anche che l’Invalsi, peccando di autonomia verso il sistema che dovrebbe sottoporre a valutazione, non può non risentire degli avvicendamenti negli approcci alla valutazione susseguitisi a viale Trastevere e quel che ne risulta è un certo squilibrio nel rapporto tra fini e mezzi a disposizione. Se prendiamo in considerazione l’evoluzione dell’istituto è possibile riscontrare tre distinte fasi di sviluppo. Il primo periodo (1999-2001) è contrassegnato da finalità formative, con una marcata attenzione alla dimensione processuale e alla partecipazione attiva di scuole e docenti. La seconda fase (2001-10) si concentra sulla rilevazione degli apprendimenti (tramite prove oggettive) e della misurazione del valore aggiunto. Nella terza fase (2010-15) la rilevazione di elementi processuali e contestuali si affianca a quella del rendimento degli studenti, in un contesto contrassegnato dall’avvicendamento e dalla convivenza di finalità sommativo-premiali e formative. La prima fase si apre con la trasformazione del Cede (Centro Europeo dell’Educazione) in Invalsi (DL del 20 luglio 1999). Sotto la guida di Benedetto Vertecchi, l’istituto si pone l’obiettivo di costruire un sistema di valutazione con finalità formative, e lo fa optando per il coinvolgimento partecipativo di scuole e docenti. Nasce così l’Archivio Docimologico per l’Autovalutazione delle Scuole (Adas), che chiede a scuole e insegnanti di indicare quali aspetti del proprio lavoro richiedono una attenta considerazione (Vertecchi 1999). L’istituto porta a termine il monitoraggio dei progetti di valutazione della qualità delle prestazioni del personale scolastico, già avviato dal Cede sulla base del Progetto pilota europeo (Losito, Scalera 2001). Anche in questo caso, in linea con gli sviluppi della ricerca sull’efficacia e il miglioramento scolastico (MacBeath 1999), si cura la partecipazione dei docenti, attraverso la negoziazione di criteri e strumenti di valutazione con gli istituti. La seconda fase è segnata dall’approdo di Moratti all’Istruzione e dall’allontanamento di Vertecchi. Con la progressiva messa a sistema delle prove Invalsi, l’isti-

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tuto si impegna nell’approntamento e nella somministrazione dei test per la rilevazione del valore aggiunto. Il perseguimento delle finalità rendicontative stabilite da viale Trastevere muta notevolmente la natura del rapporto tra Invalsi e scuole, rendendolo via via gerarchico e conflittuale. Con la terza fase alla rilevazione dei risultati della popolazione studentesca si aggiunge l’avvio di progetti che si occupano di indagare anche variabili e processi a livello di contesto e istituto. L’Invalsi, sulla base degli indicatori elaborati dal Valsis (Valutazione del Sistema Scolastico e delle Scuole), avvia il progetto Valutazione e miglioramento (Poliandri 2013), che affianca alle rilevazioni degli apprendimenti quella di elementi processuali interni alla scuola. Un secondo programma cui l’Invalsi partecipa è il Vsq (Valutazione per lo Sviluppo della Qualità nelle Scuole), una delle due sperimentazioni che, nel 2010-11, tentano di tradurre operativamente i principi di premialità voluti da Gelmini (mentre l’altra, Valorizza, si incentra su una definizione reputazionale della qualità del docente). In Vsq gli apprendimenti conservano un ruolo fondamentale: il criterio portante nella definizione di una “buona” scuola è infatti l’ottenimento di miglioramenti significativi alle prove Invalsi. Così, il valore aggiunto riscontrato tra primaria e secondaria di I grado è la variabile che esercita il peso maggiore nella costituzione della graduatoria per l’attribuzione dei premi. Col progetto Valutazione e Sviluppo della scuola (Vales, 2012-13), si approda al modello di valutazione destinato a informare il Dpr 80/2013 (non è presente alcun riferimento alla premialità e viene invertito il rapporto tra valutazione interna ed esterna: il processo inizia con l’autovalutazione). 1.3 Criticità riscontrabili Le proposte di valutazione di scuole e docenti qui sintetizzate sono contrassegnate da una certa dose di incoerenza. Si passa da un approccio incentrato sulla funzione formativa e migliorativa della valutazione al prevalere di intenti rendicontativi, con la premialità individuale che alternativamente guadagna, perde e riassume un ruolo di legittimazione presso l’opinione pubblica, rappresentando un elemento di frizione con la classe docente. Nel contempo, strumenti di valutazione di sistema vengono impiegati in progetti finalizzati alla valutazione di singoli istituti. Non va dimenticato infine il cambiamento nel rapporto tra Invalsi e scuole, che da orizzontale e incentrato sullo scambio di informazioni con finalità formative si fa gerarchico e finalizzato alla rendicontazione. Tali dinamiche possono ripercuotersi sull’accettazione, da parte di chi insegna, delle stesse proposte valutative. Un aspetto particolarmente critico è la scarsa tenuta teorica ed empirica dell’approccio rendicontativo-premiale emergente. Va in primo luogo evidenziato come tale approccio tenda a farsi normativo e non criteriale. È in tal senso sintomatica la scelta del 2014, fortunatamente rivista, di premiare due terzi dei docenti presenti in ciascuna scuola. Rimane comunque incerto il cosa valutare, in un contesto caratterizzato, nei contratti e nella normativa sulla formazione iniziale e in itinere (Previtali, 2012), da liste di competenze prive di indicatori o descrittori che in rapporto a specifici quadri di riferimento (come quelli di Perrenoud, 2003 o Danielson, 2007) siano in grado di definirle operativamente. Non emergono dunque modelli di buona scuola o di buon insegnamento rispetto ai quali parametrare il giudizio. Non aiuta, in questo senso, il riferimento al valore aggiunto che, essendo basato sulla varianza non spiegata dalle funzioni di produzione educativa rappresenta, come noto da tempo (Scheerens, Bosker 1997), una definizione esclusivamente relativa e a somma zero dell’efficacia scolastica. L’indicatore rileva

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se una scuola è più o meno efficace di altre e, piuttosto che dirci quali scuole o quali insegnanti incidono sul rendimento di uno studente, evidenzia con quali variabili tale rendimento è (o non è) correlato (Asa 2014). Va inoltre sottolineato come il valore aggiunto non sia adeguatamente discusso dal punto di vista della validità (ci si occupa esclusivamente di verificare l’affidabilità delle stime), un atteggiamento in contrasto con le cautele riportate negli ultimi due decenni nella letteratura riferimento. Questo atteggiamento si rispecchia nel paradossale commento ai risultati del progetto Vsq, che con soddisfazione riscontra una debole della correlazione tra le misure del valore aggiunto e i risultati delle valutazioni processuali degli istituti (“se la correlazione fosse stata positiva e molto elevata [… ] sarebbe venuta meno la complementarietà a fini valutativi delle diverse dimensioni esplorate”, Fondazione Giovanni Agnelli, 2014, p. 237). L’urgenza di una validazione per costrutto e per criterio dell’indicatore è evidenziata da ricercatori come Anderman (2010) o Hill, Kapitula e Umaland (2011). Questi ultimi, di fronte a correlazioni molto elevate (0,60) tra valore aggiunto e osservazioni in classe, segnalano il dato come positivo in un’ottica di ricerca sul miglioramento scolastico ma preoccupante dal punto di vista dell’accountability (permanendo una quota prevalente di varianza non spiegata e non attribuibile sic et simpliciter a fattori sotto il controllo del docente). Più in generale la scelta di un approccio incentrato su incentivi individuali e sulla rilevanza dei risultati degli apprendimenti rilevati attraverso test standardizzati non viene giustificata sul piano teorico ed empirico. Dal punto di vista empirico non paiono adeguatamente prese in considerazione le indicazioni emerse a livello internazionale, che definiscono contraddittori gli effetti sugli apprendimenti dell’Outcomes-Based Accountability, mentre ne acclarano gli effetti peggiorativi (gaming, cheating, teaching to the test, selezione della popolazione studentesca da sottoporre alle prove, distoglimento da obiettivi di apprendimento per la padronanza), soprattutto in sistemi che prevedono l’erogazione di premi a singoli docenti (Ravitch 2010). Dal punto di vista teorico, va tenuto in considerazione che un requisito del modello è relativo non solo alla sola validità dei test come misura degli apprendimenti, ma all’idea che le variazioni nei punteggi ottenuti dalla popolazione studentesca riflettano variazioni nella qualità dell’insegnamento. Un assunto che andrebbe messo in discussione (Wiliam 2010), considerato che anche gli indicatori più sofisticati non hanno ricevuto, come visto, una compiuta validazione. Quanto alla validità dei test, si rileva come essa sia minacciata da alcuni elementi di incoerenza sopra descritti. Se è infatti vero che la misurazione del valore aggiunto non è ancora attuata (non esiste una affidabile anagrafe studentesca in grado di consentire il confronto longitudinale dei dati) essa rappresenta un obiettivo dell’Invalsi su mandato ministeriale, ed è in base a tale obiettivo che i test somministrati sono somministrati all’intera popolazione e non a un campione. Nonostante ciò sono gli elementi diagnostico-formativi ad essere richiamati nella presentazione delle prove (Invalsi 2010), determinando un’incoerenza tra obiettivi e test. Infatti, prove con finalità diagnostiche richiederebbero una maggiore ricchezza di contenuto e costrutto rispetto a quelle attualmente somministrate. Queste però, dovendo fare i conti con la finalità di essere somministrate all’intera popolazione, non possono prevedere, per ragioni economiche, un numero di quesiti atto a diagnosticare in maniera efficace le debolezze e i punti di forza degli studenti (Corsini, Losito 2013). Le stesse prove segnano così il passo rispetto alla capacità di fornire misure adeguate sui diversi livelli di abilità in italiano e matematica (Lucisano 2014). Infine, al termine del ciclo secondario di primo grado, al

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duplice obiettivo diagnostico e rendicontativo si aggiunge il peso che i test esercitano sul giudizio dell’esame di Stato, apportando ulteriore ambiguità rispetto alla finalità della rilevazione. Altre incoerenze caratterizzano anche il tentativo di reintrodurre, dal 2011, elementi relativi alla dimensione processuale e, successivamente, approcci autovalutativi. Il Vsq (Fondazione Giovanni Agnelli, pp. 199-214) è contrassegnato dal cambio in corsa dei criteri di premialità, dalla scelta di utilizzare strumenti del progetto Valutazione e miglioramento per poi modificarli, senza un try-out, in modo da adattarli a finalità comparative e premiali e, infine, dallo spinoso problema della partecipazione delle scuole, con un campione che perde ogni pretesa di rappresentatività a causa del defilarsi di numerosi istituti. Dal canto suo, l’approccio che ha portato dal Vales al DPR 80/2013 (cfr. Palumbo 2014) evidenzia problematiche in relazione alla scarsa autonomia attribuita agli istituti proprio nella fase di autovalutazione (le scuole devono limitarsi a compilare format predisposti dall’Invalsi, come il Rav). Una scelta che rischia di frustrare le esperienze migliori e contraddice uno dei punti di forza del processo autovalutativo, ovvero la capacità di scuole e docenti di rilevare e giudicare elementi di criticità del proprio contesto in maniera attiva e autonoma.

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2. Atteggiamenti di insegnanti di ruolo e non verso la valutazione del proprio lavoro: un’indagine empirica Come accennato, le ambiguità che contraddistinguono gli approcci alla valutazione di scuole e docenti in Italia possono incidere su uno degli aspetti più rilevanti della questione, rappresentato dal punto di vista dei soggetti sottoposti a valutazione. Atteggiamenti di chiusura da parte dei docenti possono compromettere la validità, l’affidabilità e la stessa realizzabilità di progetti di valutazione di aspetti rilevanti del proprio lavoro e dei propri contesti. L’esempio più lampante è rappresentato, nel corso degli ultimi anni, dalle proteste e opposizioni contro le prove Invalsi, in buona parte suscitate dalla percezione delle rilevazioni come limitazione della propria autonomia didattica o, più in generale, come elemento di un sistema valutativo che mira prevalentemente a mettere in discussione status professionale e qualità del lavoro svolto (cfr. De Michele 2010). L’indagine vuole contribuire a chiarire alcune dimensioni degli atteggiamenti degli insegnanti nei confronti della valutazione del proprio lavoro. In primo luogo si intende verificare se e in che misura i docenti raggiunti manifestino atteggiamenti di chiusura nei confronti della valutazione dell’insegnamento. In secondo luogo l’indagine ipotizza un’associazione tra lo status del docente e gli atteggiamenti verso la valutazione del proprio lavoro. Se la valutazione è percepita non come elemento di sviluppo individuale e contestuale, ma come messa in discussione di uno status professionale faticosamente conquistato, è plausibile che maggiori chiusure vengano esplicitate da docenti in una posizione lavorativa stabile. In questo caso il lavoro intende sottoporre a controllo empirico la seguente ipotesi: atteggiamenti di chiusura nei confronti della valutazione di scuole e insegnanti sono maggiormente diffusi tra i docenti a tempo indeterminato raggiunti rispetto a quelli a tempo determinato. Il campione selezionato è di tipo non probabilistico e composto, per gli insegnanti a tempo determinato, dai docenti iscritti ai Percorsi Abilitanti Speciali avviato dall’Università di Catania nel 2013-14 (400 questionari compilati su 520, età media 40 anni) per la scuola secondaria di primo e secondo grado. Per quanto riguarda gli

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insegnanti a tempo indeterminato, è stato richiesto a una parte dei docenti frequentanti i PAS di somministrare il questionario all’interno dei propri consigli di classe (333 questionari compilati su 480, età media 50 anni). In tal modo è stato possibile raggiungere due gruppi di docenti impegnati in contesti equiparabili. Lo strumento somministrato è una scala likert a quattro passi con trenta affermazioni relative (tab. 1) alle finalità della valutazione dell’insegnamento (item 7, 12, 16, 23, 30), agli attori (1, 3, 6, 9, 10, 15, 20, 22, 24), al cosa e al come valutare (2, 4, 13, 17, 19, 21, 25, 26, 27, 28, 29), alla fattibilità dell’operazione (5, 8, 11, 14, 18). Come si può notare (tab. 1) dalla sintesi delle risposte (alfa di Cronbach 0,87), i due gruppi di docenti sono concordi nell’esprimere in maggioranza un atteggiamento di apertura alla valutazione del proprio lavoro in relazione ad appena sei affermazioni su trenta, cinque concernenti cosa tenere in considerazione (sviluppo sociale ed emotivo e tipo di rapporto instaurato con chi apprende, livello degli apprendimenti, modalità di insegnamento, grado di collaborazione coi colleghi) e una sulle modalità valutative (scambio e interazione coi colleghi). Per il resto, i due gruppi manifestano opinioni oppositive oppure tra loro divergenti nei confronti della valutazione. I docenti a tempo indeterminato assegnano un minor numero di accordi alle affermazioni relative al ruolo dell’Invalsi e delle sue prove, respingono in maggioranza anche le ipotesi concernenti altri attori o modalità valutative, si mostrano sospettosi sulle finalità delle proposte ministeriali e, più in generale, scettici sulle stesse condizioni di possibilità della valutazione. Tuttavia una maggioranza di essi, sia pure non netta, si dichiara concorde rispetto al ruolo che la valutazione deve ricoprire sia nel riconoscimento della qualità (55%) sia nel miglioramento (52%) del proprio lavoro. Quanto ai docenti iscritti al PAS, il confronto coi colleghi evidenzia una diminuzione statisticamente significativa delle risposte oppositive alla valutazione dell’insegnamento in 24 item su trenta. Particolarmente rilevanti sono le differenze nelle risposte dei due gruppi alle affermazioni riguardanti le finalità della valutazione e il ruolo ricoperto dall’Invalsi e dalle sue prove, che registrano un incremento tra il 19 e il 31% degli accordi nel passaggio tra i docenti di ruolo e quelli abilitanti (anche se neanche tra costoro l’istituto e i suoi test conquistano la maggioranza dei consensi). Prendendo in considerazione gli item relativi alle modalità e agli attori della valutazione dell’insegnamento, è stata condotta un’analisi delle componenti principali che ha consentito di estrarre due fattori (metodo Varimax, varianza spiegata pari al 61,3%). Il primo fattore è relativo al grado di apertura nei confronti di una valutazione effettuata da parte dell’Invalsi e delle sue prove (item 2, 4, 15, 25, 26, 29; alfa di Cronbach 0,92), l’altro al grado di apertura rispetto a una valutazione condivisa con soggetti prossimi al contesto, come colleghi di classe e istituto, dirigenti, famiglie e studenti (item 1, 6, 9, 10, 22; alfa di Cronbach 0,73). Differenze tra docenti a tempo indeterminato e docenti abilitanti si riscontrano rispetto alle due scale: in entrambi i casi i secondi fanno registrare punteggi significativamente superiori, evidenziando dunque una maggiore apertura alla valutazione di scuole e insegnanti. Allo scopo di indagare in maniera più analitica gli atteggiamenti dei docenti nei confronti della valutazione del proprio lavoro si sono utilizzati i due fattori emersi dall’ACP in una cluster analysis (k-mean) che ha fatto emergere i quattro gruppi di insegnanti evidenziati nella figura 1. A conferma dell’ipotesi di ricerca precedentemente formulata, atteggiamenti di chiusura nei confronti della valutazione dell’insegnamento sono maggiormente diffusi tra i docenti a tempo indeterminato rispetto a quelli abilitanti. Nondimeno l’analisi dei gruppi consente di

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Tab. 1. Affermazioni e differenze nelle percentuali di accordo (molto + abbastanza) espresse da docenti di Ruolo (va 333) e non (PAS, va 400), sig. chi quadro di Pearson

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apprezzare come, in entrambi i gruppi di docenti, vi sia un nutrito gruppo di insegnanti che, pur evidenziando avversione nei confronti dell’Invalsi e delle sue prove, manifesta atteggiamenti di apertura verso una valutazione condivisa con colleghi, dirigenti, studenti e famiglie. Se si analizza questo gruppo prendendo in considerazione anche gli altri item del questionario, si evidenzia come gli atteggiamenti rispetto alla valutazione del proprio lavoro sono associati alla percezione della finalità dell’operazione. Si tratta infatti di docenti che più degli altri esprimono apertura riguardo a una valutazione dell’insegnamento partecipata (item 13 e 17) e con funzione formativa (item 23) e si differenziano dai colleghi del terzo gruppo (Apertura a Invalsi e Contesto) perché rigettano finalità premiali (item 30)1.

Conclusioni Kahneman sintetizza nella sigla WYSIATI (what you see is all there is) una delle caratteristiche del pensiero veloce: “hanno preso quell’importante decisione sulla base di un rapporto positivo fornito da un unico consulente. WYSIATI: quello che si vede è l’unica cosa che c’è. A quanto pare non si sono resi conto di che informazioni esigue avessero” (2011, p. 99). Internet dà un grande contributo: basta con le riunioni, basta con l’ascolto reale nelle situazioni reali, basta con sindacati, associazioni professionali, correnti di partito. Un’idea veloce, una consultazione su internet per validarla e poi riforme, ora o mai più. E un ricercatore, se vuole, può esprimere in non più di 140 caratteri su twitter la sua opinione sull’argomento. Il pensiero veloce oppone ai tentativi di riflettere l’argomento dell’emergenza: “basta con le chiacchiere, andiamo alle conclusioni”. Ma gli argomenti basati sull’emergenza sono costantemente falsificati sia dal fatto che di solito dopo i proclami non si opera affatto sia dall’evidenza vede i provvedimenti presi in emergenza spesso rivisti, riproposti, tanto da chiedersi se non sarebbe stato meglio contare fino a cento prima di assumerli. Bastava ad esempio fare qualche simulazione sugli effetti del bonus sull’esame di Stato, e sarebbe meglio capire quante aule e quanti docenti occorrono per attuare il sistema “alla francese” per l’accesso alle facoltà di Medicina prima di procedere a un altro disastro. Se si vuole che “valutare per migliorare” non sia solo uno slogan scontato, è bene tenere presente che per essere utile un processo valutativo deve prevedere “qualche osservazione del risultato ottenuto in paragone e in contrasto con quello atteso, tale che il paragone getti luce sulla effettiva adeguatezza delle cose adoperate come mezzi” (Dewey, 1939, p. 37). È dunque necessaria un’idea di scuola, in base alla quale incentrare il confronto tra situazioni osservate e desiderate, un modello da sottoporre a verifica e che, al contempo, renda significative le misure cui dà luogo. Illudersi che per stabilire cosa funzioni in educazione sia sufficiente collezionare dati è sintomatico dell’idea che sia possibile misurare senza valutare, dimenticando che “la misurazione nasce dalla valutazione e nella valutazione confluisce” (Visalberghi, 1955, p. 18).

1

Genere, ambito e grado di insegnamento non sono associati statisticamente a differenze nelle risposte. L’età sembra incidere subordinatamente allo Status: infatti, anche considerando gruppi di insegnanti nelle stesse fasce d’età, si registrano differenze statisticamente significative nelle risposte tra docenti di ruolo e non, mentre all’interno dello stesso Status i gruppi ottenuti con la cluster analysis non si differenziano tra loro sulla base dell’età dei docenti che ne fanno parte.

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Fig. 1. Distribuzione dei gruppi basati sugli atteggiamenti verso l’apprendimento tra docenti a tempo indeterminato (310) e determinato (369).

Fig. 1. Distribuzione dei gruppi basati sugli atteggiamenti verso l’apprendimento tra docenti a tempo indeterminato (310) e determinato (369) Riferimenti bibliografici

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Modelli narrativi e dimensioni temporali

Marco Piccinno • Università del Salento - marco.piccinno@unisalento.it Emanuela Fiorentino • Università del Salento - emanuela.fiorentino@unisalento.it

Narrative models and temporal dimensions

This paper reports the findings of a research aimed at validating the test on narrative models; this test was developed by M. Piccinno in 2005 with the aim of identifying the narrative model through which the person relates to himself and to others their life story. The purpose of this research is to continue in the process of validation of the constructs and test items of Piccinno, through a process of analysis focuses on three different testing procedures. The first of them, consists in the analysis factorial conducted on the results produced by the test in question on a group of 500 adolescents. The second step is to submit to the test of Cronbach the results obtained from the factor analysis. Finally, we will proceed to calculate the indices of correlation between the scores on the test items and scores of “Zimbardo Time Perspective Inventory” (1999).

Parole chiave: Modelli narrative, dimensioni temporali, identità, narratività, temporalità, adolescenza.

Keywords:Narrative models, temporal dimensions, identity, narativity, temporality, adolescence.

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Il presente saggio riporta le conclusioni di una ricerca finalizzata all’avvio delle prove di validazione di un test sui modelli narrativi; tale test è stato elaborato da M. Piccinno nel 2005 con lo scopo di individuare la modalità narrativa attraverso la quale il soggetto racconta a sé stesso e agli altri la propria storia di vita. Lo scopo della presente ricerca è quello di proseguire nelle procedure di validazione dei costrutti e degli item del test di Piccinno, attraverso un percorso di analisi focalizzato su tre diverse procedure di verifica. La prima di esse consiste nell’analisi fattoriale condotta sui risultati prodotti dal test in esame su un gruppo di 500 adolescenti. La seconda operazione consiste nel sottoporre al test di Cronbach i risultati ricavati dall’analisi fattoriale. Infine, si procederà a calcolare gli indici di correlazione tra i punteggi relativi agli item del test in esame e i punteggi dello “Zimbardo Time Perspective Inventory” (1999).


Modelli narrativi e dimensioni temporali

1. Pensiero narrativo e sviluppo identitario

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Uno dei compiti evolutivi, ai quali il soggetto è chiamato ad adempiere nel corso della sua esistenza, è quello della costruzione del personale progetto di vita. Tale compito diviene particolarmente rilevante durante l’adolescenza; in questo periodo evolutivo il principale compito di sviluppo si ritrova nell’istanza dell’identità, cioè nel bisogno di dare risposte compiute alle domande chi sono io e chi voglio essere. Il dispositivo, così come lo definisce J. Bruner, che consente al soggetto di adempiere a tale bisogno evolutivo risiede nella narrazione; essa, infatti, permette alla persona di dar forma alla personale esistenza e di ricostruire le singole esperienze di vita (Bruner, 2006). Attraverso l’arte del narrare, il soggetto acquisisce coscienza della continuità temporale della propria vita e prende consapevolezza rispetto alle molteplici esperienze, al punto da comprendere le trasformazioni e i cambiamenti legati ai processi di sviluppo (Rossi, 2007). La possibilità di intraprendere il personale percorso di vita passa attraverso l’atto narrativo, che, nelle svariate forme (orali, scritte, rappresentate graficamente), consente al soggetto di riflettere sul Sé al fine di ricostruire la propria esistenza nell’ottica della condivisione con l’altro. Per tale ragione, in questa sede, viene preso in considerazione tale dispositivo in quanto esso più di altri fonda la sua essenza nella possibilità di costruire il progetto di vita. Le storie di vita prendono forma all’interno delle dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro, secondo un percorso di progettualità evolutiva; in tal senso, le esperienze passate aiutano il soggetto ad interpretare il presente e gli consentono di agire nel futuro (Zimbardo & Boyd, 2009). La presente indagine parte dal presupposto per il quale l’impegno progettuale dell’uomo si concretizza attraverso le dimensioni temporali al punto che l’esistenza dell’uomo si presenta come un divenire temporale, come un progetto esistenziale teso al cambiamento e alla trasformazione. L’atto narrativo permette al soggetto di interpretare, di comprendere e di ricostruire tale percorso esistenziale; come sostiene P. Ricoeur «il tempo diviene umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo, per contro il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale» (1988, 15). Con tale affermazione il filosofo francese sottolinea la stretta connessione esistente tra l’elemento della temporalità e quello della narratività nel percorso di sviluppo esistenziale della persona. Tra l’atto del narrare la storia e la ricostruzione dell’esperienza umana è ipotizzabile una correlazione che, nella prospettiva di P. Ricoeur, viene intesa come condizione necessaria allo sviluppo dell’uomo (1988). La connessione tra temporalità e narratività diventa il punto nodale di tale indagine, che si propone di rilevare il livello di significatività tra le dimensioni temporali e i modelli narrativi attraverso i quali la persona costruisce la personale esistenza. L’ipotesi del presente lavoro è la seguente: l’orientamento verso le dimensioni

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temporali del passato, del presente e del futuro si correla alle modalità narrative attraverso le quali i soggetti raccontano le personali esperienze. Nello specifico, l’orientamento verso una dimensione temporale si correla al modello narrativo utilizzato dal soggetto per esternare e per ricostruire le esperienze di vita, così come la modalità narrativa attraverso la quale il soggetto racconta la propria storia si correla alla dimensione temporale all’interno della quale il soggetto proietta sé stesso. L’indagine parte proprio dalla riflessione intorno alla natura intrinsecamente temporale della narrazione; essa viene intesa come strettamente interconnessa alla temporalità. La narrazione si concretizza come il processo attraverso il quale si rendono praticabili ed esperibili le forme del tempo. In tale correlazione risiede la valenza educativa della narrazione: nelle forme temporali che essa estrinseca si generano i modelli del Sé che danno consistenza all’identità.

2. Modelli narrativi e dimensioni temporali: le variabili L’ipotesi dell’indagine assume l’istanza di un rapporto di bi direzionalità tra orientamento temporale e modello narrativo. L’elemento della temporalità dell’atto narrativo emerge dalle riflessioni di J. Bruner, per il quale la caratteristica della narrazione risiede nella sequenzialità; a tal proposito egli afferma «una narrazione è composta da una particolare sequenza espositiva di eventi, stati emozionali e o mentali che vedono gli esseri umani protagonisti di avvenimenti o situazioni come se fossero attori. Queste componenti non hanno una vita o un significato propri, bensì il loro senso emerge dalla loro collocazione nell’ambito generale dell’intera sequenza narrativa, detta trama o fabula» (Bruner, 1992, 54-55). La sequenzialità di cui si sostanzia la narrazione si rende concretamente riconoscibile nei nessi che le singole narrazioni instaurano tra passato, presente e futuro. Una possibile concretizzazione di tali forme si può rinvenire nella codificazione di Zimbardo, che riconosce le figure temporali nelle forme del passato, del presente e del futuro (Zimbardo, 2004). La prima variabile della presente ricerca rimanda alle dimensioni temporali; nella prospettiva di P. Zimbardo e di J. Boyd tali dimensioni vengono suddivise in passato positivo, passato negativo, presente edonistico, presente fatalistico, futuro (1999). Le prospettive del passato positivo e negativo dipendono dall’atteggiamento che la persona assume rispetto alle esperienze vissute1. La prospettiva del presente si esplicita anch’essa in due forme: il presente edonistico e il presente fatalistico. Il presente edonistico è tipico dei soggetti che hanno difficoltà a concepirsi in termini di progetto esistenziale, essi conducono una vita incentrata sulla gratificazione immediata2.

1

2

Si riporta un esempio tratto dal test di P. Zimbardo e J. Boyd (2009) rispetto alla prospettiva del passato positivo “Immagini, suoni e odori caratteristici della mia infanzia spesso risiedono in me in una folla di bellissimi ricordi”; prospettiva del passato negativo “Spesso penso a quello che avrei dovuto fare diversamente nella mia vita”. Si riporta un esempio tratto dal test P. Zimbardo e J. Boyd (2009) rispetto alla prospettiva del presente edonistico “Decido le cose senza rifletterci sopra”.

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La dimensione del presente fatalistico è invece quella di coloro i quali sono convinti che la vita dell’uomo sia influenzata dal destino, sul quale essi non hanno nessuna possibilità di controllo3. Infine, la prospettiva futura è tipica dei soggetti con buon livello di autostima e di autoefficacia, i quali percorrono il cammino di sviluppo esistenziale guardando verso oggetti-meta significativi per la personale storia di vita4. Rispetto alla seconda variabile dell’indagine svolta, e cioè quella relativa ai modelli narrativi, risulta significativa l’espressione di J. Bruner, il quale afferma «Noi costruiamo l’analisi delle nostre origini culturali e delle credenze che ci sono più care sotto forma di storia, e non è soltanto il contenuto di queste storie ad affascinarci, ma anche l’abilità con cui vengono narrate. Anche la nostra esperienza immediata, quello che ci è successo ieri o l’altro ieri la esprimiamo sotto forma di racconto. Cosa ancora più significativa, rappresentiamo la nostra vita (a noi stessi e agli altri) sotto forma di narrazione» (2001, 53). La ricostruzione delle storie di vita avviene attraverso diversi modelli narrativi, che rappresentano le modalità mediante le quali il soggetto conferisce significato a sé stesso, agli altri, alle personali esperienze di vita. In tal senso, viene esplicitato il nesso tra narratività e senso del Sé. Il modello della rinuncia è tipico di coloro che si mostrano sostanzialmente incapaci di concepire se stessi in termini di progetto esistenziale. La struttura costitutiva dell’Io risulta particolarmente indebolita sia nella capacità di elaborare un’immagine alternativa e più integrata di se stessa, sia nella capacità di trasformare quest’ultima in un oggetto-meta, cioè in un valore capace di impegnare nella sua realizzazione le scelte del presente5. L’interazione Io-mondo si incardina in sistemi di interazione che trovano la loro origine in cause piuttosto che in motivi e in ragioni6. Il soggetto che rinuncia nega sia la decisione che la scelta, anche perché

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Si riporta un esempio tratto dal test P. Zimbardo e J. Boyd (2009) rispetto alla prospettiva del presente fatalistico “Il destino determina molti aspetti della mia vita”. Si riporta un esempio tratto dal test P. Zimbardo e J. Boyd (2009) rispetto alla prospettiva del futuro “Realizzo i miei progetti in tempo, facendo progressi regolari”. L’oggetto-meta rappresenta lo scopo verso il quale il soggetto muove il suo agire. Gli oggetti – meta possono essere di tipo materiale o di tipo ideale. J. Nuttin parla di oggetto – meta come oggetto motivazionale al fine di sottolineare l’elemento che porta il soggetto ad effettuare un’azione verso uno scopo e cioè la motivazione [1992]. J. Nuttin individua quattro categorie di oggetti che si rapportano in modo differenziato alla motivazione umana; la prima categoria di oggetti è denominata Self (Sé): l’attività del soggetto è indirizzata in modo diretto allo sviluppo delle proprie potenzialità; la seconda categoria di oggetti è rappresentata dagli Altri: il soggetto manifesta la cosiddetta motivazione sociale, pertanto l’azione è volta ad instaurare e mantenere vive le relazioni interpersonali; la terza categoria di oggetti è composta da tutti gli oggetti manipolabili dall’uomo: tali elementi possono assolvere alle funzioni di nutrimento, di protezione e di adattamento alle diverse circostanze; la quarta categoria di oggetti è caratterizzata dagli ideali, come la libertà, la giustizia, la verità, l’autonomia, l’obiettività. La riflessione intorno alla differenza tra causa e ragione necessita di un richiamo, seppur breve, alle correnti del comportamentismo (maggiori esponenti I. Pavlov, J. B. Watson e B. F. Skinner) e del costruttivismo (maggiori esponenti J. Bruner e L. S. Vygotskij). L’idea alla base del comportamentismo risiede nella formula Stimolo – Risposta / Causa – Effetto: il comportamento dell’uomo rappresenta il risultato di uno stimolo; ad una causa (esterna) consegue un effetto (risposta del soggetto); tale corrente trascura l’ap-

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nega che la sua situazione possa essere diversa da quella che vive – esito, questo, verso cui conduce anche la scelta –. Il problema del soggetto che nega è appunto quello di porre in essere una narrazione che codifica il Sé come “agito” (dalla situazione, dagli eventi, dagli accadimenti passati) e mai come “agente” (cioè come una soggettività in grado di intervenire sugli eventi per elaborarli alla luce delle proprie dimensioni di senso). L’azione messa in atto non viene concepita nei termini ricoeuriani del “far accadere”, ma del “fatto accaduto, dato e prestabilito” (Ricoeur 1993). Il modello narrativo in questione si rende evidente in manifestazioni narrative riconducibili allo script7 “io sono così ed anche in futuro non potrò essere nulla di diverso o di migliore da ciò che sono”. Il modello narrativo della giustificazione si rileva, invece, nella tendenza del soggetto a rinviare la possibilità di costruire personalmente il proprio futuro e avvia un percorso di giustificazione rispetto alle difficoltà che egli incontra nel concepirsi in termini di progetto. Il soggetto che attiva questo modello elude il compito progettuale ponendo in essere schemi narrativi che ancorano il Sé a variabili contestuali, o comunque esterne alla soggettività, che precludono o espropriano la sua capacità di rappresentare se stesso in modo alternativo e più integrato. I fattori esterni (crisi sociale, instabilità lavorativa, carenza affettiva, incertezza futura) sono tra le cause individuate da coloro che giustificano la personale storia di vita come ancorata ad una dimensione temporale del passato o del presente e giustificano la difficoltà nel costruire un progetto di vita. Il modello narrativo si rende evidente in espressioni riconducibili allo script “io sono così, ed ho buoni motivi per esserlo”8. Il modello della negazione si rende evidente in forme narrative intenzionate a codificare l’Io come una dimensione sostanzialmente priva di esigenze evolutive. È tipico di soggetti fortemente intenzionati a eludere il confronto con le zone d’ombra o con gli elementi di criticità che, se percepiti, farebbero emergere un bisogno di cambiamento di cui il soggetto non è disposto, per diverse ragioni, a farsi carico. Il segmento temporale prevalente nelle narrazioni del Sé è l’immediato presente, mentre si rileva una sistematica sottovalutazione della relazionalità nella costruzione del progetto di vita. L’altro viene visto come colui che vive accanto ad altri soggetti e la sua presenza non viene considerata come il presupposto per lo sviluppo identitario9. Il modello si

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porto della soggettività umana e si afferma una visione di uomo deterministicamente posto nel mondo. La corrente del costruttivismo pone, invece, l’accento sulla dimensione soggettiva della persona: ad uno stimolo consegue una risposta, che rappresenta il risultato di un processo di interpretazione, di emozione, di valutazione e di deliberazione da parte del soggetto. La componente mente – organismo rientra all’interno della struttura Stimolo – Risposta. Tali correnti mettono in evidenza la differenza tra causa (dinamismo che si sostituisce al soggetto) e ragione (dinamismo che muove il soggetto). L’azione dell’uomo assume, così, un significato, in quanto rappresenta il risultato di una deliberazione da parte del soggetto, il quale si afferma come autonomo e libero. Si riporta un esempio tratto dal test di M. Piccinno (2007) rispetto allo Script del modello della rinuncia “Chi commette un errore lo paga per tutta la vita”. Si riporta un esempio tratto dal test di M. Piccinno (2007) rispetto allo Script del modello della giustificazione “Dipende dagli altri se io sono così”. L’importanza che l’altro riveste nei processi di sviluppo della persona viene sottolineato da diversi studiosi e filosofi, i quali affermano che la persona vive e si sviluppa nella relazione con l’altro. M. Scheler sottolinea la natura relazionale della soggettività [1980]; E. Mounier ribadisce l’importanza che l’altro assume nel percorso di vita di una persona,

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rende evidente in espressioni riconducibili allo script “io non ho problemi, vado bene così come sono”10. Il modello della progettualità è tipico di soggetti che, a prescindere dalla particolarità della loro condizione esistenziale, si raccontano attraverso modelli alternativi che codificano il Sé come una soggettività sistematicamente intenzionata a concretizzare rappresentazioni identitarie innovative e più integrate. I racconti che essi producono di se stessi danno spazio al bisogno di percepirsi non come realtà “irreversibilmente decisa”, ma come risorsa che ha “ancora molto da decidere” e che, soprattutto, conserva nelle sue mani la capacità di “decidersi”. Essi mettono in atto azioni frutto di un processo decisionale deliberato consapevolmente. Il modello si rende evidente in espressioni come “io conservo nelle mie mani la possibilità di costruirmi come persona diversa e migliore”11.

3. Le procedure di ricerca

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I modelli narrativi della giustificazione, della negazione, della progettualità e della rinuncia hanno formato oggetto di indagine empirica già nel 2005, quando si sono avviate le procedure di ricerca volte a costruire uno strumento idoneo a rilevarne la consistenza e la configurazione. Nell’ambito di queste attività è stata operata una prima elaborazione del test dei “Modelli narrativi”, con lo scopo di individuare la modalità narrativa attraverso la quale il soggetto racconta a sé stesso e agli altri la propria storia di vita. Nello specifico, in questa prima fase sono stati definiti i quattro modelli narrativi (modello della rinuncia, modello della negazione, modello della giustificazione e modello della progettualità) ed una prima articolazione della batteria di item riferibili a ciascuno di essi (Piccinno, 2005, 2007)12. Lo strumento iniziale si componeva di 60 item (15 item per ciascun modello narrativo), consistenti in affermazioni rispetto alla quale il soggetto è chiamato ad esprimere il proprio grado di accordo, su una scala che oscilla da 1 (assolutamente falso) a 7 (assolutamente vero). Alla fine di questa fase13, le procedure di analisi degli item, condotte attraverso il test di Cronbach, hanno consentivo di ridurre il test a 48 item.

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“le altre persone non la limitano, anzi le permettono di essere e di svilupparsi” [2004, 60]; l’allievo P. Ricoeur racchiude il suo pensiero all’interno di una espressione significativa, che sottolinea il ruolo che l’altro riveste per la persona, egli parla di un Sé come un Altro e cioè di un Sé che si sviluppa attraverso l’Altro (Sé come un Altro sta per Sé in quanto Altro). Ancora G. M. Bertin sostiene che la realizzazione di sé stessi avviene all’interno di un processo dinamico in cui l’altro viene totalmente coinvolto, “realizza te stesso, realizzando l’altro” [1968, 180]. Si riporta un esempio tratto dal test di M. Piccinno (2007) rispetto allo Script del modello della negazione “Difficilmente faccio qualcosa di sbagliato”. Si riporta un esempio tratto dal test di M. Piccinno (2007) rispetto allo Script del modello della progettualità “Anche se hai sbagliato è sempre possibile conquistare la fiducia degli altri”. Per la spiegazione dettagliata delle cinque dimensioni temporali (test di P. Zimbardo) e dei modelli narrativi (test di M. Piccinno) si rimanda al paragrafo precedente, all’interno del quale vengono illustrate tali variabili. Per la descrizione dettagliata di queste procedure si rimanda al saggio di Piccinno (2005).

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Lo scopo della presente ricerca è quello di proseguire nelle procedure di validazione dei costrutti e degli item del test di Piccinno, attraverso un percorso di analisi focalizzato su tre diverse procedure di verifica. La prima di esse, consiste nell’analisi fattoriale condotta sui risultati prodotti dal test in esame su un gruppo di 500 adolescenti. La seconda operazione consiste nel sottoporre al test di Cronbach i risultati ricavati dall’analisi fattoriale. Infine, si procederà a calcolare gli indici di correlazione tra i punteggi relativi agli item del test in esame e i punteggi dello “Zimbardo Time Perspective Inventory”14. Il test “Zimbardo Time Perspective Inventory” è stato messo a punto nel 1999 dal gruppo di ricerca del Prof. P. Zimbardo e si compone di 56 item; per ogni affermazione il soggetto esprime il grado di accordo su una scala che oscilla da 1 (molto falso) a 5 (molto vero). Tali item, vengono raggruppati in base ad alcuni punteggi in cinque dimensioni temporali: passato positivo, passato negativo, presente edonistico, presente fatalistico, futuro. Il profilo di queste dimensioni sono state già descritte nel precedente paragrafo, e ad esso (oltre che ai testi in bibliografia) si rimanda per ogni eventuale precisazione. Il punteggio rilevato dal test consente di individuare l’orientamento del soggetto verso una specifica dimensione temporale. Le procedure di indagine hanno coinvolto cinque scuole secondarie di II grado del territorio provinciale leccese: l’istituto magistrale “P. Siciliani” di Lecce, il liceo Scientifico “G. Banzi Bazoli” di Lecce, il liceo Classico “G. Palmieri” di Lecce, l’istituto magistrale “A. Moro” di Maglie e l’istituto Magistrale “G. Comi” di Tricase. La scelta delle scuole è avvenuta a seguito di una ricognizione numerica degli studenti iscritti alle scuole secondarie di II grado nel territorio leccese. I dati pubblicati dall’ISTAT mettono in evidenza una concentrazione di studenti iscritti presso i licei classici, scientifici e pedagogici. Inoltre, si registra un’alta concentrazione di studenti iscritti nei licei di Lecce, del Sud e del Centro Salento; sulla base della numerosità dell’universo, si è proceduto alla scelta degli istituti da coinvolgere15. In ogni caso, va specificato che i soggetti sottoposti ad indagine, pur non corrispondendo in pieno ai criteri di rappresentatività, possono considerarsi un gruppo che, in virtù della sua ampiezza (500 soggetti), si profila idoneo a garantire il riscontro empirico dei costrutti messi sotto osservazione. Tale affermazione trova il suo fondamento nelle considerazione di P. Kline, il quale afferma che “i campioni devono essere non solo rappresentativi, ma di misura sufficiente a produrre fattori attendibili...200 soggetti sono il minimo per una buona analisi fattoriale, ma nella mia esperienza questa cifra è eccessiva. Se i dati contengono una chiara struttura fattoriale, anche campioni di 100 soggetti sono sufficienti” (Kline 1997, p.76). Nel nostro caso, essendo il gruppo composto da 500 soggetti, appare plausibile affermare l’affidabilità dei risultati prodotti dall’indagine. I due test, “Zimbardo Time Perspective Inventory” di P. Zimbardo e di J. Boyd,

14 Si fa riferimento alla versione italiana del Test di Zimbardo & Boyd tradotta da Martina Peri e disponibile al seguente link http://www.emcdda.europa.eu/ html.cfm/index89378EN.html (riferimento di consultazione del sito Anno 2013). Le procedure di calcolo sono riportate nella scheda “The Zimbardo Time Perspective Inventory. Psychometrics and scoring key”. 15 I dati relativi agli studenti iscritti alle scuole secondarie di II grado, nel territorio leccese, sono aggiornati a Dicembre 2012 e reperibili all’interno del sito www.istat.it (Istituto Nazionale di Statistica).

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e “Modelli narrativi” di M. Piccinno sono stati somministrati congiuntamente (Zimbardo & Boyd, 1999, 2009); (Piccinno, 2005, 2007). La possibilità di avviare la somministrazione di due test all’interno di tali istituti scolastici, è stata accolta favorevolmente da tutti i dirigenti, i quali hanno predisposto durante l’orario scolastico uno spazio utile per avviare tale somministrazione. Gli studenti sono stati informati di tale ricerca e tutti hanno acconsentito all’avvio delle procedure di somministrazione. Essi hanno dimostrato interesse e partecipazione rispetto al tema della ricerca e hanno compilato con facilità i due test somministrati. I protocolli somministrati all’interno dei cinque istituti scolastici sono stati in tutto 520, invece quelli ritirati e sottoposti a calcolo sono stati 500. Il tempo messo a disposizione per tale compilazione è stato di 30 minuti: i minuti precedenti alla compilazione sono stati dedicati all’illustrazione delle procedure di compilazione dei test e i restanti minuti sono stati dedicati alla compilazione del protocollo da parte degli studenti coinvolti. Al termine della somministrazione sono state avviate le fasi di calcolo e di inserimento dati all’interno di un foglio Excel; successivamente le elaborazioni dei dati sono state effettuate con il pacchetto statistico SPSS 20.0 per Windows. Oltre ai modelli narrativi già descritti e riferiti ai due testi, il protocollo ha rilevato, altresì le seguenti variabili: – sesso; – età; – scuola.

4. I risultati della ricerca a) Analisi fattoriale L’indagine ha comportato la somministrazione di 520 protocolli. Di essi ne sono stati ritirati 500. Tra i soggetti partecipanti, il 20% è di sesso maschile e l’80% di sesso femminile Gli studenti intervistati sono di età compresa tra i 14 e i 19 anni; nello specifico, il 40% è di età compresa tra i 14 e i 16 anni e il 60% è di età compresa tra i 17 e i 19 anni. Tra gli studenti di sesso maschile, il 40% è di età compresa tra i 14 e i 16 anni e il 60% è di età compresa tra i 17 e i 19 anni. Tra gli studenti di sesso femminile, il 40% è di età compresa tra i 14 e i 16 anni e il 60% è di età compresa tra i 17 e i 19 anni (Graf. 1).

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! Graf. 1: Distribuzione dei soggetti suddivisi per sesso e per età.

L’Analisi sugli item è stata sottoposta a rotazione dei fattori con il metodo Varimax (tab. 1). La scelta di questa procedura è stata dettata dal fatto che essa preserva la condizione di ortogonalità e distribuisce gli item entro uno spazio fattoriale che preserva l’indipendenza dei fattori. “La rotazione Varimax tende alla struttura semplice mantenendo gli assi fattoriali ortogonali. Ciò significa che i fattori ruotati non sono tra loro correlati e restano identiche all’analisi fattoriale originaria le comunalità e la capacità di riprodurre la correlazione originaria” (Kline, 1997, p. 71). Il metodo di rotazione Varimax “è un metodo che aumenta l’ortogonalità dei fattori” (Kaiser, 1985). Esso “massimizza la varianza delle saturazioni delle variabili all’interno di ogni fattore. Varimax tende a produrre fattori che presentano alcune saturazioni elevate, poche intermedie e molte basse, consentendo quindi di separare meglio i fattori” (Barbarinelli, 2007, p. 170).

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Tab. 1: Matrice delle componenti ruotate

La matrice delle componenti ruotate (Tab.1), mette in evidenza una situazione nella quale soltanto alcuni degli item riferiti alle diverse variabili mostrano di saturare sul medesimo fattore. Per tali ragioni, sono stati eliminati tutti gli item che saturano su fattori diversi da quello sul quale si collocano gli item riferiti alla medesima variabile. In generale, sono state considerate rilevanti le saturazioni che presentano un valore uguale o superiore a .65. Sulla base di tali criteri, sono state adottate le decisioni indicate di seguito. Per il modello della rinuncia, (i cui item sono raggruppati nel gruppo “a” della tabella e mostrano una saturazione prevalente sul quarto fattore) sono stati eliminati gli item 12, 21, 22, 33, 37, 40, 46, 57, 60 del protocollo (corrispondenti, rispettivamente agli item a3, a4, a5, a8, a9, a10, a11, a13, a14 della tabella). Per il modello della progettualità (i cui item sono raggruppati nel gruppo “b” della tabella e mostrano una saturazione prevalente sul terzo fattore) sono stati eliminati gli item 14, 17, 41, 58 (corrispondenti, rispettivamente, agli item b4, b5, b8, b10) della tabella. Da rilevare che in questo raggruppamento sono stati conservati gli item 29 e 53 (corrispondenti agli item b7 e b9 della tabella). Questi presentano una saturazione negativa sul terzo fattore, superiore a –.65 e sono stati

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selezionati come item il cui punteggio è da calcolare in modo inverso al valore dichiarato (7=1; 6=2; 5=3; 4=4; 3=5; 2=6; 1=7). Per modello della giustificazione (i cui item sono raggruppati nel gruppo “c” della tabella e mostrano una saturazione prevalente sul primo fattore) sono stati eliminati gli item 9, 15, 23, 24, 39, 42, 55 (corrispondenti rispettivamente agli item c2, c3, c5, c6, c8, c9, c14). Come si può rilevare dalla tabella 1, 4 item riferiti a tale modello (precisamente quelli indicati con c2, c5, c6, c9) mostrano una saturazione prevalente sul fattore 2. La scelta di eliminare questi item e di conservare soltanto quelli che hanno saturazione sul fattore 1, è stata adottata in base al criterio generale enunciato in precedenza, cioè in considerazione del fatto che gli indici di saturazione degli item su quest’ultimo fattore superano il livello di 0,65, mentre quelli collocati sul fattore 2 hanno indici di saturazione notevolmente inferiori. Nel modello della negazione (i cui item sono raggruppati nel gruppo “d” della tabelle e mostrano una saturazione prevalente sul secondo fattore) sono stati eliminati gli item 10, 13, 44 (corrispondenti, rispettivamente, agli item d1, d2, d8 della tabella). Al termine di tali operazioni, la matrice ruotata assume la seguente configurazione (tab. 2):

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Dopo l’eliminazione dei suddetti item, il protocollo finale risulta composto da 25 item. Si precisa che le lettere riportate nella colonna che precede la scala indicano il modello narrativo cui si riferisce l’item, e precisamente: A: Modello della rinuncia B: Modello della progettualità C: Modello della giustificazione D: Modello della negazione

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Tab.3: Protocollo test “Modelli Narrativi”

b) Alpha di Cronbach I dati ricavati dalla soluzione fattoriale sono stati sottoposti al test dell’Alpha di Cronbach, al fine di testare il grado di omogeneità degli item riferiti al medesimo modello narrativo. Gli item relativi al modello della rinuncia rilevano un valore dell’indice pari a .789, nonché una correlazione dei singoli item con il punteggio totale che, per ciascuno di essi, supera il valore di .70 ( Tabella 4). Tali valori attestano una adeguata omogeneità degli item riferiti a questo modello. ! !

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c) Confronto con il test “Zimbardo Time Perspective Inventory”. Il terzo passaggio della procedure ha avuto lo scopo di sottoposte a verifica la validità dei costrutti che compongono il test dei modelli narrativi. Le procedure di analisi si sono focalizzate sul confronto tra i risultati prodotti da tale test e i risultati ricavati dallo Zimbardo Time Perspective Inventory, il quale è uno strumento già validato che rileva costruiti analoghi a quelli analizzati nella presente indagine. Il confronto è stato effettuato calcolando gli indici di correlazione tra i punteggi conseguiti dai soggetti partecipanti nei quattro modelli narrativi e nelle dimensioni

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temporali che costituiscono il test di confronto. Gli indici prodotti dal calcolo di tale indice sono stati considerati come indicativi della validità del costrutto quando hanno evidenziato le seguenti caratteristiche [Piccinno, 2013, p. 29]: Validità convergente: che si verifica quando il risultato prodotto dalla scala relativa al costrutto da validare rileva una correlazione diretta con un costrutto della scala già validata, che si può ritenere analogo al primo. Validità divergente: che si verifica quando il risultato prodotto dalla scala relativa al costrutto da validare rileva una correlazione inversa con un costrutto della scala già validata, che si può ritenere opposto al primo. I risultati prodotti dal calcolo dell’indice di correlazione sono riportati nella seguente tabella. '

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Tab. 8: Indici di correlazione

Il modello della rinuncia rileva una correlazione diretta significativa con la dimensione del presente fatalistico (.15; p. .00). Tale indice mette in evidenza la concomitanza tra l’intensità della convinzione che la vita sia influenzata dal destino (test Zimbardo) e l’intensità della convinzione che in futuro non ci si possa raccontare in maniera migliore del presente (test Piccinno) e in questo senso riscontra la condizione di validità indicata in precedenza sotto la lettera a). L’emergere di tale risultato può essere considerato, pertanto, come una evidenza che depone a favore della validità del costrutto posto sotto osservazione. La convinzione che la propria vita sia dominata da forze impersonali (Zimbardo) mostra, infatti, evidenti analogie con la convinzione che in futuro non si possa diventare qualcosa di diverso di ciò che si è nel presente (Piccinno). In questo senso, il fatto di riscontrare tale convergenza anche nei risultati prodotti dall’indagine empirica può essere assunta come una prova della validità degli item che si riferiscono al modello narrativo della rinuncia, considerata la convergenza che tale modello rileva con i risultati della scala analoga, già validata, relativa alla dimensione del presente fatalistico del test di Zimbardo. Il modello della progettualità rileva: – una correlazione inversa significativa con le dimensioni del passato negativo (.20; p. .00) e del presente fatalistico (-.13; p. .00). – una correlazione diretta significativa con la dimensione del passato positivo (.15; p. 00).

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La configurazione delle correlazioni rilevate può essere assunta come prova della validità del costrutto relativo a tale modello narrativo. Le correlazioni inverse, possono essere considerate come un’evidenza che soddisfa la precedente condizione b). Esse, infatti, mettono in evidenza come i risultati prodotti dagli item riferiti alla progettualità rilevino un andamento contrario alle dimensioni temporali che, per loro configurazione interna, si possono considerare espressione dell’orientamento soggettivo opposto . È infatti plausibile pensare che la disposizione narrativa fondata sulla fiducia che il futuro si prospetti come uno spazio che consente di modificare in positivo il proprio modo di essere (progettualità), trovi elementi di negazione nelle disposizioni soggettive di chi percepisce il presente come una dimensione sottratta al proprio controllo (presente fatalistico) e il passato come un bacino di criticità che non ha apportato alcuna risorsa positiva alla propria esistenza (passato negativo). Allo stesso tempo, la configurazione della correlazione diretta tra la il modello della progettualità e la dimensione del presente positivo può essere assunta come un’evidenza che soddisfa la precedente condizione a). La disposizione narrativa a interpretare il futuro come uno spazio che sostiene la possibilità di elaborare narrazioni alternative e più integrate del Sé (progettualità) trova infatti significative analogie e punti di ancoraggio con l’orientamento soggettivo di chi vede nel presente un bacino di possibilità che offrono risorse positive alla propria esistenza (presente positivo). Per tali ragioni, la coerenza tra le correlazioni (negative e positiva) proprie di questo costrutto possono essere considerate come una prova della validità degli item riferiti al modello della progettualità. Il modello della giustificazione rileva: – una correlazione inversa con la dimensione del presente positivo (.-14; p. 00); – una correlazione diretta con le dimensioni del passato negativo (.38; p. 0.00); del presente edonistico (.11; p. .01); del presente fatalistico (.31; p. .00). La configurazione della correlazione inversa può essere considerata come un’occorrenza che soddisfa la precedente condizione b). Essa infatti riscontra sul piano empirico la relazione di opposizione che si può individuare tra la tendenza a elaborare giustificazioni razionali intorno alla legittimità della propria condizione esistenziale e la tendenza a riscontrare nel presente un bacino di risorse positive orientate al cambiamento (presente positivo). Le correlazioni dirette circoscrivono invece un insieme di evidenze che soddisfano la precedente condizione a). La tendenza (propria della giustificazione) a elaborare un sistema di premesse finalizzate alla legittimazione dello status trova, infatti, un valido punto di appoggio sia nella tendenza a interpretare il presente soltanto per ciò che esso offre in termini di piacere (presente edonistico); sia con la tendenza a interpretare il passato soltanto in termini di criticità paralizzanti (passato negativo); sia, infine con la tendenza a vedere nel presente una dimensione temporale sottratta alle proprie possibilità di controllo (presente fatalistico). Più precisamente, il piacere, le criticità passate, le fatalità possono essere interpretate come orientamenti analoghi alla giustificazione, nella misura in cui si prospettano come tre diverse possibili forme nelle quali può estrinsecarsi tale atteggiamento. Il modello della negazione presenta una correlazione diretta con il passato negativo (.19; p. 00); con il presente edonistico (.17; p. .00); con il presente fatalistico (.15; p. .00).

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Anche in questo caso, la configurazione delle correlazioni riportate soddisfa la condizione descritta sotto la lettera a). La tendenza a negare le esigenze evolutive del Sé e a eludere il confronto con le zone d’ombra della propria soggettività (negazione) trova infatti un corrispettivo sia nella tendenza a sopravvalutare le occasioni di godimento insite nell’immediato presente (presente edonistico); sia nella tendenza a considerare il presente come una condizione immodificabile sottratta al proprio controllo (presente fatalistico). Allo stesso modo, il bisogno di negare il contatto con le proprie zone d’ombra trova un possibile corrispettivo nella tendenza a riconoscere il passato soltanto per ciò che esso comporta in termini di criticità (passato negativo). In questo senso la negazione presenta analogie con il passato negativo in quanto si prospetta come l’atteggiamento con il quale il soggetto neutralizza le istanze di cambiamento derivanti dalle criticità che riscontra nel passato. La possibilità di riscontrare, in ciascun modello narrativo, le condizioni di validità indicate nelle precedenti lettere a) e b), consente di affermare sia la validità dei costrutti relativi ai diversi modelli narrativi, sia la validità degli item che rilevano ciascuno di essi. Un dato che, tuttavia, esige di essere interpretato, è il fatto che le procedure di analisi non hanno rilevato né una correlazione diretta significativa tra il modello della progettualità e la dimensione temporale del futuro; né una correlazione inversa significativa tra quest’ultima dimensione e gli altri modelli narrativi. La ragione di questo risultato va ascritta, con ampi margini di pertinenza, all’assenza di analogia tra il costrutto della progettualità e il costrutto del futuro. La dimensione futura del test di Zimbardo tematizza, infatti, la disposizione del soggetto a interpretare tale asse temporale come uno spazio aperto alla prospettiva del possibile, senza, tuttavia, connotare in termini più specifici i contenuti e le configurazioni di tali possibilità. Al contrario, il modello narrativo della progettualità, oggetto della presente indagine, non si limita a identificare il futuro come un contesto disponibile alle molteplici configurazioni del possibile. Esso intende, piuttosto, rilevare la disposizione interna a interpretare il futuro come una dimensione dell’esistenza disponibile a farsi “plasmare” dall’intervento personale e intenzionale del soggetto. Come si può notare, i due costrutti, per quanto entrambi riferiti alla dimensione del divenire, non mostrano di possedere alcuna analogia, e proprio questa assenza può essere individuata come la ragione idonea a rendere conto dell’assenza di correlazione tra di essi.

5. Calcolo dei punteggi La possibilità di interpretare i punteggi grezzi provenienti dalle diverse scale che compongono il test dei modelli narrativi esige l’individuazione di criteri uniformi rispetto ai quali operare la loro interpretazione. L’ultimo passaggio dell’indagine empirica si è, pertanto, focalizzata sull’individuazione dei criteri di standardizzazione dei punteggi prodotti dagli item relativi a ciascuno di tali modelli. Al riguardo, si rende opportuno precisare che i criteri di valutazione del test riportati di seguito si riferiscono a soggetti che hanno caratteristiche simili a quelle del gruppo sul quale si è svolta l’indagine, cioè adolescenti di entrambi i sessi, di età compresa tra i 14 e i 18 anni.

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Il criterio principale di riferimento per operare la standardizzazione dei dati empirici è stato individuato nella suddivisione dei punteggi grezzi in ranghi percentili (composti, ciascuno da 10 percentili) (tabella 9). I punteggi standardizzati sono indicati nella tabella che segue: ! ! 1%

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128 Tab. 9: Punteggi standardizzati

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Tab. 10: quartili

Il riferimento ai quartili consente di individuare il punteggio non soltanto nel suo profilo quantitativo, ma anche rispetto al fatto che esso collochi l’orientamento soggettivo o nella media, o significativamente sopra la media, o significativamente al di sotto nella media. Più precisamente: – sono da considerare nella media i punteggi compresi nel range rappresentato dal secondo quartile; – sono da considerare significativamente sotto la media i punteggi che vanno da zero al valore rappresentato dal primo quartile; – sono da considerare significativamente sopra la media i punteggi pari o superiori al valore del terzo quartile.

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Per esempio, nel caso di un soggetto che consegue nel modello della giustificazione un punteggio di 13, il riferimento a questo criterio consente di individuare che tale soggetto possiede tale orientamento narrativo con un’intensità significativamente al di sotto della media.

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ricerche

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Il punto di vista degli insegnanti rispetto a un percorso innovativo di formazione in servizio: percezioni e problematiche

Alessandra Rosa • Alma Mater Studiorum-Università di Bologna - alessandra.rosa3@unibo.it Elisa Truffelli • Alma Mater Studiorum-Università di Bologna - elisa.truffelli@unibo.it

Teachers’ perceptions about an innovative path of in-service training

This paper reports a study aimed to explore the points of view of teachers who participated in an in-service training course focused on inquiry-based learning (IBL), an innovative teaching method embedded in a constructivist theory of teaching and learning process and in the tradition of student-centered approaches. Particularly, attention has been paid both on perceptions about how the trainers have brought teachers to the theoretical and operational principles behind IBL approach during the course, and on opinions regarding its potential for innovation of classroom teaching. Data were collected through a semi-structured questionnaire administered at the end of the course and completed by 215 teachers. Although in a framework which on the whole seems to be positive, the data analysis and the results interpretation show some critical issues starting from wich research perspectives and practical implications will be outlined.

Parole chiave: inquiry-based learning, formazione in servizio degli insegnanti, didattica innovativa, indagine empirica.

Keywords: inquiry-based learning, in-service training for teachers, innovative teaching approaches, empirical study.

Benché il contributo sia frutto del lavoro congiunto delle due autrici, Alessandra Rosa ha scritto i §§ 2, 3, 6.2 e 7 ed Elisa Truffelli ha scritto i §§ 1, 4, 5 e 6.1. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

131

ricerche

L’indagine descritta nel presente contributo ha inteso rilevare i punti di vista degli insegnanti partecipanti a un percorso di formazione in servizio incentrato sull’inquirybased learning (IBL), un approccio didattico innovativo che si colloca all’interno della teoria costruttivista dell’insegnamento/apprendimento e nella tradizione degli approcci student-centred. In particolare, l’attenzione è stata posta sia sulle percezioni relative alle modalità adottate nell’ambito del percorso in oggetto per avvicinare i docenti ai principi teorici e applicativi alla base dell’IBL, sia sulle opinioni riguardanti le potenzialità insite in tale approccio per un rinnovamento della didattica in classe. I dati sono stati raccolti mediante un questionario semi-strutturato somministrato al termine del percorso e compilato da 215 insegnanti. L’analisi e l’interpretazione dei risultati emersi evidenziano, pur nel quadro di un bilancio che appare nel complesso positivo, alcuni elementi di criticità, in relazione ai quali vengono delineate prospettive di ricerca e implicazioni pratiche.


Il punto di vista degli insegnanti rispetto a un percorso innovativo di formazione in servizio: percezioni e problematiche

1. Introduzione

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L’intento di fondo del presente contributo è quello di offrire una sintetica panoramica dei risultati emersi da un’indagine empirica sui punti di vista espressi da oltre duecento docenti partecipanti a un percorso di formazione in servizio incentrato sull’inquiry-based learning (IBL), un approccio didattico innovativo inquadrabile all’interno della teoria costruttivista dell’insegnamento/apprendimento e nella tradizione degli approcci student-centred. Tale percorso, realizzato a Bologna durante l’a.s. 2013-2014, rientra in un progetto nazionale di formazione degli insegnanti denominato I Lincei per una nuova didattica nella scuola: una rete nazionale, avviato nel 2011 dall’Accademia Nazionale dei Lincei in seguito a un protocollo di intesa con il Ministero della Pubblica Istruzione. La finalità generale posta alla base del progetto è quella di promuovere, con particolare riferimento all’ambito dell’educazione scientifica, un’innovazione della didattica nella direzione di un metodo basato sulla sperimentazione in classe e sul coinvolgimento attivo degli studenti piuttosto che su un modello di tipo trasmissivo e nozionistico. In un contesto di rapido sviluppo delle conoscenze scientifiche si ritiene infatti indispensabile favorire, a partire dalla scuola e fin dai suoi primi gradi, un’idea positiva della scienza come base essenziale per comprendere la realtà e governarne la complessità e l’innovazione, proponendo ai docenti – e tramite loro agli studenti – un approccio all’insegnamento e apprendimento di tipo inquiry-based, basato su metodologie hands-on e su una visione olistica e integrata della cultura, che non confini il sapere scientifico a un ambito separato da quello umanistico. A tali obiettivi si connettono quelli individuati, all’interno del progetto nazionale, dal Polo di Bologna/Emilia-Romagna1, che mediante il progetto formativo proposto a livello locale mira a favorire un rinnovamento della didattica nella scuola migliorando le competenze degli insegnanti, promuovendo il metodo scientifico come strumento di conoscenza, favorendo l’inquiry-based learning come approccio didattico, incoraggiando l’uso della pratica di laboratorio con un’ottica interdisciplinare e collegando i contenuti dei laboratori a temi generali di interesse scientifico, etico e sociale. Per quanto concerne invece i destinatari, coerentemente ai principi posti alla base del progetto a livello nazionale e locale, il percorso formativo attivato a Bologna è stato rivolto agli insegnanti dell’Emilia-Romagna di ogni ordine e grado

1

Il Polo di Bologna, che si è aggiunto alla rete nazionale formata dal progetto a partire dall’a.s. 2013-2014, è promosso e gestito in partnership con la Fondazione Marino Golinelli, la quale opera a favore della promozione della cultura e dell’educazione, in particolare quella scientifica (www.golinellifondazione.org).

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afferenti sia all’area scientifica, sia all’area umanistica. È stata inoltre realizzata un’organizzazione per moduli (in tutto sei) articolati a loro volta in diversi incontri, in modo da consentire ai docenti partecipanti di scegliere tra le attività programmate – fatta eccezione per alcune di tipo propedeutico – in base ai propri interessi e alle proprie esigenze formative. L’indagine presentata – che abbiamo effettuato in qualità di ricercatori non coinvolti né nelle scelte relative all’organizzazione complessiva del percorso né nell’erogazione delle attività formative – verte, in particolare, sul modulo più specificamente incentrato sull’approccio inquiry-based: gli obiettivi posti alla base della ricerca hanno infatti mirato a cogliere le percezioni degli insegnanti partecipanti sia circa le modalità innovative adottate nell’ambito del modulo per impostare e gestire le attività formative, sia circa l’approccio proposto e le sue potenzialità in termini di rinnovamento delle proprie prassi didattiche. Dopo un inquadramento teorico sull’approccio IBL e sulle problematiche evidenziate in letteratura rispetto al suo impiego da parte degli insegnanti, l’attenzione verrà dunque focalizzata sui principali risultati emersi dall’indagine in relazione a tali aspetti.

2. L’Inquiy-Based Learning come approccio didattico innovativo: un quadro definitorio Benché i principi e le procedure su cui si fonda siano trasversalmente estendibili ad altri ambiti disciplinari, l’inquiry-based learning è nato ed è stato principalmente applicato e sviluppato nell’ambito dell’educazione scientifica come risposta alla necessità, da più parti sottolineata a livello internazionale (ad es. Minner, Levy & Century, 2010), di un rinnovamento della didattica e di un miglioramento dei risultati di apprendimento conseguiti dagli studenti. La letteratura sull’argomento non fornisce una chiara e univoca definizione di cosa sia l’IBL (Briggs, Long & Owens, 2011; Sikko, Lyngved & Pepin, 2012). In generale, Prince e Felder (2006) lo definiscono come un metodo di insegnamento/ apprendimento di tipo induttivo, in cui lo studente apprende attraverso un reale processo di ricerca sul modello dell’indagine di tipo scientifico: tale approccio favorisce dunque negli studenti l’adesione ai processi cognitivi normalmente impiegati dagli scienziati (Crawford, 2000). In quanto approccio che affonda le radici nel metodo dell’indagine scientifica, l’IBL fa riferimento a un processo “a spirale” che parte con l’individuazione di un problema e la formulazione di una o più questioni di indagine, prosegue con la raccolta e l’analisi di informazioni e dati utili a rispondere alle questioni formulate, sfocia nella creazione di una soluzione o risposta basata su evidenze e si conclude con la discussione/riflessione sulle conclusioni raggiunte, che spesso a loro volta portano a nuovi interrogativi e problemi da affrontare (Laxman, 2013). Tale processo di indagine, inoltre, ha natura collaborativa e favorisce il confronto, lo scambio di idee, l’integrazione tra prospettive (anche disciplinari) diverse e la co-costruzione, piuttosto che la semplice acquisizione/memorizzazione, della conoscenza. Dal canto suo, il docente diventa un partner nei processi di apprendimento e assume un ruolo di facilitazione/supporto nei confronti degli studenti, che dovrebbe peraltro “sfumare” mano a mano che essi incrementano la propria autonomia e le proprie abilità; piuttosto che fornire agli studenti la risposta corretta, egli stimola e supporta l’attiva ricerca di risposte – tutte valide purché adeguatamente argomentate – da parte loro (Song & Looi, 2012).

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L’approccio inquiry-based implica, in sostanza, il passaggio da un modo tradizionale di concepire e attuare l’insegnamento, centrato sulla trasmissione di conoscenze da parte del docente e sul ruolo passivo degli studenti, verso una nuova prospettiva in cui l’insegnamento è concepito come una facilitazione dell’apprendimento e in cui agli studenti è richiesto di costruire attivamente le proprie conoscenze, ponendosi problemi e interrogativi, formulando ipotesi, raccogliendo e analizzando informazioni e traendone conclusioni coerenti. In base a questi presupposti, pur non essendo possibile rintracciare una definizione univoca di tale approccio, la letteratura al riguardo sembra unanime nel collocarlo all’interno della teoria costruttivista dell’insegnamento e apprendimento e nella tradizione degli approcci didattici di tipo student-centred (ad es. Kahn & O’Rourke, 2005). Per quanto concerne l’efficacia dell’IBL in termini di apprendimenti degli allievi, i risultati di alcuni studi (ad es. Şimşek & Kabapinar, 2010; Yager & Akcay, 2010) suggeriscono che l’adozione di un approccio inquiry-based ha un’influenza positiva sugli atteggiamenti e sui risultati degli studenti. Una recente sintesi della letteratura ad opera di Minner, Levy e Century (2010), incentrata sulla ricognizione degli studi che hanno esaminato l’impatto di tale approccio sugli outcomes degli studenti, mostra che un insegnamento inquiry-based porta a una migliore comprensione dei contenuti e dei concetti e favorisce lo sviluppo di una corretta idea della natura della conoscenza e dell’indagine scientifiche, accrescendo inoltre la motivazione e il coinvolgimento attivo degli allievi. Tuttavia, nonostante varie ricerche rivelino che gli studenti, attraverso questo approccio, sono messi nelle condizioni di apprendere più efficacemente, sembra che esso fatichi a prendere piede tra gli insegnanti, le cui prassi dominanti continuano a rifarsi a un modello di insegnamento tradizionale. Nel paragrafo che segue saranno esaminati i principali elementi problematici evidenziati in letteratura a questo proposito.

3. Resistenze e ostacoli all’adozione di un approccio didattico innovativo Sono diversi gli studi empirici dedicati all’inquiry-based learning che fanno emergere come l’atteggiamento degli insegnanti nei confronti di questo approccio didattico innovativo sia positivo (ad es. Hundeland, 2011; Ramnarain, 2014; Sikko, Lyngved & Pepin, 2012); tuttavia, alcune ricerche (ad es. Capps & Crawford, 2013) dimostrano che esso è ancora scarsamente conosciuto e utilizzato dai docenti di vario ordine e grado e che la sua applicazione incontra vari ostacoli. In generale, una delle principali ragioni per cui i programmi di formazione che propongono approcci innovativi alla didattica hanno un effetto limitato in termini di cambiamento delle prassi didattiche risiede nel fatto che gli insegnanti tendono ad adattare le nuove istanze affrontate nella formazione alle loro convinzioni preesistenti, che spesso sono di stampo tradizionale (Cohen & Ball, 1990). Facendo riferimento nello specifico all’approccio IBL, le ricerche che ne hanno affrontato anche l’aspetto applicativo hanno messo in luce varie difficoltà incontrate dai docenti, che possiamo raggruppare in tre macro-categorie: una legata alla figura del discente, la seconda attinente ai docenti e infine l’ultima all’istituzione scolastica. In merito alla prima, sembra essere un problema il poco tempo a disposizione sia per la preparazione di attività didattiche coerenti con questo approccio, sia per lo svolgimento delle attività in classe: i vincoli di tempo non consentono dunque di impostare un lavoro basato sull’indagine e la scoperta autonoma da parte degli stu-

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denti. Il rischio avvertito dai docenti consisterebbe, in particolare, nel non portare a termine il curriculum previsto per le singole discipline nei tempi assegnati (Bhattacharya, Volk & Lump, 2009; Costenson & Lawson, 1986; Jaworski, 2010; Sikko, Lyngved & Pepin, 2012; Tobin & McRobbie, 1996). L’approccio IBL viene inoltre percepito come maggiormente adatto agli studenti più capaci, perché in possesso di quelle conoscenze e competenze che costituirebbero prerequisiti necessari per affrontare un percorso apprenditivo di questo tipo (Colburn, 2000; Costenson & Lawson, 1986). Secondo alcuni insegnanti, poi, tale approccio interferirebbe con la sequenzialità con cui sono presentati i contenuti nei libri di testo e nei programmi (Costenson & Lawson, 1986). Kleve (2007), infine, rileva che sia gli studenti sia i genitori preferiscono che gli insegnanti facciano lezioni frontali e spieghino i concetti agli studenti secondo un approccio di tipo tradizionale. Per quanto riguarda la seconda categoria, si può citare la sensazione di inadeguatezza avvertita dagli insegnanti, legata anche alla mancanza di esperienze dirette di questo metodo durante il loro percorso formativo (Colburn, 2000; Dresner & Stravel, 2004). Viene segnalato come problema anche il fatto che i docenti (specie quelli di scuola primaria) in alcuni casi mostrano una limitata conoscenza del metodo scientifico e mancherebbero loro le conoscenze necessarie per rappresentare, in classe, una vera guida e un supporto per gli studenti (Colburn, 2000; Deboer, 2004; Kim & Fortner, 2007; Krajcik, Mamlok & Hug, 2000; Krajcik et al., 2000; Ramnarain, 2014). A questo ultimo punto si lega anche un altro elemento, ovvero l’effettiva comprensione di cosa si intenda per inquiry method: diversi studi evidenziano, infatti, come questo concetto non sia sempre chiaro e come la sua interpretazione in alcuni casi non sia del tutto conforme a quanto delineato in letteratura; alcune misconcezioni rilevate tra gli insegnanti hanno messo in luce che, per alcuni, questo approccio consisterebbe nel far compiere attività pratiche agli studenti o nel creare dibattito e confronto tra loro (Bhattacharya, Volk & Lump, 2009; Capps, Crawford & Constas, 2012; Colburn, 2000; Crawford, 2000). Un ulteriore aspetto non trascurabile è il fatto che, dopo molti anni di lezioni tradizionali, gli insegnanti sono riluttanti al cambiamento (Colburn, 2000; Costenson & Lawson, 1986). Entro la terza categoria, infine, ritroviamo lo scarso sostegno da parte dell’organizzazione scolastica e dei suoi responsabili nei confronti degli insegnanti che intendono adottare questo approccio innovativo, a fronte delle difficoltà in termini di risorse (per esempio materiali, attrezzature e spazi) e organizzazione da esso richieste (Colburn, 2000; Costenson & Lawson, 1986; Hundeland, 2011).

4. Inquiry-Based Learning e sviluppo professionale degli insegnanti Lo scarso uso da parte degli insegnanti dell’approccio IBL e le resistenze e difficoltà richiamate hanno fatto emergere l’esigenza, sottolineata da vari autori, di offrire loro adeguate opportunità di formazione iniziale e in servizio, avvicinandoli a nuovi modi di vedere l’insegnamento e l’apprendimento e aiutandoli a distanziarsi dagli schemi tradizionali. In una recente rassegna della letteratura empirica sui percorsi di sviluppo professionale specificamente finalizzati a promuovere un approccio didattico inquiry-based nell’ambito dell’educazione scientifica, Capps, Crawford e Constas (2012) giungono a delineare un quadro degli aspetti-chiave per la qualità e l’efficacia dei percorsi stessi, che confermano quelli indicati dalla letteratura sull’efficacia dello sviluppo professionale degli insegnanti inteso in senso più ampio e generale (ad es. Garet et al., 2001; Penuel et al., 2007). Essi sono: a) la durata dei percorsi formativi:

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pur non essendo possibile indicarne una ideale e ottimale, i percorsi di breve durata hanno meno probabilità di incidere efficacemente sul cambiamento delle concezioni e prassi dei docenti; b) l’opportunità per i partecipanti di accrescere le proprie conoscenze, di sperimentare in prima persona cos’è l’IBL svolgendo attività didattiche simili a quelle che potranno poi proporre in classe, di riflettere sulla propria esperienza, sulle proprie convinzioni e prassi e sui propri processi di apprendimento all’interno del percorso formativo; e) la coerenza, che si riferisce alla misura in cui i programmi risultano allineati rispetto agli obiettivi e agli standard stabiliti a livello locale e/o nazionale; f) la trasferibilità, che si riferisce invece alla misura in cui nei programmi si fa esplicito riferimento alle modalità tramite cui tradurre in classe quanto appreso e integrarlo nel curriculum; g) l’offerta di un supporto che si estenda oltre il termine del percorso formativo, sostenendo i docenti nella trasposizione a scuola di quanto appreso. In base a quanto emerso dai risultati di due ricerche che hanno esplorato le percezioni dei docenti sugli elementi necessari per rendere efficace lo sviluppo professionale incentrato sull’approccio IBL, Kazempour (2009) e Kazempour e Amirshokoohi (2014) aggiungono agli aspetti sopra richiamati anche la necessità di incentivare l’interazione e il confronto tra i partecipanti, creando un ambiente collaborativo che favorisca lo scambio di idee, l’arricchimento reciproco e il supporto tra pari. Powell-Moman e Brown-Schild (2011) insistono soprattutto sul ruolo attivo dei partecipanti, che non dovrebbero assistere a lezioni in cui si spiega loro come applicare tale approccio ma piuttosto immergersi in attività inquiry-based, sperimentandole dalla prospettiva del soggetto che apprende: le autrici affermano, infatti, che i programmi di sviluppo professionale focalizzati su come gli studenti apprendono sono più efficaci di quelli focalizzati sui comportamenti degli insegnanti. Monet e Etkina (2008) sottolineano invece l’importanza della riflessione continua, da parte dei docenti, sulle proprie convinzioni e prassi, che aiuta a identificare i propri punti deboli e dunque a migliorarsi; esse affermano che non basta assegnare un ruolo attivo ai docenti nei processi di apprendimento, proponendo loro di sperimentare l’approccio inquiry-based: se si vuole far sì che siano in grado di guidare e supportare a loro volta gli studenti, occorre anche che essi siano esplicitamente indotti a riflettere su tali processi, su cosa e soprattutto su come stanno apprendendo. Per quanto riguarda l’efficacia dei programmi formativi finalizzati a promuovere un approccio didattico di tipo inquiry-based in termini di effettivi apprendimenti/cambiamenti innescati, tutte le ricerche incluse nella già citata rassegna ad opera di Capps, Crawford e Constas (2012) riportano, nel complesso, effetti positivi sui docenti partecipanti principalmente in termini di: acquisizione di nuove conoscenze; modificazione delle concezioni e convinzioni relative all’insegnamento/apprendimento e alla natura della scienza e dell’indagine scientifica; miglioramento della fiducia in se stessi in quanto insegnanti capaci di innovare la propria didattica e di coinvolgere e supportare gli studenti in attività inquiry-based (selfefficacy); cambiamento delle prassi didattiche utilizzate in classe nella direzione di un approccio maggiormente centrato sugli studenti e di un uso più frequente e consapevole di attività inquiry-based. Qualche studio, infine, riporta effetti positivi dello sviluppo professionale dei docenti sui risultati di apprendimento dei loro studenti. Nonostante alcuni limiti teorici e metodologici messi in evidenza dagli autori, gli esiti delle ricerche incluse nella rassegna, che trovano peraltro riscontro nei risultati di altri studi (ad es. Duran et al., 2009; Kazempour, 2009; Kazempour & Amirshokoohi, 2014; Liang & Richardson, 2009; Powell-Moman & BrownSchild, 2011; Sanghee & Ramsey, 2009), evidenziano un bilancio complessivamen-

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te positivo e incoraggiante circa l’efficacia percepita dei percorsi di sviluppo professionale in tema di IBL.

5. L’indagine sui punti di vista dei docenti partecipanti al percorso formativo: obiettivi e procedure Come anticipato nell’introduzione, l’indagine e i risultati presentati nei successivi paragrafi vertono su un modulo formativo incentrato sull’inquiry-based learning, realizzato all’interno di un più ampio progetto di formazione in servizio per gli insegnanti promosso dall’Accademia Nazionale dei Lincei. Pur trattandosi, come specificato di seguito, di un modulo di durata piuttosto breve, abbiamo scelto di indagare le percezioni dei docenti che lo hanno frequentato in quanto si tratta di un percorso innovativo sia per gli obiettivi perseguiti e i contenuti proposti, sia per le modalità realizzative concretamente adottate. Dall’analisi della letteratura internazionale considerata nei paragrafi precedenti (ad es. Capps & Crawford, 2013; Hundeland, 2011; Ramnarain, 2014; Sikko, Lyngved & Pepin, 2012) emerge infatti che l’IBL, pur essendo visto positivamente dagli insegnanti, è nei fatti scarsamente utilizzato dai docenti di vario ordine e grado e che la sua applicazione incontra resistenze e ostacoli; per quanto riguarda il panorama italiano, alcuni autori (ad es. Scapellato, Paris e Invernizzi, 2013; Poce, 2014) affermano che tale approccio è ancora poco conosciuto e sta muovendo i suoi primi passi anche grazie al progetto europeo PRIMAS, che vede coinvolti 12 Paesi tra cui l’Italia e persegue il principale intento di promuovere un rinnovamento nelle concezioni e nelle pratiche di insegnanti di matematica e scienze avvicinandoli all’approccio inquirybased. La letteratura che abbiamo preso in esame sottolinea inoltre che la predisposizione di un ambiente di apprendimento partecipativo e collaborativo, in cui gli insegnanti possano sperimentare in prima persona il metodo inquirybased attraverso un coinvolgimento attivo e diretto in attività didattiche simili a quelle che potranno poi proporre ai propri studenti, costituisce un fattore di importanza centrale per la realizzazione di percorsi di formazione e sviluppo professionale che siano percepiti dagli insegnanti come realmente utili ed efficaci (ad es. Capps, Crawford e Constas, 2012; Kazempour, 2009; Kazempour e Amirshokoohi, 2014; Powell-Moman e Brown-Schild, 2011). Da questo punto di vista, è indubbio che l’innovatività del percorso formativo su cui si incentra il presente contributo può essere individuata non solo nel contenuto/oggetto del percorso stesso – ovvero nella proposta dell’IBL come approccio volto a promuovere prassi didattiche più centrate sugli studenti e sulla costruzione attiva della conoscenza piuttosto che su una logica di tipo trasmissivo e riproduttivo – ma anche nelle modalità di formazione privilegiate per l’impostazione/conduzione delle attività svolte in aula con gli insegnanti partecipanti: la coerenza tra il cosa, ovvero i principi posti alla base dell’approccio didattico proposto, e il come, ovvero le modalità adottate per promuoverne la comprensione da parte degli insegnanti rappresenta infatti, a nostro avviso, l’aspetto più qualificante e innovativo del percorso su cui abbiamo scelto di focalizzare l’attenzione. Per le ragioni descritte, gli obiettivi di fondo che hanno guidato il nostro lavoro di ricerca hanno mirato non solo a rilevare le percezioni degli insegnanti in merito alle potenzialità insite nell’approccio IBL per un rinnovamento della didattica in classe, ma anche i loro punti di vista circa le modalità privilegiate nell’ambito del percorso formativo in oggetto per avvicinare i docenti partecipanti ai principi teo-

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rici e applicativi alla base dell’IBL. Gli obiettivi perseguiti da tale percorso, frequentato da 308 docenti e denominato Insegnare la scienza oggi in un’ottica trasversale, hanno infatti mirato a porre al centro del processo di insegnamento/ apprendimento il metodo scientifico e il fare laboratorio, valorizzando inoltre un approccio interdisciplinare all’educazione scientifica e linguistica e dunque la collaborazione tra insegnanti anche di discipline diverse. L’articolazione del modulo in tre incontri ha previsto, dopo una lezione iniziale della durata di 3 ore volta a delineare alcuni temi e concetti introduttivi ai successivi incontri (un inquadramento sull’IBL e sui “nuovi” metodi didattici oltre che sulla trasversalità del metodo scientifico), la partecipazione a due laboratori – uno di scienze della durata di 3 ore e mezza e uno di italiano della durata di 3 ore – entrambi rivolti a docenti di ogni ordine e grado sia di area scientifica, sia di area umanistica2. Nel primo, denominato Il metodo scientifico e l’inquiry-based learning: il caso del laboratorio galenico, i partecipanti hanno potuto, attraverso la realizzazione di alcuni semplici esperimenti riproducibili in classe, sperimentare in prima persona l’approccio IBL e riflettere su di esso e sul metodo scientifico inteso come strumento di conoscenza universale. In particolare, rifacendosi ai principi della galenica – un’antica arte farmaceutica che si fonda sulla preparazione in laboratorio di medicinali e preparati officinali – i docenti hanno potuto, in un’area allestita come un laboratorio galenico, realizzare unguenti e altri preparati, soffermandosi sui principi chimico-fisici e biologici delle singole preparazioni e delineando collegamenti interdisciplinari (ad es. approfondendo gli aspetti di tipo etico e di comunicazione nonché quelli legati alla salute, all’igiene e alla prevenzione). Nel secondo, denominato L’italiano in laboratorio: la scrittura tecnico-scientifica a scuola, hanno invece sperimentato possibili percorsi e proposte di didattica della scrittura di tipo interdisciplinare, con un focus sulla scrittura di tipo tecnico-scientifico e dunque sulla connessione tra educazione scientifica e linguistica. Nello specifico, gli insegnanti di area scientifica e umanistica hanno svolto attività collaborative quali la realizzazione di poster scientifici collegati agli esperimenti realizzati nel precedente laboratorio, acquisendo in tal modo strumenti e strategie operative utili a lavorare in classe su aspetti quali i diversi modelli di scrittura o il rapporto tra struttura testuale ed efficacia di comprensione. Nell’economia di questo lavoro e sulla base degli obiettivi posti alla base dell’indagine, la presentazione dei risultati nel successivo paragrafo si sofferma su vari aspetti riguardanti le percezioni degli insegnanti rispetto al modulo formativo nel suo complesso, con alcuni affondi specifici su quanto emerso in relazione al laboratorio di scienze in cui i docenti, come sopra affermato, hanno conosciuto e sperimentato più da vicino l’approccio IBL. I dati su cui si basano le analisi e le interpretazioni proposte sono stati raccolti tramite un questionario di opinione rivolto ai corsisti, da noi costruito e somministrato in forma cartacea al termine dell’ultimo incontro laboratoriale in tutte le sue repliche. Si è scelto di avvalersi di uno strumento di tipo semi-strutturato che prevedesse anche la presenza di domande aperte affinché gli intervistati potessero esprimere in modo più libero ed esteso il proprio punto di vista o il motivo della scelta dell’alternativa indicata come risposta. Il questionario, costituito da 29 do-

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Data la natura dell’attività formativa laboratoriale e la numerosità degli insegnanti iscritti sono state previste, in entrambi i casi, varie repliche degli incontri alle quali hanno preso parte diversi gruppi di insegnanti.

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mande, si articola in 5 sezioni: caratteristiche socio-anagrafiche e aspetti connessi all’attività professionale; motivi dell’adesione alla proposta formativa; percezioni relative a contenuti e modalità del percorso (cosa e come hanno appreso) nonché all’utilità e applicabilità in classe di quanto proposto; soddisfazione complessiva per il percorso e per vari aspetti organizzativi e didattici; opinioni su pregi e criticità dell’esperienza formativa. Il tasso di restituzione è da ritenersi piuttosto elevato a dimostrazione, a nostro parere, dell’interesse suscitato nei corsisti da questa esperienza: hanno risposto 215 insegnanti su 308, che equivale al 70% del totale.

6. Le percezioni dei corsisti: principali risultati 6.1 Punti di vista su modalità ed esiti dell’apprendimento Come sopra affermato, l’obiettivo di fondo che ha guidato questo lavoro di ricerca è consistito nell’indagare i punti di vista degli insegnanti posti di fronte a un modulo formativo i cui aspetti qualificanti vertevano su modalità didattiche e contenuti inusuali e certo non in linea di continuità con offerte formative di tipo tradizionale. A proposito delle domande aperte circa i pregi del modulo la maggioranza ha espresso pareri positivi sulle modalità didattiche adottate nel percorso formativo considerato nel presente contributo. In particolare una parte di costoro ha percepito e apprezzato il fatto che le attività formative fossero curvate sulla collaborazione tra colleghi, tesa a un confronto anche tra ambiti disciplinari diversi, come si evince dagli esempi di seguito riportati: “É stata un’attività stimolante che ha favorito lo sviluppo della metodologia didattica interdisciplinare”; “La possibilità di sperimentare e la collaborazione tra più discipline”; “Il confronto fra docenti di ambiti diversi”; “Al di là degli approfondimenti [il modulo] ha dimostrato che è possibile abbattere i limiti della disciplina”. Anche il tema della pratica laboratoriale come contesto che favorisce l’apprendimento hands-on, insieme alla competenza di chi ha concretamente dato forma a tale principio, viene annoverato tra i punti di forza dell’esperienza formativa come testimoniano ad esempio le seguenti affermazioni: “Originalità dell’approccio. Qualità degli interventi”, “Competenza dei relatori ed operatori, approfondimento dei contenuti”; “Conoscere meglio il metodo IBL”; “Attività laboratoriale/sperimentazione attiva”. Risulta inoltre interessante compiere una lettura complessiva di questi orientamenti alla luce delle risposte circa i motivi che hanno indotto i partecipanti a iscriversi al percorso formativo in oggetto: il più indicato (36,7%) è risultato essere proprio “Il desiderio di cambiare il mio approccio didattico”, segno a nostro parere della presenza, sin dall’inizio, di una predisposizione positiva nei confronti di proposte didattiche innovative. Anche i dati quantitativi rafforzano questi risultati. Nella tabella 1, che riguarda in particolare il laboratorio di scienze svolto nell’ambito del modulo, si riportano le percezioni degli insegnanti rispetto a quanto le attività proposte abbiano contribuito a far raggiungere loro gli obiettivi formativi previsti. I valori percentuali osservati sommando le voci “abbastanza” e “molto” risultano, in tutti i casi ad eccezione di uno, superiori all’80% e, in alcuni casi, vicini al 90%: un’ampia maggioranza di insegnanti ritiene insomma che la modalità attraverso cui il laboratorio è stato svolto abbia favorito l’acquisizione di nuovi modelli didattici, strategie operative e strumenti di lavoro (cfr. item 2-7). Considerando poi il versante dei con-

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tenuti, si può mettere in evidenza come anche in questo caso una larga maggioranza di corsisti indichi che il laboratorio di scienze ha favorito l’acquisizione di nuove conoscenze (cfr. item 1 della tabella). !

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Tab. 1: Quanto ritiene che le attività proposte nel laboratorio di scienze abbiano contribuito a farle raggiungere i seguenti obiettivi? (%)

Un approfondimento delle analisi condotto disaggregando i dati sulla base di variabili indipendenti quali età, anzianità di servizio, grado scolastico in cui si insegna e livello di istruzione, ha portato a mettere in luce come, in relazione ad alcuni obiettivi, le percezioni rilevate varino significativamente. Gli insegnanti sotto i 50 anni mostrano percezioni più positive rispetto all’acquisizione di nuovi modelli didattici: hanno infatti scelto l’alternativa “molto” nel 35,6% dei casi, contro il 24,7% degli insegnanti con 50 o più anni; di contro, hanno scelto l’alternativa “poco” il 9,6% degli insegnanti sotto i 50 anni e il 17,6% degli insegnanti più maturi (p<0,05). Anche rispetto all’item relativo all’acquisizione di nuove strategie operative è risultato significativo l’incrocio con l’età dei rispondenti (p<0,005), che mostra un andamento simile a quello precedentemente osservato: la quota di coloro che indicano che il laboratorio di scienze ha contribuito “poco” a far raggiungere tale obiettivo è più elevata nel gruppo di insegnanti più maturi (15,2% contro 5,8%), mentre la quota di coloro che indicano l’alternativa “molto” è più elevata per il gruppo degli insegnanti sotto i 50 anni (38,8% contro 21,2%). Significativo è anche l’incrocio tra percezione dell’efficacia del laboratorio rispetto all’acquisizione di nuovi strumenti utili per il lavoro in classe ed età: dalla somma delle voci “abbastanza” e “molto” si può ricavare che, pur in un quadro generale di percezione di elevata efficacia rispetto all’obiettivo, gli insegnanti sotto i 50 anni mostrano una percentuale complessivamente più alta (87,5% contro 80,3%) (p<0,005). Le percezioni relative alla trasformazione degli atteggiamenti verso la disciplina insegnata suggeriscono, infine, che gli insegnanti sotto i 50 anni sono più disponibili a mettere in discussione il loro punto di vista al riguardo, aprendosi alle sollecitazioni offerte dal percorso formativo frequentato: la somma delle voci “abbastanza” e “molto”, infatti, mette in evidenza che essi danno risposte complessivamente più positive rispetto ai colleghi più maturi (77,6% contro 63,2%). Rispetto alla suddivisione del campione in base all’anzianità di servizio emerge che il laboratorio viene percepito più utile dagli insegnanti con meno anni di espe-

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rienza in termini di acquisizione di nuove strategie operative. Considerando la voce “molto” si va dal 52,8% per gli insegnanti che contano 10 anni o meno di servizio al 22,2% tra quelli con più di 30 anni di esperienza, passando per una scala di valori via via decrescente (p<0,005). In sintesi si può affermare che le opinioni espresse in relazione agli apprendimenti che gli insegnanti pensano di aver acquisito dal percorso formativo sembrerebbero, in generale, più positive per quelli sotto i 50 anni e con meno esperienza, mentre gli insegnanti più maturi e con più anni di esperienza sembrano avere un atteggiamento più cauto e meno entusiastico; ciò potrebbe essere interpretato come l’espressione di un ancoraggio più forte a pratiche consolidate nel tempo. L’andamento riscontrato non è in contrasto con quanto messo in evidenza in letteratura: gli insegnanti con maggiore età anagrafica ed esperienza professionale tendono ad essere più legati a un approccio didattico di tipo tradizionale e sembrano meno propensi alla messa in discussione e al cambiamento delle proprie convinzioni e prassi (per esempio Colburn, 2000; Costenson & Lawson 1986). Tuttavia, sulle differenze riscontrate in base a tali variabili, possono a nostro avviso aver esercitato un peso anche altri fattori, come ad esempio un atteggiamento generalmente più critico (caratteristico degli insegnanti con maggiore esperienza) nei confronti delle proposte formative che intenderebbero offrir loro sempre nuovi spunti teorici e pratici o, ancora, una maggiore consapevolezza in chi insegna a scuola da diversi anni del fatto che la realizzazione di alcune proposte operative desunte dalla formazione in servizio si scontra con la scarsità delle risorse disponibili e utilizzabili nel contesto scolastico. Ulteriori differenze significative sono emerse in relazione alla variabile relativa all’ordine scolastico in cui gli intervistati insegnavano al momento della rilevazione3. È stata condotta un’analisi della varianza tramite ANOVA finalizzata a verificare la significatività delle differenze tra le medie riferite ai punti di vista dei sottogruppi di insegnanti, suddivisi in base a questa variabile categoriale4, rispetto agli item del questionario relativi al tema dell’inquiry-based learning. Un primo gruppo di item, misurati tramite scala Likert a 4 punti, si riferisce al grado di raggiungimento da parte dei partecipanti degli obiettivi sottesi al laboratorio di scienze ed è presentato nella tabella 2. ,-./01%"#%&& 1#&63&4"%1/& '(&*7+& 6A7*&

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Tab. 2: Differenze significative tra medie in base all’ordine scolastico di appartenenza (laboratorio di scienze)

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Nei gruppi di insegnanti così suddivisi è stata controllata la differenza delle medie rispetto all’età: ne è emerso che non ci sono differenze significative tra i gruppi rispetto a tale variabile. Dall’analisi sono stati esclusi gli insegnanti di scuola dell’infanzia poiché presenti in numero esiguo.

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Come si può osservare, le opinioni espresse dagli insegnanti di scuola primaria risultano significativamente più positive e con il crescere dell’ordine scolastico le medie tendono ad abbassarsi. Nello specifico, gli intervistati che insegnano negli ordini scolastici inferiori hanno dato risposte mediamente più positive rispetto a quanto hanno appreso durante il laboratorio di scienze in termini di contenuti, strumenti didattici, competenze professionali nonché di cambiamento dell’atteggiamento nei riguardi della disciplina insegnata. In generale, sembra dunque emergere un atteggiamento di maggiore curiosità verso l’approccio inquiry-based learning negli ordini scolastici più bassi e in particolare nella scuola primaria, dove l’approccio didattico basato sulla logica dell’indagine scientifica è meno diffuso e conosciuto, come riscontrato anche in letteratura (Bhattacharya, Volk & Lump, 2009; Colburn, 2000; Deboer, 2004; Kim & Fortner, 2007; Krajcik, Mamlok & Hug, 2000; Krajcik et al., 2000; Ramnarain, 2014). Un secondo gruppo di item – sempre misurato tramite scala Likert a 4 punti – rispetto al quale sono state registrate differenze significative tra le medie aveva l’obiettivo di indagare in che misura, a parere degli intervistati, le finalità generali del modulo formativo nel suo complesso fossero state raggiunte (cfr. tab. 3).

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Tab. 3: Differenze significative tra medie in base all’ordine scolastico di appartenenza (intero modulo)

Quanto rilevato nello specifico per il laboratorio di scienze può essere in sostanza esteso all’intero modulo formativo: anche in relazione a questo secondo gruppo di item, infatti, le percezioni più positive si registrano negli ordini scolastici più bassi. Sono state sottoposte ad analisi della varianza tramite ANOVA anche le differenze tra le medie dei gruppi di insegnanti suddivisi per livello di istruzione: differenze significative sono state riscontrate solo in merito al grado in cui essi hanno percepito di avere acquisito nuove conoscenze durante il laboratorio di scienze. I valori della variabile dipendente, misurata tramite scala Likert a 4 punti, mostrano una relazione di tipo inverso tra le due variabili considerate poiché, come si poteva prevedere, la media si abbassa con l’innalzarsi del titolo di studio: la media dei diplomati (il 24,9% del campione) è pari a 3,37, quella dei laureati (il 58,5% del campione) a 3,09, mentre quella di coloro che sono in possesso di titoli di studio superiori alla laurea (16,6% del campione) è di 2,79 (il valore di F è pari a 7,671 con p = 0,001). Questo risultato trova riscontro, anche se in parte, in ciò che emerge dalla letteratura nella misura in cui la preparazione dei docenti rispetto alle discipline scientifiche e le esperienze dirette di didattica inquiry-based paiono limitate e, di conseguenza, le proposte formative di questo tipo pongono spesso gli insegnanti di fronte a percorsi apprenditivi per loro nuovi (Colburn, 2000; Dresner & Stravel, 2004). Pur nel quadro complessivamente positivo che si evince dai dati analizzati, trovano espressione anche alcune proposte migliorative riguardanti le modalità di

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realizzazione del modulo. Alcuni corsisti hanno infatti indicato che sarebbe stato preferibile un maggior numero di incontri, poiché durante il modulo non è stato loro possibile sviluppare in maniera adeguata le attività proposte (ad esempio: “Il tempo che a volte, essendo serrato, non consente di approfondire adeguatamente il lavoro di riflessione”, “Poco tempo per realizzare le attività”, “La brevità”). Questo aspetto ricalca problematiche già evidenziate in letteratura rispetto all’inquiry-based learning: da un lato questo approccio sembra richiedere tempi lunghi per la realizzazione delle attività (Bhattacharya, Volk & Lump, 2009; Costenson & Lawson, 1986; Jaworski, 2010; Sikko, Lyngved & Pepin, 2012; Tobin & McRobbie, 1996), tanto che anche in riferimento al corso di formazione in esame vi è stata la percezione da parte di alcuni insegnanti della necessità di dilatarne i tempi per far sì che le attività previste potessero essere sviluppate e approfondite adeguatamente; dall’altro la realizzazione di attività simili dovrebbe essere sempre supportata da un complesso di risorse e attrezzature non sempre disponibili a scuola (e a volte, a parere di alcuni, nemmeno nelle aule dove si è svolta la formazione) e questo ha una ricaduta in termini negativi sulla percezione di applicabilità in classe di quanto appreso, come esplicitato anche nel paragrafo successivo. 6.2 Punti di vista sulle potenzialità di trasferimento/applicazione in classe delle attività proposte e dell’approccio inquiry-based Se l’approccio didattico e i contenuti proposti sono stati nel complesso percepiti positivamente dagli insegnanti partecipanti al percorso formativo, rispetto alla trasferibilità e applicabilità in classe di quanto appreso emergono luci e ombre e posizioni più differenziate. Quando l’interrogativo è stato posto rispetto all’approccio inquiry-based nel suo complesso (“Il modulo favorirà l’inquiry-based learning in classe?”) la percentuale di risposte affermative è risultata elevata (88,1%); una volta entrati nel merito della possibilità di applicare in classe le proposte didattiche presentate, invece, il 53,3% dei docenti ha risposto “Sì, ma con difficoltà”, circa un terzo (36,0 %) si è mostrato del tutto ottimista e il 10,7% ha dato invece una risposta negativa. Agli insegnanti che hanno scelto le prime due alternative di risposta (in totale l’89,3% dei 214 soggetti rispondenti alla domanda) è stato inoltre chiesto di specificare, mediante una domanda aperta alla quale hanno risposto 152 soggetti, in che termini ritenessero di poter applicare quanto appreso. Tramite analisi e successiva codifica le risposte dei docenti sono state ricondotte alle cinque categorie presentate brevemente di seguito, insieme ad alcune affermazioni finalizzate ad esemplificarle. Le prime due categorie, su cui vertono le risposte di ben 78 docenti, sono entrambe incentrate sulla riproposizione in classe delle attività di tipo inquiry-based illustrate nel laboratorio; ciò che differenzia l’una dall’altra è che in un caso (40 docenti) si ritiene che le attività proposte siano riproducibili tali e quali (ad es. “L’attività può essere tranquillamente riproposta in classe nella sua interezza”; “Credo che si possa ripetere allo stesso modo”), mentre nell’altro (38 docenti) soltanto in parte e/o con specifici adattamenti in termini di materiali utilizzati, contenuti proposti, modalità organizzative (ad es. “In termini più semplici e con attività più vicine alle loro esperienze”; “Attività di piccolo gruppo, utilizzando materiali di facile reperibilità”; “Riducendo e semplificando i contenuti”; “Con l’intervento di altri colleghi per poter dividere in gruppi la classe”). La terza categoria, su cui vertono le affermazioni di 29 docenti, è invece relativa alle risposte inclini non tanto alla riproposizione di specifiche attività uguali o si-

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mili a quelle svolte nel laboratorio, quanto piuttosto – e più in generale – all’applicazione in classe dell’approccio metodologico-didattico proposto: “La metodologia presentata può essere applicata ad altre attività che svolgo piuttosto che l’attività di laboratorio in sé”; “Come spunto per il metodo didattico da seguire”; “Nell’approccio metodologico”; “Nel metodo di co-costruzione”; “Applicando la metodologia didattica appresa (IBL) più che il singolo esperimento”; “Approccio metodologico e lavoro di gruppo”; “Come strategia metodologica e operativa di ricerca”; “Come metodologia didattica”. La quarta categoria comprende 13 risposte focalizzate sulla possibilità di lavorare in un’ottica interdisciplinare, in cui cioè la possibilità di applicare a scuola le attività proposte nel laboratorio viene specificamente legata alla necessità di una collaborazione/compresenza con colleghi anche di altre discipline:“La collaborazione e progettazione con la collega di altra materia è fondamentale”; “Optando per una compresenza italiano-scienze-matematica organizzando l’orario in maniera più flessibile”; “Organizzando alcune gratuite compresenze con le colleghe di scienze”. La quinta categoria, infine, comprende 38 risposte che sottolineano le difficoltà organizzative (in termini di tempi, spazi e risorse) connesse all’applicazione a scuola delle attività proposte nel laboratorio: “Ho poche ore e programmi troppo vasti”; “Con difficoltà a causa del numero elevato degli alunni”; “La mancanza di spazi e le classi numerose, accompagnate dalla mancanza di materiali, costituiscono un ostacolo di non facile attuazione di diversi esperimenti”; “La difficoltà consiste nella mancanza di un laboratorio e delle attrezzature necessarie”. A queste considerazioni si possono aggiungere anche quelle ricavate dall’interrogativo posto agli intervistati circa i punti di criticità riscontrati rispetto al modulo formativo: un gruppo di 19 intervistati ha fatto riferimento alla problematicità dell’applicabilità in classe delle proposte avanzate in riferimento soprattutto alle scarse risorse e attrezzature di cui le scuole dispongono, ma anche alla numerosità delle classi: “Trovare soluzioni per attuare gli esperimenti in un ambiente-classe privo di strumenti e di spazi giusti e numero giusto di partecipanti”; “Il fatto di proporre attività che possono essere ben praticate in laboratori esterni alla scuola, ma che possono incontrare difficoltà realizzative nella scuola pubblica attuale”; “Non si tiene conto del fatto che a scuola le classi comprendono dai 25 ai 30 alunni con un unico insegnante e tempi ridotti”. In sintesi, ci sembra interessante osservare che la maggior parte delle risposte (quelle incluse nelle prime due categorie) suggerisce l’impressione di un’interpretazione riduttiva dell’approccio IBL, ovvero di un’applicabilità pensata più in termini di riproduzione in classe delle attività proposte dal percorso formativo, che talvolta sembra assumere carattere episodico (ad es. “Quanto appreso può essere utilizzato in un’attività sperimentale da proporre in classe una volta all’anno”); vi è però un gruppo meno numeroso di insegnanti le cui risposte (rientranti nella terza categoria) suggeriscono invece una visione più trasversale dell’approccio didattico proposto e delle potenzialità che esso offre per un rinnovamento della didattica. Degno di nota, infine, è il numero piuttosto elevato di docenti che insiste sulle difficoltà di applicazione connesse a caratteristiche strutturali del contesto scolastico, aspetto che emerge chiaramente anche dalla letteratura presa in esame nella prima parte del contributo. Esiti e conclusioni in parte simili emergono dalla domanda aperta che chiedeva ai docenti di specificare i motivi della risposta alla domanda chiusa “Secondo Lei questo modulo favorirà l’inquiry-based learning nella/e sua/e classe/i?” (citata ad inizio paragrafo). L’analisi e la codifica delle 152 risposte a tale domanda aperta hanno permesso di individuare le categorie illustrate e brevemente esemplificate di seguito.

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La prima categoria, inerente le ricadute dell’approccio IBL sull’insegnamento e sulla didattica in classe, è stata a sua volta articolata in 3 sotto-categorie. Una, che comprende 26 risposte, verte sulla conferma/consolidamento di conoscenze, convinzioni e prassi precedenti (ad es. “Già lavoro in quella direzione e ora ne sono ancora più convinta”; “Io e la mia collega utilizziamo già un metodo induttivo-deduttivo fondato sulla ricerca personale a partire da domande-stimolo e questo metodo potrebbe amplificare le modalità di utilizzo favorendo una maggiore interdisciplinarità”; “Pur conoscendo il metodo IBL ho avuto nuove idee”; “Ha confermato e rafforzato le modalità di lavoro già in atto”; “L’IBL che già utilizzavo in parte è sviluppabile in modo migliore con i suggerimenti ricevuti in questo corso”; “Lo uso già, ora lo userò con maggiore consapevolezza”; “Ne sono venuta a conoscenza in modo più approfondito”): tali risposte sembrano dunque rivelare che una parte dei docenti partecipanti al corso già conosceva l’approccio didattico proposto o utilizzava, in maniera più o meno consapevole, prassi ispirate ai suoi principi. L’altra sotto-categoria, in cui rientrano 22 risposte, si focalizza sull’offerta di spunti per nuove attività didattiche da proporre in classe (riproducendo o meno quelle svolte durante il corso): “Sì, mi ha dato spunti per attivare alcuni percorsi”; “Posso riproporre le esperienze di laboratorio”; “Perché cercherò occasioni per fare semplici laboratori di fisica in classe”; “Li applicherò all’interno della mia disciplina o per lavori di gruppo o per classi aperte”; “Affrontando alcuni esperimenti in laboratorio, facendo dei lavori di gruppo, ma anche attraverso uscite didattiche di tipo scientifico”. L’ultima sotto-categoria, che include 34 risposte, verte invece sull’offerta di un approccio metodologico-didattico innovativo, non confinato allo svolgimento di specifiche attività e in qualche modo legato a un ripensamento più generale del proprio modo di vedere l’insegnamento e di fare didattica: “Sì perché mi ha consentito di aprirmi a una nuova strategia che non conoscevo e che si può proporre fattivamente in classe”; “É un ‘nuovo’ metodo didattico applicabile a diverse unità didattiche e che favorisce l’approccio interdisciplinare”; “Perché propone una visione più ‘allargata’ dell’insegnamento”; “Come approccio complessivo/metodologico al sapere-lavoro didattico”; “Favorisce la modificazione dell’impostazione metodologica di presentazione delle diverse attività”; “Sento in modo molto forte la necessità di applicare nuove metodologie; una didattica esclusivamente tradizionale non premia e i problemi di comportamento si accentuano”; “Ha favorito una modifica nell’atteggiamento e nell’acquisizione di nuove strategie”. Richiamando quanto già emerso e sottolineato in relazione all’analisi della precedente domanda aperta, solo una minoranza dei docenti intervistati evidenzia dunque che il corso ha rappresentato l’occasione per una messa in discussione e un ampliamento delle proprie convinzioni e prassi tradizionali. Una riflessione sulle potenzialità innovative dell’approccio proposto emerge tuttavia, in questo caso, anche dalle 41 risposte ricondotte alla seconda categoria di analisi, che include però affermazioni in cui l’accento viene posto, piuttosto che sul versante dell’insegnamento, su quello dell’apprendimento degli allievi: “Questo tipo di attività permette agli alunni di essere più partecipi nel percorso di apprendimento”; “Perché coinvolge gli alunni e permette di apprendere in maniera coinvolgente quindi più significativa”; “Perché stimola la curiosità e il desiderio di apprendere e crea una più forte motivazione”; “Poiché può stimolare i ragazzi a porre e porsi domande”; “Far riflettere i ragazzi sulle procedure senza fornirle prima in maniera precostruita”; “É un metodo efficace per attivare la collaborazione dei ragazzi, la loro creatività, la pratica del metodo scientifico”; “I ragazzi si confrontano, apportando loro contributi personali, arrivano a conclusioni attraverso osservazioni ed esperienze”; “Sotto gli opportuni stimoli la classe potrebbe seriamente acquisire un nuovo modo di apprendere”.

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La terza categoria comprende 12 risposte specificamente incentrate sulla possibilità, valorizzata dal corso e dall’approccio proposto, di lavorare in ottica interdisciplinare:“Maggiore interazione tra i docenti di lettere-scienze-matematica”; “Lo farei solo se sarà possibile attuare percorsi interdisciplinari in collaborazione con altri colleghi”; “Confronto e nuove visioni con i colleghi di altre discipline; comunione d’intenti nei confronti dei bimbi”. Nella quarta e ultima categoria, riguardante le difficoltà di vario tipo individuate quali ostacoli alla trasposizione in classe dell’approccio IBL, oltre ai problemi organizzativi in termini di tempi e di risorse disponibili (indicati da 13 docenti) già emersi in relazione alla domanda aperta precedentemente analizzata, ritroviamo altri due aspetti. Da un lato, tre docenti sottolineano le difficoltà di innovazione della didattica in termini di supporto/collaborazione da parte dei colleghi (ad es. “Non so se riuscirò a svolgere la funzione di portavoce, ascoltata, presso i colleghi di scienze”); dall’altro lato, 8 docenti mettono invece in luce difficoltà legate alla natura stessa del modulo formativo frequentato, che richiamano le criticità evidenziate in proposito nel precedente paragrafo.

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7. Riflessioni conclusive L’interpretazione dei dati emersi da questo studio empirico porta a concludere che i punti di vista espressi dai docenti che hanno preso parte al modulo formativo considerato appaiono, nel complesso, positivi: ne sono stati infatti rimarcati pregi quali l’innovatività, l’interdisciplinarità, l’interesse delle metodologie didattiche proposte, lo sforzo di coinvolgerli in prima persona mediante un approccio attivo e collaborativo. Anche le percezioni relative al grado di raggiungimento degli obiettivi formativi previsti evidenziano, nonostante la breve durata del percorso in esame, un quadro sostanzialmente positivo. Tali risultati sembrano sottendere l’esigenza, per gli insegnanti, di formarsi e aggiornarsi per rinnovare la propria didattica e dunque l’apprezzamento per percorsi formativi che, come quello considerato, si propongano di offrire loro nuovi spunti teorici e pratici in tal senso; essi avvalorano inoltre – in linea con quanto emerge dalla letteratura presa in esame – la scelta effettuata nell’ambito del modulo di privilegiare la sperimentazione diretta, piuttosto che la trattazione teorica, del metodo IBL. L’analisi delle risposte aperte fornite dagli insegnanti, tuttavia, ha fatto emergere anche alcuni elementi di criticità. Da un lato, essi risultano connessi a caratteristiche strutturali del percorso di formazione: vari insegnanti partecipanti hanno ad esempio rilevato come un percorso della durata loro proposta sia insufficiente a sviluppare e approfondire adeguatamente le attività svolte e la riflessione su di esse, aspetto che a nostro avviso trova riscontro nel modo in cui la maggior parte dei docenti prefigura le sue ricadute sulla didattica in classe con particolare riferimento all’applicazione dell’approccio IBL. Solo in pochi casi, infatti, esso sembra essere interpretato quale opportunità e strumento per un processo di ripensamento/ampliamento delle proprie concezioni e prassi tradizionali. Dall’altro lato emerge quanto, sul piano pratico e operativo, sia avvertito dagli insegnanti che il contesto in cui quotidianamente operano non è adeguato a sostenere i propri sforzi di innovazione della didattica, inducendo a chiedersi quanto le percezioni positive rilevate al termine del percorso formativo in termini di apprendimenti derivanti dall’esperienza e di potenzialità insite nell’approccio IBL possano poi portare, nella pratica, all’effettiva messa in atto di nuove modalità di impostazione e gestione dell’attività didattica. A questo proposito, inoltre, non si

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può prescindere dal fatto che la rilevazione dei punti di vista dei docenti al termine del percorso formativo qui considerato rappresenta soltanto un tassello di un più ampio spettro di informazioni necessarie per poterne comprendere più a fondo le ricadute. In particolare, come sottolineano ad esempio Capps, Crawford e Constas (2012), ci sembra che le principali prospettive di ricerca da perseguire consistano nel considerare da un lato l’effettivo impatto a lungo termine della formazione sui comportamenti e sulle prassi degli insegnanti, dall’altro il suo impatto indiretto su atteggiamenti e apprendimenti degli studenti. L’importanza di adottare una prospettiva a lungo termine può essere ricondotta ad almeno due aspetti: innanzitutto, come dimostrano ad esempio i risultati delle ricerche di Blanchard, Southerland e Granger (2009) e Wee et al. (2007), il cambiamento delle prassi didattiche mediante la trasposizione in classe dell’approccio inquiry-based è un processo complesso, che richiede tempo, che non è scontato e automatico nemmeno per i docenti che, in seguito alla formazione ricevuta, dichiarino di aver effettivamente modificato le proprie concezioni e di essere intenzionati e motivati a innovare il proprio insegnamento; in secondo luogo, pur essendo importante e necessario, lo sviluppo professionale da solo non basta: sulla concreta applicazione di quanto appreso influisce infatti un insieme di fattori e condizioni contestuali che possono porsi quali ostacoli al cambiamento. A questo proposito, in conclusione del contributo e sulla scorta dei punti di vista espressi dai partecipanti al percorso qui considerato, proponiamo alcune riflessioni circa le implicazioni dei risultati presentati per la progettazione di iniziative di formazione in servizio rivolte ai docenti e finalizzate a promuovere, come quella in oggetto, un rinnovamento della didattica tradizionale attraverso la proposta di approcci e metodi innovativi. Una prima considerazione è relativa all’opportunità, sottolineata anche in letteratura (ad es. Capps, Crawford e Constas, 2012; Kazempour, 2009), di non “lasciare soli” i docenti nel momento in cui, dopo la conclusione del percorso formativo, tornano a scuola e si sforzano di tradurre quanto appreso nella propria classe, offrendo loro un supporto continuo attraverso iniziative di vario tipo (ad es. incontri di follow-up a distanza di tempo dalla conclusione del percorso, incontri individuali con il docente/tutor del corso, creazione di comunità virtuali di confronto e discussione). Una seconda sollecitazione, anche questa riscontrata in letteratura (ad es. Kazempour, 2009; Oberg, 2007; Pea, 2012), va invece nella direzione di offrire ai docenti che lavorano insieme anche l’opportunità di imparare insieme, coinvolgendo cioè nei percorsi di formazione in servizio gruppi di colleghi provenienti dal medesimo istituto: in tal modo essi avranno più occasioni di confronto e di supporto reciproco, di collaborazione mediante attività e progetti condivisi e, in definitiva, più possibilità di incidere sul cambiamento effettivo delle prassi didattiche nella propria classe e nella propria scuola.

Riferimenti bibliografici Bhattacharya S., Volk T., & Lump A. (2009). The influence of an extensive inquiry-based field experience on pre-service elementary student teachers’ science teaching beliefs. Journal of Teacher Education, 20(3), pp. 199-218. Blanchard M.R., Southerland S.A., & Granger E.M. (2009). No silver bullet for inquiry: making sense of teacher change following an inquiry-based research experience for teachers. Science Education, 93(2), pp. 322-360. Briggs M., Long G., & Owens K. (2011). Qualitative assessment of inquiry-based teaching methods. Journal of Chemical Education, 88(8), pp. 1034-1040.

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Valutare e finanziare la ricerca universitaria: un confronto tra atenei in Italia, Francia, Germania e Spagna

Silvia Zanazzi • Sapienza-Università di Roma - silvia.zanazzi@uniroma1.it

Evaluating and financing research: a comparison among universities in Italy, France, Germany and Spain

This work focuses on evaluating and financing university research, a theme in the foreground in the public policy agendas of most European countries, through the analysis of four national contexts: Italy, France, Spain and Germany, whose university systems are mainly public and publicly financed. The study is articulated in two level of analysis. At the macro level, a survey has been administered to collect the opinions of the academic world in the four countries on crucial issues concerning funding and evaluating university research. At the micro level, the project analyses five public universities, in order to explain the factors that favor, in each of them, the production of excellent results in research. The case studies show that some crucial factors, such as the availability of economic resources and the characteristics of the urban and national contexts, are so different to render unsound any comparison of results that doesn’t take into consideration such uneven starting points. On the other hand, the study shows that, even in difficult times, universities are able to implement internal policies, such as well-structured research evaluation systems, that act as “favorable winds” facilitating their navigation towards the desired shores.

Parole chiave: Valutazione; finanziamento; ricer-

Keywords: Evaluation; financing; research; university; context; public policy.

ca; università; contesto; politiche pubbliche

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Il contributo intende fornire spunti di riflessione sul legame esistente tra valutazione, finanziamento e qualità della ricerca prodotta dalle istituzioni accademiche. Le considerazioni si basano su uno studio di caso comparativo, articolato in due livelli di analisi. Al livello macro sono state raccolte le opinioni del mondo accademico in Italia, Francia, Spagna e Germania rispetto a temi cruciali riguardanti la valutazione e il finanziamento della ricerca universitaria. Al livello micro sono stati scelti cinque Atenei che godono di grande prestigio a livello internazionale per i risultati ottenuti nella ricerca, con l’obiettivo di realizzare uno studio approfondito delle modalità di valutazione e distribuzione interna delle risorse per la ricerca. Il lavoro ha messo in luce l’importanza di condizioni che fanno da sfondo al lavoro dei ricercatori e che ne influenzano pesantemente, anche se in modo indiretto, i risultati. Attraverso un confronto tra realtà profondamente diverse, si mostra come qualsiasi valutazione che non tenga in considerazione le condizioni di contesto sia inutile e controproducente. Mentre gli Atenei e i singoli ricercatori possono agire più o meno efficacemente nell’ambito di spazi di manovra limitati, per migliorare i risultati della ricerca universitaria è imprescindibile un intervento in termini di politiche pubbliche che valorizzi la ricerca, a partire da un più adeguato investimento economico.


Valutare e finanziare la ricerca universitaria: un confronto tra atenei in Italia, Francia, Germania e Spagna

Introduzione

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Recentemente il dibattito su università e ricerca in Italia si è focalizzato principalmente attorno a due temi: la scarsità delle risorse a disposizione e i criteri con cui tali risorse vengono distribuite (Baccini, 2010; Bettoni, Checchi, Burgarella, 2009; Checchi, Rustichini, 2009; Checchi, Turri, 2011; Farinelli, 2009; Ichino, 2011; Luzzatto, 2011; Miccoli, Fabris, 2012; Regini, 2009; Regini, Moscati, Rostan 2010; Sylos Labini, Zapperi, 2010). La creazione di istituzioni preposte alla valutazione della ricerca e il conseguente sviluppo di tecniche ed indicatori rispondono alla necessità di reperire informazioni sulla qualità del lavoro svolto da ricercatori e istituzioni, al fine di distribuire le risorse a disposizione in base a criteri di efficienza e merito. Il nostro sistema universitario sta attraversando una delicata fase di transizione. La riforma disegnata a partire dalle leggi Brunetta (D.Lgs. 150/2009) e Gelmini (240/2010) sta incidendo profondamente sugli Atenei, chiamati ad una maggiore semplificazione, efficienza, efficacia, trasparenza ed accessibilità delle informazioni. In un contesto di crisi economica e di contrazione della spesa pubblica, accanto alla progressiva riduzione, anno dopo anno, del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) destinato alle università, si è affermato il principio della “distribuzione meritocratica delle risorse”. A questo proposito, la legge 1/2009 stabilisce che una quota non inferiore al 7% del FFO sia ripartita in base a criteri di misurazione dei risultati: qualità dell’offerta formativa, risultati dei processi formativi, qualità della ricerca scientifica, qualità, efficacia ed efficienza delle sedi didattiche1. La costituzione dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR)2 rappresenta, quindi, la volontà di creare un sistema nazionale condiviso di valutazione della qualità della didattica e della ricerca universitaria. L’ANVUR, assorbendo le funzioni del Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca (CIVR, istituito nel 1998), e del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (CNVSU, istituito nel 1999) si caratterizza, quindi, come unica autorità centrale preposta alla valutazione esterna delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici. Essa sovraintende al sistema pubblico nazionale di valutazione della qualità delle università e degli enti di ricerca e, sulla base di un programma almeno annuale approvato dal Ministro, cura la valutazione esterna della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici; indirizza le attività di valutazione demandate ai nuclei di valutazione interna degli atenei e degli enti di ricerca; valuta l’efficienza e l’efficacia dei programmi pubblici di finanziamento e di incentivazione alle attività di ricerca e di innovazione3.

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Articolo 2, Legge 1/2009. L’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) è stata istituita con la legge 286/2006 (Art.2, cc.138-141) ed è regolata dal DPR 76/2010. Dal Regolamento ANVUR (DPR 76/2000)

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L’ANVUR ha avviato le sue attività nel gennaio 2012 e nel corso del medesimo anno ha lanciato il programma di Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) 2004-2010, progetto che terminerà nel corso del 2013 con la pubblicazione del rapporto dell’ANVUR. Per quanto attiene all’attività nell’ambito della valutazione dell’Università, le iniziative dell’Agenzia sono state scandite dal processo di attuazione della legge di riforma del sistema universitario4. A gennaio 2012 è stato infatti emanato il Decreto Legislativo 19/2012 che prevede la messa a punto da parte dell’ANVUR dei criteri e parametri di accreditamento e valutazione. Successivamente, nel mese di giugno è stato emanato il DM 76/2012 che disciplina le procedure per l’Abilitazione Scientifica Nazionale, destinata ad incidere in maniera significativa sulle procedure di reclutamento dei docenti. Da un lato, questi provvedimenti potrebbero rappresentare un concreto passo avanti nella costruzione di un sistema in cui la quota di fondi ottenuta da ciascuna università si basi sulla capacità di produrre ricerca e didattica di qualità. Vi sono, tuttavia, molte incertezze e dubbi. In particolare, in letteratura si denuncia: la mancanza di trasparenza sui meccanismi di allocazione e sulle loro determinanti (Checchi, Turri, 2011); l’inaridimento del dibattito e la sua riduzione a mera tecnica e questioni di budget (Farinelli, 2009); l’eccessiva burocratizzazione del sistema (Rebora, 2011; Baccini, 2013; Cassese, 2013); un’impostazione “autarchica” che manca di riferimenti al dibattito scientifico internazionale (Baccini, 2013; Ricciardi, 2013); l’incompetenza tecnica dei membri dell’ANVUR (Baccini, 2013; Banfi, De Nicolao, 2013); la tendenza ad un approccio ideologico, piuttosto che pragmatico, al problema della valutazione della ricerca (Banfi, De Nicolao, 2013; Baccini, 2010). La maggior parte degli esperti concorda, inoltre, sul fatto che in Italia esista un problema di generale sotto-finanziamento del sistema universitario e che un sistema di valutazione possa essere introdotto efficacemente solo in seguito ad un rinnovato impegno dello stato a supporto della ricerca (Miccoli, Fabris, 2012; Lucisano, 2012)5. Gli indicatori comparativi sui sistemi universitari europei mostrano, in generale, che mentre altri Paesi stanno compiendo sforzi significativi, pur in presenza di situazioni economiche congiunturali sfavorevoli, per investire nei loro sistemi di istruzione terziaria e ricerca, in Italia l’investimento rimane insufficiente e la classe politica sembra non comprendere che il sostegno all’università e alla ricerca è una delle vie principali per la ripresa economica6. Mentre esiste ampia letteratura sul finanziamento della ricerca universitaria in Italia e in Europa (Agagisti, Catalano, 2005; Aghion et al, 2010, 2008, 2007; Paba, 2009; Regini, 2009; Regini, Moscati, Rostan, 2010; Trombetti, Stanchi 2010; Turri, 2011), non vi sono al momento studi che si focalizzino sul collegamento tra la valutazione della qualità e la distribuzione delle risorse per la ricerca universitaria, né

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Legge n. 240/2010. Secondo gli autori citati, in assenza di un adeguato investimento, la valutazione potrebbe innescare un disastroso circolo vizioso, in cui la ricerca priva di risorse riceve una valutazione scarsa, che la priva ulteriormente di risorse. Secondo l’EUROSTAT nel 2009 la spesa totale in ricerca e sviluppo in percentuale del PIL è stata dell’1,26% in Italia, 1,39% in Spagna, 2,27 in Francia e 2,82% in Germania. La spesa totale comprende: spesa pubblica, spesa privata, spesa per la ricerca universitaria e non universitaria. In particolare, occorre sottolineare che Francia e Germania investono molte risorse pubbliche per i loro centri di ricerca non universitari, che collaborano con le università condividendo personale e attrezzature.

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studi in grado di offrire una panoramica del dibattito sul tema e delle sue varianti nazionali e culturali. Mancano, inoltre, lavori che raccolgano e sintetizzino le opinioni e le posizioni dei ricercatori. Infine, mentre si assiste ad una proliferazione di rankings nazionali ed internazionali per valutare la ricerca universitaria, non vi sono molti studi di caso che mettano a fuoco le realtà dei singoli Atenei, indagando a fondo le condizioni che portano al raggiungimento di risultati più o meno positivi. In un tale contesto, abbiamo ritenuto che un’analisi delle scelte relative a valutazione e finanziamento della ricerca in Italia, Francia, Germania e Spagna – Paesi che aderiscono al Processo di Bologna e che presentano sistemi universitari avanzati, di massa, a finanziamento prevalentemente pubblico – potesse fornire elementi utili allo sviluppo di un dibattito informato e costruttivo nel nostro Paese. Pur consapevoli dell’importanza fondamentale che la didattica riveste nell’ambito della missione universitaria, per ragioni di tempo e di risorse il progetto i cui risultati vengono presentati nel presente contributo si è focalizzato esclusivamente sulla valutazione della ricerca7. Abbiamo realizzato uno studio di caso comparativo, articolato in due livelli di analisi. Al livello macro, attraverso la somministrazione di un questionario ad un campione di ricercatori nei quattro Paesi oggetto di analisi, ci siamo posti l’obiettivo di analizzare le opinioni e posizioni del mondo accademico rispetto a temi cruciali riguardanti la valutazione e il finanziamento della ricerca universitaria. Al livello micro, abbiamo analizzato cinque Atenei (uno rispettivamente per Francia, Germania e Spagna, due per l’Italia), con l’obiettivo di realizzare uno studio approfondito delle modalità di valutazione e distribuzione interna delle risorse per la ricerca. Il nostro lavoro si sviluppa a partire da un interrogativo cruciale: che rapporto esiste tra sistema di valutazione, risorse investite e qualità della ricerca prodotta? Noi riteniamo che un sistema rigoroso e ben strutturato di valutazione della ricerca sia condizione necessaria, ma non sufficiente per produrre un innalzamento qualitativo e quantitativo della ricerca universitaria nel nostro Paese. Accanto a sistemi di distribuzione delle risorse basati sulla qualità, è imprescindibile un intervento in termini di politiche pubbliche che valorizzi la ricerca, a partire da un più adeguato investimento economico. I policy makers a livello nazionale, le istituzioni rappresentative del sistema universitario, nonché coloro che, nei singoli Atenei, presidiano le attività di valutazione della qualità della ricerca e distribuzione delle risorse, potrebbero trarre utili spunti dai risultati di questa indagine.

1. Le opinioni espresse dal mondo accademico internazionale L’indagine al livello macro, effettuata attraverso la somministrazione di un questionario8, è finalizzata, da un lato, a mettere in luce differenze nazionali di ap-

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Il progetto è stato svolto nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Pedagogia Sperimentale presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. È stata utilizzata una prova di atteggiamento su scala Likert a 6 gradi di accordo. Il questionario è stato somministrato ad un campione casuale stratificato di 1995 nomi. Si tratta di professori ordinari, associati e ricercatori che operano in Atenei distribuiti sul territorio dei 4 Paesi oggetto d’analisi.

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proccio ai temi della valutazione e finanziamento della ricerca, e dall’altro ad identificare dei punti fermi su cui il mondo accademico concorda nei quattro Paesi considerati e che non possono, pertanto, essere trascurati nel disegnare le politiche. Il questionario, i cui item vengono di seguito riportati, è stato costruito a partire dall’analisi della letteratura e da colloqui avuti con esperti della materia. 1.1 Item del questionario “Valutazione e finanziamento della ricerca” 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12) 13) 14) 15) 16) 17) 18) 19) 20) 21)

I risultati dalla ricerca sono un bene pubblico, per questo lo Stato deve finanziarne l’attività. Nel nostro Paese le risorse per la ricerca sono adeguate. È opportuno che le risorse economiche per la ricerca vengano concentrate sulle realtà/progetti d’eccellenza. La qualità della ricerca scientifica si può misurare oggettivamente con l’utilizzo di indicatori bibliometrici. I sistemi attualmente disponibili per valutare la ricerca non sono sufficientemente affidabili. Bisognerebbe aumentare gli investimenti in ricerca nelle aree più deboli del Paese. All’aumento dei sistemi di controllo corrisponde sempre un miglioramento della qualità della ricerca prodotta. La comunità scientifica da sola rischia non tenere conto delle priorità sociali a cui indirizzare la ricerca. Il collegamento diretto tra procedure di valutazione e finanziamento della ricerca può comportare gravi problemi per le istituzioni localizzate in aree povere o socialmente svantaggiate. Un ricercatore con 100 pubblicazioni su riviste sottoposte a referaggio merita più finanziamenti di un ricercatore con 10 pubblicazioni sulle medesime riviste. La standardizzazione dei criteri di valutazione rappresenta un grave pericolo per la ricerca. È giusto che i finanziamenti per la ricerca raggiungano solo una minoranza dei ricercatori, se i loro progetti sono stati valutati migliori. Non si possono valutare i prodotti della ricerca senza considerare le condizioni di lavoro e i mezzi messi a disposizione dei ricercatori. Il problema della ricerca nel nostro Paese è la gestione non ottimale delle risorse a disposizione. Efficacia ed efficienza della ricerca vanno di pari passo. Un sistema rigoroso e ben strutturato di valutazione della ricerca è necessario per produrre un innalzamento qualitativo della ricerca nel nostro Paese. La principale responsabilità dei limiti della ricerca nel nostro Paese è dello Stato, che non investe adeguatamente. Ho fiducia nel buon funzionamento di una comunità scientifica completamente autonoma ed auto-regolata. È opportuno ridurre i finanziamenti diffusi per la ricerca, a favore di quelli selettivi. La qualità della ricerca non si presta a misurazione. Non è sufficiente finanziare la ricerca eccellente in pochi centri, ma bisogna anche provvedere ad un finanziamento sufficiente della ricerca diffusa all’interno nelle università.

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22) Il collegamento tra valutazione e finanziamento della ricerca incentiva il miglioramento solo nelle aree che attirano maggiori risorse economiche. 23) È opportuno che lo Stato decida come distribuire i fondi per la ricerca ai gruppi/progetti che ritiene più coerenti con le sue finalità. 24) I condizionamenti imposti dalle procedure di valutazione limitano la libertà di ricerca prevista dalla Costituzione.

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Questa fase del lavoro ha generato l’ipotesi, verificata con la somministrazione del questionario stesso, che esistano tre principali “modelli di pensiero” nel mondo accademico, che esprimono a loro volta tre posizioni diverse sul tema in discussione9. Il primo modello di pensiero è stato definito efficientista10. I rappresentanti di questo modello ritengono che sia importante concentrare le risorse economiche disponibili per la ricerca, dirigendole prevalentemente verso i centri d’eccellenza. Di conseguenza, la valutazione è intesa come un processo con finalità selettive. L’università necessita di un sistema di incentivi e disincentivi in grado di dirigere le risorse dove c’è merito. Infine, dal punto di vista tecnico i sostenitori di questo pensiero generalmente approvano l’uso degli indicatori bibliometrici, ritenuti adatti a misurare quantità, qualità e impatto della ricerca. Il secondo modello di pensiero è stato definito democratico11. I rappresentanti di questo modello ritengono che concentrare le risorse economiche nei centri d’eccellenza comporti un grave rischio di impoverimento generale del sistema. La valutazione non è osteggiata in linea di principio, ma si ritiene che prima di valutare occorra creare le condizioni giuste per ottenere la qualità, in particolare garantendo un investimento adeguato. A questo proposito, l’intervento dello Stato è ritenuto essenziale per garantire la natura di bene pubblico della ricerca. L’obiettivo delle procedure di valutazione, secondo i democratici, non è tanto la selezione, quanto l’autovalutazione delle istituzioni e la conoscenza finalizzata ad un continuo miglioramento. Infine, i sostenitori di questo modello di pensiero non ritengono che gli indicatori quantitativi siano adatti a misurare quantità, qualità e impatto della ricerca. Il terzo modello di pensiero è stato definito scettico12. I rappresentanti di questo modello sono estremamente dubbiosi sulla possibilità di misurare la qualità della ricerca utilizzando criteri oggettivi. In particolare, essi sono fortemente contrari all’uso degli indicatori bibliometrici, che sarebbero addirittura finalizzati a de-responsabilizzare i decisori rispetto all’allocazione delle risorse. I sostenitori di questo modello temono fortemente gli effetti della valutazione sul comportamento degli individui, che tendono a dirigere le loro energie prevalentemente o quasi esclusivamente verso ciò che massimizza il loro risultato, tralasciando altre considerazioni.

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I nomi scelti per i modelli di pensiero hanno l’obiettivo di facilitare l’esposizione e non certo quello di etichettare rigidamente un pensiero che, invece, presenta molte sfumature e differenze. 10 Si vedano, a titolo di esempio, Perotti (2008) e Abramo, D’Angelo (2009). 11 Si vedano, a titolo di esempio, Sylos Labini (2012) e Modica (2012). 12 Si vedano, a titolo di esempio, Abelhauser, Gori, Sauret (2011) e Denozza (2011).

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1.2 Le differenze tra Paesi Abbiamo analizzato le risposte al questionario13 per rilevare la presenza dei tre modelli di pensiero precedentemente descritti nei quattro Paesi oggetto d’indagine14. In generale, è apparsa evidente una marcata tendenza allo “scetticismo” del mondo accademico francese e, seppur in misura minore, tedesco. Il modello efficientista, che si caratterizza in generale per una maggior fiducia nei confronti dei modelli esistenti di valutazione, prevale invece in Italia e Spagna. Potremmo ipotizzare che proprio nei Paesi in cui le pratiche di valutazione sono consolidate da più tempo (Francia e Germania) si stia sviluppando una forma di resistenza nel mondo accademico, che ne ha già sperimentato i risultati, non sempre percepiti come positivi. Al contrario, in Italia, dove il sistema di valutazione è in fase embrionale, tale resistenza ancora non si manifesta pienamente. In Spagna, la valutazione della ricerca è stata introdotta in linea di principio nel 1986 con l’istituzione dell’ANEP, che distribuisce fondi pubblici in base a valutazione di progetti. Il finanziamento ordinario delle università e quindi anche della ricerca spetta, tuttavia, alle Comunità Autonome, che solo recentemente e gradualmente hanno introdotto criteri premiali. Da considerare, inoltre, che la ricerca spagnola ha beneficiato, nel decennio 2000 – 2010, di politiche favorevoli, che hanno affiancato alla valutazione un serio investimento economico. Scendendo più nei dettagli dell’analisi, abbiamo rilevato alcune differenze nel modo in cui la comunità accademica dei quattro Paesi si rapporta ai temi in discussione. La prima differenza riguarda la distribuzione delle risorse per la ricerca. Italia e Spagna risultano molto più favorevoli alla “concentrazione” sull’eccellenza rispetto a Francia e Germania (Item 3). Nel caso della Francia, l’egualitarismo è molto forte all’interno del sistema universitario e questa posizione contraria alla concentrazione selettiva dei fondi ne è una dimostrazione. Nel caso della Germania, è ipotizzabile una reazione di cautela e timore del mondo accademico di fronte alla recente presa di posizione del Governo Federale tedesco, che negli ultimi anni ha lanciato numerosi programmi volti alla valorizzazione dell’eccellenza. Un altro punto su cui si riscontrano significative differenze è la possibilità di misurare oggettivamente la qualità della ricerca utilizzando indicatori quantitativi (Item 4). Qui l’unico Paese a mostrare un accordo piuttosto marcato (60%) è la Spagna. La Francia è ancora una volta la più scettica, ma anche in Germania e in Italia prevalgono i contrari. In generale, la Francia si caratterizza come il Paese più timoroso nei confronti della valutazione, vista dal 90% dei rispondenti al questionario come una minaccia alla libertà di ricerca (Item 24). Questa paura, tuttavia, è presente anche negli altri Paesi, seppur in misura minore. La Germania appare come il Paese che ha più fiducia nella capacità del mondo scientifico di autoregolarsi, perseguendo comunque l’interesse collettivo (Item 18). A fronte di questa fiducia, la Germania è anche il Paese che meno di tutti accetta ingerenze dello Stato nella distribuzione delle risorse economiche per la ricerca (Item 23). Al contrario, la Spagna è il Paese più “statalista”, in cui il mondo accade-

13 In totale abbiamo ricevuto 478 risposte, delle quali il 45% proviene dagli accademici italiani, il 19% dai francesi, il 18% dagli spagnoli e il 17% dai tedeschi. 14 La scala relativa al modello efficientista ha 12 Items ed un’α di Cronbach pari a 0,814. La scala relativa al modello democratico ha 9 Items ed un’α di Cronbach pari a 0,756. La scala relativa al modello scettico ha 14 Items ed un’α di Cronbach pari a 0,811.

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mico si ritiene più strettamente legato e dipendente dallo Stato, ritenuto il principale responsabile dei problemi esistenti nel mondo della ricerca universitaria (Item 17). 1.3 I “totem”

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L’indagine campionaria, oltre a metter in luce le differenze tra Paesi, ha consentito di individuare alcuni totem, punti fermi sui quali la comunità accademica concorda all’unanimità, o quasi, nei quattro Paesi considerati: primo fra tutti, la natura di bene pubblico della ricerca e, di conseguenza, il dovere che i governi hanno di finanziarla (Item 1). Essendo un bene pubblico, per definizione non escludibile e non rivale, le politiche dovrebbero essere finalizzate a diffondere il più possibile equamente i benefici della ricerca, prestando particolare attenzione alle aree più deboli (Item 6). Il secondo totem riguarda la necessità di garantire che, accanto ai finanziamenti selettivi, siano mantenuti anche i finanziamenti “diffusi” (Item 21). L’analisi delle risposte a questo e ad altri Item correlati mostra che non necessariamente essere a favore del finanziamento selettivo implica essere contrari a quello diffuso: piuttosto, il mondo accademico sembra auspicare il raggiungimento di un sano equilibrio tra la pancia e la coda della distribuzione di qualità. Nei quattro Paesi si registra un accordo molto elevato rispetto all’idea che ogni pratica di valutazione debba tenere in considerazione il contesto, per esempio le condizioni di lavoro e le risorse disponibili (Item 13). Qualsiasi valutazione che non tenga conto del contesto risulterebbe inutile. In base a questo principio sarebbero prive di senso le classifiche delle università, che forniscono il posizionamento nazionale o internazionale di un’istituzione senza considerare alcun fattore di contesto, risultando così completamente inadeguate, quando non addirittura fuorvianti, al fine di “comunicare”la qualità. Un altro aspetto sul quale si rileva un accordo molto elevato è l’inaffidabilità dei sistemi di valutazione attualmente disponibili (Item 5). Tuttavia, dall’analisi degli Item correlati a questo risulta che il mondo accademico non esclude a priori la possibilità che si possa effettivamente misurare la qualità della ricerca. Potrebbe esistere, quindi, un sistema di valutazione della qualità della ricerca in grado di ottenere la fiducia del mondo accademico, anche se non è stato ancora “disegnato”. Infine, è interessante analizzare le risposte all’Item 1: “Nel mio Paese, le risorse a disposizione per la ricerca sono adeguate alle necessità”. La comunità accademica mostra un certo grado di disaccordo in tutti e quattro i Paesi, ma il livello di tale disaccordo è esattamente speculare all’investimento in ricerca e sviluppo. L’Italia è il Paese nel quale si registra il disaccordo più elevato, seguita in ordine da Spagna, Francia e Germania.

2. Una lente d’ingrandimento su cinque Atenei Al livello micro, abbiamo analizzato cinque Atenei15, scelti all’interno di una rosa di istituzioni che si posizionano ai primissimi posti nei principali ranking inter-

15 Le 5 istituzioni analizzate sono le seguenti: Università degli Studi di Roma La Sapienza, Università degli Studi di Milano, Université Pierre et Marie Curie di Parigi, Universitat de Barcelona, Humboldt University di Berlino.

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nazionali riguardanti la produttività scientifica. Si tratta di Atenei di grandi dimensioni, localizzati in contesti urbani e con una forte vocazione per la ricerca. Gli studi di caso sono stati sviluppati attraverso analisi documentale e visite di studio sul campo, durante le quali abbiamo somministrato interviste ad almeno tre figure chiave per ciascun Ateneo. Le variabili confrontate sono sia quantitative che qualitative. Le prime riguardano il numero di studenti e di unità di staff, con i relativi rapporti che indicano il carico di lavoro che grava mediamente su ciascun docente o ricercatore. Sono stati considerati, inoltre, i dati di budget per l’anno 2012 e due indicatori riguardanti le pubblicazioni scientifiche. Le variabili qualitative prendono innanzitutto in considerazione il contesto nazionale ed urbano. La competitività dei Paesi e delle città è descritta e discussa in rapporti rispettivamente del World Economic Forum e dell’Economist Intelligence Unit. Questi studi considerano diversi fattori riguardanti le istituzioni, le infrastrutture, l’ambiente macroeconomico, la sanità e l’istruzione, l’efficienza del mercato, il livello di sviluppo tecnologico e di innovazione. Il ranking finale vede l’Italia ultima in lista per livello di competitività tra i quattro Paesi considerati, così come i contesti urbani di Roma e Milano si discostano sensibilmente dagli altri tre. 2.1 Variabili quantitative

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A livello di singoli Atenei, i dati (rappresentati nella Tabella 1) mostrano una tale disparità di condizioni, da poter affermare che un confronto obiettivo sui risultati ottenuti nella ricerca non è possibile. Gli indicatori relativi all’organizzazione della didattica e della ricerca, così come quelli di budget, mostrano differenze tali da comportare opportunità e prospettive radicalmente diverse. Di conseguenza, l’indagine non può che limitarsi a far luce sulle modalità con cui ciascun Ateneo si relaziona al proprio contesto, come affronta le criticità e le variabili “non controllabili” e come riesce, invece, ad incidere negli ambiti in cui è possibile una fattiva ed efficace interazione tra contesto esterno ed interno. !"#$%&$"'#()*"#(+%' !"#$#%

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Tab. 1 – Confronto fra variabili quantitative Fonte: Eurostat. La spesa è espressa in percentuale del PIL Fonte: World Economic Forum, Global Competitiveness Report 2012-2013 Fonte: Economist Intelligence Unit, Global City Competitiveness Index 2012 Fonte: siti istituzionali e discussione con i responsabili. I dati sono stati lavorati per renderli comparabili. Per staff accademico si intendono i docenti e i ricercatori di tutte le fasce. Fonte: siti istituzionali e discussione con i responsabili. Cifre espresse in milioni di €. Fonte: siti istituzionali e discussione con i responsabili. Cifre espresse in €.

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La Tabella 2 mostra due indicatori di “produttività scientifica” forniti dal Leiden Ranking per i cinque Atenei analizzati. Si nota che c’è una relazione inversa tra livello di produttività scientifica e “carico di lavoro” dello staff accademico, misurato con il rapporto tra lo staff stesso e il numero di studenti. Maggiore è il carico, minore è la produttività scientifica: questo dato può apparire ovvio, ma viene spesso completamente ignorato quando si parla di produttività scientifica. !"#$#%&

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Tab. 2 – Produttività scientifica (a) MNCS (mean normalized citation score). Numero medio di citazioni delle pubblicazioni di un Ateneo (normalizzato per anno di pubblicazione e area disciplinare) (b) PP top 10% (proportion of top 10% publications). Percentuale di pubblicazioni di un Ateneo che, confrontata con altre pubblicazioni nello stesso ambito disciplinare e nello stesso anno, appartiene al 10% più frequentemente citato. Fonti: siti istituzionali e Leiden Ranking (www.leidenranking.com/ranking.aspx)

2.2 Variabili qualitative Le altre variabili qualitative messe a confronto nei nostri studi di caso riguardano, più nello specifico, la ricerca: vengono descritte le politiche adottate all’interno di ciascun Ateneo per promuovere la qualità della ricerca, le caratteristiche del sistema interno di valutazione della ricerca e, infine,le politiche e le istituzioni per il trasferimento tecnologico. Politiche per la promozione della ricerca La Tabella 3 sintetizza le politiche approntate da ciascun Ateneo per promuovere la qualità della ricerca. Appare subito chiaro che, mentre gli Atenei italiani devono limitarsi a politiche di “reazione” al contesto sfavorevole, l’Ateneo francese e, ancor di più, quello tedesco sono invece nella posizione di poter promuovere politiche di attrazione dei talenti, di sviluppo del proprio profilo di ricerca e addirittura di sostegno alla ricerca innovativa e di frontiera. L’Ateneo spagnolo si trova in una posizione intermedia, potendo offrire supporto strutturato ai propri ricercatori per il reperimento di fondi esterni, ma senza grandi opportunità di sviluppo basate su risorse proprie. È interessante notare come, nonostante le enormi differenze di contesto già descritte nel precedente paragrafo, si possano individuare alcune linee comuni nelle politiche approntate da tutti e cinque gli Atenei. Tra queste vi è, per esempio, il rafforzamento dei servizi amministrativi e la creazione (o lo sviluppo, a seconda dei casi) di uffici dedicati al reperimento di fondi internazionali per la ricerca. Un altro aspetto comune è l’importanza riconosciuta al knowledge/technology transfer, quindi ai rapporti tra l’università e la società, intesa in senso lato.

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Tab. 3 – Strategie e politiche per la ricerca

Sistemi interni di valutazione della ricerca La Tabella 4 sintetizza gli aspetti fondamentali del sistema di valutazione interna organizzato da ciascun Ateneo. Per quanto riguarda il target, la valutazione riguarda, in 4 su 5 Atenei, i Dipartimenti; solo alla UB la valutazione viene svolta dalla funzione risorse umane e riguarda il singolo docente/ricercatore. In 4 su 5 Atenei la valutazione viene svolta internamente, da un’unità dedicata; solo nel caso della UPMC il processo è affidato ad un’agenzia esterna, l’AÉRES, ogni 5 anni.16 In generale, si osserva la tendenza verso una valutazione “non assoluta” che incorpora considerazioni qualitative e che tiene in considerazione il contesto. A

16 Il governo francese ha annunciato la chiusura dell’AÉRES, quindi il sistema subirà dei cambiamenti.

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Barcellona, il sistema considera sia input che output ai fini dell’assegnazione di un rating a ciascuna risorsa. La valutazione risulta in una gestione più razionale delle risorse umane: i ricercatori che ottengono rating migliori avranno, per esempio, più tempo da dedicare alla ricerca e meno impegni didattici. A Berlino, il vecchio sistema basato sulla peer review internazionale e sulla premiazione dei dipartimenti più capaci di attrarre risorse esterne è stato recentemente sostituito da un sistema bottom up, in cui ogni dipartimento delinea un proprio profilo di ricerca e si auto-assegna degli obiettivi. A Parigi, la valutazione si sviluppa a partire dai rapporti dell’AÉRES che consistono in una descrizione approfondita dell’istituzione, dei suoi punti di forza e debolezza, ma anche di opportunità e minacce date dal contesto (swot analysis). A Milano, il processo inizia con l’autovalutazione dei dipartimenti e con l’individuazione di un benchmark nazionale o internazionale, e solo in un secondo momento diventa etero-diretta con l’intervento della revisione dei pari. Infine, alla Sapienza si sta passando dal criterio del “vantaggio assoluto” – premiare i migliori dipartimenti – a quello del “vantaggio marginale” – supportare i dipartimenti che hanno il maggiore potenziale di sviluppo.

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Tab. 4 – Sistemi interni di valutazione della ricerca

Strutture ed iniziative per il knowledge transfer La Tabella 5mostra le caratteristiche essenziali delle strutture e delle iniziative per il trasferimento tecnologico nei cinque Atenei. L’Università Humboldt offre un eccezionale esempio di trasferimento come obiettivo condiviso: il parco scientifico di Hadlershof è una vasta area di Berlino Est riqualificata ed attrezzata ad hoc grazie ad ingenti investimenti nell’ambito della Transfer Alliance che ha coinvolto l’università, il governo locale, il Governo Federale e il settore privato. Anche la SATT-Lutech a Parigi, alla quale partecipano le principali università pubbliche locali, è una struttura creata ad hoc per facilitare il trasferimento tecnologico utilizzando gli Investissements d’Avenir, un programma

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lanciato dal governo francese nel 2010 con uno stanziamento iniziale di 35 miliardi di euro ed una seconda tranche di 12 miliardi. Per la SATT Lutech sono stati finora stanziati 73 milioni di euro per i primi 10 anni di attività. A Barcellona la situazione è diversa: il grande parco scientifico, un’area vastissima e modernamente attrezzata, appare instand by dopo oltre dieci anni di attività a causa di un clamoroso “dietro-front” del governo spagnolo e di quello catalano, che hanno tagliato gli investimenti in ricerca in seguito alla crisi economica. In Italia, l’Università degli Studi di Milano gestisce i processi di trasferimento con una piccola task force di 5 persone ed ha sviluppato un sistema efficiente ed efficace anche grazie al tessuto imprenditoriale dinamico e al supporto (seppur discontinuo) delle amministrazioni locali. La Sapienza, invece, ha deciso di puntare sul knowledge transfer, ma si è dovuta accontentare delle sue risorse, in calo negli ultimi anni, e rapportarsi ad un contesto esterno decisamente meno favorevole di quello milanese. È interessante notare come, pur essendo le condizioni estremamente diverse, tutti e cinque gli Atenei si sono “attrezzati” per rafforzare i processi di knowledge transfer, considerati cruciali per lo sviluppo e il finanziamento della ricerca. !"#$#%!

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Tab. 5 - Strutture ed iniziative per il knowledge transfer

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Considerazioni conclusive

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Questo lavoro di ricerca ha messo in luce l’importanza delle condizioni di contesto come fattore che impatta sul risultato finale in termini di qualità e quantità della ricerca prodotta. Mentre alcuni aspetti osservati afferiscono nello specifico alle politiche per la ricerca portate avanti da ciascun Paese, vi sono aspetti e considerazioni di portata più ampia – come la competitività dei sistemi Paese e l’attrattività dei contesti urbani – di maggiore complessità e non modificabili nel breve periodo, ma ugualmente importanti dal punto di vista dell’impatto. Ciò premesso, gli studi di caso hanno mostrato come ciascun Ateneo si sia organizzato per produrre i migliori risultati possibili, date le opportunità e i vincoli offerti dal contesto esterno. Sono state individuate alcune strategie comuni per rafforzare la ricerca: l’attenzione verso l’internazionalizzazione e l’interdisciplinarietà; l’apertura verso il mondo non universitario; il rafforzamento dei servizi amministrativi e, in particolare, degli uffici per la ricerca europea; il potenziamento delle strutture e delle iniziative per il knowledge transfer. Per quanto riguarda la valutazione interna, nei cinque contesti analizzati essa rappresenta ben di più che un adempimento normativo. Oltre ad avere un enorme valore in termini di auto-conoscenza, la valutazione diventa il timone che dirige ciascun Ateneo verso la direzione voluta, caratterizzandosi come un prezioso strumento di supporto alla strategia di sviluppo istituzionale. Il nostro lavoro può offrire spunti in materia di policy. In varie occasioni, durante la realizzazione del progetto, abbiamo incontrato l’idea che non tutto sia misurabile e prevedibile quando si tratta di qualità della ricerca. Non sempre si può prevedere dove può nascere l’eccellenza. Per questo è importante che i sistemi di valutazione siano impostati in modo tale da non perdere le “pecorelle smarrite”17.La valutazione è indubbiamente un essenziale strumento di miglioramento della ricerca, ma dal mondo accademico internazionale proviene forte la richiesta di una nuova cultura della valutazione, che sappia andare oltre i ranking e i numeri, per riuscire a cogliere il vero significato della qualità nella ricerca18. Per raggiungere questo obiettivo, è essenziale che vi sia un forte impegno dei governi. Infine, l’indagine ha mostrato che la cosiddetta “terza missione” dell’università - creare una società più equa e democratica - è fortemente sentita nel mondo accademico internazionale. Le politiche riguardanti la valutazione e il finanziamento della ricerca non solo devono tenerne conto, ma possono anche diventare uno strumento fondamentale per la realizzazione di questi obiettivi.

17 Parabola della pecorella smarrita. Vangelo secondo Matteo (18, 12-14) 18 Si veda, per esempio, Lucisano (2011) e la sua riflessione sull’importanza nella comprensione: “Una comprensione che, dunque, è in costante rapporto con la realtà, che la considera con curiosità, ne avverte l’imprevedibilità. Una comprensione che sa fare ricorso a modelli, ma sa anche che i modelli sono strumenti della nostra mente e non cede la responsabilità del proprio, sia pure provvisorio, giudizio”.

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ricerche

anno VIII | numero 15 | Dicembre 2015

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Elenco dei referees che hanno collaborato agli ultimi quattro anni della rivista (2012-2015)

Ammaturo Natale Asquini Giorgio Amplatz Cristina Antonietti Maja Asquini Giorgio Baldassarre Vito Antonio Barbieri Nicola Benvenuto Guido Besio Serenella Biasin Chiara Biasutti Michele Bocci Flavio Bochicchio Franco Boffo Vanna Bonaiuti Giovanni Bondioli Anna Maria Bruni Filippo Bruschi Barbara Caldin Roberta Calidoni Paolo Calvani Antonio Cambi Franco Campagnaro Marnie Cappuccio Giuseppa Cardarello Roberta Carenzio Alessandra Carraro Attilio Cartelli Antonio Casolo Francesco Castoldi Mario Ceciliani Andrea Cesareni Donatella Chiappetta Caiola Lucia Cinque Maria Cisotto Lerida Coggi Cristina Colazzo Salvatore

38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74.

Cottini Lucio Crispiani Piero Curatola Armando Dallari Marco Damiano Elio Daniele Luisa De Anna Lucia D’Elia Francesca De Rossi Marina De Waal Paula Dettori Filippo Di Nubila Renato Di Rienzo Paolo Donà dalle Rose Luigi Filippo Dovigo Fabio Ellerani Piergiuseppe Fabbri Loretta Falcinelli Floriana Fedeli Daniele Fedeli Monica Federici Giorgio Felini Damiano Felisatti Ettore Ferrari Simona Ferrari Monica Ferri Paolo Fiorin Italo Fiorucci Massimiliano Floriana Falcinelli Formenti Laura Frignani Paolo Galelli Rosa Gamberoni Emanuela GaravagliaAndrea Gariboldi Antonio Gatto Francesco Gemma Chiara

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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informazioni

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75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122.

Ghedin Elisabetta Ghislandi Patrizia Giovannini Maria Lucia Girelli Claudio Girotti Luca Giunio Luzzatto Gomez Paloma Filippo Grange Teresa Grion Valentina Ianes Dario Iori Vanna Kanizsa Silvia La Marca Alessandra Laici Chiara Laneve Cosimo Lascioli Angelo Limone Pierpaolo Lipoma Mario Lodini Eugenia Loiodice Isabella Lombello Donatella Losito Bruno Lucangeli Daniela Lucchetti Stefania Lucisano Pietro Lumbelli Lucia Luzzato Giunio Maccario Daniela Magnoler Patrizia Maragliano Roberto Marcuccio Massimo Margiotta Umberto Margottini Massimo Mariani Alessandro Marino Eleonora Martiniello Lucia Martini Berta Marzano Antonio Melchiori Roberto Messina Laura Milani Paola Moliterni Pasquale Montalbetti Katia Mortari Luigina Moretti Giovanni Moscato Maria Teresa Murdaca Annamaria MuscarĂ Marinella

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Nardi Emma Nigris Elisabetta Nota Laura Notti Achille Nuzzaci Antonella Olmetti Peja Daniela Padoan Ivana Panciera Walter Pantano Ornella Paola Ricchiardi Paparella Nicola Parmigiani Davide Pavone Marisa Pellerey Michele Peluso Cassese Francesco Perla Loredana Petrucco Corrado Perrucca Angela Piu Carmelo Poletti Giorgio Porcarelli Andrea Porcaro Emilio Quagliata Alberto Ranieri Maria Renza Cerri Restiglian Emilia Riva Maria Grazia Rivoltella Pier Cesare Rocca Lorena Rossi Piergiuseppe Salatin Arduino Sandrone Giuliana Santi Marina Santipolo Matteo Sarracino Fernando Scalera Vega Scarpa Stefano Semeraro Raffaella Serbati Anna Sibilio Maurizio Sorzio Paolo Surian Alessio Tanucci Giancarlo Tessaro Fiorino Tonegato Pietro Traverso Andrea Trinchero Roberto Truffelli Elisa

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171. 172. 173. 174. 175. 176.

Ugolini Francesco Claudio Vannini Ira Varisco Bianca Maria Vertecchi Benedetto Vianello Michelangelo Viganò Renata Maria

177. 178. 179. 180. 181.

Weyland Beate Zaggia Cristina Zago Giuseppe Zanato Orietta Zanniello Giuseppe

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