Khadija

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IL PRIGIONIERO DELL’EMIRO

Alla fine del golfo di Suez vi è un tratto di mare compreso tra Hurghada e Sharm el Sheikh che si chiama stretto di Jubal. È quello il tratto più temuto da tutte le navi che dal Canale scendono il mar Rosso. I banchi di corallo in questo braccio di mare descrivono una geografia appena intuita sotto lo specchio riflettente delle acque, continuamente cancellato dai riflessi del sole o dalle onde formate dal vento. Forme bizzarre si offrono solo per pochi attimi all’occhio incredulo del viaggiatore e del marinaio, che non è mai sicuro di ciò che ha visto, di quanto quelle forme appena sotto il velo dell’acqua si ingigantiscano, diventando pericolose e taglienti barriere. Banchi corallini a pochi centimetri dalla superficie erano pronti a carpire le chiglie delle navi, capaci di inciderle a stregua di denti di pescecani che affondano in carni molli, strappando e lasciando ferite irreparabili. E quei corpi mastodontici in un batter d’occhio avrebbero rischiato di diventare fragili come vascelli di carta. E il sale del mare avrebbe infine risucchiato l’imbarcazione stessa, portandola negli abissi. Quella notte fu dominata da luci di stelle. Alcune brillavano palpitando; altre fisse come avessero bucato per l’eternità il telo sacro del riposo. Contemplavo dal ponte quel nero del cielo, cucito al mare da un filo esilissimo. Non ci sarebbe stata differenza tra cielo e mare, se non fosse stato per un vago ac47


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