SECONDO NUMERO, Novembre/Dicembre, a.s. 2013/2014

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za vuoi per insorgere di regimi non democratici, l’uomo tende a rifugiarsi in se stesso e a ricercare quei valori che rendono la vita dignitosa in sé, all’interno del proprio microcosmo. Vasco sembra incarnare questo spirito quando dice: “si può cambiare solo se stessi / sembra poco ma se ci riuscissi / faresti la rivoluzione”. Perché, come dice poco prima, “cambiare il mondo è quasi impossibile”, è troppo grande, troppo potente e ci siamo dentro fino a subirlo: la vera rivoluzione è cambiare se stessi. Questo è il casino. Il cambiamento non è mai indolore e sempre necessario. Per sopravvivere. Il “parapapa” che segue, cantato puramente “alla Vasco”, sembra proprio ricordarci quel poco di follia autoironica necessaria per mantenerci vivi e non farci sommergere, ma allo stesso tempo porta con sé il carico di dolorosa coscienza proprio della sua voce sempre struggente. Se i primi due giri finiscono nel vuoto della leggerezza, il terzo sembra s’incastri nell’ostinazione stizzita di affermare il proprio “io”, il proprio essere uomo. La conclusione della canzone è evidente sintomo dell’età raggiunta da Vasco. “Vivere bene o cercare di vivere / fare il meno male possibile / e non essere il migliore. / Non avere paura di perdere / e pensare che sarà

difficile / cavarsela da questa situazione”. Il giovane Vasco non avrebbe mai scritto una frase del genere, la canzone si sarebbe infuocata dentro una rabbia per una condizione insopportabile. Il giovane Vasco non avrebbe mai accettato la cosa, non se ne sarebbe fatto una ragione, avrebbe gridato, come in “C’è chi dice no”, come in “Liberi.. Liberi”. Ora, invece, vince il desiderio di tranquillità e di equilibrio. Sembra quasi cullarsi dentro la mediocrità, averci trovato un compromesso accettabile e consolante. Non che vada bene, sia chiaro, ma a sessant’anni la prospettiva cambia. Vasco nel 2005, all’età di 53 anni, affermava: “Per me, la vera trasgressione è essere normali, farsi una famiglia, crescere dei bambini. Io sono un sopravvissuto. Veleggio verso la vita. Adesso arriveranno i conti. E io ho messo da parte i soldi per pagare. Non mi lamenterò più di tanto, lo farò comunque a bassa voce”. Il pezzo preso in esame sembra in contraddizione con una delle canzoni più celebri di Vasco, “Vita Spericolata”, con cui mi sento in debito enorme, ma dai più fraintesa, in particolare da tutti coloro che riducono la vicenda umana di Vasco solo e unicamente alla tossicodipendenza. Eppure, più che una contraddizione, ai miei oc-

chi emerge un cambiamento, appunto necessario ma sempre all’insegna di una continuità. Dopo anni, benché abbia cambiato prospettiva, il cuore che pulsa dentro al petto è sempre lo stesso, con gli stessi desideri, ma segnato dall’età. Più consapevole, non credo più contento, ma sempre vivo. Vasco ha scoperto il valore della mediocrità dentro un equilibro, di non essere il migliore. Ha imparato non a fare il bene, ma a fare il meno male possibile. Un po’ di male è inevitabile, è dentro di noi. Una volta Vasco ha detto: «È più semplice credere che il Diavolo esiste, invece è una parte di noi con cui dobbiamo convivere». L’uomo nuovo, quello di oggi, è colui che, sognando una Vita Spericolata, si ritrova a cercare di vivere adattandosi con necessari cambiamenti a una realtà in inarrestabile mutamento, dove si perde sempre qualcosa, ma in fondo ne vale la pena, oggi come in passato. Allo stesso tempo porta con sé tutte le ragioni che gli han fatto fare gli errori, identità che nonostante tutto non vuole perdere, ad ogni costo. È un uomo che vive dentro un contrasto che non trova pace: è tutto un equilibrio sopra la follia. In poche parole, la canzone può essere riassunta con un proverbiale “si fa quel che si può”.

Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

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