Restauri d'Arte - Opere dell'Abruzzo recuperate dopo il sisma

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Catalogo AbruzzoOK_Abruzzo 23/09/12 19.13 Pagina 77

Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova

Fig. 2. Particolare prima del restauro

927-928). Dopo il terremoto del 2 febbraio 1703, rimasta gravemente danneggiata e inagibile la sede originaria, i due dipinti del Bedeschini furono trasferiti nella “chiesa baraccale” edificata dalla confraternita sul lato meridionale della piazza del mercato, e in seguito andarono ad arricchire il nuovo e sontuoso tempio barocco di Santa Maria del Suffragio, la cui costruzione iniziò, sul sito medesimo in cui sorgeva l’edificio provvisorio in legno, nel 1713. Non è stato possibile per il momento accertare data e motivazione del trasferimento del Sant’Antonio da Padova in San Flaviano; fonti ottocentesche ne registrano ancora la presenza nella chiesa del Suffragio, all’epoca più comunemente detta del Purgatorio o delle Anime Sante (BONANNI, 1874, p. 70; BINDI, 1883, pp. 67-68). È probabile tuttavia che l’opera sia stata rimossa in occasione dei restauri eseguiti nel 1897 sotto la direzione del pittore Teofilo Patini (“L’Aquila”, 3 ottobre 1897; LANCIA, 2010, p. 125). Il Sant’Antonio da Padova realizzato nell’occasione dal Patini prese probabilmente il posto, sull’altare della prima cappella di sinistra, dell’opera di analogo soggetto dipinta da Francesco Bedeschini due secoli e mezzo prima. Di iconografia convenzionale, l’opera mostra l’immagine di Sant’Antonio più diffusa, ispirata al più noto e toccante degli episodi tramandati dal Liber Miraculorum: l’apparizione del Bambino Gesù ricevuta dal santo nel romitorio di Camposampietro pochi giorni prima della morte. Secondo uno schema desunto dalla ritrattistica ufficiale dell’epoca, il santo è raffigurato a figura intera, in posizione eretta e frontale, e inquadrato all’interno di uno scenario di gusto classico, costituito da un arco illusionisticamente aperto su un paesaggio soffuso di luce crepuscolare. L’abbigliamento e gli attributi del santo sono quelli consacrati dalla tradizione: il lungo saio, stretto alla vita dal cordone, e i piedi scalzi indicano l’adesione alla

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regola di San Francesco; il giglio tenuto nella sinistra allude alla sua castità, mentre il libro sorretto con la destra lo qualifica come dotto teologo. Il capo, cinto d’aureola, è leggermente chino verso il Bambino, il quale, in piedi sul libro, regge con la sinistra il globo crucigero, simbolo di sovranità sul mondo, e benedice con la destra. Un drappo rosso, segno di regalità e allusione al sangue versato sulla croce, cinge le spalle del divino infante, mettendo per contrasto in rilievo l’incarnato del nudo ben tornito. È questa l’unica nota di colore acceso della composizione, per il resto caratterizzata dai toni spenti, tra il bruno e il grigio, del saio, degli elementi architettonici che fanno da cornice alla scena, del cielo nuvoloso che ne costituisce lo sfondo. La luce avvolgente e la delicata modulazione chiaroscurale costituiscono un retaggio della pittura fiorentina tra la fine del secolo XVI e gli inizi del XVII, alla quale rimandano anche l’attenta cura dei particolari e la monumentalità della figura, esaltata dalla scelta del punto di vista, localizzato decisamente al di sotto della linea dello sguardo dei personaggi, e dall’orizzonte basso sullo sfondo. L’adesione al linguaggio controriformistico toscano deriva dalla formazione dell’artista, avvenuta certamente nella bottega del padre Giulio Cesare (L’Aquila, 1582-1627), pittore affermato e allievo a Roma del Cigoli, anche se non sotto il suo diretto magistero, avendolo questi lasciato orfano all’età di appena un anno. Su questo dato di origine s’innestano più aggiornati riferimenti culturali alla corrente classicista romana, riscontrabili principalmente nell’ambientazione. L’orientamento “in direzione della cultura figurativa barocca romana”, particolarmente evidente nella produzione grafica e nell’attività di progettazione architettonica del Bedeschini, è stato messo in relazione con la presenza all’Aquila, per oltre un anno, di Ercole Ferrata, uno dei principali collaboratori del Bernini,


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