diario_dulp

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Ci fermiamo per fare il pieno e prendere un caffè. La gente mi squadra con diffidenza, come al solito, ma l’equilibrio tra disprezzo e timore si è sbilanciato con decisione verso quest’ultimo. Se vado in giro in ciabatte e canottiera con il ferro carico e senza sicura, come spesso succede, mi schifano come un barbone e restano convinti che basta alzare la voce per sbarazzarsi di me. Adesso che sono tutto ricoperto di nero e porto degli orrendi stivali a punta, qualche catena appesa qua e là, pendagli strani e una cinta che pesa una tonnellata, girano al largo facendo attenzione a non fissarmi negli occhi. La gente merita proprio che li comandi uno col parrucchino. Mentre il Cesso è al cesso, prendo Colore in disparte. «Ci stiamo per infilare in una situazione di merda». «Sono d’accordo», fa lui. «Hai preso il borsone che ti avevo raccomandato?» «Sì, è nel portabagagli». «Dentro c’è un’automatica e una mitraglietta. Porto con me soltanto la p38. Tieni il cellulare acceso e, comunque, se passano due ore senza sentirmi, mi raggiungi armato». Colore tentenna. Gli chiedo: «Problemi?» Mi risponde guardandomi con difficoltà, quasi con vergogna. «Sellero, io non sono un killer, non credo di essere all’altezza». «Colore, io mi fido di te. Eri amico di Zecchinetta e dobbiamo finire questa stronzata. Sono certo che se servirà saprai comportarti alla grande». Gli do una pacca sulla spalla. Non credo un cazzo di quello che gli ho detto, ma non ho scelta. Non c’è tempo, né è il caso di chiamare rinforzi. E comunque il mio è solo un sospetto: questi deficienti vestiti di nero potrebbero non entrarci per niente in questa storia. Il Cesso esce dal cesso. «Andiamo». Dopo un’altra ora di viaggio silenziosa, arriviamo dalle parti di Città di Castello. Lasciamo la e45 e proseguiamo su una stradina tutte curve. Penso che questi cazzoni, dopotutto, si sono 98


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