Nella foto. Bianco Lenatti in versione 'easy rider'
vuoto. Il piede girava da solo, presi in mano la gamba, contai fino a tre e la raddrizzai. Un male atroce, peggio di una tortura. Con un rampone, la piccozza e l'amico che mi scavava delle tacche nel ghiaccio riuscii a risalire. Ma in alcuni momenti avrei voluto avere una pistola per spararmi. Risultato, cinquanta fratture alla gamba, frattura dell'anca, rotte tutte le costole a destra, una spalla fratturata e un braccio spezzato in sei punti». E come hai fatto a riprenderti, ricominciare a sciare e fare la Nord del Disgrazia? «Tanta volontà. Non ho più né menischi né cartilagini delle ginocchia, ma incredibilmente a sciare non sento dolore. Così nel 1986 è venuto finalmente il momento della Nord. Riuscii a fregare i miei che erano scesi in Valtellina per delle commissioni. Salii ramponi e piccozza per l'ennesima volta e finalmente sentii che quello era il momento buono. Feci le prime curve e mi accorsi che avevo affilato troppo le lamine; il rischio era di far saltare gli attacchi. Mi fermai vicino a una roccia e vi fregai contro gli sci per togliere un po' di filo. Ormai conoscevo a memoria ogni passaggio, visto, rivisto e soprattutto misurato in funzione della discesa. Sapevo esattamente quante e quali curve avrei dovuto fare. Giunto al canalino, non avevo alternative: sci sulla massima pendenza e giù dritto, concentrandomi sulla rischiosissima frenata finale. Mi andò bene. Alla base della parete l'elicottero mi prelevò così com'ero, attaccato al verricello ancora con gli sci ai piedi. È così che i miei genitori mi videro planare sopra il paese, per combinazione esattamente mentre arrivavano in auto. Mia mamma si lasciò andare alla disperazione, tranquillizzata da mio papà che semplicemente le disse che se ero lì, attaccato all'elicottero in quella posizione, almeno ero vivo». Che attrezzatura usavi? «Sci Dynastar da due metri. Attacchi da pista tirati al massimo, anzi al 95 per cento, perché al 100 per cento la molla lavora male. E per essere sicuro che non si sganciassero, li tiravo con lo scarpone inserito. Gli scarponi erano da scialpinismo, ma li modificavo limando la suola e poi rifacendo le tacche per la salita». Cosa pensi del mondo del ripido e del freeride di oggi? «Freeride... come se fosse una cosa nuova! Io ho fatto freeride per tutta la vita, senza mai allenarmi perché ero comunque sempre in attività. La differenza è che adesso siamo diventati tutti più esibizionisti. C'è Youtube e tutto il resto. Io sono per una montagna più pura, ma in fondo capisco i compromessi». E le tue ultime imprese quali sono state? «Ho fatto ancora alcune prime tra il '92 e il '95, tra cui il canalone Folatti, tra la Cresta Guzza e il Bernina. Poi ho smesso, ma tre anni fa ho fatto un'altra discesa estrema, però non ne voglio parlare. Ho corso grossi rischi, ma sentivo di dover dedicare qualcosa a mio figlio Bianco che era morto da poco».
Ricorrenze Proprio quel Monte Disgrazia (3.678 m) che Giancarlo Lenatti ha sciato nel 1986 è stato scalato per la prima volta 150 anni fa, nell'agosto del 1862, da una comitiva di inglesi, tra i quali Leslie Stephen, editore dell'Alpine Journal (e padre di Virginia Woolf), ed Edward Shirley Kennedy, tra i fondatori dell'Alpine Club, accompagnati dalla guida svizzera Melchior Anderegg. Il libro 'Monte Disgrazia, Picco Glorioso - 150 anni di storia' di Michele Comi e Giuseppe Miotti (Bellavite, euro 28, pagine 216) ricorda l'impresa.
Bianco Lenatti aveva 12 anni quando è morto di una rara forma di tumore. Lo sapevo, ma una forma di pudore e di rispetto mi impediva di chiedere di lui a Giancarlo. E invece è proprio Giancarlo che ne parla volentieri. Mi racconta soprattutto dell'associazione da lui fondata quando Bianco era ancora in vita, per assistere i bambini malati e le loro famiglie (Associazione Bianco, per ora senza un sito Internet, ma sul web la si trova facilmente). Proprio mentre ci stiamo spostando in auto verso Chiareggio arriva la telefonata di un papà che chiede rassicurazioni sul bonifico mensile che l'associazione gli garantisce, soprattutto adesso che ha perso il lavoro. Il montanaro rude e un po' spaccone si trasforma improvvisamente in un fiume di umanità, di delicatezza, di dedizione alla causa. E alla fine Giancarlo Lenatti detto Bianco mi regala una fetta del suo formaggio, svelandomi anche un piccolo segreto, uno dei tanti che quest'uomo pare custodire gelosamente. Un pezzo di quel formaggio è ancora nel mio frigorifero, sia per preservare in qualche modo il segreto, sia, soprattutto, perché non lo so tagliare.