NOVEMBRE 2015 NUMERO PRIMO
ALESSANDRA CAMPANI la fatica del silenzio che diventa parola
Un incontro-lezione per svelare meccanismi linguistici interrogando la violenza maschile sulle donne Riflessioni e fatti dal punto di vista del Giro del Cielo Materiale per approfondire
GalinaNova D I E D E L O R O C I O ’ C H E P E R D I V E N T A R E Q U E L L O
G I A ’ A V E V A N O C H E G I A ’ E R A N O
quella vecchia
fa buon brodo la nuova può fare tutto il resto
liberamente edito da
Giro del Cielo, SCS
Via Wybicki 12b 42122 _ Reggio Emilia
Reggio Emilia, anno I
coop. sociale
PR I MO
Si tratta di una cooperativa attiva, in questa forma, da un paio d’anni: in altra forma, lavoriamo a Reggio Emilia e dintorni da 12 anni. Ci occupiamo di educativa, con tutte le tangenze e il lavoro di rete del caso. Bambini, ragazzi, famiglie: con questi tre termini, nelle loro variazioni sociologiche più disparate, ritroviamo i gruppi di persone con cui lavoriamo.
n u m e r o
GalinaNova
giro de l ci e l o
La sede, situata in un ex-negozio sotto i portici di via Wybicki, segna il nostro posizionamento reale e ideale rispetto alle persone, ricordandoci che la sfida maggiore, oggi, sia quella di incontrare l’altro come è e non come vorresti che fosse - grande o piccolo che sia. Negli anni ci siamo confrontati con alcune delle maggiori lezioni pedagogiche disponibili. Quando si scrive “maggiori”, ci si può riferire ad aspetti positivi ma non solo. Si può essere maggiori per ingombro, portata utopistica, universalità, scientificità, durata della “fase normale”, autorevolezza... non è facile nè garanzia di efficacia, essere “maggiori”. Nel nostro caso, stiamo concedendoci una riflessiva permanenza nelle file dei “minori”: dobbiamo essere cauti nel muoverci, senza troppa baldanza di certezze, perchè sappiamo che ci muoviamo insieme alle persone delle quali ci occupiamo. Le persone, si sa, necessitano di tutta la delicatezza che comporta il farsi carico dell’occasione di vivere una vita: per i piccoli, altra ancora ce ne vuole, perchè è una vita che si fonda. Portiamo avanti diversi progetti, e passandoli in rassegna - doposcuola, interventi su bisogni educativi specifici, prossimità individuale, campi estivi, progetti di cittadinanza, formazione civile, discussioni di gruppo, supervisioni scolastiche, educativa di strada... - si noti, per favore, che non c’è nulla che non sia già stato fatto da altri. Eppure siamo così orgogliosi lo stesso, perchè quella è solo la struttura, quell’organizzazione che ci permette l’unica cosa veramente imprescindibile nel dare un senso alla nostra esistenza professionale: incontrare l’altro e scoprire il modo di rendere la nostra strada degna di essere percorsa.
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in questo numero p. 04 _ un editoriale p. 06 _educazione sentimentale, senso del mondo e delle relazioni p. 10 _ il linguaggio e il silenzio (appunti)
p. 12 _la fatica del silenzio che è diventato parola p. 18 _ riflessioni post-formazione p. 22 _biblio_filmografia di formazione
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un editoriale Il primo numero di questa rivista è uscito a fine settembre 2015, alla ripresa dell’anno educativo (che non è esattamente corrispondente con l’anno scolastico). Si tratta di un numero-fantasma, targato “Numero Zero” per identificarne la sperimentalità. Lo posseggono solo i nostri operatori, oltre a qualche fidato compagno di strada di questi ultimi anni al quale abbiamo chiesto un parere tecnico. Il Numero Zero ci è servito per provare l’impaginazione e avere in mano il prodotto finito, vedendo se esteticamente potesse funzionare; ci è servito soprattutto per mettere nero-su-bianco alcuni punti fondamentali per il varo di questa fase del Giro del Cielo, nata dalla meditata e sudata riorganizzazione dell’organizzazione generale. Sono questioni tecniche, chi doveva urgentemente conoscerle ne è stato edotto e chi sarà interessato potrà contare sul confronto diretto con i responsabili della Cooperativa. Per un aspetto, invece, il “Numero Zero” merita ancora qualche riga: riporta in copertina una foto che ritrae il dottor Benedetto Valdesalici, psichiatra e curioso (o curioso psichiatra) che ci ha affiancato negli anni, per sostenerci, aprirci gli occhi e seminare la giusta quantità di ortiche nel nostro sentiero per tenerci accorti. Allergico ai ringraziamenti per costituzione, ha rinunciato a farlo presente a chi glieli pone, quindi la passeremo liscia anche stavolta. Stop, rispetto al “Numero Zero”. Da tempo, dicevamo, come Giro del Cielo, abbiamo pensato ad un mezzo che potesse mettere in comunicazione la parte interna della nostra organizzazione con l’esterno. Ciò non significa che non ci siano, durante la gestione dei nostri progetti, occasioni per il confronto con altri soggetti: tutt’altro, è più corretto pensare il contrario. Si tratta, tuttavia, di un incontrarsi molto mirato al problem solving, all’analisi di situazioni in cui si ritiene che il nostro intervento come educatori sia sensato e alle successive procedure di progettazione e verifica. Si incontrano, quindi, molte persone, con una
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provenienza sociale e professionale molto eterogenea, tutte portatrici di punti di vista, competenze, esperienze e molto altro: il rammarico ricorrente è spesso quello di non poter condividere momenti più distesi di riflessione libera, tempi che potrebbero favorire la scoperta di prospettive risolutorie prima in ombra, come anche la condivisione di risorse mentali e pratiche, in tempi dove sia la strofa che il ritornello ne lamentano la carenza. GalinaNova è il nostro contributo alla costruzione di questo tempo: visto che in realtà fatichiamo a trovarlo, editiamo queste pagine per raccogliere alcuni spunti desunti dal nostro lavoro di tutti i giorni, tracce che non vorremmo perdere, che toccano temi che sentiamo urgenti per noi, sia perchè hanno una correlazione con le richieste che ci arrivano dalle persone con le quali lavoriamo, sia perchè riconsciamo che possono smuovere parti di noi (educatori-persone) che vengono messe alla prova tutti i giorni sul campo.
Educatore! Chi non lo è, in realtà, almeno in parte? Assistenti sociali, psicoterapeuti, bidelli, autista di autobus, neurospichiatre... tutte gli esseri umani possono scegliere se investire le proprie disparità rispetto ai propri simili per accettare un onere educativo. E questo è il motivo perchè crediamo che gli inteventi e i materiali che abbiamo scelto di adottare come spunti per il nostro percorso formativo di quest’anno educativo possono essere interessanti, se condivisi, anche per chi è “esterno” rispetto al Giro del Cielo. Il tema che ci seguirà almeno fino al 2016 è quello del linguaggio, inteso nelle sue varie implicazioni con quanti più aspetti possiamo cogliere. Se siamo “esseri di linguaggio”, tutta la potenzialità di questo argomento ci riguarda e, come spesso accade, le convinzioni che maggiormente diamo per scontate ci aprono un mondo nuovo, se indagate da nuove prospettive. Il discorso è complesso, molto ramificato e uno degli aspetti più intriganti è che ognuno può costruirsene una mappa personale rivelatoria, interessante per sè stesso e per gli altri. In questo “Numero Primo” ci accompagna Alessandra Campani. Non c’è una definizione professionale esaustiva per lei: fa parte di quel numero esiguo di personaggi che hanno pazientemente tessuto studio (e qua siamo al di là della dimensione accademica) ed esperienza sul campo per ottenere un risultato prezioso e versatile, fatto di competenze e pratiche in bilico tra l’attualità e l’universalità. Alessandra, in un trafiletto introduttivo scritto per noi qualche anno fa, si riassumeva così Da 16 (20, ora, NDR) anni lavoro nel centro antiviolenza “Casa delle donne” e sono stata, 18 (22, idem) anni fa, una socia fondatrice dell’associazione Nondasola che lo gestisce. Anni di ascolto, pensieri e riflessioni sulla violenza, sulle donne, sulla differenza sessuale e di genere. Anni di domande e riflessioni sui perché della violenza sulle donne sia in tempi di guerra che di pace.
Sulla diffidenza da applicare alle riduzioni in formule, vi rimando all’intervista alla stessa Alessandra poco più avanti nelle pagine. Per quanto io abbia scantonato rispetto al nominare il suo lavoro una volta per tutte, mi sento di sottolineare l’ambivalenza che provoca in chi opera nel nostro settore. Per gli educatori più inesperti, solitamente, risultano molto affascinanti alcuni aspetti della professione di Alessandra: la difesa delle persone in condizione di sofferenza, la collaborazione con le forze dell’ordine, la tensione all’indagine nella vita delle persone e affini, elencati qua velocemente non certo per liquidarli senza rispetto, ma perchè meriterebbero una ben più degna analisi. Per contro, è difficile immaginare la richiesta di concentrazione e di sopportazione di carichi emotivi che viene richiesta: quando poco fa si diceva che Alessandra Campani ha costruito efficienza e credibilità nel suo lavoro negli anni, è anche perchè il raggiungimento di equilibri che rendano quel lavoro sostenibile per chi lo affronta comporta la messa in discussione di se stessi come persona, con i propri limiti e i propri punti di forza, per trovare modalità di relazione funzionali ma allo stesso tempo autentiche. L’autenticità nella relazione - che è ben altro dalla spontaneità - è uno dei punti ribadito da Alessandra nel suo intevento formativo del quale parliamo in questo numero. Rimangono alcuni punti sui quali avremmo voluto confrontarci con lei. Come sempre accade quando un dialogo è accorato, tuttavia, si assecondano linee ideative che non si erano previste: in più, nascono nel rimuginare successivo altre connessioni prima non chiare, con il proprio vissuto ma ancora più frequentemente - grazie alla densità umana che lo caratterizza - dalle ore passate con le persone con le quali lavoriamo. La disponibilità di Alessandra nei nostri confronti è rimasta invariata, sebbene lei negli abbia visto aumentare le richieste di intervento (dato sul quale sarebbe necessario soffermarsi): contiamo di poterla considerare nostra compagna di viaggio per molto altro tempo. M. M.
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Riflessioni ad introduzione del tema principale del Numero Primo
EDUCAZIONE SENTIMENTALE, SENSO DEL MONDO E DELLE RELAZIONI di ELETTRA DEIANA
I bambini e le bambine dovrebbero essere abituati – in quel fondamentale luogo pubblico, di relazione sociale e di formazione cognitiva che è la scuola – a riflettere, indagare, parlare ed esprimere sentimenti sul valore umano – sociale e simbolico, oltre che immediatamente affettivo – contenuto nella pratica della cura materna, che è atto d’amore e pratica di relazione fondativi. Di quella donna, delle donne che li mettono al mondo, li fanno crescere, li mettono in comunicazione con la realtà, a partire dall’esclusiva relazione simbiotica col proprio corpo/mente; e andando a tal punto oltre quella relazione primaria da infondere loro la forza di farne a meno e andare avanti nella vita, costruendone altre. La qualità della vita è nella qualità delle relazioni, affettive e sociali, di quelle che attraversano le vicende amorose o segnano le affinità elettive di ognuna, ognuno di noi. Le donne, con quel curarsi di loro, delle creature, che fa ordine sulle cose essenziali della vita, stabilisce priorità, dà forza per il futuro. Costruisce il mondo. Preziosità della relazione e dell’ averne consapevolezza e cura, soprattutto oggi che la contemporaneità sembra volerci condannare alla dimensione straniante della solitudine e alla caduta di ogni vincolo significativo. Anche questa dimensione – l’assenza di consapevolezza sul significato e il senso della pratica relazionale – entra nel problema della violenza sulle donne, contribuendo a inasprire la crisi post patriarcale in cui versa l’identità maschile. Occorrerebbe invece alimentare una cultura di attenzione e valorizzazione della pratica della cura, dell’inclinazione a farsene carico, decostruendo criticamente l’idea che si tratti di un mero dispositivo di ordine domestico, in qualche misura dovuto ai meccanismi automatici di quell’ordine o
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come se si trattasse soltanto di una dimensione “naturale”, conseguenza del banale stereotipo che “la mamma è la mamma”. Mammismo deteriore, ancora così forte da noi, che riduce a vicenda intima e privata la dimensione della cura, che è invece un complesso meccanismo sociale e culturale alla base di tutto, che tutto tiene insieme e alimenta. E quando si rompe, molte cose falliscono. Occorrerebbe che le ragazze e i ragazzi imparassero a fare i conti con la cultura, la storia, le cose del mondo nella loro complessità, operando uno spostamento dello sguardo, per avere così una reale dimestichezza con l’esperienza delle donne, imparando a conoscerle come autentici soggetti della vicenda umana: donne di pensiero, scrittrici e poete, scienziate, pioniere. Politiche e testimoni del loro tempo. Non più sconosciute o quasi sconosciute o per lo più o ridotte a una nota aggiuntiva, una parentesi di qualcosa che rimane saldamente nelle mani degli uomini; messe là per caso, senza presa nel contesto storico sociale, derubate dei percorsi intrapresi, dei segni lasciati. Scrive Christian Raimo nel suo intenso articolo sul femminicidio (Europa, 24 agosto 2013), “quando uno dice che cosa si può fare contro il femminicidio oggi in Italia, la mia risposta è lateralissima: leggere più libri scritti da donne alle elementari e alle superiori, studiare di più il pensiero femminista alle superiori e all’università. Far sì che per esempio La campana di vetro non sia una chicca introvabile ma un best-seller estivo per studenti come Il giovane Holden; inserire nei programmi di filosofia, letteratura, storia delle superiori una parte significativa dedicata al femminismo storico; desacralizzare autrici come Amelia Rosselli o Cristina Campo dalla loro pseudosantificazione nelle cattedre di studi femminili e pensarle come centrali in un canone della letteratura italiana.” Che degli uomini pensino in questa direzione, a partire dalla propria esperienza e dal proprio sentire, apre una strada che può fare la differenza nel misurarsi con il
problema della violenza sulle donne. Nel capire di che si tratti e che cosa valga la pena di fare per contrastarla. Mettersi in relazione sentimentale col mondo delle donne. Capire le cose attraverso il loro sguardo e la loro parola. Elaborare meccanismi di scambio e reciprocità tra quello stare differentemente al mondo di donne e uomini, che è alla base della vicenda umana. Stare differentemente al mondo: non per legge di natura, come voleva l’ordine patriarcale ma per libertà femminile, come hanno voluto le donne. Questo è uno snodo di quella che chiamiamo educazione sentimentale. Può essere avviata e alimentata in tanti modi e per tante strade, che hanno a che fare in primo luogo con la cultura. La scuola, per quello che è, a tutti i livelli, dovrebbe esserne fortemente investita: con programmi studiati ad hoc, adeguata formazione del personale insegnante, fondi per la ricerca e la sperimentazione. L’atto estremo della violenza sulle donne è il femminicidio, che i media e i talk show hanno molto discusso nell’ultimo anno ma spesso con morbosa dovizia di particolari e confusione delle problematiche.
Materia ridotta a noir come poche, nell’epoca in cui thriller noir e polizieschi si sono presi il compito di ridisegnare le mappe angoscianti dell’esistenza contemporanea. E materia da stato di emergenza, da politiche securitarie, come è successo col “pacchetto” omnibus votato a ottobre di quest’anno. E invece è materia della vita, in cui si intrecciano storia, antropologia, società, cultura. Dimensione materiale e dimensione simbolica, che accompagnano sempre l’incontro tra donne e uomini. Sono state proprio loro, le donne, a mettere in chiaro le cose relative alla violenza, smontandone la costruzione ideologica di stampo securitario, spiegando che il violentatore “ha le chiavi di casa” e che nel maggior numero dei casi la vittima conosce bene il suo carnefice. “Intimate partner”: violenza che si consuma nell’intimità della relazione. Così è venuto in chiaro che tra le mura domestiche si annida il grumo nero di una violenza di “contiguità relazionale”, e i casi di femminicidio “domestico” hanno cominciato a occupare le pagine dei giornali.
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Spostamento dello sguardo, che le donne hanno indirizzato dal prevalente stereotipo “etnico” alla realtà dell’ambiente domestico. Non tutti gli uomini sono violenti, stalking, assassini di donne. Ovviamente. Ma così come non c’è una tipologia di donna che più facilmente può cadere nella spirale psicologico – esistenziale della “trappola d’amore”, (lo stereotipo della donna “debole”, che non sa capire, non sa sottrarsi e via di questo passo), così non c’è una tipologia di uomo che più inesorabilmente degli altri abbia la predisposizione all’eccesso di violenza. Uomini miti e uomini violenti, radicalmente divisi in due campi? Niente di più lontano dalla realtà. Gli uomini, fino a ieri, di fronte alla violenza sulle donne giravano lo sguardo altrove, per non occuparsi di una materia così scabrosa che parla di loro, per non riflettere su se stessi, per non fare i conti con il rimosso si turbamenti e contraddizioni che spesso li assillano. La violenza è sempre descritta da loro come faccenda di altri, indecifrabile nelle ragioni che la muovono. E’ raro che parlino di se stessi. “Il” problema. La violenza sulle donne ha radici antiche ma si alimenta, in modo penetrante, performativo, dei profondi cambiamenti della contemporaneità, delle crisi di identità e degli slittamenti di senso, degli effetti che la mappa della libertà femminile ha impresso alla società, della fine dell’ordine patriarcale, e dunque del venir meno di un ordine simbolico e sociale in cui la gerarchia del potere maschile trovava riscontro, conforto, legittimazione, dando certezza agli uomini che ogni loro azione nei confronti delle donne corrispondeva al giusto. La crisi dell’identità maschile, l’ incapacità maschile di fare i conti col cuore di tenebra delle proprie pulsioni, con la propria sessualità, con la tentazione del possesso di quel corpo di donna. Tutto non secondario in un percorso di educazione sentimentale. “Occorrerebbe sfumare un po’ i confini tra una comunità di persone razionali e perbene (uomini avvertiti, compagni che affiancano le proprie donne nelle loro battaglie, che decidono di accompagnare le loro partner alle manifestazioni sulla violenza domestica) e un’altra massa di uomini potenzialmente violenti, che covano sotto le camicie inamidate e uno sguardo innocuo un impulso alla brutalità pronto a emergere al primo raptus. Io preferirei che se un discorso maschile deve partire sul femminicidio si cominciasse a riconoscere l’esistenza di una “zona grigia” in cui la razionalità e l’irrazionalità sono confuse.” (Raimo) La violenza sulle donne è legata ai percorsi di vita della donna che la subisce, ai desideri di cui sono intessute le sue relazioni, agli inganni e alle bugie di quella vera e propria “trappola d’amore” in cui a un certo punto una donna può precipitare. 8
Non di rado, per alcune, come le cronache ci raccontano, con esiti violenti e fatali. Standoci dentro con un’ostinazione che nasce dalla dimensione avvolgente, essenziale, che spesso, per la vita di una donna, acquista la relazione con l’altro. Siamo di fronte a una dimensione intima e spesso inestricabile, la faglia densa di contraddizioni che, per ogni donna, imprigiona il rapporto tra pubblico e privato, tra personale e politico. Una dimensione – lo sappiamo bene – spesso opaca, indecifrabile, inafferrabile, dove agisce la seduzione dell’amore, il coinvolgimento delle emozioni, di natura tale da eccedere sempre il rapporto che la legge sul piano generale stabilisce tra lo Stato e le sue cittadine. Cambiare rotta, lasciar perdere l’idea aberrante che il problema si possa risolvere con qualche inasprimento della legge penale. Scelte a latere, passo dopo passo. Con l’idea di cambiare le cose in profondità. Ma non bastano neanche – ancorché da considerare collegata a quello che meglio può servire – la programmazione di corsi di cultura di genere, che declinino la storia umana facendo spazio alle donne, o lavori di decostruzione degli stereotipi sul corpo delle donne, o mappe delle pari opportunità. Tutte cose in qualche misura utili. Ci sono sperimentazioni con cui confrontarsi: in Francia, Svezia, Regno Unito. Anche in Italia. Ma il problema di fondo è dare impulso a un’autentica semantica dei sentimenti, una grammatica dell’amore, una capacità di confronto sugli immaginari, i simboli, i riferimenti che accompagnano i percorsi di formazione delle giovani generazioni. Parole e pratiche di scambio.
La violenza contro le donne, nel momento in cui si manifesta, è dominata dall’afasia. Di entrambi, dell’una e dell’altro, intrappolati entrambi, vittima e carnefice, nel lato in ombra dei sentimenti, di cui mai si riesce a parlare. Urla, imprecazioni, farneticazioni e lamenti, suppliche, pianto. Implosione dei sentimenti di fronte alle pulsioni elementari del predare e del cercare scampo, dell’imporsi con la brutalità della forza e del cercare riparo da quella brutalità. Caduta abissale, spesso senza ritorno, dell’intendersi attraverso le parole, del comunicare, dello spiegarsi. Tutto si riduce al grande rimosso del rapporto, a quel lato oscuro e ancestrale. Che giace per lo più sepolto nelle complesse sedimentazioni della modernità, allontanato dal discorso pubblico e ignorato dalle riflessioni correnti ma ancora in grado, non di rado, di tornare a galla violentemente, esplodere, dettare i modi della sessualità maschile e le regole del rapporto, la spinta al possesso del corpo femminile, oggetto di un desiderio ferino che uccide i contesti, le storie, i sentimenti. Mancano le parole, le pratiche, le sfide di un incontrarsi che sia tale, che sappia mettere in gioco una reciprocità dei sentimenti e del differente modo di vivere le cose di donne e uomini. Non c’è cultura di questo, per questo. L’educazione sentimentale, avviata con “ricchezza” di intenti fin dalla scuola elementare, modulata via via, secondo lo sviluppo del percorso formativo di ragazze e ragazzi, giocata come elemento centrale per favorire la formazione di comunità di persone giovani, è lo strumento che forse meglio di altri può offrire occasioni importanti per stimolare la consapevolezza – in donne e uomini – del lato oscuramente ambiguo che fa spesso da schermo alla violenza sulle donne, depista, camuffa, offre alibi interpretativi alla violenza. Anche al giudice che sentenzia: eccesso d’amore, gelosia d’amore, crimine d’amore, delitto passionale. E così via.
Più in generale l’educazione sentimentale può essere lo strumento in grado di suscitare e arricchire il sentimento del mondo, il senso delle relazioni, la conoscenza dell’”altro”. Che cosa sia l’amore, oggi, per i ragazzi e le ragazze. Quale sia il significato intimo, profondo indicibile della parola, l’immaginario a cui rimanda, le suggestioni che alimenta, i sogni che implementa, la catena di sentimenti che sviluppa. Nell’epoca in cui la sessualità è sempre più precoce e spesso esibita e l’immaginario è spesso regressivo e l’autonomia pratica delle ragazze convive con la subalternità psicologica al “sogno d’amore”, mentre lo spiazzamento dei maschi di fronte a quell’autonomia trova rifugio in rinnovate forme di potere. Forza e possesso. L’antidoto alla violenza, l’alternativa alla violenza è in primo luogo, la parola, che è al fondamento della cultura, è il fondamento della cultura. dal blog personale di Elettra Deiana
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Il linguaggio e il silenzio: dalla relazione alla violenza appunti dall’incontro di formazione condotto da Alessandra Campani 15 ottobre 2015, Reggio Emilia
L’incontro si è articolato partendo da parole-chiave, ragionata prima dalla formatrice e poi dagli educatori, sollecitati a riflettere individualmente o in gruppo per dare voce ai propri pensieri e riflessioni. La prima parola chiave introdotta è stata “esperienza”, elemento base dell’educazione e della prevenzione. La formatrice ha sottolineato la necessità e l’obbligatorietà di rielaborare l’esperienza. È importante teorizzare, astrarre quello che è successo in una data situazione per arrivare al sapere. Noi apparteniamo a una cultura di sapere accademico, dove l’esperienza viene considerata come un qualcosa di meno nobile. “Comunicazione” è la seconda parola chiave, intesa come il dischiudere uno spazio tra me e l’altro interlocutore. Si apre così un’opportunità tra due persone a interagire, in cui è importante esserci. Qual significato attribuiamo a “comunicazione”? Che cosa viene scambiato tra gli interlocutori? Alessandra ha poi proposto una propria analisi sulla società odierna, basata sul dire, ovvero sul limitarsi solamente a uno scambio di frasi. Nella nostra società digitalizzata, non c’è il tempo né di sedimentare, né di riflettere e nemmeno di pensare; il presupposto del dialogo viene quindi a mancare, anche quando si crede di condividere con l’altro interlocutore. Tutto ciò produce solamente un rumore di parole che cadono nel vuoto e un’illusione di libertà.
Siamo sedotti dalla velocità delle parole; è come se ognuno di noi creasse dei propri monologhi, che non portano a un dialogo tra persone, ma solamente un ripetersi continuo di parole senza un vero scambio. I ragazzi, ma non solo, sono porta voci di monologhi, perché stimolati dalla potenza del mezzo tecnico che crea l’illusione di comunicare con una virtuale e inesistente tribuna di ascoltatori. La comunicazione arriva a limitarsi, per esempio, a semplici emoticon in cui viene risparmiata la fatica di esprimere le proprie emozioni e sentimenti; non ci si guarda più, ma si rimane chini su uno schermo. Da questa analisi nasce il primo assioma: “Non si può non comunicare”. Noi scegliamo e quindi siamo responsabili del tipo di strumento scelto e del tipo di comunicazione con l’altro interlocutore. Il secondo assioma, invece, afferma che “l’informazione viene creata da chi la riceve”, non da quello che noi vogliamo dire. Se siamo stati in dialogo (inteso come non del dire, ma del parlare con) non conta il punto di vista personale, ma ciò che l’altro interlocutore rimanda e comprende. In questo modo, se ci si preoccupa di ciò che è arrivato all’altro, le probabilità di conflitto diminuiscono. Quando si è anoressici del parlare e bulimici del dire, il rischio è di diventare ciechi ( non guardiamo, perché limitati da uno schermo) e sordi (non ascoltiamo). Se non si vuole essere né ciechi né sordi, il dire si deve trasformare in parola. Proprio la parola, la cui etimologia significa “dono”, “rendere comune”, è l’estensione e manifestazione di sé verso gli altri.
È SEMPRE IMPORTANTE RIFLETTERE SU CIÒ CHE “PASSA” NELLE NOSTRE COMUNICAZIONI. ATTRAVERSO LE PAROLE E IL NON VERBALE INFATTI TRASMETTO ALL’ALTRO CHI SONO, COSA PENSO E COSA PROVO IN QUEL MOMENTO ENTRANDO IN RELAZIONE CON LUI. MA COSA ACCADE QUANDO ALL’ALTRO NON “PASSANO” LE NOSTRE INTENZIONI COMUNICATIVE? QUANDO NON RIUSCIAMO A RENDERE CHIARO CIÒ CHE AVREMMO VOLUTO DIRGLI?
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Quando si entra in relazione con un’altra persona, bisogna prima partire da se stessi per poi uscire e farsi guidare nel mondo dell’altro. Si può comprendere, capire l’altro mondo, ma non sarà mai nostro. Non conoscendo la dimensione dell’altro, si rischia con facilità di diventare colonizzatori. Nella relazione, la parola diventa strumento di cura ; bisogna curare le parole stesse, perché sono strumenti sottovalutati. In realtà, le parole hanno una propria potenza, perché definiscono l’orizzonte nel quale viviamo. L’uso delle parole può portare a dei rischi, che devono però essere comunque affrontati. Si può abusare delle parole e manipolare l’altro. Anche noi stessi possiamo diventare vittima delle nostre parole. Ci si affida più facilmente all’uso quotidiano delle parole, limitando sia la qualità sia la ricerca. Spesso ci rivolgiamo al dizionario di sinonimi e contrari per sostituire la prima parola scelta, sottovalutando la sua etimologia. La parola non è solo il mezzo del contenuto, ma anche la modalità. Anche la domanda può essere testimone di questa potenza. Alessandra Campani porta un esempio concreto, chiamato “metodo Colombo”, in cui le domande poste sembrano prive di senso, ma colgono particolari importanti della relazione. La domanda può, però, diventare un “martello pneumatico”, se usata senza freni e senza rispetto dell’altro. Gli strumenti che la formatrice utilizza durante un primo incontro con una donna vittima di violenza sono due: l’ascolto e la parola. Molto spesso, l’ascolto è anticipato dal linguaggio enigmatico del silenzio, fondamentale per la conoscenza di sé e dell’altro. È necessario fare esperienza di silenzio, anche se è faticoso reggerlo, perché non si conosce a cosa si va incontro. Per questo motivo bisogna recuperare la solitudine che permette di rientrare in relazione con se stessi, senza mai smarrire il desiderio, la nostalgia di relazione con gli altri. La solitudine si discosta dall’isolamento che è indice di chiusura di se stessi. La coerenza, invece, è alla base dell’ascolto. L’ultima parola chiave, ma non meno importante, è “corpo”, inteso come strumento che rivela ciò che siamo e quello che pensiamo realmente, anche se diciamo il contrario. Il nostro mestiere ci mette in scena tutti i giorni, mostrando il nostro vero essere senza avere il tempo di costruire un’altra identità. Ci si è soffermati sulla difficoltà di ascoltare i ragazzi, perchè spesso – ricadendo in un automatismo ben poco rispettoso verso il soggetto principale – si è mossi dalla ricerca di informazioni su di lui.
Può capitare, addirittura, di concedere più attenzione durante l’ascolto di chi porta notizie sul ragazzo (il genitore, lo psicologo, l’insegnante...) che del ragazzo stesso. Altro punto problematico è l’approccio ai ragazzi stranieri, rispetto ai quali si rischia di diventare colonizzatori, aiutandoli eccessivamente a trovare le parole giuste, eliminando l’attesa e i momenti di silenzio, perché richiedono molta energia. Si è evidenziato il disagio nel cogliere le parole dell’altro e comunicare le nostre: l’esercizio andrebbe fatto più nelle relazioni quotidiane, per trasmettere le proprie modalità di comunicazione anche nell’ambito più strettamente lavorativo (educativo). Molto spesso la sintonia tra educatore e ragazzo viene cercata attraverso l’uso della tecnologia, sottovalutando le parole. Noi dobbiamo insegnare ai ragazzi che le parole sono uno strumento di cura. Non attraverso i libri e dizionari i ragazzi impareranno a sapere parlare - si tratta di una generazione che ha una conoscenza limitata della parola scritta - ma solamente attraverso il dialogo. Alessandra Campani ha riportato un dato del 2014 che rivela come il problema di dispersione scolastica rappresenti il 17-18%. I ragazzi devono essere indirizzati anche verso l’ esercizio del silenzio, spesso sfruttato come chiusura nel loro mondo digitalizzato. L’educatore, anche se possiede strumenti adatti al suo lavoro, è prima una persona e deve fare i conti con se stesso e i suoi limiti personali. Infatti, il principio di fondo dell’educazione è che non si deve crescere nella difesa di sé, ma nella proposta di sé. Quando il passaggio avviene nella proposta, si è molto più attenti alle parole che si usano.
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Urla, imprecazioni, farneticazioni e lamenti, suppliche, pianto. Implosione dei sentimenti di fronte alle pulsioni elementari del predare e del cercare scampo, spesso senza ritorno, dell’intendersi attraverso le parole, del comunicare, dello spiegarsi. Mancano le parole, le pratiche, le sfide di incontrarsi che sia tale, donne e uomini. Non c’è cultura di questo.
INTERVISTA CON ALESSANDRA CAMPANI
la fatica che è divent a cura di Matteo Muratori
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dell’imporsi con la brutalità della forza e del cercare riparo da quella brutalità. Caduta abissale, che sappia mettere in gioco una reciprocità dei sentimenti del differente modo di vivere le cose di Citazione da Elettra Deiana (2013) contenuta nel volume Che cosa c’entra l’amore, a cura dell’Associazione Nondasola, 2014
del SILENZIO tato parola Alessandra Campani entra nei contenuti in punta di piedi, dando esempio della delicatezza necessaria nell’accostarsi gradatamente all’argomento della violenza maschile contro le donne. Il tema sembra attuale: ne parlano i giornali, internet, la televisione, i portavoce della politica, alcuni operatori di alcune istituzioni. Di che cosa parlino in realtà è elemento che necessita un’indagine il meno semplicistica possibile. Ritorna l’eterno problema dell’affrontare gli argomenti che, ciclicamente, trovano posto sulla bocca di tutti: tutti sono autorizzati a parlarne, tutti sono autorevoli, tutti hanno una casistica pseudo-scientifica propria da sciorinare, un repertorio di “sentito-dire” che diventa letteratura di riferimento, indiscussa. Alessandra Campani entra nei contenuti in punta di piedi, dando esempio della delicatezza necessaria nell’accostarsi gradatamente all’argomento della violenza maschile contro le donne. Il tema sembra attuale: ne parlano i giornali, internet, la televisione, i portavoce della politica, alcuni operatori di alcune istituzioni. Di che cosa parlino in realtà è elemento che necessita un’indagine il meno semplicistica possibile. Ritorna l’eterno problema dell’affrontare gli argomenti che, ciclicamente, trovano posto sulla bocca di tutti: tutti sono autorizzati a parlarne, tutti sono autorevoli, tutti hanno una casistica pseudo-scientifica propria da sciorinare, un repertorio di “sentito-dire” che diventa letteratura di riferimento, indiscussa. Inoltre – il copione è già visto, quindi – diventa presto valida la prassi che chi più urla, più risulta la voce da prendere in considerazione: l’arroganza viene scambiata per chiarezza nei punti di vista, la sbrigatività come padronanza, l’appiattimento terminologico come apertura al dialogo democratico. In tutt’altra direzione è, prima ancora della lezione, l’esempio prima di tutto corporeo di Alessandra, presenza discreta per natura e appariscente per cultura, in ogni contesto dove interviene portando le proprie competenze. La voce calma guida all’attenzione, la circospezione del discorso non è smarrimento ma attenzione costante a chi la segue nei percorsi di indagine sui nodi affrontati. Abbiamo visto Alessandra adottare il medesimo garbo (in opportuno equilibrio tra l’accademico e il maieutico) nelle situazioni più disparate, affrontando risvolti ogni volta diversi del medesimo tema nel quale ha accompagnato gli operatori del Giro del Cielo nell’ottobre 2015. (segue a pag. 14) 13
Non si tratta più di una strategia comunicativa: la storia professionale di Alessandra mostra come nel lavoro – ed in particolare nella pratica di relazione ed educazione – ci siano modalità che inizialmente possono essere adottate come “trucchi del mestiere”, ma poi, sulla scorta di un’opportuna riflessione, diventano non raramente patrimonio stabile dell’educator*. Essere professionisti della cura obbliga a responsabilizzarsi verso la comunicazione, facendone cogliere potenzialità inaspettate e – ciò che conta – permettendoci di prendere realmente in considerazione le complessità e peculiarità della persona che mi trovo davanti. La “fatica” del titolo ci tocca, perchè siamo abituati a pensare ed agire in ben altro modo: è faticoso fermarsi, aspettare, ammettere la presenza e la dignità delle altre persone, considerarne tempi ed esigenze, costruire il piano adeguato di relazione e condividerne la responsabilità della manutenzione.
“Violenza maschile sulle donne” significa voler sottolineare ancora – e non so per quanto lo dovremo fare – la responsabilità di chi la agisce e le tutte le difficoltà che ancora ci sono per le donne di nominare la violenza che subiscono soprattutto in una relazione. Consegue il dubbio, poi, che quello che personalmente è stato nominato in un modo, sia stravolto dalla realtà: interviene il filtro della cultura, perchè il concetto di “violenza” cambia, di contesto in contesto, da cultura a cultura – anche il nostro livello di accettabilità della violenza si è modificata, nei decenni. “Violenza maschile sulle donne” è pur sempre una formula, pronunciabile in un tempo tollerabile per ogni tipo di conversazione, da quella di quartiere a quella propria dei luoghi decisionali, eppure è molto più circostanziata e connotativa di altre che hanno tenuto la scena in passato. Indica un fatto inaccettabile (violenza), indica di chi è la responsabilità (maschile) e dice chi è la vittima (sulle donne). Eppure abbiamo ancora molta strada da fare, perchè quella formula opera una semplificazione irrispettosa.
È passando attraverso la ricerca di una definizione quale “violenza maschile sulle donne” e le questioni che concretamente sottende che ho imparato ad avere attenzione e rispetto per le parole che le donne vittime di violenza usano. Saper nominare una violenza fisica non vuol sinteticamente dire “ho subito violenza fisica”, entrando in una statistica immateriale e omogenea come esperienza: vuol dire, ad esempio, “ieri pomeriggio ero in cucina, seduta sul divano, lui è entrato in casa sbattendo la porta; mi ha chiesto se avevo fatto ciò che mi aveva chiesto, ci ho messo due secondi in più a rispondere e mi ha tirato in piedi per i capelli, sbattuta sul pavimento, mi ha tenuto i piedi sopra ecc.”
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Sono dettagli, ma sono quelle tracce indelebili che permettono alla crudeltà di radicarsi nel corpo e nella mente delle vittime, riaffiorando in tempi e modi apparentemente immotivati, facendo rivivere il terrore e l’ingiustizia, spesso l’inadeguatezza che deriva dalla nebulosa certezza di avere sbagliato qualcosa.
Se io mi fermassi a “ho subito una violenza fisica” ignorerei il mondo di parole che appartiene a quella donna che può utilizzare per esprimerla e, di fatto, anche io la ridurrei al silenzio, ribadendole implicitamente che la sua esperienza non merita più attenzione o rispetto di altre. Ma ancora di più, non solo sarebbe un difetto di attenzione da parte mia che testimonio quegli episodi, (una mancanza di sensibilità che per un operatore che si occupa di persone non può trovare giustificazione), ma non terrei nemmeno conto che la violenza ha già imprigionato quella donna nel silenzio, perchè l’esperienza le dice che qualunque urlo lei faccia, qualunque “no” lei dica, qualunque richiesta di chiarimento o di spiegazione implori, non riceve nulla, né parole né cambiamenti. O, ancora peggio, se riceve parole, sono quelle che le servono a confermare che la colpa è solo sua.
Si sviluppa una sfiducia nella potenza delle parole, che si conferma ogni giorno di sofferenza in più che le tocca. Chi opera da testimone per chi ha subito queste violenza, deve conoscere e ri-conoscere la vita segreta delle parole, rispettare tutto il materiale umano che proprio per quella persona ne ha costruito il significato presente. Abbiamo il desiderio di voler parlare delle cose ma poi finiamo per fare sintesi, il che è senz’altro apprezzabile e il più delle volte funzionale, se non fosse che spesso la volontà è quella di occultare l’orrore, di non soffermarsi sulla descrizione fastidiosa e complessa della violenza, rendendo il tutto neutro. Si copre così - tanto per fare presente uno dei molti aspetti taciuti - le difficoltà di relazione tra uomini e donne, negando la possibilità di discutere dei motivi e degli estremi di questo fatto. segue a pag. 16
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Oggi c’è più consapevolezza e c’è maggiore possibilità di dire: lo stato attuale del nostro contesto sociale, tuttavia, è più precisamente espresso dalla formula “puoi dire, poi però fammi andare a letto con il cuore in pace”. Ci si affida più volentieri a termini che abbiano un risvolto tranquillizzante. Non è ancora sparito dalla circolazione “lite in famiglia” quando si parla di situazioni di violenza, per renderci conto del punto a cui siamo.
Di fondo sono un’ottimista, quindi vedo un margine di progressione nella consapevolezza per i tempi futuri, anche pensando all’evoluzione che ha riguardato contesti di altre nazioni.
SUI LINGUAGGI PROFESSIONALI -- Quando sono partita in questo ambito, ero consapevole di non avere un mio vocabolario. Ho ancora un quaderno grigio, con una tigre in copertina, nel quale, alla luce di quella consapevolezza, prendevo nota professione per professione dei sintagmi che erano incomprensibili. Non lo facevo per deriderne la forma o l’uso: quello era il loro mondo, e prima di “decostruire” qualcosa occorrono indagini curate e ben istruite. A distanza di anni, quelle locuzioni mi hanno confermato come troppo spesso si ha a che fare con espressioni autoreferenziali, che garantiscono un sistema, un’istituzione, una modalità di pensiero, ma poco adatte a trattare la specificità delle singole persone. In alcuni casi, chi utilizza quelle formule non si può permettere di parlare un linguaggio diverso, forse per vincoli istituzionali che indirizzano a produrre documenti neutri. Si tenga però presente che, dove ce ne è stata l’occasione, proprio i documenti neutri sono diventati documenti di protagonismo maschile e femminile e di rivoluzione culturale. Seguendo questo discorso, sono naturalmente in guardia quando sento oggi utilizzare il termine “bigenitorialità” all’interno del mondo della violenza sulle donne: dove ci sono dei minori e una donna che subisce violenza, non riesco proprio ad immaginare come ci possa essere una bigenitorialità. Negli anni, come Associazione Nondasola, abbiamo condiviso un impegnativo lavoro con le forze dell’ordine nella formulazione delle denunce, perchè venisse dettagliatamente scritto quello che le donne dicono e non ciò che l’ordinamento o un altro livello riassume. In qualunque mondo può valere quello che dico - ma nel mondo della violenza sulle donne io ne vedo l’inevitabilità – se però vogliamo restituire dignità, forza, valore, alla fatica del silenzio che è diventato parola, bisogna continuare ad esercitarsi per mantenere il livello di efficacia raggiunto, considerando che ci si muove in un contesto carsico, nel quale ci si scontra continuamente con una cultura che è pronta a ricadere nella neutralità. In questo periodo storico per esempio devo rinunciare pubblicamente ad usare il termine “genere” perchè si assiste ad una levata di scudi immediata che impediscono un dialogo: vorrei porre la questione al centro di dibattiti ma non lo posso fare perchè sento il rischio della strumentalizzazione è una responsabilità che non ricade solo su di me, ma sulle donne che vengono al Centro Antiviolenza: assistere, come conseguenza, a provocazioni forti verso questo luogo che rappresenta molto per le donne, non è qualcosa che per il momento valga una puntualizzazione linguistica ma appena possibile lo riportiamo là dove è necessario che stia. Questa stessa cosa l’abbiamo fatta in altri tempi con la parola bullismo.
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femicidio
Nel novembre 2012 a Vienna, la Academic Councilon United Nations System (ACUNS) ha redatto un documento sul femmicidio in cui esperte internazionali come Diana Russel (criminologa statunitense che ha coniato il termine), Michelle Bachelet (ex UN Women), Rashida Manjoo (relatrice speciale dell’ONU sulla violenza contro le donne), hanno discusso in un simposio di studiose ed esperte sulla radice di genere delle varie forme di violenza contro le donne che portano fino alla loro uccisione. Nel rapporto finale si può leggere che “il femmicidio è l’ultima forma di violenza contro le donne e le ragazze, e assume molteplici forme” e che “le sue molte cause sono radicate nelle relazioni di potere storicamente ineguali tra uomini e donne, e nella discriminazione sistemica basata sul genere”. Infine il documento rammenta che “per considerare un caso come femmicidio, ci deve essere l’intenzione implicita di svolgere l’omicidio e un collegamento dimostrato tra il crimine e il genere femminile della vittima” e che “finora, i dati sul femmicidio sono altamente inaffidabili e il numero stimato di donne che ne sono state vittime variano di coseguenza” ma che “i femmicidi avvengono in ogni paese del mondo e la più grande preoccupazione è che questi omicidi continuano ad essere accettati, tollerati o giustificati come fossero la norma”.
[dal sito della testata Il Manifesto, articolo di Luisa Betti del 27.11.2014]
Quando mi sono accostata a questi argomenti 20 anni fa, si utilizzava la formula “violenza di genere” come massima provocazione, oggi in disuso. Per creare un “rumore” intorno alla questione che non sia caos, ma sia problematicità, discussione, dibattito, penso sia necessario passare attraverso l’uso di parole appropriate, purché ci sia la consapevolezza che io stia usando le parole, salvaguardandomi dall’opposta dinamica che le parole usino me, per modificare la mia mappa culturale e mentale. La parola deve diventare per me strumento di combattimento verso un cambiamento culturale. Posso giocare con le parole per cercare di provocare, per addentrarmi nei significati, per indagare e per aprire relazioni: ma devo tenere alta la consapevolezza che con le parole creo dei contesti. Uno dei rischi è la retorica: usare le parole senza farsi carico della loro propria potenzialità, dell’azione di sovvertimento dell’ordine simbolico delle cose che possono comportare. Altro rischio è affidarsi alla sinonimia con colpevole leggerezza: se dico “lite in famiglia” non posso pretendere di aver lasciato intravedere legami con la violenza sulle donne, perchè quell’espressione parla di tutt’altro.
femminicidio
Il femminicidio secondo Marcela Lagarde, antropologa messicana che è considerata la “teorica” del termine, è un problema strutturale, che va aldilà degli omicidi delle donne, riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà non soltanto fisicamente, ma anche nella loro dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica. Pensiamo a quelle donne che subiscono per anni molestie sessuali sul lavoro, o violenza psicologica dal proprio compagno, e alla difficoltà, una volta trovata la forza di uscire da quelle situazioni, di ricostruirsi una vita, di riappropriarsi di sé. Femminicidio è «La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine -maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale- che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia».
[dalla sezione 27ora del sito del Corriere della Sera, articolo di Barbara Spinelli]
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R I F L E S S I O N I
P O S T - F O R M A Z I O N E dagli educatori del Giro del Cielo
Che cosa trasmetto io per prima ai ragazzi che mi incontrano per la prima volta? Il riferimento obbligato è alle parole di Alessandra “L’educatore è prima di tutto una persona e solo successivamente un ruolo, quindi trasmettiamo ciò che siamo”: se siamo <falsi/finti> i ragazzi lo sentono, così come sentono se sei vero e possono così fidarsi di te. Siamo gli adulti che li aiutano a studiare, ma anche che li aiutano a riflettere sulle cose (non necessariamente scolastiche), che cercano di trovare dei momenti di dialogo con noi e tra loro durante il compito o la merenda, o che cercano di dissuaderli dall’uso compulsivo del telefonino. Solo dopo aver accettato di porsi come persona si apre la possibilità di entrare davvero in contatto con loro tramite l’empatia, che con alcuni è immediata, con altri è da coltivare. Alcuni ragazzi hanno poi bisogno di quel periodo di silenzio che va rispettato e non va forzato. Altri, al contrario, ti raccontano il loro vissuto come farebbero con tutti (e anche in questo caso bisogna valutare attentamente questo tipo di comunicazione, tanto come forma che come contenuti). (S. V.)
“Comunicare significa primariamente ascoltare, essere in dialogo e non monologanti”. Se penso a certe giornate in periodi intensi, nelle quali sono certa di dover fare mille cose tutte insieme, mi accorgo di come l’ascolto, la calma e un ambiente sereno sono un’oasi di benessere preziosa da offrire. Creare uno spazio pronto ad accogliere, metterlo come priorità di ogni giornata, non importa quali siano le altre urgenze: questo deve rimanere una nostra prassi, il punto di partenza imprescindibile di ogni momento di lavoro con bambini e ragazzi. Come possiamo, poi, insegnare ai ragazzi a parlare comunicando davvero? È una sfida vera e propria, soprattutto quando tende a prevalere la sensazione di essere in ritardo, di essere arrivati quando la povertà del linguaggio e, quindi, del pensiero, ha compromesso molto della persona. Superato il primo pessimismo, si scoprono preziose vie alternative per riattivare lo sviluppo del linguaggio e del pensiero, mediate dalle esperienze e dalla relazione, scoprendo che non si tratta di vie alternative, bensì di elementi in ogni situazione primari. In tutto questo, si radica sempre più la certezza che fare gli educatori obbliga a lavorare su sé stessi. Riflettendo sulle relazioni mi sembra che l’unico modo di tenere sotto controllo il rischio di far entrare in esse qualche forma di violenza sia un costante lavoro su di sé, che preveda anche l’ammissione che alcune delle proprie reazioni dipendono dalle proprie fatiche e fragilità e non da quelle dell’altro. Alessandra ci ricorda che questo lavoro su di sé comporta silenzio e solitudine, dimensioni che ci allenano, inoltre, a reggere meglio il silenzio con i ragazzi, scoprendone un senso condiviso. (E. M.)
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Nel tragitto in macchina scuola-casa la classica domanda “come è andata oggi?” spesso non funziona come vorremmo. Oppure produce la risposta standard “bene”, dalla quale deduciamo ben poco su come è stato trascorso il tanto (troppo?) tempo a scuola. Oltre all’uso della battuta e dell’ironia, può venirci in soccorso il “metodo Colombo” descritto da Alessandra Campani nell’incontro, e ispirato alle domande spesso ingenue e non dirette al problema del celebre tenente della televisione. Questo non per aggirare la questione della mattinata a scuola, ma per arrivarci da un’altra via, cogliendo magari più sfumature. Il linguaggio, però, può essere anche un momento di attesa. Se l’altro non risponde o non ha voglia di parlare non lo si può aggredire di parole, con la finalità di riempire uno spazio vuoto dove sentirci meno in difficoltà, rinforzando noi stessi ma non gli altri. (A. Z.)
Quando Alessandra parla, più ci si concentra su ciò che lei dice, più la propria testa si riempie di pensieri che deviano. Insomma, più si è attenti, più si è divaganti: concentrati su di lei e sulle sue parole, ma allo stesso tempo concentrati su altre decine di linee di pensiero che le sue parole sanno suscitare. Nei pensieri sfilano, in primo luogo, le facce dei ragazzi, dei loro genitori, dei propri colleghi, di situazioni del passato e del presente, di quello che è successo l’altro ieri, del colloquio di oggi in cucina, dell’ultima equipe: quello che Alessandra dice calza sempre a pennello con qualcosa (il contrario di quando si ascolta una conferenza e non si è in grado di ripetere il contenuto degli ultimi cinque minuti di discorsi). Nel mare dei ragionamenti che ci ha regalato, mi trovo di fronte alla potenza di un semplice concetto: se un operatore del sociale mi racconta che qualcosa si può fare, che è riuscito, che è possibile, allora posso riuscire anche io. Alessandra racconta che nelle scuole superiori in cui lei entra i ragazzi che trova stanno spesso in silenzio, mugugnano cose che è necessario interpretare, bofonchiano, fanno finta di fare altro, ridacchiano: sembrano non sapere dialogare. Ma toccando le corde giuste, sapendo aspettare, sopportando di stare in silenzio, ad un certo punto ecco che si aprono degli spazi all’interno dei quali cominciare finalmente a parlare, e lì sì che si parla davvero. Tempo fa, non stavolta, Alessandra aveva sottolineato che nelle conversazioni con gli adolescenti ad un certo punto si sente un CLIC, si tocca qualcosa, e si capisce che il tenore del discorso cambia, diventa profondo, diventa reale. Allenarsi a trovare i propri CLIC personali di adulto, per poterli innescare anche nei ragazzi, è l’equivalente degli esercizi di grammatica alle scuole medie: la grammatica del linguaggio nelle relazioni. Con l’avvertenza che l’allenamento non lo si fa assieme ai ragazzi (agli incontri del progetto Lampada, ad esempio, dunque al lavoro), ma nella propria vita altra, con i propri pari, quando si è distratti. Lì ci si allena alla consapevolezza del proprio linguaggio che caratterizza la propria persona, per capire cosa ci si porta dietro nel circle time nel quale pretendiamo stiano i ragazzi: cosa si crede di lasciare fuori ed invece è lì, cosa ci fa parlare, cosa ci fa tacere. Questa è la domanda di Alessandra a cui, personalmente, non ho trovato una risposta che mi convincesse: che cosa mi ammutolisce? Cosa fa sì che io interrompa la comunicazione? (C. R.) 19
Per la prima ora abbondante Alessandra Campani ha raccontato e descritto a parole – parole ricercate, attente, moderate anche nel suono e nel volume - il nostro mondo d’oggi fatto di parole. Mentre faceva il suo lavoro di formatrice, inevitabilmente a noi educatori, ascoltandola, sono scorsi in mente i nostri momenti professionali di confusione, di volume, i momenti in cui stando con i nostri bambini si è tirati per la giacca o i pantaloni da tre di loro che contemporaneamente vogliono subito una risposta alle loro domande; il momento della spiegazione di un gioco o dell’attività del giorno, interrotti non meno di quaranta volte in una frase breve che non riesce a nascere composta nelle stanze dei nostri doposcuola o alla lampada o ai campi estivi; il tentativo di telefonare ad un collega di pomeriggio, risoltosi in una conversazione in cui si è parlato in parte da soli (perché il collega nel frattempo aveva appoggiato il cellulare sul tavolo, “sai…un’emergenza”) e in parte in molti (visto che il colelga non sta più parlando con te ma col bambino che gli chiede una cosa, o con il ragazzo che deve accendere il computer, o con l’altro collega che ha la precedenza su di te); la telefonata nella quale proprio nel mezzo della comunicazione si riceve il telefono in faccia, la comunicazione chiusa in fretta e furia, con una sola, enorme parola d’ordine e d’emergenza: “cacca” - funziona così, perché se il piccolo del gruppo dice “cacca”, non c’è conversazione che tenga, tutto si chiude, si interrompe, si procrastina, nessuna comunicazione al mondo può fermare l’educatore dal portare il piccolo immediatamente in bagno, evitando così spiacevoli inconvenienti. Tutto questo fa sorridere, certo, ma dipinge il nostro modo, a volte frenetico e convulso, di usare le parole e di creare la comunicazione. Ancora una volta mi trovo a riflettere e vedere così chiaramente quanto possa diventare impacciato il nostro tentativo di spiegare a bambini e ragazzi che si parla uno alla volta, che si ascoltano gli altri, che non si interrompe… quando noi stessi lottiamo per tenere lineare, civile e sensata la nostra espressione, il nostro linguaggio, la nostra modalità di comunicazione. Quando poi si parla di giovani, di ragazzi grandi, le cose si complicano ulteriormente. Rudolf Steiner sostiene che dopo il secondo settennio si impara per imitazione e per esperienza, non più per scoperta. Questo grossolanamente significa che nel corso dell’evoluzione chi cresce osserva chi è già cresciuto, fa suoi i comportamenti e poi li sperimenta e vede come va. E come andrà se i ragazzi comunicano come noi? Alessandra ha parlato ad inizio serata dello spazio della comunicazione, del fatto che in ambito educativo nella comunicazione si debba proporre se stessi e non difendere se stessi. Questo porta a pensare che dunque si debba riuscire ad essere coerenti e decisi nel proporsi, portando ai ragazzi noi stessi come possibile modello, non tanto da imitare, ma da tenere presente come possibile sviluppo della persona in persona adulta e responsabile. Se è così, è necessario rimettere molto al centro il linguaggio, tutto il linguaggio, anche nei progetti che riguardano i ragazzi grandi, anche perché loro ci vedono in situazioni strutturate come gli incontri, ma anche ad alcune riunioni organizzative in equipe, ci osservano quando al mare trattiamo con altri adulti per la gestione di un pullman o in una biglietteria, o più semplicemente come siamo tra di noi colleghi, cosa su cui sicuramente i più piccoli mettono meno il focus. Lunga vita al silenzio dunque, che si riproponga nelle nostre conversazioni e nelle nostre teste, a far chiarezza e a creare pace. E a diventare esso stesso parte del linguaggio quando non linguaggio stesso.
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E dopo aver sviscerato con certosina precisione il comunicare, lo spazio della comunicazione, la parola, il dire e il parlare, il dirsi e il raccontarsi, dopo aver motivato la sua buona razione di amara ironia nei confronti delle faccine di whatsapp che imperversano e rovinano, bene, dopo tutto questo Alessandra è arrivata a parlare del SILENZIO. Nel SILENZIO c’è il tempo del rispetto, l’empatia, la possibilità di ripensare e ripensarsi. Con i giovani, il silenzio - parte costituente dell’ascolto - è cosa ben rara. Loro sono certamente i più esposti al caos delle parole, alla confusione, ai vari linguaggi e non gli è sempre facile fare una cernita conveniente di ciò che bisogna tenere e ciò che bisogna scartare. Il silenzio è certamente un’esperienza a cui non sono abituati: non essendoci abituati nemmeno noi/adulti, non possiamo avergliela proposta. Vale la pena prendere spunto e provare a stare nel silenzio con loro e invitarli a non averne paura, bensì di apprezzarne la potenza tranquillizzatrice, la calma che porta, l’imbarazzo che crea e che scioglie. (G. B.)
“Il linguaggio è l’abbigliamento nel quale i tuoi pensieri sfilano in pubblico. Non vestirli mai con abiti volgari o scadenti” (George W. Crane) Tra i molti spunti che Alessandra ci ha regalato durante la nostra formazione ho deciso di porre attenzione ad uno di essi che vedo e sento legato al lavoro con i ragazzi. “Il linguaggio è il modo attraverso il quale mi presento al mondo e mi rappresento il mondo” La “spinta educativa” nell’aspirare a qualcosa di più delle solite dieci parolacce, dei soliti luoghi comuni, delle solite frasi fatte è fondamentale. Quante volte è capitato non di fare prediche sulle parolacce, sul modo sgarbato di dire le cose, sull’atteggiamento maleducato nel porsi perché “sono brutte cose e non si dicono”, ma di fermarsi a ragionare con i ragazzi sul fatto che se loro conoscono solo quelle parole, quei modi e atteggiamenti lì, chi non conosce loro ma li vede a scuola, per strada, al campetto,etc... penserà che “loro sono così”. Di più: se loro sono così il mondo risponderà a tono. Quanto i ragazzi si arrabbiano davanti a queste verità: sanno di essere altro e lo dimostrano offesi urlandoci (verbalmente o simbolicamente) “Ma io sono diverso! Tu lo sai!!!”. Come adulti credo sia importantissimo lo sforzo di aiutarli puntare in alto perché spesso anche noi ci “accontentiamo”, siamo pigri, usiamo scorciatoie, non siamo curiosi di cercare, di conoscere di più e perdiamo la possibilità di arricchirci e arricchire chi ci sta intorno: i ragazzi in questo sono attenti nel guardarci e nell’ascoltarci. (S. M.)
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biblio_filmografia
DI FORMAZIONE
Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano, RaffaelloCortina, 1996
Arriva un momento nell’età adulta in cui si avverte il desiderio di raccontare la propria storia di vita. Per fare un po’ d’ordine dentro di sé e capire il presente; per ritrovare emozioni perdute e sapere come si è diventati, chi dobbiamo ringraziare o dimenticare. Quando questo bisogno ci sorprende, l’autobiografia di quel che abbiamo fatto, amato, sofferto, inizia a prendere forma. Diventa scrittura di sé e alimenta l’esaltante passione di voler lasciare traccia di noi a chi verrà dopo o ci sarà accanto.
Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani, 2003.
Il volume descrive il cammino svolto dal personaggio per giungere alla conoscenza di sè, mediante un lungo percorso di analisi. Partendo dalla manifestazione sul corpo del proprio “male di vivere”, il personaggio di questo volume giunge all’origine del dolore per poi cominciare a ricostruire - passo dopo passo - la propria essenza e la condivisione della propria vita con gli altri.
Eugenio Borgna, La fragilità che è in noi, Giulio Einaudi, Torino, 2014
Qual è il senso di un discorso sulla fragilità? Quello di riflettere sugli aspetti luminosi e oscuri di una condizione umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia fisica e psichica, della condizione adolescenziale - con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza, e con le sue discese negli abissi dell’insicurezza e della disperazione -, ma anche il volto della condizione anziana, lacerata dalla solitudine e dalla noncuranza, dallo straniamento e dall’angoscia della morte. La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con piú facilità e con piú passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi.
Laura Boella, Sentire l’altro, Milano Raffaello Cortina Editore, 2006
Il tema dell’empatia chiama a un confronto con l’esperienza vissuta, a un approfondimento delle emozioni, delle reazioni corporee, degli atti mentali che intervengono nei rapporti con gli altri. Chiama soprattutto a un passaggio dalla filosofia a una delle realtà più importanti per la vita di ognuno: la scoperta dell’esistenza dell’altro. Restituire all’empatia la sua specificità di atto che sta alla base delle svariate forme dell’entrare in relazione è un modo per rendere più concreto il vivere insieme agli altri e per rispondere a un bisogno confuso, ma non per questo meno urgente, di quest’epoca.
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consigliata/commentata da Alessandra Campani Marianella Sclavi, L’arte di ascoltare mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano, 2003
Tutti noi, se la nostra vita non è completamente manicomiale, mettiamo in pratica esperienze di osservazione guidata dall’ascolto attivo. Lo scopo di questo libro è di renderci consapevoli di cosa facciamo quando ci riusciamo, in modo da permetterci di riflettere su queste dinamiche e darci la possibilità di metterle in atto sistematicamente e volontarimente ogniqualvolta lo riteniamo necessario.
Giuliana Ponzio, Crimini segreti, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004
Chi lavora quotidianamente con le donne vittime di violenza ne conosce i sensi di colpa e il senso di diffidenza e di sospetto che suscitano se decidono di allontanarsi dal partner. Il fatto che fin da bambine abbiano interiorizzato come “qualità” femminili il sopportare, il saper tacere, l’abnegazione, la disponibilità totale e la responsabilità del buon andamento della relazione, può produrre già di per sé un’asimmetria nella coppia in quanto codifica che da tali “virtù” ci sia qualcuno che ne trae vantaggio. E se queste “qualità” conferiscono alla donna identità e una percezione di sé come detentrice di un ruolo, l’allontanarsene può significare il venire meno a principi morali fortemente radicati con i sensi di colpa.
Dieci Inverni, di Valerio Mieli - Italia 2009
Dall’inverno 1999 fino a quello del 2009, la storia di Camilla e Silvestro, narrata attraverso dieci momenti casuali estrapolati da altrettanti periodi invernali. Si incontrano a Venezia a bordo di un vaporetto, si ritrovano a Mosca dopo una lunga corrispondenza postale, per tornare ancora a Venezia e, infine, sulle colline di Valdobbiadene. Ogni volta, il loro rapporto sarà sempre diverso.
La vita segreta delle parole, di Isabel Coixet – Spagna 2005
La vita segreta delle parole è un viaggio nell’anima di due persone, entrambe sconvolte dalla loro esistenza. Hanna e Josef. finiranno per immergersi nel dolore dei loro ricordi per liberare le paure scolpite negli occhi e nel cuore.
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GalinaNova NUMERO
R E D A Z I O N E
PRIMO
P E R
I L
N . 1
articoli_Matteo Muratori, Giorgia Bertani, Cecilia Ruozzi, Simona Vettorello, Erica Muratori, Sara Malvolti, Veronica Gatti, Alessandro Zannini, Sanaa Ajjaoui, Monica Salsi, Francesca Fedrigo special guest_Alessandra Campani nelle foto_Angela Agyemang / Alvin Osei composizione_ Matteo Muratori revisione, impaginazione, stampa_Barbara Schiattarella
s.c.s. GIRO DEL CIELO - via Wybicki 12b - 42122 - Reggio_Emilia g i r o d e l c i e l o @ g m a i l . c o m
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