numero 6
giugno 2019
Galina nova Quella vecchia fa buon brodo, la nuova può fare tutto il resto
o pe z z
o o p d
z e p zo
Approfondimenti, pensieri e analisi utili in diverse fasi della vita e preziosi ogni giorno per costruire una comunitĂ sana, partendo dal nostro piccolo. Pezzo dopo pezzo.
Galina nova Rivista liberamente edito da Giro del Cielo S.C.S. Via Wybicki 12/B - 42122 Reggio Emilia - tel. 0533435771 mail: girodelcielo@gmail.com www.girodelcielo.org - facebook/girodelcielo
GalinaNova è, per la nostra Cooperativa, lo spazio-tempo in cui dedicarsi alla cura del pensiero, trovando anche per esso una sede per essere archiviato e ripreso, così che ci supporti nel nostro operato di cura e nella nostra dignità di persone. Questo pensiero (messo in parole, rivisto, aggiornato, criticato) testimonia la responsabilità che sentiamo verso la formazione (di noi operatori tanto quanto di quelli che incontriamo nei nostri percorsi). Ci affidiamo volentieri al confronto con altri professionisti dei quali abbiamo apprezzato la serietà, le competenze e, forse più del resto, l’attitudine empatica e rispettosa alla conoscenza autentica delle persone. DIREZIONE Matteo Muratori COMITATO DI REDAZIONE Alice Bondavalli, Alessia Castellini, Silvia Fornaciari, Chiara Freddi, Annalisa Malnati, Erica Muratori, Matteo Muratori, Alberto Patrocini, Monica Salsi, Alessandro Zannini FOTOGRAFIE Alessandro Iotti, Matteo Muratori, Alessandro Zannini ILLUSTRAZIONI Silvia Fornaciari PROGETTO GRAFICO Alessandro Zannini
finanziato grazie a FonCoop nell’ambito dell’Avviso R17A40 (Avviso 40 del 30/10/2017 SFO) - Piano formativo ‘CRESCERE INSIEME: Gestione aziendale e servizi sociali’ - Protocollo R17A40-2018-0001561”
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GALINAnOVA | giugno 2019
Galina nova sommario
numero 6
p. 4
giugno 2019
editoriale
gravidanza
maternità
p. 6
p. 8
Occorre (soprattuto) amore
Farsi madre: transitivo presente
approfondimento famiglia
p. 6 Impatto e conseguenze di eventi critici imprevisti all’interno dei nuclei famigliari adolescenza /1
p. 4
Futuri possibili
p. 10
Scuole e comunità di apprendimento: libertà di scelta
l’analisi
p. 6
I migliori auguri per un buon conflitto
“Spesso e’ la reazione dell’adulto al litigio che modifica, nei bambini, la percezione e il valore dell’evento stesso”
adolescenza /2
p. 4
Educare alla sessualità
tempi difficili
p. 6 il più grande uomo di spettacolo
l’intervista
p. 6
Nelda Terzi, assistente sociale GALINAnOVA | giugno 2019
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editoriale
galina n(u)ova di Alessandro Zannini
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GALINAnOVA | giugno 2019
Ad inizio degli anni ‘70, lo scrittore Kurt Vonnegut (1922 - 2007) era uno degli oratori più richiesti d’America per i discorsi di fine anno ai neolaureati. A differenza di tanti autori di discorsi che si presentavano alle celebrazioni muniti di testi precompilati cambiando il solo il nome dell’università di turno, Vonnegut nei suoi “commencement speech” portava sempre qualche nuova idea, curiosità, aneddoto o provocazione su cui riflettere. Aveva una serie di temi che gli stavano particolarmente a cuore, tra cui solo per citarne alcuni: la stima per gli insegnanti che facevano il proprio mestiere con grande passione, l’importanza di saper riconoscere i piccoli momenti di felicità della vita quotidiana, lo sconforto per la distruzione del pianeta e l’importanza di crescere, vivere ed impegnarsi in una comunità allargata. Ed è quest’ultimo argomento che Vonnegut riporta ai giovani laureati della Butler University ad Indianapolis consigliandoli di proporsi come obiettivo quello di prendere una piccola parte del pianeta e metterla in ordine, rendendola sicura, sana di mente e onesta. “C’è un sacco di pulizia da fare. C’è un sacco di ricostruzione da fare, sia a livello spirituale che materiale”. Per prenderci cura della piccola parte di pianeta che ci siamo scelti come cittadini, educatori e cooperatori attraverso il Giro del Cielo, è utile, utilissima anche la scrittura. E ancor prima della scrittura la riflessione, lo studio e la rielaborazione che ad essa porta e che da esse segue. E la scrittura è ancora più vera e significativa se fatta partendo da predisposizioni ed esperienze personali, lavorative, riguardanti i propri studi o i propri interessi. Come hanno fatto i nostri educatori-autori in questo numero. Poi se sono rilevanti esperienze di vita molto recenti (la maternità, per esempio, dicono non sia roba da poco). Scrittura che in questo numero sarà contenuta in un’involucro grafico diverso rispetto ai precedenti. E non a caso, in diverse pagine, le presenze dei ragazzi (nei luoghi a noi famigliari) ci ricordano continuamente il grande potere (e la grande responsibilità) di migliorare la vita delle persone a noi vicine. Ed è così che in questo numero vengono trattati argomenti come l’infanzia, adolescenza, scuola. Perchè la società complessa in cui viviamo ha bisogno anche di tante parole che cuciscono insieme tutti questi pezzi. Con tanto lavoro da parte di tutti, pezzo dopo pezzo. Servirà questo numero di Galina Nova a rendere il nostro pezzo di mondo più sicuro, bello e accogliente? Chissà. Intanto possiamo galvanizzarci riprendendo un’altra citazione di Vonnegut: “il compito di un’artista è far piacere di più la vita alla gente”. Con il permesso dello scrittore (descritto sempre dal carattere giocoso, non se ne ravvederà) possiamo dire lo stesso dell’ educatore, poi se l’educatore è anche scrittore (e perchè no artista) ancora meglio.
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gravidanza
Occorre (soprattutto) amore Il parto dal punto di vista del bambino
di Alice Bondavalli
“Il bambino deve poter continuare a sentire il cuore che pulsa e l’oscillazione del respiro della madre perché la nascita non avvenga come un distacco netto dal mondo che conosceva” 6
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ella nostra nascita sappiamo solo quanto i nostri genitori ci hanno raccontato. Non ricordiamo cosa abbiamo provato quando siamo nati, ne se il passaggio sia stato semplice e spontaneo o faticoso e stressante. Oggi si sanno molte più cose che riguardano il neonato e il suo benessere: la maggior parte delle sale parto hanno adottato una serie di condizioni e strumenti per agevolare parti naturali evitandone la medicalizzazione. Tra i teorici che hanno permesso la virata di rotta spicca il nome di Frédérick Leboyer, ginecologo e ostetrico francese, meglio conosciuto come l’ideatore del “metodo Leboyer” ossia del cosiddetto parto dolce o parto senza violenza. Nel 1975 Leboyer scrisse il suo primo libro: “Per una nascita senza violenza. Il parto dal punto di vista del bambino”, presentando il parto e la nascita da un punto di vista alternativo, quello del bambino, evitando luoghi comuni e stereotipi percepiti come verità ma che di vero hanno ben poco. La teoria del parto senza violenza si basa su un semplice principio: la madre ha diritto ad un buon parto e il bambino ha diritto ad una buona nascita. Durante l’esercizio in una clinica parigina, Leboyer, ha
sperimentato e messo in pratica alcune semplici attenzioni che, se rispettate, permettono al bambino di nascere senza provare sofferenza abituandosi alla vita in modo armonioso. La prima condizione elaborata da Leboyer, perché il parto non sia traumatico, è che il bambino nasca in un ambiente privo di luci intense e dirette e che ad accogliere il bambino ci sia il silenzio. Nella pancia della madre il bambino percepisce rumori ovattati e luci soffuse: passare dalla penombra a un ambiente dove la luce è forte e intensa è traumatico, sensazione che sperimentiamo tutte le mattine quando ci svegliamo, come è violento, per chi non è abituato, sentire distintamente voci e rumori. Il secondo passaggio che Leboyer indica è l’importanza del contatto con il corpo della madre. Quando il bambino nasce deve essere accovacciato sul ventre materno, pian piano, con movimenti lenti e di scoperta, sarà il bambino ad allungare prima le braccia e poi le gambe, stirando la schiena che negli ultimi mesi di gravidanza è sempre stata ricurva e a contatto con le pareti dell’utero. Il bambino deve poter continuare a sentire il cuore che pulsa e l’oscillazione del respiro della madre perché la nascita non avvenga come un distacco netto dal mondo che conosceva e nel quale era a suo agio ma come un passaggio lento e il più possibile in continuità con la vita sperimentata dentro l’utero materno. In questo modo la nascita avverrà senza stress, il bambino non avrà bisogno di piangere perché il passaggio alla vita è stata un’esperienza positiva e dopo la tanta fatica si potrà riposare sul ventre della madre, cullato dal continuo respiro e confortato dallo stesso contatto della madre, che per nove lunghi mesi è stata la sua casa, il suo mondo. Secondo Leboyer il neonato teme l’immobilità e la solitudine, concetti nuovi e mai sperimentati che rappresentano per lui la morte. Il bambino ha paura del mondo nuovo, un mondo del tutto sconosciuto, al quale si aggiunge la lotta contro la gravità: forza non conosciuta nell’utero materno. Tutto questo è fonte di sofferenza per il bambino a maggior ragione se il nascituro è lasciato solo nell’affrontare le nuove sfide che la vita gli presenta. Il neonato ha costantemente bisogno di ricreare quel stretto legame che lo ha accompagnato lungo la sua crescita. Altro nodo critico per Leboyer è fare in modo che il passaggio alla respirazione polmonare sia graduale. Durante la gravidanza l’ossigeno arriva al bambino tramite il cordone ombelicale, quando nasce il bambino inizia a respirare da solo riempiendo d’aria i polmoni, se il cordone ombelicale viene reciso subito dopo la nascita non si lascia al bambino il tempo di abituarsi alla faticosa respirazione; per il neonato è un’azione tutta da apprendere e scoprire. Il cordone andrebbe reciso quando ha smesso di pulsare così da permettere al bambino di avere per qualche minuto una doppia respirazione evitando di lasciare il cervello senza ossigenazione.
L’anossia, infatti, può influire sul sistema nervoso producendo una lesione irrimediabile al cervello. È fondamentale, secondo Leboyer, rispettare la natura che così sapientemente ha predisposto addirittura una doppia ossigenazione per evitare pericoli per la nuova creatura. Il pianto non è espressione di vita ma di sofferenza, quando il bambino nasce sono sufficienti uno o due o al massimo tre vagiti per capire che il bambino sta respirando, il resto dovrebbe essere quiete e silenzio tra le braccia della madre. Concludendo, secondo Leboyer, il parto come esperienza naturale senza sofferenza è possibile attuando le poche e semplici istruzioni del metodo da lui descritto. Non basta, però, applicare le condizioni consigliate in modo asettico, occorre soprattutto amore. Leboyer scrive: “Il bambino non si sbaglia. Per giudicarvi dispone di una sicurezza miracolosa e terribile. Sa tutto. Sente tutto. Vede fino in fondo ai cuori. Conosce il colore dei vostri pensieri. E tutto ciò senza linguaggio. Questo neonato è uno specchio. Vi restituisce la vostra immagine. Tocca a voi non farlo piangere.” (Leboyer, 1975, pag 141). Difatti, nonostante i pochi minuti di vita, il neonato è già in grado di comunicare con gli adulti che lo circondano e, in particolare, con la madre: spesso la difficoltà è degli adulti che non lo sanno ascoltare. Così come spiegato da Leboyer, il parto diventa un gesto di cura e di profondo amore, il punto di partenza del lungo sentiero dell’educazione e della faticosa ricerca della relazione tra figli e genitori. Il parto, dunque, ne è solo l’inizio..
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maternità
Farsi madre: transitivo presente di Silvia Fornaciari
“Cresciamo in una società in cui ormai l’ascolto di sè su un piano diverso dal pensiero verbale è più faticoso dell’apprendimento della fisica quantistica” 8
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apita, e capita spesso. Non a tutte, ma a tante. Capita che una donna, diventando mamma per la prima volta, si senta smarrita, al punto da confidare, ad un’amica, a pochi giorni dal parto: “Io sto facendo la mamma, e sto facendo del mio meglio, ma io non sono una mamma.” Sono parole vere e schiette, che raccontano quello che succede a tantissime donne nel momento in cui diventano madri, quando una forza dirompente le attraversa, spaccando dogmi e certezze, e imponendo a gran voce di tirar fuori la propria natura femminile potente e compassionevole, anzi potente nella compassione, quella che spesso nei 25/30/35 anni precedenti era rimasta, come seme d’inverno, sotto terra. Escludo categoricamente, dall’idea di femminilità, lo smalto glitter sulle unghie, il mascara 3D extralong extreme effect, e nemmeno lo sfoggio di sensualità al lavoro o al supermercato, che anzi credo spesso sia un vestito di paillettes messo ad un maschilismo che ha deciso di sembrare giocoso, mentre lavora alacremente nell’ombra, e che fa l’occhiolino al cugino che ancora reprime le donne alla luce del sole. Con femminilità potente e compassionevole intendo la capacità di riconoscere e prendere a braccetto la propria ciclicità, e la volontà di creare ponti tra il proprio corpo, il proprio mondo emotivo e l’io cosciente. Intendo la capacità di saper ascoltare e tradurre il linguaggio del nostro corpo, la capacità di contattare le proprie emozioni e riceverne messaggi senza essere sorde o messe in confusione. Intendo la capacità di saper mettere da parte l’ego per poter maturare una comunicazione intensa con ciò che è fuori dall’io razionale, con ciò che così strettamente ci collega all’altro da sé. Una mamma che non si sente mamma, è spesso una mamma che fa fatica a dialogare col proprio corpo, coi propri sentimenti, e col proprio sentire. Proprio quando ha in braccio un cucciolo che è capace di parlare solo con il suo corpo e con il suo inconscio. Il primo istinto di sopravvivenza della madre, prima di accogliere la grande trasformazione che le viene richiesta, è spesso quello di affidarsi al proprio allenatissimo pensiero razionale, studiando e prendendo in prestito informazioni scritte sui testi per neomamme, per trovare una soluzione al pianto del figlio. Questo succede perché cresciamo in una società in cui ormai l’ascolto di sé su un piano diverso dal pensiero verbale ci è più faticoso dell’apprendimento della fisica quantistica. Personalmente credo che su questo punto, alla radice, ci sia un difetto di eccessiva verbalizzazione della realtà: verbalizzo quindi sono. E’ verbalizzabile quindi esiste. Ciò che non rientra in questo dogma viene automaticamente ignorato. Ci sono invece esperienze per le quali diventa seriamente limitativa la traduzione in parole. Jung ci parla delle esperienze immaginative come an-
tica modalità conoscitiva, quella che accede alle esperienze archetipiche e simboliche, quella che apparteneva agli antichi saggi, ai rishi vedici, ai sapienti dotati di vista interiore, e a cui lui stesso ha preso parte nel suo percorso di costruzione del proprio percorso. Noi, oggi, a meno di un profondo lavoro interiore, non abbiamo gli strumenti per accedervi. Però potremmo limitare l’influenza negativa che hanno su noi tutti quegli strumenti di cui abusiamo, il cui non indifferente effetto collaterale è quello di soffocare le possibilità immaginative, e quindi il processo identificativo, la conoscenza profonda. Tali sono le immagini preconfezionate, le spiegazioni razionali come condicio sine qua non, l’invasione che i mass media ci portano quotidianamente di caricature, neanche immagini, che vanno ad occupare spazi in ogni anfratto del nostro spazio immaginativo. Già limitarne l’uso sicuramente aiuta la nostra mente a ri-accedere allo spazio delle esperienze immaginative. Per fortuna però, nonostante sia faticoso riprendere confidenza con una via di conoscenza, anzi di comprensione, “altra”, la Natura e il tempo aiutano la madre a ritrovarsi e riconoscersi in una dimensione di consapevolezza non verbale.Ammettiamo anche che il modello femminile, oggi, non aiuta a vivere fin da subito con gioia e pienezza la maternità. Fin da bambine infatti cresciamo con un ingombrantissimo, strisciante pensiero: per realizzarmi e venire riconosciuta come donna “capace” devo ricalcare un profilo il più possibile maschile. I percorsi di conoscenza, le Università, la ricerca scientifica, gli studi umanistici, navigano ancora oggi in acque quasi esclusivamente maschili. Resta l’economia, che per ovvi motivi ci ammicca, e si insinua nelle pieghe della sensibilità femminile, per semplificarla creandone caricature perfette, e generare stereotipi ridicoli, utili a tutte le sfumature della modernità. Dice Adriana Cavarero in “II femminile negato. La radice greca della violenza occidentale. “ citando Hannah Arendt: “Nella modernità c’è l’Uomo Universale, alla donna si dice: ti ammetto nello statuto di Uomo; ti ammetto nel paradigma universale di Uomo; così facendo elimino i meccanismi discriminativi. Quindi una donna è un soggetto se, malgrado sia una donna, si uniforma al paradigma Uomo.” Peccato che tutto ciò sia poi a danno di tutti. Semplicemente perché tutti nasciamo da una madre. E se una madre non sa come essere madre il problema tocca prima o poi tutti. Ripartendo dalla frase di partenza “Io sto facendo la mamma, al meglio, ma io non sono una mamma.” ...Cosa succede ad una mamma che non si sente mamma? Succede che si sente persa, perché la sua identità è stata travolta e stravolta, e spesso succede che diventi faticosissimo
“Diventando madri ci sentiamo cadere, da donne realizzate ed emancipate, in uno spazio muto in cui cerchiamo di attenerci al modello di madre che la nostra cultura, nei secoli, ha celebrato” non essere più al centro del proprio universo personale. Per ricostruircela, l’identità, dobbiamo fare un ulteriore sforzo: riaprire e rivedere quel cassetto in cui teniamo l’idea del bipolo donna emancipata/ donna serva, dove la prima è colei coltiva la propria individualità per essere pienamente accolta nel palazzo delle attitudini, della vita lavorativa, del ruolo sociale, colei che riesce ad emanciparsi dal ruolo servile; la seconda è invece colei che abbraccia un ruolo di silenzio e totalizzante cura degli altri. Diventando madri ci sentiamo cadere, da donne realizzate ed emancipate, in uno spazio muto in cui cerchiamo di attenerci al modello di madre che la nostra cultura, nei secoli, ha celebrato e che tuttora, nonostante il femminismo, regna sovrana nell’immaginario collettivo: donna devota che si assume il carico di dolore, fatica e responsabilità da sola. E’ utile aiutarsi per imparare prima, per tempo, che l’autentico linguaggio di una madre è quello di un equilibrio tra le forze, esterne ed interne. Che l’accoglienza non implica la sottomissione. Che imparando ad ascoltare il proprio corpo, le proprie sensazioni, le proprie intuizioni e le proprie emozioni, è possibile ascoltare i messaggi del figlio e riconoscere i suoi e i propri bisogni. Comprendere e accogliere altro da sé non implica servire marito, padre e figli. Credo, e parlo anche per esperienza personale, che per tante donne sia difficile capire che non è necessario essere meno madri per non essere serve.Per ognuno di questi passi c’è bisogno di tempo, di sostegno e di cura. Per ogni donna che diventa madre c’è bisogno di tempo, di sostegno e di cura, affinché possa ricostruirsi un equilibrio interiore, affinché non diventi quell’essere alienato e performante che piace tanto ai venditori di gadget per l’infanzia.
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approfondimento / home schooling
Scuole e comunitĂ di apprendimento:
l i b e r t Ă d i s c e l t a di Annalisa Malnati
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gni tempo ha cercato di formare cittadini idonei per quel tempo. La scolarizzazione ha perseguito molteplici finalità: “religiose” per armonizzare la propira vita con la parola di Dio, “private” per il raggiungimento di una prosperità personale, “pubbliche” per favorire l’abilità retorica al fine di esprimere le proprie idee e coinvolgere le masse o per istruire i lavoratori e creare forza lavoro. Per la maggior parte degli uomini il diritto di imparare è ridotto all’obbligo di frequentare la scuola pubblica. Il processo educativo tradizionale non ha molto a che vedere con il singolo individuo, nell’ottica delle esigenze educative ed occupazionali della società. Il sistema pubblico di istruzione è stato organizzato per fornire una comune esperienza educative culturalmente unificata per tutti. Mancando di un significato preciso, il termine “educazione alternativa” descrive approcci diversi dall’istruzione tradizionale, per insegnamento e apprendimento, sotto forma di realtà pubbliche o private con un curriculum speciale, spesso innovativo e un programma di studio flessibile che si basa sugli interessi e sui bisogni dei singoli. La storia delle educazioni alternative é fatta di riformatorisociali, individualisti, religiosi e non , romantici; differenti ma con un condiviso interesse per lo sviluppo sociale, morale e intellettuale dei giovani. Molti cercano alternative perchè credono che ciò che viene proposto dall’approccio tradizionale non consenta valori come individualità, creatività, una vita di comunità democratica e uno sviluppo spirituale. La ridefinizione dell’istruzione scolastica come intrinsecamente “relazionale” implica forme di attivismo degli insegnanti che trascendono l’obbligo di “benessere” degli studenti come comunemente inteso nelle impostazioni tradizionali. Innanzitutto è necessario un forte senso di impegno e una “vocazione”, per lavorare con e per i giovani. I contesti di ambienti di apprendimento alternativi e flessibili pongono richieste specifiche agli educatori, ad esempio in termini di lavoro emotivo e di collaborazione a stretto contatto con colleghi di diversa estrazione professionale. Questi elementi sono pertinenti alle impostazioni educative in tutto il mondo, ma sono suscettibili di perdersi tra il vortice delle richieste degli insegnanti da parte di politiche educative tradizionali tendenzialmete molto rigide.
Imparare a pensare e operare fuori dagli schemi Tutti vogliono solo il meglio per ogni bambino o ragazzo, ma questa ricerca ha i suoi effetti impositivi che si manifestano nella vita dei giovani in modi che possono verificarsi devastanti. Il bambino di nove anni che ha problemi a comprendere parole semplici e il suo compagno di classe che sta leggendo un intero libro per divertimento si siedono nello stesso momento nello stesso luogo. Il bambino così frustrato dai compiti che non riesce a fare e l’altro così annoiato trovandoli molto semplici, sono entrambi insoddisfatti. Il quindicenne che non riesce a dare un senso all’algebra ma ha un talento quasi mistico per le macchine.
Sono tutti prodotti di un sistema educativo che non può non parlare apertamente delle implicazioni di una diversa educazione. E così, annebbiato dal desiderio di dare il meglio, l’egualitarismo incombe sulla discussione relativa all’educazione, oscurando semplici verità come le differenze dei singoli. Così la pratica educativa in qualsiasi luogo dovrebbe garantire che le eccezioni siano identificate per poter parlare in modo concreto di intelligenze multiple e si può imparare in modi diversi ma ugualmente validi. Ignorando queste realtà non si può svolgere un valido lavoro per tutti gli studenti. Mentre la metà dei bambini è al di sotto della media, l’attuale sistema educativo riduce la loro capacità di trarre profitto dalle risorse che possiedono.
Perchè scuole alternative? Che tipo di ambiente di apprendimento è giusto per tuo figlio? Scegliere una scuola o scegliere di educare il proprio figlio al di fuori dell’istituzione scolastica tradizionale è una decisione importante e complicata. Esistono differenze significative tra i diversi approcci di insegnamento e apprendimento. Gli insegnanti e i genitori possono sviluppare approcci per interagire con i bambini che sono particolarmente sensibili alle esigenze specifiche di ogni bambino? Le scuole possono fornire agli studenti gli strumenti e le risorse per vivere una vita più integrata con la comunità e con il pianeta? Secondo una crescente gamma di alternative progressiste e umanistiche, la risposta a entrambe le domande è un solido, “Sì!” E’ possibile vedere le somiglianze e le differenze tra i vari approcci alternativi, mentre indirizzano insegnanti e genitori verso altre risorse per ulteriori esplorazioni, rendendo possibile trovare (o creare) educative alternative nelle proprie comunità che corrispondano meglio alle credenze in evoluzione e ai valori fondamentali. La confusione nella comunicazione e nella terminologia sono forse gli ostacoli più difficili per discutere di educative alternative. Ad esempio, un concetto come “libertà” si riferisce a interpretazioni abbastanza diverse a seconda dell’ideologia o del modo di pensare. Le categorie e le classificazioni nell’educazione basata su prestazioni tradizionali sono molto più definite. Anche il termine “alternativa” è ambiguo; per alcune persone, le scuole alternative sono destinate solo ai giovani “a rischio”, piuttosto che all’educazione di tutti i bambini e spesso anche degli adulti. Molte educative alternative non si chiamano “scuole”, poiché si ritiene che questo implichi un tradizionale edificio a pianta quadrata con classi in cui gli studenti siedono in file di banchi e sono guidati da un insegnante. Alcune realtà educative alternative non sono in gli edifici scolastici, ma includono più siti per incontrarsi all’interno della comunità e in natura. L’avvento delle “scuole virtuali” e delle “comunità virtuali” complica ulteriormente le cose perché alcune scuole non hanno addirittura un luogo fisico dove incontrarsi. L’unica cosa che la maggior parte delle scuole ha ancora in comune sono le persone e l’intenzionalità per l’apprendimento.
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approfondimento / home schooling La relazione educativa va interpretata e le va attribuito un significato e un valore, da parte dell’individuo che si rivela nell’intenzionalità di investire di significato il mondo naturale che lo circonda e da parte della comunità nel trovare quel senso condiviso dello stare nel sociale.
definire una mappa ci aiuta a comprendere i problemi e le variabili che dobbiamo considerare quando confrontiamo e valutiamo gli approcci educativi.
“C o l l ab orare è l av o rare in s i e m e c o n l e n o s t re c omp e te n z e , i n o st r i v al o r i , l e n o s t re re s p on s abi lit à r i s p e t t iv e e an ch e i n o s t r i limit i , s ap e n d o ch e n o n c i s on o d el l e v e r ità n el l’e du c a z i o n e m a s o l am e nte un pro c e ss o di p rov e e d e r ro r i n el qu al e s i p u ò c ammin are in si e m e e c re s c e re .” (Ausloos, 1995) Nel corso dei tanti anni di storia della scuola pubblica, gruppi di critici hanno sottolineato che l’educazione dei giovani dovrebbe coinvolgerli molto di più e non semplicemente trasformarli in futuri lavoratori o cittadini. Pestalozzi, Thoreau, Emerson e Alcott, Parker e Dewey , Montessori e Steiner, hanno tutti insistito sul fatto che l’educazione dovrebbe essere compresa come l’arte di coltivare le dimensioni morali, emotive, fisiche, psicologiche e spirituali del bambino in via di sviluppo. Più recentemente e in modo differente, Holt, Goodman, Illich e Freire hanno esaminato l’educazione in modo più anarchico, cioè hanno sottolineato critiche sul modo in cui la scuola convenzionale sovverte la democrazia modellando le comprensioni dei giovani. A differenza delle scuole private e pubbliche tradizionali che sono straordinariamente simili nel tempo e nello spazio, la maggior parte delle scuole alternative non aderisce alla mentalità di un modello che si adatta a tutte le comunità. Non esiste un unico sistema migliore, solo una varietà di sistemi che corrispondono o non corrispondono alla diversità delle persone nel mondo. Tale consapevolezza può anche permetterci di cambiare i nostri sistemi educativi in modo più consapevole, progettandoli e adattandoli seguendo i nostri cambiamenti e quelli del contesto che ci circonda. Questo a sua volta aiuta a impedirci di rimanere bloccati in una percezione stagnante di ciò che l’educazione dovrebbe essere. Sempre più spesso le persone sentono parlare delle scuole Waldorf e delle scuole dell’infanzia Montessori e varie scuoline alternative. Le differenze tra di loro riflettono diversi orientamenti morali e filosofici: alcuni mirano a massimizzare la libertà nell’apprendimento; altri forniscono ciò che considerano una struttura educativa per bambini di un tipo o dell’altro. Alcuni sono radicati in specifici orientamenti religiosi o culturali; altri, in ideali di giustizia sociale o saggezza ecologica. Nell’ordinare questi diversi approcci si può creare una mappa che consente di confrontarli. Può aiutare a rispondere a numerose domande: in che modo la scolarizzazione funziona bene per alcuni bambini ma non per gli altri? Quanta autorità degli adulti è appropriata o necessaria per consentire ai bambini di raggiungere specifici obiettivi di apprendimento? Il modello di trasmissione, l’apprendimento basato sulla libertà, il costruttivismo sociale, la pedagogia critica, lo sviluppo spirituale e l’educazione integrale o olistica. Una particolare scuola o situazione di apprendimento potrebbe contenere elementi di due o più di questi gruppi, rendendo difficile per noi classificarci perfettamente, ma cercare di
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Pensiero educativo convenzionale - approccio dominante Ciò che definisce l’educazione tradizionale è la sua visione del processo di apprendimento: la conoscenza è vista come un corpo di fatti stabilito, oggettivo, autorevole al di fuori delle esperienze o preferenze personali dello studente, e il ruolo dell’educatore è quello di trasmettere questa conoscenza, insieme ad abilità accademiche di accompagnamento e atteggiamenti, per la mente del discente. Il modello convenzionale denota un processo a senso unico, ampiamente autoritario. L’educatore è responsabile e ha l’autorità per valutare l’apprendimento in base al modo in cui gli studenti incontrano le sue aspettative. Secondo una comprensione della trasmissione dell’educazione, l’istruzione viene consegnata e le classi sono gestite nel modo più efficiente possibile. Nelle scuole pubbliche, l’educatore è supportato da un intero sistema di richieste, incentivi, punizioni, dispositivi di misurazione e confezionamento delle conoscenze: test, voti, standard, unità di studio, libri di testo, etichette psicologiche e mediche, documenti di detenzione e molto altro. Molti critici si sono lamentati della visione ristretta di questo modello del processo di apprendimento e dei suoi effetti sulla motivazione e sul senso di sé degli studenti. Il filosofo John Dewey, ad esempio, ha sostenuto che un modello di trasmissione dell’istruzione è più appropriato per una società autoritaria e controllata che per la società democratica e aperta che pretendiamo di volere. Tuttavia, in molte situazioni educative, un certo grado di trasmissione è appropriato e anche necessario. La formazione professionale e tecnica richiede ai principianti di imparare i corpi di conoscenza stabiliti se vogliono padroneggiare i loro mestieri. Gruppi culturali o religiosi strettamente uniti hanno bisogno di trasmettere la loro eredità se vogliono mantenere le loro tradizioni. Anche nella maggior parte degli approcci educativi alternativi, vi è una trasmissione di conoscenza più o meno oggettiva del mondo. Una domanda chiave che gli educatori e i genitori devono affrontare è quanto e, in quali modi specifici, le esperienze di apprendimento dei loro studenti dovrebbero essere determinate da fattori esterni. Quali valori culturali, sociali, politici, religiosi o intellettuali, se esistenti, potrebbe-
ro essere abbastanza importanti da imporre allo studente individuale, indipendentemente dall’approccio educativo scelto? Alcuni sostenitori delle educative alternative hanno insistito sul fatto che la libertà e l’autonomia dello studente dovrebbero essere limitate il meno possibile, anche se non del tutto. Credono che l’apprendimento inizia sempre con i bisogni, gli obiettivi e i desideri dell’individuo, e non con qualsiasi presunto insieme di conoscenze o richieste della società. Per questi educatori, l’educazione ideale abbraccia l’esatto opposto della trasmissione: si concentra sull’esplorazione interamente motivata di uno studente di tutto ciò che il mondo ha da offrire, che sembra rilevante per la sua vita stessa. Leo Tolstoy, Francisco Ferrer e altri critici radicali dello stato moderno, ad esempio, svilupparono una teoria anarchica dell’educazione alla fine del diciannovesimo secolo che portò alla fondazione di un vivace movimento “scuola moderna” negli anni precedenti la prima guerra mondiale. A. S. Neill costruì nel 1921 in Inghilterra la sua Summerhill School basata sulla libertà pochi anni dopo sulla base di un interesse psicologico, piuttosto che esplicitamente politico, per la libertà. Negli anni ‘60, l’ascesa dell’attivismo studentesco e una controcultura radicale provocarono un aumento di interesse sia per gli aspetti psicologici che politici della libertà, risultando in un movimento di “scuola libera” che al suo apice comprendeva quasi mille scuole nel libro di Neill. Un numero minore di persone conosce le molte altre scuole che hanno sviluppato approcci simili per conto loro o modificato le premesse di Neill per soddisfare i propri bisogni e la propria comunità. Il loro scopo principale è creare un ambiente sicuro dove i bambini possano imparare liberamente, cioè senza l’uso della forza o della coercizione, attingendo alla curiosità dei bambini per guidare il proprio apprendimento. Goodman, George Dennison, Ivan Illich e John Holt, scrissero anche audacemente e appassionatamente sulla libertà di apprendimento. Un altro esempio di educazione orientata alla libertà, divenuto abbastanza popolare oggi, è il modello di Sudbury, che ebbe origine alla Sudbury Valley School in Massachusetts negli anni ‘60. Gli sviluppatori e i sostenitori di questo approccio si riferiscono alla loro pedagogia come educazione “democratica”. Sostengono che la libertà di cui godono gli studenti non è diversa dalla libertà garantita ai cittadini in una vera società democratica, e in effetti prepara i giovani in modo efficace per una vita di cittadinanza attiva in una democrazia.
obiettivi e le finalità delle scuole di tutto il mondo. Come altre alternative educative, l’homeschooling si espande ben oltre le modalità tradizionali di insegnamento e apprendimento. L’insistenza di John Holt sul fatto che l’apprendimento genuino è generato dall’esperienza personale della persona lo ha portato a mettere in discussione l’esistenza di tutti gli ambienti scolastici, anche le scuole libere, come artificialmente separate dal mondo reale; alla fine, è diventato un sostenitore pionieristico dell’apprendimento basato su una famiglia non strutturata, che ha definito “unschooling”. Per anni, molte famiglie di homeschooling hanno considerato Holt il fondatore del moderno movimento homeschooling e hanno visto il suo libro Teach Your Own, pubblicato per la prima volta nel 1981, come “bibbia” di homeschooling. Si dovrebbe anche notare che esistono approcci educativi anche in affiliazione con Montessori, Waldorf e molte altre filosofie educative Unschooling Una tendenza complementare all’homeschooling, chiamata descolarizzazione, iniziò con la pubblicazione del famoso libro di Ivan Illich, Deschooling Society (1970). Nella prefazione del libro, Ivan Illich scrive: Se le persone pensano seriamente alle vite in età scolare, e non solo alla fuga dagli effetti licenziosi dell’istruzione obbligatoria, non potrebbero fare di meglio che sviluppare l’abitudine di porre un punto interrogativo mentale accanto a ogni discorso sui giovani “bisogni educativi” delle persone o “bisogni di apprendimento” o sul loro bisogno di una “preparazione per la vita”. Worldschooling “E’ quando tutto il mondo è la vostra scuola” - Eli Gerzon 2007 Molte famiglie nel mondo si stanno dedicando del tempo per viaggiare, durante questi periodi i loro figli si impegnano in opportunità di apprendimento al di fuori dei limiti di una “classe”. Non è necessario essere sempre in viaggio ed avere una vita nomade, ma di imparare attivamente dal mondo che ci circonda. Si tratta di imparare attivamente dal mondo intorno a noi. Questo tipo di apprendimento fornisce un’esperienza culturale in cui l’esperienza è in prima linea nella comprensione personale.
Homeschooling, unschooling, worldschooling
Costruttivismo sociale – educazione progressiva
Homeschooling come estensione della genitorialità. Homeschooling letteralmente “scuola a casa”, rappresenta uno stile di vita che si sceglie di perseguire e il desiderio dei genitori di poter avere la piena responsabilità dell’educazione dei propri figli. Una delle caratteristiche migliori dell’homeschooling è la libertà di poter pensare fuori dagli schemi di apprendimento e scegliere tra una serie infinita di idee ispiratrici, di stili educativi, metodologie e esperienze messe a disposizione in rete, sui libri, tra i curriculum formativi e molteplici figure educative, conferenze e laboratori, ecc... Gli obiettivi dell’homeschooling variano tanto quanto gli
In contrasto con l’individualismo spesso riflesso nelle teorie dell’apprendimento basato sulla libertà, molti educatori sostengono che l’apprendimento è uno sforzo sociale, che richiede un’interazione significativa tra le persone all’interno di un ambiente che incoraggia deliberatamente la collaborazione, l’indagine e la risoluzione dei problemi creativi. Per gli educatori che hanno questa opinione, la conoscenza non è né completamente oggettiva (fuori nel mondo) né interamente soggettiva (rilevante solo per gli interessi dell’individuo); piuttosto, è costruito dinamicamente attraverso la relazione tra le persone e il loro ambiente sociale e fisico.
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approfondimento / home schooling Questa comprensione abbraccia idee che John Dewey e i suoi seguaci, e psicologi dello sviluppo come Jean Piaget e Lev Vygotsky, hanno espresso all’inizio del XX secolo e da allora sono stati ulteriormente sviluppati da numerosi altri teorici ed educatori, ad esempio quelli che praticano approcci come “apprendimento cooperativo” e istruzione “whole language”. Il termine generico “educazione progressiva” si riferisce spesso a scuole o metodi di insegnamento basati su questa tradizione (sebbene significhi anche altre cose). Sebbene queste idee abbiano influenzato molti educatori e scuole indipendenti, sono anche comunemente praticate da educatori progressisti di scuole pubbliche. Forse l’esempio più completo ed esplicito di questo orientamento è il modello di educazione della prima infanzia sviluppato nella città di Reggio Emilia, in Italia. Le scuole di Reggio hanno ispirato migliaia di educatori in tutto il mondo con l’enfasi sulle innate capacità creative dei bambini e l’importanza di sviluppare una comunità di apprendimento collaborativa e solidale. Queste scuole incoraggiano i bambini a impegnarsi in ampi progetti che riflettono i loro interessi, e gli insegnanti li aiutano a lavorare insieme e trovano significato nelle loro attività. Il costruttivismo sociale è stato spesso chiamato educazione centrata sul bambino perché si sforza di essere adatto allo sviluppo cioè rispetta le capacità e le tendenze umane che si manifestano naturalmente durante la vita di un bambino e coinvolge gli studenti pienamente nel loro apprendimento; è chiaramente un’alternativa al modello di trasmissione. La sua enfasi sulla comunità e sulla collaborazione gli conferisce anche una dimensione sociale che spesso si estende a una più ampia preoccupazione per la giustizia sociale e la democrazia partecipativa, sebbene gli educatori costruttivisti potrebbero essere cauti nel’esplicitare finalità politiche del loro insegnamento. Di solito il costruttivismo si esprime in un linguaggio secolare e in contesti non religiosi come le scuole pubbliche, ma può anche essere congruente con gli approcci educativi religiosi.
Pedagogia critica Dewey ha esplicitamente sostenuto che l’educazione progressiva non dovrebbe essere interamente centrata sull’infanzia, ma necessaria per affrontare i problemi sociali nel mondo dei bambini. Molti dei seguaci più apertamente politici di Dewey hanno quindi sottolineato l’importanza della ricostruzione sociale o della responsabilità sociale come obiettivi primari dell’educazione. Negli anni ‘70, dopo la pubblicazione di “La pedagogia degli oppressi” dell’educatore radicale brasiliano Paulo Freire, il termine “pedagogia critica” entrò in uso e molti teorici progressisti lo usano per indicare uno sforzo deliberato per educare alla responsabilità sociale. Credono che lo scopo principale dell’educazione non sia quello di trasmettere la conoscenza e preservare le tradizioni sociali, ma di trasformare la società aiutando gli studenti a sviluppare una coscienza percettiva e curiosa delle condizioni della loro cultura. Questa letteratura parla di libertà e liberazione, ma è importante notare che questi educatori non hanno una visione individualistica della libertà. Si preoccupano delle mutevoli istituzioni culturali, economiche e politiche e credono che una democrazia funzionante richieda un’azione collettiva risoluta, non semplicemente una scelta personale. I fautori della pedagogia critica tendono ad essere forti sostenitori dell’ideale scolastico pubblico (anche se certamente
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vogliono cambiare le condizioni attuali nella maggior parte delle scuole) e in genere considerano la privatizzazione dell’istruzione come un elitario o un ritiro dalla responsabilità sociale. Quindi homeschoolers e educatori alternativi indipendenti generalmente non trovano molti alleati entusiasti in questo gruppo. Tuttavia, la pedagogia critica rappresenta un segmento importante della mappa dell’istruzione alternativa, poiché solleva domande di base sullo scopo stesso dell’educazione.
Sviluppo spirituale Questa è un’etichetta difficile. Comprende modelli educativi basati su idee molto specifiche sullo sviluppo dell’anima umana attraverso fasi specifiche di sviluppo. Entrambi i termini della descrizione sono essenziali: gli educatori che praticano questi modelli insistono sul fatto che esiste una dimensione spirituale dell’esistenza umana, cioè l’anima è nutrita da energie creative universali che non sono spiegate dalle leggi della scienza fisica o della psicologia convenzionale o dell’apprendimento teoria. E i modelli prescrivono attentamente quali tipi di esperienze di insegnamento e di apprendimento sono appropriate e utili a ogni livello di sviluppo. I due esempi più noti di questo approccio educativo sono l’educazione Montessori e Waldorf, che sono saldamente radicati nelle osservazioni e nelle credenze sui cicli di sviluppo. Oltre a Maria Montessori e Rudolf Steiner, altri i maestri spirituali. Questi tipi di educative alternative sono centrate sul bambino in modo paradossale. L’ambiente di apprendimento è generalmente molto strutturato, con l’insegnante con un ruolo molto attivo e autorevole. Queste non sono scuole libere. Tuttavia, la struttura fornita è destinata a soddisfare i bisogni di sviluppo autentici del bambino in crescita. Diversamente dall’educazione tradizionale, l’educazione fondata sullo sviluppo spirituale non invoca l’autorità per il bene dell’autorità; piuttosto, intende stabilire una struttura pensata per supportare lo sviluppo dei potenziali latenti di ogni bambino. In contrasto con gli approcci costruttivisti basati sulla libertà e anche sociali, questo modello educativo afferma che un insegnante appositamente addestrato, autodisciplinato e premuroso può conoscere i veri potenziali di uno studente meglio di quanto lo studente li conosca.
Le scuole Montessori Queste scuole sono in linea di principio basate su metodologie sviluppate da Maria Montessori, la prima donna a diventare un medico in Italia e uno dei pionieri dell’istruzione. “La preoccupazione centrale di Montessori era lo sviluppo naturale del bambino, la salutare formazione delle qualità fisiche, mentali e spirituali che sono latenti nell’essere umano e che si compravano, secondo lei, secondo una forza vitale mirata, persino divina.” “L’obiettivo dell’educazione Montessori è rappresentato da cittadini competenti, responsabili e adattivi che sono discenti e ricercatori per tutta la vita”
Scuole Waldorf o scuole steineriane
Le scuole Waldorf si basano sugli insegnamenti “antroposofici” di Rudolf Steiner all’inizio del XX secolo. “Il nostro obiettivo: elaborare una pedagogia che insegni ad apprendere, ad apprendere per tutta la vita dalla vita stessa.” La pedagogia Waldorf mira a sviluppare individualità libere, in grado di continuare ad imparare dalla vita. Va in questa direzione cercando di riconoscere, coltivare e portare a manifestazione le potenzialità di ciascun bambino, rispettando i tempi della sua evoluzione fisica e interiore. Il bambino è un essere in divenire e importanti trasformazioni sono in relazione a diverse fasi di sviluppo. Queste sono legate ad un ritmo di settenni. L’approfondita conoscenza dei processi di sviluppo permette all’educatore di coglierli e accompagnarli con interventi pedagogici adeguati. Grande importanza hanno le conoscenze su come, parallelamente a importanti mutamenti fisici, si evolvono gradualmente le facoltà dell’animo umano: volere, sentire e pensare. Per un sano sviluppo del bambino è necessario cercare un equilibrio dinamico, in altre parole un “respiro”, tra due correnti: • Da un lato devono essere educate le capacità di accogliere e comprendere il mondo esterno attraverso un affinamento dei sensi e, successivamente, la conquista di un rigoroso pensiero riflessivo. • Dall’altro bisogna curare nel bambino tutto ciò che lo rende attivo: l’attività motoria, la fantasia, l’espressività, la creatività, l’iniziativa. Sono infatti questi ultimi aspetti che nell’epoca contemporanea dominata dalle informazioni, dalle macchine e dalla realtà virtuale, rischiano di venire trascurati; il che può comportare un impoverimento dell’esperienza del bambino e, soprattutto, pregiudicare la formazione di una sana e forte capacità di iniziativa autonoma. Si accompagnerà il bambino a sviluppare sempre armonicamente l’attività delle mani, del cuore e della mente. Proprio su questo equilibrio poggerà la sua capacità futura di divenire un uomo libero, fiducioso in se stesso e capace di contribuire allo sviluppo della comunità umana. Ci si rivolge al bambino dedicando pari attenzione sia alla maturazione individuale sia a quella sociale. Questo avviene, per esempio, attraverso l’esperienza del ritmo, con l’alternarsi giornaliero di attività pratiche, creative e che stimolano l’ingegno e attraverso le celebrazioni legate alle festività dell’anno. Viene riconosciuta pari dignità alle materie intellettuali, artistiche e manuali, con la consapevolezza che dita abili producono abilità di pensiero. La sana formazione di corpo, anima e spirito è l’intento principale della pedagogia Waldorf. L’agile mobilità delle dita è il presupposto della parola. Gli educatori eseguono con i bambini giochi ritmici con le dita sulla scia di brevi versi; si imparano le tabelline a passo di marcia o battendo le mani a ritmo. La pittura, il flauto e i lavori manuali, sviluppano al contempo sensibilità artistica e abilità delle dita. Gli allievi sono stimolati ad esprimere le loro abilità traendone soddisfazione personale, e ad interessarsi anche a quelle dei compagni, rendendo viva l’esperienza di armonia del gruppo in classe. Se il mondo di domani potrà essere un luogo in cui la pace, i diritti umani, la democrazia, la tolleranza, la multiculturalità avranno maggior spazio di oggi dipenderà in massima parte dall’educazione, ed è proprio agli aspetti sociali che l’educazione Waldorf dedica una particolare attenzione.
“altre”, di apprendere da esse, di accogliere nuove riflessioni grazie a questi tentativi educativi per un ripensamento ad ampio spettro delle istituzioni educative tradizionali.
PER SAPERNE DI PIÙ
libri
Carlo Ricci “Journal of unschooling and alternative learning” Pat Farenga “Growing without schooling” Ivan Hillich “Descolarizzare la società” Grace Llewellyn, Paula Hawkins “Guerrilla learning” James Marcus Bach “La scuola fa male” Richard Buckminster Fuller “The Dymaxion Chronofile” Peter Gray “Psicologia” John Holt “Teach Your Own” Paulo Freire “La pedagogia degli oppressi” Joel Spring “Educazione libertaria” Francesco Codello “Liberi di imparare” Andre Stern “Non sono mai andato a scuola” Alexander S. Neill “I ragazzi felici di Summerhill” Giancristiano Desiderio “La scuola è finita” Salvatore Valitutti “La libertà della scuola”
video
Logan LaPlante “Hackschooling” – TEDxUniversityofNevada Lainie Liberti & Miro Siegel “Unschooling: making the world our classroom” – TEDxAmsterdamED Emily Mignanelli “A cosa ci è servito andare a scuola?” – TEDxAncona Peter Gray “How Our Schools Thwart Passions” – TEDxAsburyPark Erin Gruwell “Becoming a Catalyst for Change” - kkkk TEDxChapmanU
Quello che manca probabilmente è una maggiore attenzione del mondo pedagogico, la volontà di sostenere esperienze
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famiglia
Impatto e conseguenze di eventi critici imprevisti all' interno di nuclei famigliari di Alessia Castellini
“Essere genitori può essere considerato come un percorso di crescita continuo che richiede numerose risorse”
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utte le famiglie, nell’arco del loro ciclo di vita, devono affrontare molteplici criticità il cui impatto può essere destabilizzante con una rilevanza tale da alterare gli equilibri presenti fra i vari membri della famiglia. Proprio per questo motivo tali accadimenti, che possono essere sia positivi che negativi, vengono chiamati eventi critici. Alcuni di essi possono essere considerati prevedibili e ricorrono regolarmente nella gran parte delle famiglie, come ad esempio la nascita dei figli, il pensionamento o la vecchiaia; altri invece sono considerati imprevedibili e si intrecciano con il normale percorso evolutivo della famiglia, causandone un arresto. Si tratta ad esempio di una morte prematura o di una malattia. Tali eventi, non sono altro che momenti di rottura, che modificano gli assetti della famiglia alterandone gli equilibri e causandone una successiva riorganizzazione, parziale o totale. Questo è ciò che accade nello specifico all’interno delle famiglie funzionali che, dotate di forti equilibri e salde relazioni sia tra i suoi membri che all’esterno del nucleo, riescono a superare in modo efficace il momento di crisi trovando così una nuova armonia. Ci sono però alcune famiglie che, non essendo dotate di tali risorse, vengono totalmente stravolte nel momento in cui un evento critico si presenta, non riuscendo più ad acquisire un nuovo equilibrio. Spesso caratterizzate da un susseguirsi di eventi critici non risolti e strutture organizzative e relazionali deboli, queste famiglie vengono definite “Multiproblematiche”. I loro membri sono spesso persone fragili che faticano ad adempiere in modo adeguato i normali compiti evolutivi e sociali che la vita presenta e fra questi risulta di grande rilevanza la genitorialità. Essere genitori infatti non è una qualità innata e statica che rimane stabile e costante del
tempo, piuttosto può essere considerato come un percorso di crescita continuo che richiede numerose risorse. La crescita del bambino è infatti contraddistinta da un incessante sviluppo e mutamento ed è necessario per il genitore mettere in atto continui meccanismi di adattamento per relazionarsi in modo funzionale con l’infante. Una famiglia che presenta già delle fragilità, può non avere gli strumenti necessari per adempiere al proprio ruolo educativo, minando la possibilità del bambino di avere una crescita positiva ed equilibrata, gettando così le basi per un futuro “Adulto Fragile”. È facile poi pensare che le debolezze di quell’ “Adulto Fragile” lo accompagneranno nel corso della vita, inasprendosi nel tempo e ripercuotendosi sulla sua futura prole, creando così un circolo senza fine. In questi casi, per impedire che ciò accada, la scelta può ricadere sull’inserimento del minore all’interno di una Comunità Educativa, il cui ruolo è quello di accoglierlo, offrendogli un ambiente positivo nel quale crescere, colmando le carenze dei genitori. Accettare l’inserimento di un figlio all’interno di una comunità è sicuramente difficile e doloroso per la famiglia, un processo che richiede tempo e che porta i genitori a scontrarsi con le proprie inadeguatezze, limiti e mancanze che fino a quel momento probabilmente si erano inconsciamente rifiutati di vedere. Tale processo porta il genitore a vivere un turbolento susseguirsi di emozioni contrastanti, prima fra tutte la rabbia che viene riversata su quella o quelle persone che vengono considerate responsabili dell’allontanamento. Ad essa segue il senso di colpa, che si innesca quando l’ira scatenatasi nei primi momenti perde la propria furia lasciando solo il senso di fallimento per non essere riusciti a prendersi cura del proprio figlio, abbandonandolo alla tutela di persone estranee e lontane dalle familiari mura domestiche. Al senso di colpa si unisce poi la paura di essere dimenticati e messi da parte dai propri figli che, con l’andare del tempo, potrebbero iniziare a considerare la comunità come la loro famiglia, accantonando così quella d’origine. Dal canto loro, anche per i bambini si tratta di una prova molto complessa. Il loro mondo vacilla e si sentono abbandonati proprio da quelle figure che avevano sempre considerato invincibili e capaci di proteggerli da ogni male. Così come i genitori, anch’essi proveranno rabbia e sensi di colpa probabilmente dovuti alla paura di aver fatto qualcosa di sbagliato e di aver in qualche modo causato loro stessi l’allontanamento. Tutto questo si unisce all’incertezza rispetto a cosa troveranno, che tipo di casa sarà, come saranno le persone che già ci abitano, quanto durerà. Si tratta indubbiamente di una fase molto complessa durante la quale le famiglie devono essere accompagnate nell’accettazione del cambiamento ed in questo risulta fondamentale il nostro ruolo di educatori. Lavorando infatti a stretto contatto con le famiglie, viviamo la loro quotidianità ed affrontiamo i piccoli e grandi problemi che ne conseguono. Con l’andare del tempo si instaurano forti legami di fiducia e di affetto che risultano importanti nel momento in cui la famiglia affronta un momento di crisi ed abbisogna di punti di riferimento ai quali appoggiarsi. Il nostro ruolo è quello di accompagnare il bambino e la famiglia in questo percorso, accogliendo i loro timori ed aiutandoli nell’accettazione dell’allontanamento, vagliando insieme a loro i benefici e le difficoltà che questo tipo di inserimento può comportare. La comunità però non deve essere considerata come una scissione del bambino con tutto ciò che ha costituito il suo passato, ma piuttosto come il punto di svolta che segue un evento critico imprevisto. Il bambino entra a far parte di un nuovo sistema relazionale, basato su regole, tempi, spazi privati e comuni proprio come in una normale casa. Potrà sviluppare nuove relazioni con i pari e con gli adulti, che favoriranno il suo pieno sviluppo psicosociale, adempiendo in modo funzionale ai normali compiti evolutivi, senza mai dimenticare il proprio passato e le proprie radici. La relazione con la famiglia d’origine verrà coltivata con la mediazione degli operatori così che il bambino e i genitori possano sanare il loro rapporto un tempo compromesso. Il nuovo ambiente favorevole, lo aiuterà nel corso del tempo a capire il suo passato, rispecchiandosi in esso e traendo spunti ed occasioni per poter costruire la sua futura Persona.
PER SAPERNE DI PIÙ Sonia Maria Laura Fusi “Minori, Famiglia, Comunità: una Relazione Complessa. Dall’analisi del contesto agli strumenti operativi”
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l’analisi
I migliori auguri per un sereno
conflitto N
el territorio di Piacenza è sorto il CPP, cioè il Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti nell’età evolutiva. Si occupa di percorsi per la crescita personale e di insegnamento dei processi di apprendimento per la gestione del conflitto. Il conflitto, dal quale può scaturire il litigio, è da considerarsi un’esperienza fisiologica e naturale nella vita di tutti i bambini e gli adulti. La “carenza conflittuale” minaccia questo naturale processo di apprendimento: quest’ultima infatti è caratterizzata dalla mancanza di componenti sociali e di personalità, che permettono all’individuo di sostenere le situazioni critiche e di trovare strategie di coping. Inoltre, alla base, vi è un’importante carenza nell’area della competenza emotiva. Secondo alcuni studi scientifici i bambini sono in grado di risolvere i propri litigi in modo autonomo e senza ricorrere alla violenza. Marina Butovskaya afferma, conseguentemente a sue osservazioni (Aggressionfriendship and reconciliation in Russian primaryschoolchildren, 1999), che la riconciliazione autonoma fra bambini avviene,di norma, entro un minuto dall’inizio del litigio. Spesso è la reazione dell’adulto al litigio che modifica, nei bambini, la percezione e il valore dell’evento stesso; mossi dalla preoccupazione che un evento conflittuale possa sfociare in un episodio di violenza fra due bambini, ci prodighiamo a calare dall’alto una soluzione che reputiamo giusta, spesso però attribuendo (inconsapevolmente) alle liti significati errati. Dobbiamo però tenere presente che il bambino, fino circa ai 6 anni, non dispone di un’intenzionalità coscientemente lesiva, anche a livello cognitivo. Inoltre anche nella fascia d’età 6-10 anni, dove questa intenzionalità inizia a svilupparsi, è difficile osservare comportamenti violenti tra i litiganti, perché i bambini tendono in ogni caso ad autoregolarsi. Il conflitto non è un evento da risolvere, quanto piuttosto una risorsa da gestire ed un’opportunità per darsi un compito di sviluppo. Potremmo considerare il conflitto non come un incidente di percorso, un imprevisto, ma piuttosto una struttura relazionale di apprendimento: una relazione ci parla di diversità che a sua volta conduce, talvolta, al conflitto. È uno stato della relazione, che riguarda due
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di Chiara Freddi
o più persone, in cui si presenta un problema (contenuto) che crea un fastidio (significato emotivo). Se riusciamo a comprendere il nostro ruolo all’interno del conflitto possiamo veramente sfruttarlo come risorsa. Dobbiamo dunque imparare a identificare il problema, cioè il contenuto del conflitto, con l’oggetto/l’interesse comune, e non con la persona che abbiamo di fronte. Il problema va riconosciuto e risolto insieme all’altro. Questi sono i presupposti sui quali il CPP basa i suoi studi e le sue teorie e dai quali ha ricavato le seguenti metodologie di intervento per i conflitti in età evolutiva. Va considerato che il conflitto ha una componente evolutiva perciò varia a seconda dell’età di riferimento; di conseguenza gli approcci da utilizzare in presenza di un conflitto cambiano a seconda del caso. Questi metodi, quindi, sono spunti di riflessione, sui quali conseguentemente ognuno di noi dovrebbe riflettere e trovare la propria modalità di lavoro. Parliamo quindi di conflitti nell’infanzia. Si sono individuati 4 passi fondamentali da poter mettere in atto in un litigio tra bambini. Il primo: non cercare un colpevole. I bambini in questa situazione potrebbero sentirsi giudicati dall’adulto e quindi non riuscirebbero a sfruttare le loro competenze auto regolative. Il secondo: non imporre la soluzione. Piuttosto che calare una soluzione dall’alto sarebbe più opportuno far sviluppare la loro capacità di gestione della situazione. Il terzo: far parlare loro del litigio. Ciò favorisce la metabolizzazione di quello che è successo e permette loro di comprendere le azioni dell’altro. Il quarto: favorire l’accordo fra loro. L’adulto, in maniera neutrale, può aiutare i bambini a trovare la soluzione giusta, lasciando però che siano loro ad esprimerla. In adolescenza invece, tutto ciò si modifica. Si nota infatti la propensione ad allontanarsi dal mondo adulto, quindi si dovrebbe puntare sull’incoraggiamento, trasformando il conflitto in dialogo basato su chiarezza comunicativa e regole negoziate. L’adolescente non cerca la confidenza, ma piuttosto la presenza basata sul rispetto reciproco. Questo è da tenere presente considerando che l’adolescenza è un periodo di vita ricco di potenzialità e proiettato al futuro. In conclusione, valorizzando in maniera adeguata i litigi ed i conflitti nell’infanzia si aiuta a formare ragazzi e giovani adulti con competenze tali da poter affrontare le difficoltà della vita.
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una visione banalmente uman di Erica Muratori
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el lavoro con gli adolescenti capita sempre più spesso di imbattersi in sofferenze e fragilità che rischiano di portare e gesti estremi di violenza etero ed auto diretta. Le letture che genitori ed esperti ne fanno sono le più varie, così come sempre più varia e vasta è la letteratura che si occupa di questi temi. La visione che tentiamo di darne con questo articolo è una visione che definirei banalmente umana, in quanto si nutre sì di parole di autorevoli esperti ma rappresenta anche un’intuizione non specialistica, quella di chi guarda agli adolescenti che soffrono come persone in crescita, con l’esigenza di far fronte ai compiti evolutivi che riguardano chiunque si trovi in questa fascia d’età. Tale prospettiva è sembrata nel tempo talmente banale, e forse talmente spaventosi sono sembrati agli adulti i gesti degli adolescenti che stanno male, che spesso si preferisce adottare una prospettiva in cui quel male, quella “patologia” o sofferenza che dir si voglia, prende il posto della persona e si decide che è meglio occuparsi delle due cose separatamente. Meglio prima eliminare questo spaventoso male, molto spiacevole da vedere, e poi considerare la persona, la sua età, il suo corpo, le sue amicizie, i suoi desideri e il suo bisogno di diventare grande. In fin dei conti tutte queste cose saranno importanti ma possono aspettare: se c’è una malattia, un male da curare, meglio prima occuparsi di
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na della sofferenza giovanile quello e poi penseremo agli altri aspetti della persona. Se già i grandi pensatori come Illich ci mettevano in guardia sull’opportunità di anteporre la medicina, lo strumento, all’umanità e ai suoi bisogni, in tempi moderni l’Istituto Minotauro si fa portavoce di una visione della sofferenza giovanile e della psicopatologia che si inserisce nel quadro dei compiti evolutivi della persona, individuando nella loro mancata realizzazione le possibili cause che innescano e contribuiscono allo sviluppo di processi psicopatologici. Aldilà delle cause di tali manifestazioni di sofferenza, che spesso sono plurime e non sempre tutte conoscibili, nell’ottica che prenderemo in considerazione i compiti evolutivi rappresentano soprattutto la possibilità di salvezza in quanto, per definizione, costituiscono un ponte verso il FUTURO. Futuro: termine molto usato e abusato ultimamente, spesso con una negazione che lo precede, per indicare la disperazione e la mancanza di obiettivi dei giovani del tempo presente. Nominarlo senza negazione, in un testo di in cui si parla di sofferenza e di tentativi suicidali può sembrare esageratamente poetico e sognatore. Diagnosi, patologia: queste sì che sembrano parole più concrete, si possono scrivere su fogli e hanno generalmente defini-
zioni molto precise. Eppure mi sembra che ci si dimentichi dell’estrema concretezza del termine futuro: la possibilità di immaginarsi il giorno dopo e quello dopo ancora... Di seguito accenniamo a qualche esperienza concreta che, in campi e con modalità differenti, si colloca in una prospettiva evolutiva e mette al centro dell’intervento la possibilità di futuro.
Padre quotidiano: l’esperienza delle comunità Lighea Padre quotidiano è l’analisi che Gustavo Pietropolli Charmet fa dell’esperienza delle comunità Lighea, sorte a partire dal 1984 nel centro di Milano per accogliere giovani adulti con gravi problemi psichici e guidarli in un’esperienza di autonomia e di separazione dalla famiglia di origine. Le tre comunità, fondate e dirette da Giampietro Savuto, si basano su una lettura della patologia psichiatrica come situazione in cui i
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adolescenza / 1 compiti evolutivi vengono bruscamente interrotti, bloccando la persona in una eterna infanzia. Mentre le strutture tradizionali che accolgono pazienti psichiatrici tendono a incoraggiare negli ospiti questa visione di sé come “eterni figli”, con il senso di frustrazione e di sofferenza che ne consegue, le comunità Lighea tentano la strada opposta: mettendo al centro la persona anziché la sua patologia, esse si propongono di accompagnarla nella realizzazione dei compiti evolutivi di autonomia e separazione, nel tentativo di restituire agentività a chi per molto tempo si è sentito incapace di vivere se non sotto lo sguardo vicinissimo della madre. Gli operatori delle comunità rappresentano quindi una presenza paterna che rassicura e libera allo stesso tempo, rende possibile pensare ad un futuro da vivere, seppur in convivenza con la malattia. La peculiarità dell’intervento nel suo complesso è l’attenzione costantemente rivolta la futuro del paziente piuttosto che al suo drammatico passato. Tutti i passaggi descritti acquistano infatti significato solo se visti all’interno di un disegno di progettualità globale. Si parte dall’analisi del disagio presente, delle potenzialità e delle capacità residue per immaginare un piano evolutivo, da realizzarsi per tappe con l’ausilio di strategie collaudate. In tale prospettiva importa relativamente indagare l’origine del male, specie se risale a tempi lontani, mentre è indispensabile un’attenta valutazione dello stato attuale per individuare obiettivi realistici e mobilitare tutte le risorse disponibili. (Gustavo Pietropolli Charmet, Padre quotidiano) Gli ospiti si muovono autonomamente in città, frequentano corsi e, quando si sentono pronti, vengono inseriti in contesti lavorativi autentici. Oltre alle comunità la Fondazione Lighea gestisce diversi appartamenti assistiti, che costituiscono un’altra, molto concreta, possibilità di futuro per chi sente concluso il suo percorso nelle comunità. Infine, la scelta di inserire queste strutture all’interno di un centro urbano come Milano restituisce agli ospiti la fiducia di poter essere in mezzo ad altri... desiderio strano o comune a tutta l’umanità? roba da matti o roba da tutti? La prospettiva adottata da Lighea offre spunti di riflessione interessanti anche a chi si occupa di accompagnare adolescenti e giovani adulti che non hanno diagnosi relative a specifiche patologie psichiatriche ma che si trovano in un momento di crisi rispetto alla possibilità di rappresentarsi un futuro, una via d’uscita dal grembo materno. Alcuni elementi chiave della buona riuscita di questa esperienza sono infatti rintracciabili anche nella nostra esperienza di lavoro con gli adolescenti e ci sembra di poterli con sufficiente sicurezza annoverare tra i nostri punti di forza:
La presenza
il terapeuta responsabile offre una reperibilità completa e incarna una figura genitoriale sempre disponibile all’ascolto, pronta a rassicurare e a intervenire. Se è vero che nel nostro caso non si tratta di terapeuti ma di educatori e in un contesto decisamente diverso, la relazione di prossimità continua che si crea tra educatori e ragazzi permette di accompagnare verso l’autonomia senza lasciare nella solitudine.
Il gruppo
Sia gli ospiti delle comunità sia i giovani che vivono negli appartamenti assistiti dagli operatori di Lighea sviluppano un profondo senso di appartenenza al gruppo e di solidarietà, che li porta a offrire e ricevere aiuto. Il gruppo offre l’opportunità di una relazione che superi quella a due, all’interno della quale si può riconoscere, ma anche ridimensionare, la propria unicità.
La famiglia
L ’attenzione alla famiglia è necessaria per non vanificare il lavoro che si svolge in comunità. Perché la separazione avvenga la famiglia deve imparare a lasciare andare e, per fare questo, deve potersi fidare di chi si propone come “sostituto temporaneo” e ponte verso una maggiore autonomia.
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Riscrivere la speranza: il ritorno di Amina dal paese della morte Il suicidio in età adolescenziale resta una delle tematiche più dolorose da affrontare non solo nel discorso comune ma anche nell’ambito specialistico. La reazione di timore che si crea in chi si trova a gestire adolescenti molto sofferenti può portare a banalizzare, a sminuire i segnali oppure ad intensificare le misure di controllo, le quali da sole non bastano però a risolvere le cose e possono, talvolta, peggiorarle. Nel mondo il suicidio è la seconda causa di morte sotto i 20 anni, la
prima negli Stati Uniti dove ha superato i morti per incidenti stradali. In Italia il suicidio è la seconda causa di morte per i giovani uomini tra i 14 e i 29 anni, dato che non tiene conto delle morti per overdose, incidenti ripetuti o altri comportamenti a rischio. Riscrivere la speranza è il racconto della vicenda di una ragazza italiana di tredici anni che sopravvive dopo essersi buttata dalla finestra del suo appartamento al quarto piano e degli incontri tra questa ragazza e la sua terapeuta, che sono iniziati un anno prima del mancato suicidio e sono proseguiti durante il ricovero ospedaliero e nei due anni successivi. Amina non è il vero nome della protagonista di questa storia ma, dovendo scegliere un nome di fantasia, Antonio Piotti e Roberta Invernizzi hanno scelto il femminile di Amin, che significa “veritiero”, “che dice la verità”. Il testo ripercorre le fasi che portano Amina a compiere quel salto nel vuoto e analizza il processo che l’ha portata a decidere di buttarsi, invece, nella vita. Il percorso psicoterapeutico svolto con Amina si colloca in una prospettiva evolutiva: l’obiettivo non è stato quello di riscrivere il passato, ma quello di organizzare il futuro, o, meglio, di rendere pensabile un futuro, aprendo nel presente nuove vie d’uscita là dove comparivano vicoli ciechi.
PRIMA: gli attacchi al cor po e il patto con la mor te Amina inizia i suoi colloqui in seguito ad un ricovero in pronto soccorso per attacchi di panico ed episodi di self cutting. Racconta subito la sua vicenda relazionale con Francesco, poco più grande di lei, con il quale ha accettato di abbandonarsi a sperimentazioni sessuali che poco comprende e che la fanno sentire colpevole. Lo ha fatto nell’illusione di esserne innamorata e nella speranza di sentirsi apprezzata da lui. In questo periodo i tagli sull’addome sono un modo per sentire meno il male che viene da dentro, per resistere più a lungo. È proprio nei momenti in cui non si taglia, infatti, che compare la presenza di un uomo nero che le intima di uccidersi. Il tentativo di suicidio avviene in un momento in cui tutti i sintomi, ovvero i “tentativi di resistenza alla morte”, erano scomparsi da un po’. L’episodio scatenante avviene all’interno di una nuova relazione, quella con Federico, quando lui, preso dalla curiosità, le chiede di poter vedere i suoi tagli. Questa richiesta uccide in Amina l’ultima speranza di poter ricevere un interesse da parte di qualcuno, se non di tipo morboso: non si tratta solo di una riemersione dei sentimenti negativi del passato, ma anche di un’ansia che si rivolge direttamente al futuro. L’elemento essenziale è che Amina vede chiudersi il suo futuro. I segni della sua indegnità la perseguiteranno per sempre e qualsiasi relazione nuova non farà che replicare quanto avvenuto nelle vecchie.
seguito del gesto suicidale ha permesso di trarre il maggior beneficio possibile da un momento in cui le difese e le resistenze di Amina erano più basse, aiutandola a ricostruire ogni passaggio di ciò che era accaduto. Dopo 17 giorni Amina viene trasferita nel reparto di Pediatria: qui i colloqui con la terapeuta avvengono due volte a settimana, per tutti il tempo del ricovero. Questo è stato possibile grazie alla collaborazione attiva tra i servizi di cura ospedalieri e il servizio sanitario territoriale. A poco a poco diminuiscono le fantasie, scompare l’uomo nero e si comincia a fare i conti con la realtà, con quello che è accaduto ma anche con quello che verrà dopo. Si cerca di dare un nome agli incubi che continuano e alle reazioni dei compagni, talvolta dure da accettare: Amina è una ragazza intelligente e sa leggere dietro le righe, dietro gli sguardi e i messaggi che le arrivano. La fiducia nella forza della parola non è mai venuta meno neppure quando sembrava che non ci fossero più parole da pronunciare e che il linguaggio non potesse accedere a livelli così elevati di sofferenza. In fondo, crediamo che l’inesausto uso della parola in tutte quelle ore di sedute sia l’elemento etico fondamentale di tutto il trattamento, quello per cui è valsa la pena intraprendere il percorso e portarlo a termine. (Antonio Piotti, Riscrivere la speranza) Amina torna a casa, una nuova casa, insieme ai suoi genitori. Esprime con sempre più forza il desiderio che vengano ridotte le misure di controllo, come i lucchetti ai cassetti o alle finestre. I genitori a loro volta vengono supportati da un percorso psicoterapeutico, che li aiuta a ristrutturare un’immagine di Amina come adolescente nella sua interezza e non solo come “adolescente suicidale”. Dopo due anni di colloqui Amina ce la fa. Ha ancora le cicatrici e zoppica, deve sostenere gli sguardi curiosi dei compagni ma nello stesso tempo combatte le sue lotte per l’autonomia, per innamorarsi, per le amicizie e ritrova le ragioni per “buttarsi – come dice lei – nella bellezza della vita”.
DURANTE E D OPO: la presenza che rende il futuro nuovamente pensabile I colloqui dopo il salto nel vuoto di Amina cominciano dal letto della rianimazione. Amina è intubata e comunica con la terapeuta attraverso i gesti o scrivendo su un foglio. Solo dopo quindici giorni può riprendere ad esprimersi con la voce e come prima cosa chiede di essere aiutata a ricordare. Anche una volta tornata la voce i gesti e gli sguardi restano parte integrante dei colloqui e rendono densi di messaggi anche i lunghi silenzi. La tempestività dell’intervento terapeutico a
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Educare alla sessualita’ Il progetto regionale W L’ AMORE e la sua realizzazione all’interno del progetto Lampada di Aladino di Erica Muratori
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el contesto italiano non esiste una legge nazionale che regoli l’educazione sessuale degli adolescenti. I percorsi di educazione all’affettività e alla sessualità si rivolgono prevalentemente a studenti delle scuole superiori, mentre più rari sono gli interventi nelle scuole primarie o secondarie di primo grado. Tali percorsi vengono solitamente svolti da esperti esterni, chiamati su iniziativa delle singole scuole. Anche i contenuti, di conseguenza, variano a seconda delle esperienze e mancano di una cornice di riferimento comune. Se negli anni Settanta – Ottanta le tematiche sentite come più urgenti erano legate alla prevenzione delle gravidanze precoci e delle malattie sessualmente trasmissibili, quindi essenzialmente alla dimensione sanitaria, negli ultimi anni si è avvertita l’esigenza di affiancare a queste tematiche quelle relative alla promozione del benessere relazionale, agli stereotipi di genere e al contrasto delle discriminazioni basate sulle differenze di genere e di orientamento sessualeIl progetto regionale W L’amore, finanziato dalla Regione Emilia Romagna nell’ambito del XV programma per la prevenzione e la lotta all’AIDS, è un percorso formativo su relazioni e sessualità che si propone di fornire una cornice comune potenzialmente estendibile a tutte le scuole e i contesti extra scolastici della regione. L’ambizione del progetto è quella di ricreare un linguaggio comune sulla sessualità, che consenta a tutti gli adulti che ricoprono un ruolo educativo di poterne parlare, tra loro e con i ragazzi, nel rispetto delle differenti prospettive di ciascuno. Il progetto trova i suoi principi guida nel diritto internazionale, riferendosi ai diritti sessuali elaborati dall’OMS nel 2002, alla Inter-
national Technical Guidance on Sexuality Education prodotta dall’UNESCO nel 2009 e agli Standards for Sexuality Education in Europe pubblicati dall’OMS nel 2010. Questi documenti richiamano alla responsabilità della comunità adulta e delle istituzioni a garantire l’educazione sessuale come diritto umano universale, considerandola come una tematica complessa, che deve necessariamente includere sia un’educazione alla prevenzione dei rischi connessi alla sessualità, sia un’educazione alle competenze relazionali e al rispetto dell’altro: In a context where ignorance and misinformation can be life-threatening, sexuality education is part of the responsibility of education and health authorities and institutions. In its simplest interpretation, teachers in the classroom have a responsibility to act in partnership with parents and communities to ensure the protection and well-being of children and young people. At another level, the International Technical Guidance calls for political and social leadership from education and health authorities to support parents by responding to the challenge of giving children and young people access to the knowledge and skills they need in their personal, social and sexual lives. (UNESCO, International Technical Guidance on Sexuality Education. An evidence-informed approach for schools, teachers and health educators, 2009) A distanza di alcuni anni dalla prima sperimentazione del progetto regionale, il 17 dicembre 2018 è stato presentato a Bologna il volume Percorsi di educazione
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adolescenza / 2 affettiva e sessuale per preadolescenti. Il progetto “W L’amore”, a cura di Paola Marmocchi, Loretta Raffuzzi ed Eleonora Strazzari, che rende conto della cornice teorico-metodologica entro la quale si è sviluppato il progetto, degli strumenti utilizzati, dei risultati finora ottenuti e dei possibili sviluppi futuri. Il progetto W L’amore della Regione Emilia Romagna viene sviluppato in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna e sperimentato negli Spazi Giovani delle Aziende Sanitarie di Bologna, Forlì e Reggio Emilia. Il modello da cui esso riprende la struttura generale, seppure con alcune modifiche, è quello del progetto Long Live Love, a cura di Soa Aids Nederland e Rutgers WPF, attivo dal 1990 nei Paesi Bassi, nelle scuole e nei contesti extra scolastici su tutto il territorio nazionale. Il progetto olandese è stato adattato alla realtà italiana, attraverso la traduzione dei materiali e l’aggiunta di alcune tematiche: nel progetto italiano vengono inserite anche le tematiche relative ai modelli di genere ed alla pornografia, che non erano presenti nel modello di Long Live Love. Come il modello olandese, il progetto W l’amore si realizza attraverso la formazione degli insegnanti e degli educatori, i quali aderiscono su base volontaria e sono i protagonisti attivi nel percorso di educazione alla sessualità rivolto ai ragazzi. Questa scelta coincide con quanto suggerisce il diritto internazionale ma nello stesso tempo costituisce una novità nel contesto italiano, dove i percorsi di educazione alla sessualità sono solitamente affidati ad esperti esterni, spesso provenienti dal settore sanitario o dalle associazioni che si occupano di queste tematiche. Il progetto inoltre, prevede una circolarità: le esperienze di insegnanti ed educatori, possono essere a loro volta condivise sia attraverso la valutazione finale che viene richiesta dal progetto sia attraverso il confronto con la rete di scuole, enti e associazioni che il progetto contribuisce a creare. W L’amore si rivolge a ragazzi e ragazze dell’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado. La prima sperimentazione è avvenuta durante l’anno scolastico 2013-2014, in tre istituti scolastici di Bologna, Forlì e Reggio Emilia. Gli operatori delle AUSL hanno formato il personale insegnante e incontrato i genitori prima di iniziare il progetto. Il coinvolgimento dei genitori rappresenta un elemento di originalità rispetto al progetto olandese, che non lo prevede. I genitori vengono incontrati prima, durante e dopo la realizzazione del progetto e possono esprimere una valutazione su di esso attraverso un questionario di gradimento. Anche i ragazzi hanno la possibilità di esprimere il proprio gradimento al termine dell’esperienza. Tali valutazioni hanno permesso di verificare l’effettivo gradimento della prima sperimentazione e di produrre la versione definitiva del progetto che, dal 2014 ad oggi, è stato esteso a tutte le province della Regione Emilia Romagna. È importante sottolineare che la decisione di prendere parte al progetto spetta ai Consigli di Istituto dei singoli istituti comprensivi i quali, una volta approvata l’adesione al progetto, lo inseriscono nel Piano dell’Offerta Formativa e, quindi, nelle ore di lezione curricolari. La partecipazione al progetto è quindi una scelta
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educativa che viene effettuata dalla scuola, nell’intento di garantire a tutti gli studenti il diritto all’educazione sessuale enunciato dall’OMS. A questo scopo, il progetto propone materiali e modalità di confronto che favoriscano la creazione di un ambiente accogliente e la partecipazione emotiva e cognitiva degli studenti. La formazione degli insegnanti incoraggia attività e modalità di conduzione che permettano a ciascuno ad esprimere il proprio punto di vista e di sviluppare un pensiero critico. Nel corso delle diverse edizioni di W l’amore, la valutazione richiesta al termine del progetto agli studenti che hanno partecipato e alle loro famiglie ha dato sempre riscontri molto positivi. Il progetto W L’amore si articola in cinque lezioni, di durata flessibile, che affrontano cinque macro tematiche: la pubertà e i cambiamenti nel corpo e nella mente; modelli culturali e stereotipi relativi all’essere uomo e all’essere donna; innamoramento, omosessualità e conclusione delle relazioni; assertività nelle relazioni, capacità di comunicare e uso sicuro di internet; comportamenti sessuali sicuri. Tra queste, solo l’ultima tematica viene trattata direttamente dagli operatori sanitari presso gli Spazi Giovani del territorio, mentre le prime quattro sono trattate dagli insegnanti stessi all’interno delle ore curricolari. L’intento del progetto infatti non è quello di sostituirsi alle figure educative esistenti in materia di educazione alla sessualità, quanto piuttosto quello di valorizzare le diverse competenze professionali in una cornice comune. La formazione iniziale fornisce agli insegnanti tale cornice, con la preoccupazione che le diverse tematiche non siano presentate solo attraverso la fornitura di materiale informativo bensì attraverso modalità attive e partecipate, al fine di creare un dialogo con i ragazzi, nel rispetto delle differenze di ciascuno: differenze di genere, di orientamento sessuale, di religione, di cultura. L’adesione su base volontaria da parte degli insegnanti favorisce la creazione di una comunità educante che condivide questi presupposti, pur mantenendo le specificità personali e professionali di ognuno. Le stesse tematiche spesso sono state trattate sotto diversi punti di vista e da docenti di diverse discipline, mantenendo sempre al centro la relazione e il rispetto dell’altro. Nell’ottica del progetto, l’educazione alla sessualità è tanto più significativa quanto più viene realizzata da adulti che hanno già una relazione con i ragazzi e costituiscono già un punto di riferimento per loro, in quanto non si tratta solo di informare riguardo alla sessualità bensì di proporre di modelli positivi di relazione, non solo attraverso i contenuti degli incontri ma anche, e soprattutto, attraverso il proprio modo di essere e di rapportarsi con gli altri che si esprime nella quotidianità. Il progetto non accentra quindi su di sé la responsabilità educativa riguardo alla tematica della sessualità ma si propone di sostenere le diverse agenzie educative che intendono farsene carico. L’estensione del progetto ai contesti educativi non-formali rientra quindi nella prospettiva più ampia di costruzione una comunità educante, capace di confrontarsi e di condividere una responsabilità comune su queste tematiche. Nel testo vengono presentate due tra le prime esperienze di adattamento del progetto a contesti extra-scolastici. Tra
arrossire, mettersi a ridere, guardare in basso o dire cose che possono sembrare un po’ stupide perché è possibile sentirsi imbarazzati, capita anche agli adulti. Se non lasciamo questa possibilità, assieme a quella di mettere al centro gli argomenti e le convinzioni che arrivano dall’esperienza di sessualità che i ragazzi vivono, ascoltano o fantasiosamente immaginano, il discorso rimarrà su un piano didattico, informativo ma difficilmente potrà essere educativo, trasformativo. •
questi contributi uno ci riguarda da vicino, riportando i punti salienti della realizzazione di W L’amore all’interno del progetto Lampada di Aladino, primogenito della nostra cooperativa. Ci è parso necessario iniziare questo breve contributo con una presentazione, sebbene necessariamente essenziale, di ciò che caratterizza il progetto, al fine di poter meglio descrivere come queste caratteristiche potessero interagire con il modello proposto da W L’amore. Il progetto Lampada di Aladino è attivo nella nostra città dal 2003 e si rivolge ad adolescenti dai 14 ai 19 anni. Elemento costitutivo del progetto, che si sviluppa in orari pomeridiani e nel momento serale dell’incontro settimanale, è la relazione di prossimità continua che si sviluppa tra educatori e ragazzi e tra i ragazzi stessi. La dimensione della prossimità, al contempo fisica ed emotiva, costituisce un’importante risorsa educativa e viene continuamente monitorata dagli educatori attraverso frequenti supervisioni e riunioni di équipe. La continuità costituisce un altro elemento chiave del progetto: in contrapposizione all’esperienza di una contemporaneità sempre più frammentata, caratterizzata da cambiamenti sempre più rapidi nel modo di vivere le relazioni sia all’interno che all’esterno del contesto familiare, il progetto Lampada di Aladino si propone di accompagnare il cambiamento anche evolutivo rimanendo un punto di riferimento il più possibile stabile per chi sta crescendo. È su questa base affettiva e relazionale che si sono inseriti i 16 incontri sulla sessualità che hanno coinvolto un gruppo composto da trenta ragazzi e ragazze.Il contributo evidenzia alcuni punti che ci sono sembrati particolarmente rilevanti nella buona riuscita del percorso: •
dare legittimità alle emozioni: se la tematica della sessualità non è emotivamente neutra per nessuno, a maggior ragione non lo è per gli adolescenti, che vivono un’età di cambiamenti fisici e sociali, in cui il rapporto con il proprio corpo e con quello degli altri riveste una grande importanza sia concreta che simbolica. Per queste ragioni il primo incontro del progetto è iniziato con una rassicurazione: è possibile, durante gli incontri che faremo, sentirsi imbarazzati,
partire dai ragazzi: la modalità di discussione privilegiata è stata quella del circle time. Una conduzione flessibile da parte degli educatori ha permesso che i ragazzi lasciassero emergere i propri dubbi, curiosità e rappresentazioni relative alla sessualità. “Spesso questa modalità ha comportato uno spostamento di focus rispetto alla tematica inizialmente pensata per quell’incontro, rappresentando un’opportunità formativa non solo per i ragazzi, che hanno avuto modo di chiedere ciò che più li preoccupava ma anche per gli educatori, che hanno potuto approfondire la propria conoscenza delle loro rappresentazioni relative alla sessualità. Un esempio è il dibattito sulla pedofilia emerso con forza dai ragazzi all’interno di un incontro in cui avevamo immaginato di parlare di innamoramento e orientamenti sessuali. Volendo provocatoriamente far emergere le posizioni fortemente omonegative di alcuni dei ragazzi, chi conduceva ha chiesto se esistessero, a loro parere, amori sbagliati. Il dibattito è stato completamente – e inaspettatamente - spostato sulla pedofilia e abbiamo potuto osservare come nella rappresentazione di molti dei ragazzi la pedofilia potesse essere una forma di amore non necessariamente sbagliata, se il ragazzo o la ragazza adolescenti acconsentono all’adulto e si dicono innamorati. La flessibilità – e la tenuta emotiva - di seguire nella conduzione il dibattito proposto dai ragazzi ha permesso di lasciar emergere questa rappresentazione che abbiamo scoperto essere piuttosto radicata nel gruppo e, in seguito, di portare nella discussione la voce del diritto, associando alla pedofilia gli aggettivi appropriati di devianza e di reato. Questa modalità presuppone da parte di chi conduce la disponibilità ad ascoltare posizioni eticamente inaccettabili o, come è accaduto per altre tematiche, espressioni volgari e immagini stereotipate della sessualità e delle relazioni che hanno, crediamo sia necessario e sano ammetterlo, un impatto emotivo sugli educatori stessi. La consapevolezza di ciò può dare la possibilità agli adulti che conducono gli incontri di lasciare spazio e parola a queste visioni, nella coscienza che mettere in parola, nel dialogo con altri, rappresenti la prima opportunità di cambiamento per i ragazzi. Questa costituisce inoltre un’opportunità conoscitiva per gli adulti stessi, nella misura in cui sono disposti a lasciar emergere le rappresentazioni reali, più o meno radicate, dei ragazzi”. (P. Marmocchi, L. Raffuzzi, E: Strazzari, Percorsi di educazione affettiva e sessuale per preadolescenti. Il progetto “W L’amore”, p. 205-206)
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tempi difficili
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GRANDE UOMO DI SPETTACOLO di Alberto Patrocini
“ Grazie ai social tutti
siamo diventati narratori, dunque più la notizia sarà eclatante, più avremo possibilità di ottenere visualizzazioni o like ” 28
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C’è un argomento che più di tutti, negli ultimi anni sta spiccando nel mondo della politica, dei telegiornali, dei social media. È un fenomeno che da sempre ha suscitato nell’uomo due differenti reazioni: se da un lato può incuriosire, stimolare, farci mettere in gioco e instillare una sete di conoscenza, dall’altro può farci chiudere in casa, avere timore di uno sconosciuto che ci chiede un accendino oppure un’indicazione stradale, di chi chiede asilo in un paese che, nonostante la crisi, tutto sommato non sta così male. È il fenomeno dell’immigrazione, che si lega indissolubilmente alle diversità intrinseche nell’umanità che possono essere molteplici: differenza di genere, di età, di altezza, di peso, di costituzione, di carattere, ma soprattutto di etnia, di carnagione, di cultura e tradizioni. Se è pur vero che le reazioni di cui parlavamo prima, curiosità o timore, continuano a verificarsi, è altrettanto vero però che negli ultimi anni ha iniziato a manifestarsi un nuovo tipo di reazione: dato che molti di noi sono immersi nel mondo dei social media, diamo ormai per scontato che le notizie che ci arrivano da quegli stessi mezzi siano veritiere, anzi, se un fatto non viene raccontato attraverso un video o un’immagine, sembra quasi che non sia accaduto. Grazie ai social tutti siamo diventati narratori, dunque più la notizia sarà eclatante, più avremo possibilità di ottenere visualizzazioni o like, non tanto per il gusto di essere apprezzati, quanto per avere qualcosa di cui parlare o sparlare. Meglio ancora chattare, perché in effetti metterci la faccia risulta pur sempre impegnativo. Alcune figure politiche stanno ormai puntando a questo, alla notizia che fa più rumore sul tema immigrazione,
perché ormai il tema immigrazione fa sempre più rumore. Non importa se è una notizia gonfiata, fraintesa o rigirata a proprio favore, non importa se è una notizia che scredita i migranti e la politica di accoglienza, oppure se mette in luce la poca umanità di alcune decisioni politiche italiane o europee. L’importante è far parlare di sé e deviare l’attenzione su alcune questioni che non rappresentano che una minima parte dei problemi del nostro paese, perché rimane sempre vero che, come dice il filosofo Lao Tse, fa più rumore un albero che cade di un’intera foresta che cresce.Per citare un po’ di dati, è del 25/10/2018 l’articolo del Rolling Stone che riporta alcuni passaggi del Dossier statistico sull’immigrazione, nel quale si evidenzia che “L’Italia è il paese del mondo con il più alto tasso di disinformazione sull’immigrazione […] non sorprende perciò che, secondo un sondaggio del 2018 condotto dall’Istituto Cattaneo, gli italiani risultino essere i cittadini europei con la percezione più lontana dalla realtà riguardo ai numeri di stranieri che vivono nel paese”. Senza voler pendere da una parte nella politica nazionale (almeno in questo articolo), nel dossier sopra citato (realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS e giunto nel 2018 alla sua 28° edizione) si analizzano i cinque più frequenti pregiudizi sull’effetto dell’immigrazione nel nostro paese, sfatandoli completamente: L’invasione di immigrati: i cittadini stranieri sul territorio dell’UE sono circa 38,6 milioni. Di questi 9,2 milioni sono in Germania (incidenza dell’11,2%), 6,1 milioni nel Regno Unito (incidenza del 9,2%) e 5,1 milioni in Italia (incidenza dell’8,4%). In Italia quindi si ha una presenza inferiore di migranti, sia in termini di valore assoluto, sia in termini di rapporto numerico con la popolazione locale. Gli immigrati ci rubano il lavoro: nel 2017 gli occupati stranieri erano all’incirca 2,5 milioni. I due terzi di questi svolgono professioni poco qualificate o operaie. Molti di essi inoltre svolgono lavori pesanti, precari, poco retribuiti oppure vengono sfruttati per il lavoro nero (senza parlare del differenziale retributivo tra italiani e stranieri, che raggiunge anche il 25%). Gli immigrati sono un peso per le casse pubbliche: contro i 17,5 miliardi di euro spesi “per loro”, nelle casse italiane sono entrati (tra contributi previdenziali, rinnovi o rilasci di permessi di soggiorno, acquisizioni di cittadinanza e altre voci di entrata) 19,2 miliardi di euro. Siamo quindi ad un saldo positivo. Invasione musulmana: più della metà degli immigrati sono cristiani (2,7 milioni, di cui 1,5 milioni di ortodossi e 900.000 cattolici) mentre i musulmani sono poco meno di un terzo (meno di 1,7 milioni). L’accoglienza è tutta sulle spalle dei paesi ricchi: in realtà la maggior parte dei rifugiati è accolta dai paesi in via di sviluppo (circa l’85%). Turchia, Pakistan,
Uganda, Iran. Il Libano ha la più alta incidenza di cittadini stranieri sulla popolazione (più del 16,5%, circa 1 straniero ogni 6 persone). Questi però sono dati di un dossier statistico, la cui edizione del 2018 costa 25€, un volume di 480 pagine che, per i più, possono risultare a dir poco noiose. Meglio seguire uno slogan più facile da comprendere, come ad esempio “aiutiamoli a casa loro”. Certo a livello di principio potrebbe essere giusto e sensato: aiutare i paesi in difficoltà cercando di impiegare risorse per risolvere le questioni interne, per evitare conflitti e restaurare relazioni pacifiche, in questo modo forse il numero di migranti diminuirebbe drasticamente. Ma tutto questo è attualmente possibile? Grazie agli accordi del 2017 tra Italia e autorità libiche, l’Italia fornisce risorse
“ Gli italiani risultino essere i cittadini europei con la percezione più lontana dalla realtà riguardo ai numeri di stranieri che vivono nel paese ”
alla Guardia Costiera libica, che quindi intercetta sempre più profughi, che vengono riportati nel paese nordafricano. Il problema è che vengono portati in centri di detenzione in cui subiscono violenze e torture ormai documentate, per diventare vittime di estorsioni o ricatti, oppure per essere poi venduti ai trafficanti di esseri umani. Allora forse “aiutarli a casa loro” non è ancora una soluzione attuabile. Ma chi avrebbe la pazienza di leggere il dossier statistico sopra citato, quando su internet ci sono tante notizie e tante immagini che possono riassumere il tutto? Poco importa quale sia la fonte, se è una notizia che mi trova d’accordo allora la prendo come mia e la condivido su qualche social. D’altronde basta che un ragazzo registri un filmato in cui racconta “la verità al popolo italiano”, fingendosi Giovanni Titori (omaggio a John Titor, soldato americano fittizio che sarebbe stato reclutato per viaggiare nel tempo, bufala dei primi anni 2000), un nostromo cacciato il giorno prima dalla nave Aquarius (nave utilizzata per ricerca e soccorso dei migranti in mare dall’ong SOS Méditerranée). Basta dire che i migranti in realtà stanno benissimo, sono vestiti bene, ridono, festeggiano, bevono e giocano, guardano la televisione ridendo di noi e di tutti i problemi che ci facciamo. Alla domanda “Perché ha fatto questo video?” Gian Marco Saolini (questo è il vero nome del ragazzo che ha architettato il tutto) risponde “Io dico soltanto alla gente ciò che la gente vuole credere.”. In effetti il video ha fatto 4 milioni di visualizzazioni e 120000 condivisioni, vuol dire che ha colpito nel segno, infervorando gli animi di chi non è riuscito a scavare oltre quello spesso strato di superficialità. Un altro esempio è il video di un uomo che spintona e picchia una dottoressa in ospedale: attribuito ad un siriano (in Ger-
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tempi difficili mania) oppure ad un magrebino (in Francia) il video è stato condiviso migliaia di volte, prima che venisse svelato che il picchiatore, il medico e l’ospedale fossero in realtà russi. E così si potrebbe andare avanti per ore a citare una quantità di bufale che purtroppo sono nascoste in mezzo ai fatti veramente accaduti. D’altra parte però non sono in pochi quelli che sfruttano le notizie per colpire le emozioni in altro senso. È del novembre 2017 la rivelazione che un noto politico italiano ha fatto a Propaganda live, programma tv della rete La7: per lanciare l’operazione militare umanitaria Mare Nostrum, il politico ha “sfruttato” una tragedia (nello specifico le immagini degli immigrati morti al largo di Lampedusa nell’ottobre del 2013). “È il meccanismo della pressione della pubblica opinione sui politici”, parole testuali pronunciate durante l’intervista. La stessa cosa avvenne nel settembre 2015 con le immagini del piccolo Aylan, il bambino di 3 anni morto sulla spiaggia, sfruttate da una parte dai politici per propagandare politiche pro accoglienza, dall’altra dagli utenti social probabilmente per mostrarsi altruisti e “impegnati socialmente” ai propri followers, amici ecc. Non volendo entrare nel merito di alcune decisioni politiche, è però impressionante vedere quanto l’opinione pubblica sia influenzata dalle notizie eclatanti e dalle immagini più inquietanti o scabrose. Dunque, tornando a Lao Tse, fanno sicuramente molto rumore mediatico un immigrato che commette un crimine e una nave bloccata al largo delle coste. Fa molto meno rumore un gruppo di ragazzi di 3° e 4° superiore della piccola provincia che, incoraggiati dai propri educatori, incontrano varie persone provenienti da Mali, Costa d’Avorio, Nigeria, Marocco e Pakistan per parlare di usi e costumi, dialogare, mangiare, ballare insieme. È l’incontro personale a stimolare il dialogo, la conoscenza e quindi la comprensione di certe usanze, tradizioni, cibi, danze, modi di esprimersi. Le storie personali sono spesso fonte di ispirazione: parlano di ragazzi che a 16-18 anni intraprendono un viaggio via terra altamente rischioso per raggiungere una meta lontana e STRANIERA, fermandosi prima per qualche mese in un altro paese per lavorare e guadagnare i soldi necessari per riprendere il viaggio e rischiare nuovamente la vita in mare. Fa più rumore la tragedia di una strage famigliare, ormai pare all’ordine del giorno. Fa molto meno rumore un gruppo di ragazzi, ragazze, uomini e donne di età, provenienze, religioni, culture diverse, che collaborano per svolgere un lavoro. E non un lavoro qualunque, una professione di costante impegno personale e sociale, come quella dell’educatore.Chiaramente in questo articolo non c’è la volontà di sminuire le notizie che ci vengono date dalle grandi testate giornalistiche, quanto invece di dare più risalto a quello che ci accade vicino, senza dare tanta importanza alle visualizzazioni che si possono ottenere sui social. Iniziare a conoscere la realtà della porta accanto, che è sempre più permeata di queste molteplici diversità, immergendosi nella propria e nell’altrui cultura perché il diverso fa più paura quando non lo si conosce. Arriviamo quindi al film citato nel titolo, in cui il fantasioso ed esuberante protagonista P.T. Barnum, da
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“ Siamo anche noi schiacciati dalla
pressione delle opinioni altrui al punto da diventare maestri dell’inganno e anteporre il nostro narcisismo alle nostre relazioni personali? ” sempre affascinato dalle diversità delle persone, mette in piedi un circo. Inizialmente il suo spettacolo esalta le caratteristiche delle “persone speciali e stranezze”, rivelandone i pregi oppure calcando volutamente sui difetti. Conoscendo e mettendo alla luce queste splendide differenze, viene a crearsi un rapporto di amicizia, complicità, un legame molto forte tra tutti i membri del circo, che cresce con il passare del tempo. Questo può essere un parallelismo con i fini altruisti e sani di chi esalta le differenze come ricchezza dell’attuale società. Quando però Barnum vede che il tutto funziona a meraviglia, che il suo pubblico ride e sorride, che la gente inizia a parlare del circo, l’uomo di spettacolo che è in lui inizia a cercare qualcosa di più: un pubblico più vasto, il pubblico dell’alta società, arrivando addirittura a cercare di tenere nascoste le sue “stranezze” alle persone snob nel momento in cui lo spettacolo non è in scena. Forse è capitato anche a noi di partire dalle nostre buone intenzioni per poi trovarci a condividere sui social notizie clamorose con lo scopo (almeno in prevalenza) di attirare l’attenzione dei nostri contatti, forse abbiamo dato la priorità al mantenimento della nostra pagina social, piuttosto che uscire di casa e conoscere personalmente la realtà che ci sta attorno, senza il filtro di uno schermo davanti agli occhi. Quindi può essere successo anche a noi che, inebriati dalla voglia di mettere in piedi un bellissimo spettacolo che esalta le diversità delle persone e ne evidenzia la bellezza e la ricchezza, abbiamo finito invece per vantarci della nostra propensione alla conoscenza, delle nostre amicizie strane o straniere, come se fossero un puro e semplice spettacolo da mettere in scena per fare più notizia? Siamo anche noi schiacciati dalla pressione delle opinioni altrui al punto da diventare “maestri dell’inganno” e anteporre il nostro narcisismo alle nostre relazioni personali? Oppure riusciamo a riconciliarci con queste persone (e con il nostro ego) attraverso la conoscenza personale, arrivando a ricreare il vero significato del nostro circo che, come si dice nel film, è una celebrazione dell’umanità?
“La vanità è a tal punto radicata nel cuore dell’uomo che un soldato, un attendente, un cuciniere, un vessillifero si vantano e vogliono degli ammiratori. E anche i filosofi li vogliono, e quelli che scrivono contro tutto ciò vogliono la gloria di avere scritto bene, e quelli che leggono vogliono la gloria di averli letti, e anch’io che sto scrivendo ho forse questo desiderio, e forse quelli che leggeranno…” BLAISE PASCAL
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l’intervista
PROFILO
Nelda Terzi
Assistente sociale (una delle prime in zona) in pensione. Ha studiato a Parma e lavorato a Reggio Emilia e Bologna. Nata nel 1940, vive a Massenzatico.
R
isaliamo con calma il tempo, arrivando a cinquant’anni fa: riaffiorano i paesaggi della Bassa reggiana, le tenute intorno a Poviglio. Quel quadro sembra poter rimanere immobile, ma è il pensiero che tocca ciascuno, quando pensa ai luoghi della propria infanzia e gioventù. Lì si dipanano i fatti delle vite delle persone, che un tempo difficilmente avrebbero detto di sé di essere speciali. Considero i miei trascorsi poco degni di nota, infatti, ma mi chiedi di ricordare e ci provo, mi fido se mi dici che ha un senso. Sono andata a scuola, come anche i miei fratelli. Ho avuto la fortuna di continuare gli studi per una serie di motivi. Si parla di tempi in cui le famiglie come la nostra aspettavano ancora il pacco dall’America, da dove nel nostro caso una zia ci mandava i vestiti che i suoi figli avevano smesso. Il nostro tavolo era il fondo di una botte al quale mio padre aveva costruito un piede. Dico senza scandalo che noi eravamo figli della strada, il che voleva dire che eravamo anche figli di tutti, nel senso che tutti si occupavano di tutti ed eri tenuto a trattare con rispetto ogni adulto che di te si occupava. La famiglia di mio padre era fortemente patriarcale ed è stata interessata da vicissitudini abbastanza consuete per chi si adoperava al lavoro agricolo. Conosco le vicende che si svolgevano intorno a queste 6 biolche di terra, mentre invece sono sempre rimasta completamente all’oscuro delle vicende sentimentali di quella gente, come si conoscevano, come si frequentavano e simili questioni: semplicemente, non se ne parlava, mai. Mia madre lavorava come sarta in casa, era stata mandata a Parma ad imparare e fin quando non si sposò quella fu la sua occupazione. Ben altro andare la attendeva di lì a poco tempo, quando nacqui io e mio padre fu richiamato alle armi. Di quel tempo da combattente non si sa nulla, qualche accenno a Trieste, qualche parola su Barletta: come dicevo, si stava molto sull’essenziale. In campagna, tutto sommato, non ci mancava nulla, tanto
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I chilometri in bicicletta. Un problema all’anca provvidenziale. La scuola per assistenti sociali, il tirocinio per INA-CASA e l’incontro con Loris Malaguzzi. Ricordi di un’assistente sociale. La società di oggi? “Sono colpita dal livello di non sopportazione dell’altro, trovo che una volta ci fosse più solidarietà”
che forse stavamo meglio che in città, affidandoci ancora agli scambi. Per andare a scuola c’erano da fare due chilometri e mezzo da fare in bicicletta, ovviamente su strade sterrate. Ci allietavano le serate in filoss nella stalla le favole di un casante della zona e, durante i miei spostamenti in bicicletta, rivedevo le forme e i fatti dei racconti tra le siepi e gli alberi. La scuola era grande, con la sezione femminile e quella maschile. La mia storia con la scuola è stata fortunata e più lunga della media sia perché me la cavavo bene, ma soprattutto perché avevo un problema congenito all’anca: s’era discusso tanto se operarmi, da bambina, ma poi non se ne fece nulla. Solo, scelsero di non farmi lavorare in campagna e quindi di farmi studiare, l’unica della famiglia. Frequentai le scuole medie a Castelnuovo Sotto. Arrivavo fino a Poviglio e continuavo a Castelnuovo, sempre in bicicletta. Sui ponti e davanti alle case ci si dava appuntamento oppure ci si aspettava, per andare poi tutti insieme. Ripeto che sono stata fortunata a poter continuare a studiare, però va anche detto che questo comportava una vita quasi monastica, in parte per il tempo che se ne andava per la frequenza vera e propria e gli spostamenti, in parte perché lo studio veniva avanzato come motivazione per non farmi uscire quando avrei forse potuto farlo. Non sono mai andata in città prima delle superiori, il più che si poteva fare era aspettare il mercato del lunedì a Castelnuovo Sotto, che tutto sommato era un luogo di incontro per tanta gente: ci andavamo per portare le ceste dei pulcini in bicicletta. Va considerato che se ho visto un po’ di mondo è stato grazie alle suore e al prete della zona, che ogni tanto organizzavano gite, solitamente in qualche santuario: per quelle uscite era accordato il permesso. Da bambina c’era il cinema un paio di volte all’anno, poi le pedalate in bicicletta fino a Boretto con mio padre la domenica. Arrivando alle superiori, ho fatto il primo anno a Parma,
più comoda da raggiungere con la corriera. Mi hanno bocciato subito, non conoscevo nessuno e non avevo ingranato. Una mia compagna aveva deciso di iscriversi a Reggio e mi aveva convinta. Tra le corse per prendere la corriera, lo studio, le levatacce e la poca vita sociale, sono riuscita a concluderle. Per un anno ho tenuto un doposcuola in una frazione del paese: non uscivano concorsi in quegli anni e, spinta da una donna del paese amica di una segretaria della scuola, ho conosciuto la possibilità di candidarmi alla scuola per assistenti sociali a Parma. C’era un esame d’ammissione e un colloquio con una psicologa. Era una scuola privata, gestita dall’O.N.A.R.M.O. (Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale degli Operai, organizzazione di assistenza religiosa, sociale, sanitaria ed economica degli operai, fondata nel 1926 sotto il patrocinio della S. Congregazione Concistoriale). A Reggio non c’era e quella di Parma era piuttosto rinomata, un percorso di tre anni di livello universitario – non a caso proprio dall’università fu poi assorbita. Gli insegnanti erano avvocati, medici dell’ospedale, psicologi: ricordo Maria Livia Fornaciari, come anche ricordo i vari insegnamenti di Morale. C’era poi il tirocinio, che valeva né più né meno di un esame: se non lo passavi, saltava l’ammissione all’anno successivo. Un anno ho fatto il mio tirocinio all’E.C.A. (Ente Comunale Assistenza, che dal 1937 rilevò il ruolo delle Congregazioni di Carità), per fare il censimento delle persone che aveva in carico: si trattava di condurre visite domiciliari e stendere relazioni, giustificando l’aiuto che era stato accordato. Siamo negli anni tra il 1961 e il 1962 e parliamo del distretto urbano della città di Parma: al di fuori di quel territorio, non ho ricordi di come si fossero organizzati gli altri comuni. Per svolgere il tirocinio si veniva seguiti da un tutore, disponibile nel caso si incontrassero difficoltà o più semplicemente per confrontarsi. Il secondo tirocinio lo svolsi all’Ente di Tutela dell’Infanzia, un’istituzione pubblica. Mi sono sentita più abbandonata
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a me stessa. Si aveva a che fare con difficoltà scolastiche, erano interventi che rispondevano alle segnalazioni delle scuole, in seguito alle quali si prendevano contatti con le famiglie e si vedeva come procedere: non ne ho un gran ricordo. Andò meglio il terzo anno. A Parma funzionava un gruppo appartamento gestito dalla Pontificia (Pontificia Opera Assistenza, ndr): si tenga presente che il direttore della scuola era un frate. L’appartamento era enorme, in pieno centro. Era un luogo solo femminile e dalle 11 in poi veniva aperto e le studentesse e le lavoratrici, ma anche altre tipologie di persone, potevano farsi da mangiare o passare il proprio tempo. Era infatti attrezzato con cucina e tavoli, c’era una televisione, dischi e libri: era un posto dove stare al caldo ed era la nostra destinazione di tirocinio. Dovevamo garantire l’apertura dalle 11 alle 15, poi dovevamo chiudere per poter frequentare le nostre lezioni. Tornavamo verso le 18.30 ed aprivamo per un altro paio d’ora, ospitando gruppi di amiche che volevano incontrarsi, talvolta per festeggiare un compleanno, talvolta solo per chiacchierare. Non era attrezzato perché gli ospiti potessero dormirci, ma a me, alla mia collega di Fidenza e in seguito ad un’altra di Reggio era stata fatta la proposta di vivere lì.
C’erano molte cose da fare. Venivano i caposcala a chiedere le lampadine per sostituire quelle bruciate, si organizzavano gli spazi per le riunioni, avevamo avviato il progetto della biblioteca: c’era fermento, era il 1964. Chiudo la parte sulla scuola di specializzazione dicendo che in tutto il mio corso aveva visto un solo maschio iscritto: non ci si meravigliava di ciò, era un dato di fatto che fosse una professione femminile. Già alle scuole magistrali, ai tempi della mia frequenza, si contava qualche classe mista, ma i maschi erano davvero pochissimi. Mi venne proposto, dal momento che ero in pari con gli esami e mi mancava solo la tesi, di intervenire a Reggio Emilia, nella zona della Rosta Nuova e di via Compagnoni, a seguito degli interventi della nuova edilizia di quartiere. A questi interventi si integrava il lavoro di due assistenti sociali, che in quel periodo dovevano assentarsi per questioni familiari. Ricordo lo stipendio: 45.ooo lire al mese, anche se ufficialmente ero una tirocinante dell’ente gestore INA-CASA. In città erano attive anche altre assistenti sociali (presso l’ospedale, in servizio per l’O.N.M.I.), ma non ho un quadro completo della situazione perché non c’erano contatti. La persona che si occupava della nostra supervisione, un’assistente sociale
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esperta, era a Modena e periodicamente erano organizzate riunioni. C’erano molte cose da fare. Venivano i caposcala a chiedere le lampadine per sostituire quelle bruciate, si organizzavano gli spazi per le riunioni, avevamo avviato il progetto della biblioteca: c’era fermento, era il 1964. Le scuole elementari di via Wybicki non erano, ad esempio, ancora terminate, così che l’anno scolastico cominciò all’interno del centro sociale, sito dove ora c’è la biblioteca. La chiesa piccola era dove ora c’è il campetto da basket e vicino avevano costruito il cinema. Dopo quei sei-sette mesi a Reggio, quando sono rientrate le colleghe che sostituivo, ho ricevuto la proposta del medesimo ente INA per Bologna, sempre per una sostituzione. La zona che mi venne assegnata era presso l’Ospedale Maggiore, facendo capo ad un piccolo centro sociale di via Pasubio, per la precisione. Poi sono stata mandata a Borgo Panigale. L’impostazione del servizio sociale aveva nel frattempo fatto passi avanti: se inizialmente si trattava di gestire spesso litigi per questioni di ordinaria quotidianità (bucato steso, buche nei giardini da parte dei bambini, rumorosità…), si trattò poi di organizzare attività più strutturate. Venivano organizzate le scuole serali, cineforum, approfondimenti e quant’altro. Non si aveva a che fare con questioni di salute mentale, invece. Devo fare un appunto personale, in proposito. Rispetto alla questione c’era molta più umiltà e accettazione di adesso, complice forse anche quella che viene detta “beata ignoranza”. Oggi ognuno è pronto ad attaccare per difendere ciò che si pensa sia proprio, convinti di essere in una posizione di sapere più degli altri e quindi di avere più diritti. Si pensa di poter gestire ogni ambito con le proprie competenze, dalla scuola alla medicina, mentre l’atteggiamento di un tempo era quello di fare pace umilmente con i propri limiti, fidandosi di chi aveva più conoscenze e accordando, di conseguenza, più rispetto. Il diverso, in sostanza, non esisteva: ognuno aveva dei limiti ed era ovvio che fosse così, ma in questo modo nessuno poteva assumere un ruolo completamente giudicante nel confronto degli altri. Non mi è mai capitato di assistere ad allontanamenti dai contesti abitativi, né gestiti da me in prima persona né da altre colleghe. Nel frattempo, venivano organizzati corsi preparatori ai concorsi che avrebbero dovuto essere banditi: se ne parlava da tempo, ma non uscivano. Questi corsi erano impegnativi e nel frattempo mi ero sposata e in attesa della prima delle mie due figlie. Dopo la prima, arrivò la seconda dopo tre anni e mi trovai ad abitare in uno dei quartieri reggiani nei quali avevo lavorato. Per qualche tempo, quindi, non lavorai e ricordo che fu poi mio suocero che mi disse che in Comune stavano cercando un’assistente sociale. La mia alternativa, visto il mio titolo magistrale, era di tentare il concorso per l’insegnamento, con la prospettiva di dover prestare servizio lontano da casa magari per tempi lunghi: preferii quindi la soluzione più vicina. Il colloquio si svolse con Loretta Giaroni e venni impiegata all’Ufficio Assistenza del Comune di Reggio Emilia, in via San Pietro Martire, laterale di via Farini. Arrivavano gli anziani a chiedere il sussidio, per ottenere un posto al ricovero e altri problemi simili: si accoglievano le persone e si raccoglievano le richieste, senza dover uscire a fare sopralluoghi o visite domiciliari. Una collega era invece in servizio in Via dell’Abbadessa 8, Centro Medico Psico-Pedagogico Comunale (CMPPC): io presi il suo posto e lei
il mio in Comune, così mi ritrovai a lavorare con Loris Malaguzzi. Questo Centro era stato aperto negli anni Cinquanta: in quel posto c’era allora anche la Direzione delle scuole materne. Il Centro Medico Psico-Pedagogico era diretto da Carlo Iannuccelli. Loris Malaguzzi era una persona molto gioviale, lo ricordo sempre allegro e disponibile. Con lui si lavorava bene, era senz’altro puntuale e scrupoloso. Rimaneva affezionato alle famiglie con cui lavorava e se poteva continuava ad intercedere rispetto ad altre istituzioni anche quando le persone diventavano maggiorenni. I riconoscimenti dall’esterno sono arrivati successivamente all’epoca in cui collaboravo con lui, ma posso testimoniare che era sempre impegnato in progetti ed innovazioni: a volte si perdeva in queste sperimentazioni. Ogni anno venivano inoltre organizzate giornate di studio con personaggi di rilievo. Quel servizio era tenuto in buona considerazione dall’amministrazione comunale. Ricordo di aver partecipato ad un incontro serale in Comune in cui la discussione era stata veramente molto accesa, con toni ai quali non ero di certo abituata. Malaguzzi mi prese poi in giro bonariamente: lui aveva saputo difendere con molta decisione le sue posizioni. L’organizzazione delle scuole e degli asili fece fatica ad avviarsi, ma una volta partita c’era un livello di attività altissimo, con continui eventi spontanei o organizzati, ovunque. Nella mia esperienza professionale non ho intercettato direttamente il lavoro con l’handicap: vennero gli anni dell’inserimento nelle scuole ma prima, tra le tante cose, non mi ero sinceramente mai posta il problema. Venni poi trasferita in via Giorgione: c’era uno psichiatra, c’era un medico che aveva sostituito il neurologo in servizio in via dell’Abbadessa, c’era Giovanni Polletta, ma non ho ricordi molto definiti, perchè la vita era già allora notevolmente frenetica per le donne che lavoravano. Il mestiere dell’assistente sociale è molto mutato, nel tempo. Inizialmente ci si occupava di tutto (e niente), poi sono sorte le varie specializzazioni per ambiti. A ciò ha contribuito la logica della suddivisione nei vari Quartieri: ho lavorato ad Ospizio e a Santa Croce, oltre alle varie sostituzioni. Erano integrate anche le figure dell’ostetrica, del pediatra, di chi faceva la DNP (diagnosi neurologica precoce), il servizio di vaccinazione, il servizio psichiatrico, il servizio anziani, il servizio minori, il consultorio ginecologico o familiare: gradualmente tornarono poi ad accentrare questi servizi, poi con la creazione dei Poli dei Servizi Sociali si tornò verso un’idea di decentramento, ma senz’altro non forte come all’epoca. Io mi sono occupata di anziani, bambini, handicap, scuole, assistenza generica, devianza e affidi e adozioni. Periodicamente, inoltre, tutti erano tenuti ad occuparsi dell’accoglienza. I servizi sociali cominciavano ad occuparsi veramente di molte questioni. Con “devianza” intendo le segnalazioni che arrivavano dal Tribunale dei Minori ed erano in verità numerose: a volte erano le classiche ragazzate ma altre volte si trattava di problemi più seri. Non di rado erano coinvolti ragazzini o ragazzine di famiglie già conosciute ma non in tutti i casi. Ripensandoci, non c’era la tendenza a generalizzare questi problemi: intendo dire che ogni fatto era preso come un episodio singolo, senza insistere su allarmi sociali. Al di fuori dei Servizi, in verità non si sentiva molto parlare dei problemi, c’era forse meno consapevolezza di quanto accadeva e si creava meno allarme. Come operatrici, si sentiva molto la presa in carico: esisteGALINAnOVA | giugno 2019
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Come operatrici, si sentiva molto la presa in carico: esistevano le figure dell’educatore, ma erano più che altro intese come appoggi a scuola.
vano le figure dell’educatore, ma erano più che altro intese come appoggi a scuola. Anche all’Ufficio di Collocamento era prevista la figura di un assistente sociale. Eravamo tenute a seguire degli aggiornamenti, molto mirati a singoli argomenti: non si trattava di formazioni che andassero ad arricchire il patrimonio professionale e personale complessivo, bensì più mirate all’intervento specifico. Diciamo che mi viene da considerarli aggiornamenti solo ora, mentre in quegli anni li prendevo come meri passaggi informativi. Non erano solo eventi organizzati internamente, ma sporadicamente si partecipava ad occasioni al di fuori della città. Retrospettivamente, valuto quella professione come molto provante: si veniva investite da molti carichi di richieste che diventavano pressioni notevoli, considerando che dietro c’erano le storie di autentiche persone. La crisi di questi ultimi anni non è stata la sola, chiariamoci. Incontravo chi era disposto a farsi aiutare ma anche chi, a fronte di un identico bisogno, rifiutava l’aiuto o pretendeva di essere aiutato secondo una sua idea. Personalmente, ho incontrato diverse situazioni che mi hanno messo in difficoltà, alcune per l’irrazionalità delle persone, che sembrava facessero di tutto per non farsi aiutare. La gestione delle adozioni non è mai stata semplice: mi sono trovata molto spesso di fronte al dubbio se avessi fatto bene ad approvare o respingere un’adozione. Il percorso di valutazione insieme allo psicologo era di fatto ben articolato e inoltre c’era poi un ulteriore parere del Tribunale: questo non garantiva comunque la certezza di aver fatto la scelta giusta. Era invece una buona cosa che l’iter di adozione fosse piuttosto lungo, tra fase informativa, formativa, visite domiciliari, burocrazia, istruttoria. Ho smesso di lavorare nel 2000. Se devo dire, con l’occhio da assistente sociale con una certa esperienza, che cosa mi preoccupa di più adesso, non metterei in cima alla lista la questione della casa o del lavoro, ad esempio, poiché si tratta di problemi che ci sono sempre purtroppo stati. Sono invece spesso colpita dal livello di non sopportazione dell’altro al quale assisto. Trovo che una volta ci fosse più solidarietà, mentre ora ogni pretesto è valido per arrivare allo scontro. È una questione che sui giovani si riverbera nella poca accettazione delle regole, dal momento che arrivano a percepire se stessi come uniche autorità, o meglio, come le uniche entità che hanno diritti e interessi. La perdita di autorità comporta che spesso si seguano esempi sbagliati o incoerenti, con la logica del “se l’ha fatto lui, posso farlo anche io”. Altra conseguenza, per loro, è la deresponsabilizzazione: è tutto e sempre compito dell’altro. Sono messaggi di piccole e grandi intolleranze che vengono dagli adulti. Mi dispiace pensare che non siano solo dinamiche che riguardano la città strettamente intesa, ma che siano del tutto rilevabili anche nel contesto dei paesi piccoli: ammetto di non vivere nel contesto del piccolo paese da un po’, ma sono abbastanza certa che ci sia stata una sorta di contagio, anche considerando che ormai la quasi totalità delle persone rimangono in paese solo per dormire.
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