GALINA NOVA 3

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“Quando gli eremiti escono dalla cameretta”

Esperienze di colloquio aldilà della porta

Joe non parla ma ascolta. È fermo nella sua decisione di non dire una parola ma ascolta quelle che gli vengono rivolte dall’altra parte della porta. Ci sono le parole del dottore che cerca con tutta la sua professionalità di invitarlo a parlare con lui e ricevono come risposta uno sputo che, attraverso la sottile fessura della porta, riesce a centrare l’obiettivo. Ci sono le parole dello zio, decise a porre fine all’isolamento di Joe come i suoi tentativi di sfondare la porta. È ora di finirla, non è educato starsene chiusi in una stanza e non rispondere a nessuno. Joe risponde aprendo la finestra e alzandosi in piedi sul bordo per vedere che effetto farebbe buttarsi di sotto. Poi ci sono le parole della mamma di Joe e i silenzi della mamma di Joe. Ci sono le sue storie, le sue richieste quotidiane: “Joe prendi il vassoio, il cibo si fredda. Se hai bisogno bussa che arriviamo”. Le sue attese dietro la porta, il suo respiro che si sente oltre lo strato di legno che li divide. C’è la sua sofferenza, il suo terrore di perdere il figlio ma anche la sua responsabilità di rimanere adulta, madre, centrata sul dolore del figlio e non sul proprio. Un breve racconto quello di Wright, 12 minuti e 30 secondi di immagini e audio volutamente confusi, sfocati, sovrapposti come confusi e sfocati sono i pensieri che affollano la mente e il cuore di Joe. Uno spaccato breve ma preciso sul dolore dei ragazzi che si ritirano dalla vita sociale. E una proposta di via d’uscita: il dialogo, inteso in senso molto più ampio della sua componente verbale, formato da una pluralità di linguaggi e inserito in una relazione di qualità.

Joe esce dalla sua stanza. Prende il suo zaino e si copre bene: cappello e mascherina davanti alla bocca. Fuori c’è ancora buio e Joe corre fino alla fine della notte, fino alla fine della città. Raggiunge un bosco ma non trova l’amico che gli aveva dato appuntamento lì. Trova la sua mamma, che lo raccoglie in un abbraccio: Joe ha di nuovo un corpo. Pietropolli Charmet conferma: gli eremiti possono uscire dalla cameretta, dopo un lungo periodo in cui è molto difficile avvicinare questi ragazzi e parlare con loro si arriva ad un punto di svolta e gli stessi sono disponibili a raccontare la propria storia, a provare insieme al terapeuta a capire che cosa li ha portati lì e come uscirne. Il notevole aumento dei ragazzi che si ritirano dalla vita sociale ha portato gli psicoterapeuti dell’Istituto Il Minotauro a confrontarsi con alcuni colleghi giapponesi con una vasta esperienza di questo fenomeno. In Giappone una figura molto rispettata e ascoltata all’interno della famiglia è quella della sorella maggiore, considerata fonte di saggezza e di buoni consigli. Da qui è partita la riflessione che ha portato gli esperti del Minotauro a formare e impiegare giovani psicologhe nei colloqui con i ragazzi ritirati sociali, colloqui che per una prima, lunga fase, si svolgono aldilà della porta. Solo il tempo, l’attesa paziente e costante portano alla costruzione di una relazione di sempre maggiore fiducia:

Ha quasi sempre funzionato e dopo non brevi e drammatiche vicende relazionali consumate in dialoghi a porta chiusa, con bigliettini infilati sotto la porta, attese in corridoio, prudentissime proposte di bere assieme un caffè in cucina e via di questo passo verso la riabilitazione della socializzazione disastrata, alla fine la nostra inviata speciale è quasi sempre riuscita a portare il giovane eremita nei nostri atelier espressivi, primo passo verso la riorganizzazione della speranza a potercela fare a tollerare il contatto diretto con altri esseri viventi, al di fuori della realtà virtuale.[…] Da questa tipologia di bruttezza ci sembra che si possa guarire, anche se ho dubbi importanti che la guarigione possa avvenire spontaneamente, in assenza di cambiamenti nel sistema familiare o senza che intervenga dall’esterno una task force che organizzi la liberazione dell’ostaggio dalla prigione della paura della bruttezza e delle orribili false rappresentazioni sul proprio valore e sui diritti che ne derivano. Le giovani psicologhe si relazionano ai ragazzi con azioni semplici e quotidiane ma con dietro una salda preparazione teorica e l’equilibrio personale, necessario per mettere al centro della relazione il ragazzo, senza pretese di venire ricambiati o facilmente accolti. In questo, mi sembra di poter senza troppe forzature paragonare questo tipo di sostegno alla crescita e alla genitorialità a quello offerto dagli interventi di educativa intensiva e domiciliare che hanno a che fare con diverse fragilità e crisi adolescenziali, in famiglie già fragili ancora prima di scontrarsi con l’adolescenza.

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