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Centrato alla persona?
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quella vecchia fa buon brodo l a n u o v a p u ò f a r e tutto il resto
AGOSTO
2016
NUMERO TERZO
Hikikomori E. D. e pornografia online La sperimentazione P.I.P.P.I. Il linguaggio e i Servizi alla Persona Il dialogo, il colloquio e la relazione di aiuto
liberamente edito da Giro del Cielo, SCS, Via Wybicki 12B_ 42122 _ Reggio Emilia
T E R Z O n u m e r o
GalinaNova
GIRO del CIELO
coop. sociale
GalinaNova è, per la nostra Cooperativa, lo spazio-tempo in cui dedicarsi alla cura del pensiero, trovando anche per esso una sede per essere archiviato e ripreso, così che ci supporti nel nostro operato di cura e nella nostra dignità di persone. Questo pensiero - messo in parole, rivisto, aggiornato, criticato... - testimonia la responsabilità che sentiamo verso la formazione (di noi operatori tanto quanto di quelli che incontriamo nei nostri percorsi). Ci affidiamo volentieri al confronto con altri professionisti dei quali abbiamo apprezzato la serietà, le competenze e, forse più del resto, l’attitudine empatica e rispettosa alla conoscenza autentica delle persone.
Daniela Scrittore, referente per le politiche familiari nel servizio di programmazione del welfare del Comune di Reggio Emilia, riflette con noi sul linguaggio nei servizi alla persona. L’indagine in queste pagine è rispettosa e onesta nel riportare i passi avanti che sono stati fatti, eppure ci avverte di non cadere in automatismi di prassi che possono precluderci la strada verso il cuore dei problemi. Le sue considerazioni sono un viatico prezioso per chi voglia accettare la sfida del lavorare per le persone con le persone. Ringraziamo Valentina Ferretti , assistente sociale, per aver integrato con la sua testimonianza il panorama rispetto alla sperimentazione P.I.P.P.I., che ha coinvolto la nostra cooperativa ed è bene seguire con attenzione per gli spunti praticamente teorici che propone.
Giorgio Ghio, dirigente scolastico, ci aiuta a tener vivi alcuni concetti fondamentali rispetto alla relazione di aiuto: non si tratta di argomenti nuovi e tuttavia la loro adozione convinta è una sfida continua, in tutti gli ambiti educativi, soprattutto di fronte alla celebre caduta dell’autorità. Interpretiamo questo cordiale confronto ricavandone, nonostante le nostre resistenze verso i “metodi” per il loro implicito rischio di rendere inautentiche le relazioni, una essenziale panoramica su “armi” che servono non ad attaccare ma a condurre.
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in quest o n u mer o p. 04 _ un editoriale
p. 06 _ spunti sulla relazione d’aiuto da T. Gordon p. 8 _ bibliografia consigliata dal prof. Giorgio Ghio
p. 9 _ colloquio e relazione
p. 10 _ P. I. P. P. I. a Reggio Emilia P. 14 _ Valentina Ferretti racconta P.I.P.P.I.
p. 18 _ i crinali del linguaggio per i servizi alle persone p. 24 _ rileggere Carl Rogers? ancora?
p. 26_ hikikomori - inquadrature ed esperienze p. 32 _ E.D. @ pornografia online
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editoriale di Matteo Muratori
Con il terzo numero di GalinaNova continua la nostra indagine sulle implicazioni del linguaggio nella professione educativa e, in tangenza, nelle scienze umane. Progredendo nelle discussioni nei nostri momenti di incontro tra gli operatori della cooperativa e con le altre persone che accettano di ingaggiarsi nel confronto, ci troviamo sempre meno convinti che il linguaggio debba essere un’arma. Con il termine “arma”, intendo uno strumento da utilizzare per condizionare la volontà e il vissuto altrui operando delle forzature. Ci stiamo ancora scrollando di dosso l’arrivismo degli anni Novanta, che ancora tenta di arrembare i sogni delle persone comuni, ancora impantanate nella crisi economica degli ultimi 7 anni: quale terreno più fertile di questo, per sperare di potersi risollevare e splendere a spese di qualcun altro? L’arrivismo è un atteggiamento che invita ad usare senza mezze misure il linguaggio, appunto, come arma. Una lingua allenata a sciorinare dati freschi e ottimistici, uno sguardo sicuro e ammiccante, una postura disinvolta ma capace di guadagnarsi fiducia (anche questo è “linguaggio”); per una glottologia del successo, in fondo, non occorrerebbero trattati imponenti, perchè le tecniche per invischiare l’altro sono vecchie, antiche, un disco riandato milioni e milioni di volte. Eppure, ancora sbucano in tutta la loro baldanza i taumaturghi della parola, professionisti – sedicenti – che promettono di risollevare le sorti della vita delle persone grazie al potere del condizionamento linguistico. Sbucano fuori, indottrinano, battono cassa e scompaiono. Sono tecniche e convinzioni, queste, che ancora possono bastare in alcuni campi professionali: un buon venditore può fare impennare le vendite, un capoufficio convincere i sottoposti che tutto vada bene e... qualche altro esempio esiste, insomma, e non si può crocifiggere chi cerca un po’ di autostima rinforzando la propria loquela. Attenzione, però: tutto questo è tollerabile se non c’è niente di importante in gioco. Si possono tollerare i piccoli raggiri se servono ad indirizzare verso l’acquisto di un accessorio inutile o cose del genere: ciò che non si può tollerare è quando le identiche strategie vengono utilizzate nella relazione di cura. Posso assicurare che esistono e sono raggiungibili nel tempo di un click siffatti esperti della parola, che con nessun ritegno assicurano di potersi permettere a pieni titoli di affrontare le sofferenze altrui come terapisti a pieni titoli, per poi applicare lo stesso identico metodo che funziona per impennare le vendite dei frigoriferi. Sono casi estremi, ma possono realmente fare danni di notevole portata. Trovo che questo esempio possa chiarire come si possa concepire il linguaggio come arma, malia, manipolazione. In questi casi, il linguaggio è una cosa unica con la tensione aggressiva verso l’altro, con la volontà di derubarlo di quel diritto di stare al mondo con piena cittadinanza che spetta ad ognuno di noi indiscriminatamente. Chi agisce così, attacca per difendersi: guardiamocene, perchè c’è del pericolo nell’aria. Ci siamo chiesti se – pur senza arrivare a questa inutile grinta – anche nella nostra professione di educatori si corra il rischio di strumentalizzare attraverso il linguaggio. Ci siamo anche chiesti se, dal momento che collaboriamo continuamente con altre professionalità, alcune tra queste siano più a rischio di cadere in questa dinamica. Quando si ha a che fare con persone che – secondo tipologie anche opposte tra loro e intensità dei bisogni molto variabili – ci contattano per cercare appoggio più o meno temporaneo, molto si gioca sulla fiducia. Rubare la fiducia a chi ne ha solo pochi residui, magari per casi della vita burrascosi o semplicemente per motivi che ancora non sa lui stesso identificare, è un tradimento imperdonabile. Lo si può fare facilmente, servendosi del linguaggio: si può promettere, illudere, intimorire, impietosire, persuadére, minacciare, si possono inventare scuse, scaricare responsabilità, fare sentire il peso della distanza sociale o di istruzione..., e così continuando ad elencare quelle che, se inferte a chi è già in condizione precaria, si chiamano raggiri o torture.
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In questo numero abbiamo raccolto alcuni pensieri esito di questa perlustrazione, per la verità più insidiosa di quanto non avessimo previsto. Giorgio Ghio, dirigente scolastico tutt’ora in servizio, ci ha incontrato per un’infarinatura su Thomas Gordon: non pretendevamo di certo riuscisse a presentare tutti i contenuti e le riflessioni del rinomato Metodo, e quindi siamo rimasti soddisfatti dall’incontro con una persona competente e titolata che ci ha presentato concetti non di certo recenti, eppure irrinunciabili. La preparazione a questa formazione è stata da noi curata “incontrando” Carl Rogers, un nome da mitologia e, in quanto intoccabile, spesso citato ma mai letto direttamente. Quasi a modo di esperimento, abbiamo tentato un salto lungo dai trenta ai cinquant’anni – dipende quando si assume abbiano avuto genesi nelle menti degli autori le idee proposte. La comunicazione e, più precisamente il “colloquio”, sono i temi che ritroviamo alle estremità del salto. Trovate recensito – o, forse più precisamente, riassunto – un libro del 1998 che viene ancora proposto come riferimento decisivo per chi si forma alla professione educativa negli atenei: non cogliamo luminose novità rispetto a Rogers – che ci teniamo a poco più che nominare in un articolo successivo – ma appoggiamo lì il materiale per permettere direttamente a chi legge di valutare. P.I.P.P.I. è un nome faceto per una sperimentazione davvero molto seria. Ne parliamo in alcune pagine che speriamo servano per fare capire il presupposto impegnativo e – per lo stato attuale dei servizi – potenzialmente rivoluzionario. La pratica di questa sperimentazione (molto di questa pratica rivisita il linguaggio, tra l’altro) si nutre di teorie, anche in questo caso, ben datate: è un esempio chiaro di come certe intuizioni, seppur epocali come la centratura sulla persona rogersiana, impiegano tempi quasi inspiegabili per materializzarsi nella consapevolezza diffusa. Se ciò sia preoccupante, scandaloso, prevedibile o pacifico, resta alla discrezione delle diverse sensibilità. Integriamo la presentazione generale sul progetto curata da Simona Vettorello con l’intervista realizzata a Valentina Ferretti, assistente sociale in servizio al Polo SUD dei Servizi Sociali, che ci restituisce un vivido spaccato delle azioni concrete di P.I.P.P.I. Il regalo più gradito che ci è stato fatto in questa ricerca e che con qualche gelosia giriamo ai lettori è il confronto con Daniela Scrittore, che tocca, approfondisce e rilancia allo stesso tempo queste tematiche e molto altro. Dal suo osservatorio di referente per la programmazione del welfare cittadino, ma in realtà da un intreccio con molteplici altri interessi ed esperienze, ci arrivano dati, suggestioni preziosi, che la dott.ssa Scrittore ci offre con una scrittura che, per chi l’ha presente, tanto bene la richiama come persona. Hikikomori: come fenomeno, è la negazione di tutti i presupposti presentati negli scritti che precedono questo contributo, fatto di strappi, incomprensioni ma anche di fede – come chiamare la certezza che si riabbraccerà qualcuno che non si può vedere? È una segregazione volontaria che rende il linguaggio inutile, tanto ai soggetti che così si impantanano, quanto a chi cerca di tendere una mano. O forse no. Il nome esotico non ci faccia sentire al sicuro, perchè Pietropolli Charmet e la sua équipe ci dicono che è ora, a suon di dialoghi a porta chiusa, con bigliettini infilati sotto la porta, attese in corridoio, prudentissime proposte di bere assieme un caffè in cucina e via discorrendo, di comprendere un altro pezzo ancora del potere della relazione, spendibile verso la riabilitazione di una socialità disastrata quando non mancante del tutto. In chiusura mettiamo un raccordo con il numero precedente. Dopo l’uscita del numero 2, continuando a ragionare nei nostri gruppi di lavoro sulla digitalità e sulla poca consapevolezza che rischiamo di avere rispetto ad alcuni cambiamenti che stanno influenzando il nostro modo di vivere, ci siamo accorti che ci stava sfuggendo una questione che invece è da non sottovalutare, cioè quella della frequentazione della pornografia online e di alcune problematiche emergenti connesse – anche se non immediatamente intuibili. Per noi, si è trattato di acquisizioni sicuramente dirompenti: abbiamo ritenuto opportuno inserire questo articolo anche se non riconducibile al filo ideale che lega gli altri contributi. Valutate voi se abbiam fatto bene.
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Spunti sulla relazione d’aiuto da Thomas Gordon incontro formativo con il prof. Giorgio Ghio
La formazione si è concentrata su un aspetto ineludibile affinché la comunicazione tra educatore e bambino/ ragazzo possa essere efficace: la relazione di aiuto. È di primaria importanza instaurare una relazione con la persona (in questo caso il minore) con cui comunichiamo con l’intento di apparire non come una figura autoritaria, ma semmai autorevole. Il modello non autoritario di riferimento è quello di Thomas Gordon, ripreso in più sue pubblicazioni: un buon testo per l’avvicinamento può essere Genitori Efficaci. Educare figli responsabili, La Meridiana, 2014. Thomas Gordon, psicologo clinico, illustra nella sua opera un sistema sia teorico che pratico per imparare a gestire e affrontare problemi in ambito familiare. Quest’opera non è solo uno strumento prezioso per genitori - molto spesso imputati di generare effettive difficoltà che il figlio evidenzia durante la sua crescita - ma può contenere spunti preziosi anche per educatori, terapeuti e consulenti professionali che hanno a che fare con minori. Gordon presenta un modello relazionale che ha come obiettivo quello di permettere una crescita autonoma e responsabile del minore. La relazione, per essere efficace, deve essere basata su tre elementi: EMPATIA: secondo Gordon è importante riuscire a cogliere il contenuto emozionale implicito nella comunicazione con il bambino/ ragazzo. L’adulto deve chiedersi quale sia lo stato d’animo del momento del minore con cui sta comunicando CONGRUENZA: la necessità di essere sinceri, trasparenti durante la comunicazione. È anche un problema di linguaggio, perchè ci rendiamo conto facilmente di come sia difficile padroneggiare un repertorio verbale esauriente rispetto alla volontà di essere congruenti ACCETTAZIONE: l’accettazione è irrinunciabile se si vuole instaurare una comunicazione efficace (Vai bene così come sei). L’accettazione deve essere positiva e incondizionata per permettere di relazionarsi anche con chi evidenzia atteggiamenti disfunzionali. L’adulto deve trasmettere al minore l’idea che il suo stato d’animo, anche se di difficile gestione, viene accettato positivamente. L’accettazione può avvenire dopo che si è instaurata empatia con il minore. Il comportamento diviene quindi un nodo da analizzare con attenzione, in quanto la relazione si instaura prima di tutto tramite esso, ovvero secondo quello che posso ascoltare e osservare dell’altra persona con cui sto comunicando. Il comportamento, inoltre, può sostanziarsi in una descrizione di quello che io oggettivamente osservo o in una valutazione personale e soggettiva. Riguardo alla seconda modalità, notiamo che la nostra mente è portata per natura a classificare quello che osserviamo secondo gli schemi in suo possesso e che questo avversa una comunicazione efficace. Per esempio, l’affermazione M. è aggressivo è priva di significato e non permette una descrizione del comportamento che preoccupa in quel determinato momento. Più efficace è porsi domande come cosa fa M. per risultare aggressivo? Secondo Thomas Gordon classifichiamo i comportamenti in due tipologie: • comportamenti che accettiamo • comportamenti che rifiutiamo La linea di accettazione non è mai fissa e allo stesso tempo non sparisce mai completamente. Naturalmente, più la relazione si concentra sull’accettazione dell’altro, più l’adulto sarà equilibrato ed efficace. Rimanendo nel caso di una dinamica relazionale adulto-minore, la modifica della linea di accettazione è spesso influenzata da due fattori: • lo stato di equilibrio e benessere complessivo dell’adulto che si relaziona con il minore • il genere maschile o femminile del minore
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Elemento centrale e necessario per una comunicazione efficace è l’ascolto attivo. Secondo Gordon, i tentativi da parte dell’adulto di dare consigli o giudizi al bambino/ragazzo si rivelano nella maggior parte delle volte inefficaci, dispendiosi a livello di energie ma inopportuni: meglio sarebbe applicare una modalità di ascolto autentico, permettendo all’interlocutore di attivarsi durante la comunicazione. La persona che si sente ascoltata riceve il messaggio di continuare a parlare, che è possibile e giusto esplorare quello che prova in quel momento autenticamente, seguendo percorsi non condizionati dalle interpretazioni altrui. È possibile, su queste basi, avviare la possibilità di confronto durante la comunicazione tra i due partecipanti. Il confronto, si crea nel momento in cui il comportamento del minore è percepito come inaccettabile da parte dell’adulto, indipendentemente dal fatto che sia giusto o sbagliato. In una situazione di confronto è necessario ed efficace che l’adulto comunichi al minore che il suo comportamento lo danneggia tramite messaggi in prima persona. Il messaggio in prima persona è costituito da tre parti: Descrizione del comportamento: Mentre faccio lezione tu giri per la stanza … Effetti concreti: … e mi deconcentri Sentimento: … e mi sento amareggiato, sto male. In alcuni casi, soprattutto con ragazzi più grandi, è possibile avanzare una richiesta a seguito dei punti precedenti (e ti chiedo di sederti), a condizione che l’adulto sia disponibile ad accettare un eventuale rifiuto da parte del ragazzo. Il messaggio in prima persona è molto costruttivo, perché dà la possibilità al ragazzo di notare ed agire su sue abitudini disfunzionali precise, così da poter consolidare gradualmente dei cambiamenti. “Ascoltare l’altro” e “produrre cambiamento” non sono processi necessariamente conseguenti e sarebbe miope concepire l’ascolto unicamente alla luce di questa potenzialità: è pur vero che, nelle giuste condizioni e con l’opportuna gestione della comunicazione, rappresenta l’occasione di offrire al bambino/ ragazzo opportunità per raggiungere effettivi cambiamenti nella sua vita. Il fattore tempo, vissuto con la giusta attitudine, può diventare un alleato fondamentale: nessuno è condannato per sempre.
Prima di coprire il ruolo attuale di dirigente scolastico nella nostra provincia, Giorgio Ghio ha avuto esperienze in ambito educativo, nel privato sociale, nell’insegnamento e come collaboratore degli atenei di Bologna e Modena e Reggio Emilia. È formatore autorizzato dell’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona (IACP).
Thomas Gordon
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Bibliografia consigliata
da Giorgio Ghio
T. Gordon - Relazioni Efficaci - ed. Meridiana, Bari 2007 T. Gordon – Nè con le buone, né con le cattive. – ed. Meridiana, Bari 2001 C. Rogers – Un modo di essere – Giunti 2012 C. Rogers – Da persona a persona. Astrolabio 1987 C. Rogers – Potere personale. Astrolabio 1978 D. Goleman – intelligenza emotiva – Rizzoli, Milano 1995 Michael Tomasello Altruisti nati, Bollati-Boringhieri - torino 2011 J. Gottman – J. Declaire – Intelligenza emotiva per un figlio – Mondadori. 1999 J e M Kabat-zin – Benedetti genitori – Corbaccio – 2000 P. Watzlawick – Istruzioni per rendersi infelici. Feltrinelli, 1973 P. Watzlawick – Di male in peggio, Feltrinelli, 1974 M. Sclavi – Arte di ascoltare e mondi possibili – ed Le Vespe, Milano 2000 A. Maslow – Motivazione e personalità – Armando, Roma, 1979 P. Watzlawick e altri – Pragmatica della comunicazione umana – Astrolabio, Roma M. Rosemberg – Le parole sono finestre – edizioni Esserci, Reggio Emilia 2003 M. Rosemberg – PREFERISCI AVERE RAGIONE O ESSERE FELICE? - edizioni Esserci, Reggio Emilia 2010 M. Rosemberg – Le sorprendenti ragioni della rabbia - edizioni Esserci, Reggio Emilia 2008 J. Richardson – Introduzione alla PNL – NLPItaly, Bergamo, 2005
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COLLOQUIO E RELAZIONE
il punto dal testo del prof. Dino Giovannini
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ino Giovannini, professore ordinario di Psicologia Sociale presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, autore di Colloquio psicologico e relazione interpersonale, propone strategie innovative per intrattenere colloqui efficaci. Si tratta, in particolare, di attribuire maggiore importanza alla competenza comunicativa e alle abilità relazionali intese come prerequisito indispensabile per la buona riuscita di un colloquio. La tesi del professor Giovannini verte su tre abilità fondamentali che il conduttore del colloquio deve possedere e che caratterizzano l’interazione con l’intervistato: facilitare la conversazione, la relazione e il processo di conoscenza. È proprio il possesso di questo set di competenze a fornire le basi per assimilare e utilizzare in modo adeguato quelle conoscenze e quelle tecniche del colloquio psicologico, che potremmo definire avanzate. In assenza di queste abilità di base, l’acquisizione di modelli teorici e strategie interattive può non solo risultare di poca utilità ma addirittura controproducente. Potrebbe apparire quasi scontato ma alla base del successo dell’interazione vi è la capacità di leggere correttamente il comportamento altrui. Questa capacità facilita la conversazione, aiuta a costruire la relazione e ad avanzare nel processo di conoscenza dell’interlocutore. Vista l’importanza delle lettura del comportamento, appare fondamentale che l’attenzione del conduttore si concentri sulla specifica connotazione interpersonale e sulla negoziazione continua che ha luogo durante un colloquio. Il colloquio, infatti, si fonda sull’interazione verbale e utilizza l’incontro e la comunicazione fra due o più persone come strumento di conoscenza per raccogliere informazioni e acquisire conoscenze sulla realtà di una persona. Nei diversi capitoli del suo libro, il professor Giovannini approfondisce tematiche quali l’analisi degli elementi del processo di comunicazione, la gestione del rapporto interpersonale e le dinamiche che da esso scaturiscono. Gli elementi del processo di comunicazione, sebbene non vi sia modo di analizzarli tutti in questa sede, possono essere indicati come: competenza comunicativa, comportamento verbale e non verbale, tecniche della comunicazione, contatto interpersonale. Non bisogna però farsi ingannare dalle premesse: la sola relazione non basta, essendo è necessario possedere anche doti tecniche. Un buon approccio alla relazione, infatti, è condizione necessaria ma non sufficiente alla riuscita del colloquio: è anche grazie a una buona tecnica che si ottiene una comunicazione efficace. Per usare le parole del professore Giovannini potremmo dire: “la competenza tecnica senza la comprensione è vana, così come la comprensione senza la competenza è vuoto esercizio”. La capacità di caratterizzare in modo adeguato e corretto l’interazione implica numerose condizioni che concorrono a formare la competenza comunicativa: vi sono capacità e abilità che vanno oltre il mero atto comunicativo e si connotano come risorse cognitive, affettive e comportamentali. Il possesso di queste consente al soggetto di qualificare in positivo l’atto comunicativo. Fra le capacità specifiche meritano una menzione particolare: l’immagine di sé e la fiducia in sé stessi. Ciò che ognuno pensa di se stesso e il valore personale che ciascuno si attribuisce determinano un’influenza sulle proprie relazioni con gli altri. Allo stesso modo sono molto importanti le capacità di ascolto. Quando ci si riferisce alla competenza comunicativa e alle abilità relazionali, l’enfasi viene posta sulla capacità di codifica del messaggio (competenza linguistica e verbale): senza ascolto non vi è comunicazione e la capacità di ascoltare, intesa come comprensione, è un’abilità fondamentale nella comunicazione. Particolare menzione merita il fatto che Giovannini citi l’orientamento non direttivo del colloquio teorizzata da Rogers. Secondo questo orientamento, per evitare chiusura e angoscia, il conduttore non si deve porre difronte all’altro in modo valutativo e giudicante, bensì con atteggiamento disponibile, senza preconcetti o riserve, mettendosi semplicemente in ascolto. Alla base di questa modalità di conduzione del colloquio vi è il tentativo di facilitare la comunicazione dell’intervistato privilegiandone tempi e ritmi e, di conseguenza, eliminando o riducendo il più possibile la sensazione di intrusione o di interrogatorio. Volendo tirare delle conclusioni, se proprio lo si vuole fare, per intrattenere colloqui efficaci è necessario, da un lato, recuperare qualcosa di tanto fondamentale quando apparentemente scontato come l’attenzione nei confronti del nostro interlocutore e del suo atteggiamento, cercando di metterlo a proprio agio e di valorizzare al massimo tutto quello che viene da lui. In secondo luogo, un conduttore esperto, che abbia prestato particolare attenzione al primo punto potrà utilizzare tutte le tecniche di conduzione del colloquio per agevolare il più possibile la comunicazione.
Alice Bondavalli
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La cooperativa Giro del Cielo partecipa agli interventi del Programma di Prevenzione all’Istituzionalizzazione. L’intento di questo scritto è di dare il dovuto risalto ai metodi e alle sensibilità che fanno da presupposto all’intervento.
P.I.P.PI. a Reggio Emilia Simona Vettorello *
s’è? o c che Il programma P.I.P.P.I. (Programma di Intervento Per la Prevenzione
dell’Istituzionalizzazione) nasce a fine 2010 da una collaborazione tra Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare dell’Università di Padova (che ha individuato la responsabile scientifica nella prof.ssa Paola Milani) e le dieci città italiane che per prime hanno aderito alla prima implementazione (e dentro esse i servizi sociali, le ASL, le scuole e le cooperative di privato sociale). Tale programma rappresenta il tentativo di creare un raccordo tra istituzioni diverse che condividono la stessa mission di promozione del bene comune e che solo insieme possono fronteggiare la sfida di ridurre il numero dei bambini allontanati dalle famiglie. Propone linee d’azione innovative nel campo dell’accompagnamento alla genitorialità vulnerabile, scommettendo su un’ipotesi di contaminazione fra l’ambito della tutela dei minori e quello del sostegno alla genitorialità. Persegue la finalità di innovare pratiche d’intervento nei confronti delle famiglie negligenti al fine di ridurre il rischio di allontanamento dei bambini dal nucleo famigliare d’origine, tenendo in ampia considerazione la prospettiva dei genitori e dei bambini stessi nel costruire l’analisi e la risposta a questi bisogni. Nasce quindi dalle tante domande degli operatori che si sono posti seriamente dinnanzi alle sfide che le trasformazioni sociali e le nuove famiglie porgono senza tregua ai servizi, dalla vulnerabilità sociale ed economica crescente, dalla loro difficoltà a coinvolgere genitori e bambini nei progetti d’intervento, dal loro senso di frustrazione per non riuscire a documentare gli esiti del loro lavoro, dal loro bisogno di dare visibilità al lavoro sociale e apprendere a documentare l’impercettibile che ogni giorno si costruisce con le famiglie. Per valutare il lavoro con le famiglie è necessario dotarsi di buoni strumenti, pragmaticamente utili, da usare con prudenza e divergenza. E per fare questo gli strumenti devono potersi connettere con le teorie stesse senza porsi da umili servitori di esse. Riunire teorie, metodo e strumenti é un punto chiave di P.I.P.P.I. utile ad individuare quelle “connessioni inattese” che sono la base del progresso scientifico. Nel 2010 hanno aderito 10 città italiane: Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Torino, Venezia. 89 famiglie, 122 bambini. Nel 2015 la terza implementazione si è estesa a 50 ambiti territoriali appartenenti a 17 regioni e una Provincia Autonoma e il coinvolgimento di 500 famiglie.
* dati ed immagini sono citati dal materiale pubblicato sull’apposita sezione del sito dell’Università di Padova
elearning.unipd.it/progettopippi
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Pippi calze lunghe, una bambina “tremendamente forte” con i capelli rossi, due amici, che vive in una casa in rovina con un cavallo e una scimmietta, é una figura metaforica delle potenzialità inesauribili dei bambini e della loro capacità di resilienza, intesa come un percorso sempre possibile, che nasce anche dalla capacità di noi adulti di vedere il lato dritto delle cose storte. In generale resilienza è intesa come la capacità di attivare processi di riorganizzazione positiva della propria vita e di comportarsi in modo socialmente accettabile, a dispetto di esperienze critiche che di per sé avrebbero potuto sfociare in esiti negativi. Pippi ci aiuta a vedere che la realtà può essere rappresentata da angolature plurali e che tale diversa rappresentazione può introdurre elementi di modificazione della realtà stessa in quanto l’aiuto sta ovunque, non solo nei sistemi professionali, e che il cambiamento può avvenire in maniera inattesa, che bambini e genitori possono anche essere miniere di risorse e non solo di problemi. La sfida di P.I.P.P.I. è quella del sostegno alle famiglie vulnerabili considerate a rischio di allontanamento a causa di problemi specifici spesso riconducibili alla negligenza: l’ipotesi è che alcune famiglie, se sostenute in maniera intensiva, rigorosa e con tempi definiti, secondo l’approccio della valutazione partecipativa e trasformativa da operatori che lavorano in équipe multidisciplinari, possono apprendere nuovi modi, più funzionali alla crescita positiva dei loro figli, di essere genitori, di stare insieme, di gestire il loro quotidiano.
Un angelo per mamma e un re di una tribù negra per papà: non capita davvero tutti i giorni di avere dei genitori tanto distinti! (Lindgren, 1988)
esiste uno specifico canale che parla del progetto
su YouTube, dove si possono reperire presentazioni sul programma, il concetto di équipe multidisciplinari, il metodo e gli strumenti specifici di P.I.P.P.I.
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ali i, fin n o i az Nell’ultimo quarto di secolo è venuta rafforzandosi una forte sensibilità da parte dell’opinione pubblica tesa a otiv
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far emergere le situazioni di maltrattamento e trascuratezza dei bambini e dei ragazzi, accompagnata da una cospicua produzione normativa a livello nazionale e regionale che ha definito i percorsi di tutela e presa in carico. Anche i servizi e le ricerche per la protezione e la cura di minori oggetto di trascuratezze e maltrattamenti hanno avuto grande sviluppo in tutti i Paesi occidentali. Questi servizi e queste ricerche hanno portato alla luce un numero sempre più consistente di casi di maltrattamento dei bambini, in particolare quelli trascurati. Malgrado il numero preoccupante di famiglie negligenti che arriva ai servizi, le metodologie di intervento non hanno però registrato un chiaro e consapevole cambiamento. Il focus su cui si concentra P.I.P.P.I. è la “protezione della relazione genitore-figlio”, garantire un buon esito all’intervento di protezione significa mettere in campo un intervento globale e il più possibile olistico che abbia come soggetto il bambino e come focus quindi la famiglia e il suo contesto relazionale. La finalità é relativa al mettere a punto, sperimentare e valutare un programma multidimensionale specifico per rispondere ai bisogni delle famiglie negligenti, basato sulle risorse loro e del loro ambiente vitale. L’obiettivo primario è quello di aumentare la sicurezza dei bambini e migliorare la qualità del loro sviluppo per evitare il collocamento esterno alla famiglia e fare in modo che i genitori apprendano a dare loro maggiori cure sia fisiche, che psicologiche, che educative.
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La popolazione interessata è costituita da famiglie che si ritengono caratterizzate da due aspetti: una perturbazione nelle relazioni tra figure genitoriali e figli e una che riguarda le relazioni tra le famiglie e il loro mondo relazionale esterno. L’intervento deve quindi mobilitare in entrambe queste due dimensioni. Le famiglie negligenti presentano problematiche e bisogni diversi, molte di loro presentano difficoltà di carattere sociale e relazionale: povertà, esclusione dal mondo del lavoro, basso livello di istruzione, instabilità, violenza coniugale, isolamento. I genitori hanno spesso gravi problemi psicologici, con situazioni di depressione, immaturità, scarsa autonomia, alti livelli di stress e difficoltà a risolvere i problemi quotidiani. I loro figli presentano ritardi nello sviluppo o anche solo disturbi affettivi, di comportamento e di apprendimento; mostrano problemi a casa, nell’ambiente sociale e a scuola. L’intervento deve essere dunque continuativo e profondo, devono essere chiari i bisogni concreti, ma anche i bisogni educativi, psicologici e sociali di tutti i membri della famiglia; è necessario, in tutto questo, rispondere alle esigenze quotidiane del nucleo.
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P.I.P.P.I. propone un modello eco sistemico, centrato sulle possibilità di resilienza come trampolino di lancio allo sviluppo di servizi integrati per far fronte al problema della negligenza: il percorso proposto va dalla frammentazione degli interventi alla responsabilità condivisa fra professionisti diversi, fra diversi servizi (es: servizi sociali, sanitari, educativi, ecc..) e fra servizi, genitori e bambini. Questa proposta si basa sulla partecipazione attiva dei genitori e dei bambini e sull’ingaggio reciproco sia delle équipe multidisciplinari sia delle famiglie target. In questo contesto la sfida e allo stesso tempo l’opportunità maggiore è condividere fra sistemi, istituzioni, servizi, soggetti diversi un referenziale teorico attraverso cui leggere le situazioni familiari per agire con esse in modo condiviso. Il referenziale proposto da P.I.P.P.I. è “il mondo del bambino”. A questo proposito il programma fornisce ai professionisti una struttura triangolare (nella pagina seguente) come guida per comprendere e aiutare i bambini e le famiglie, e che si fonda su sette dimensioni di sviluppo che si trovano sul lato sinistro del triangolo (salute, istruzione, sviluppo affettivo e comportamentale, identità, relazioni familiari e sociali, rappresentazione sociale, capacità di prendersi cura di sé) importanti per tutti i bambini per raggiungere un benessere di lungo periodo. Negli altri lati sono disposti gli elementi che influiscono rispetto allo sviluppo di queste sette dimensioni, in riferimento alle capacità dei genitori e ai fattori familiari e ambientali. Tale modello intende offrire un supporto ai diversi professionisti per giungere a una comprensione olistica dei bisogni e delle potenzialità di ogni bambino e di ogni famiglia. Il mondo del bambino propone quindi anche un modello operativo centrato non sui problemi, ma sui bisogni e quindi sui diritti dei bambini.
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ielo C l e ro d il Gi P.P.I. Nel territorio di Reggio Emilia 4 famiglie su 10 sono state seguite dagli educatori della cooperativa sociale Giro del Cielo. . Come figura professionale di educatrice domiciliare con esperienza in ambito multiculturale ho seguito personalmente e P.I
(attraverso un intervento intensivo della durata di 13 mesi) una famiglia di origine straniera residente in Italia da quindici anni, ma non ancora ben integrata nel territorio reggiano. La famiglia in questione era caratterizzata da competenze che non si attribuiva e andava accompagnata al conoscersi meglio e al migliorare la relazione genitori-figli, necessitava di un aiuto nello stare insieme con piacere all’interno del proprio nucleo e ad integrarsi gradualmente nella comunità locale. Lavorare come educatore domiciliare significa inserirsi nel quotidiano e agire all’interno del contesto di vita familiare. L’educatore deve essere presente a casa con regolarità e deve valorizzare le risorse che là si manifestano o fornire accompagnamento dove, al contrario, si creano e si affrontano le difficoltà, cosicché i genitori possano apprendere le strategie per farvi fronte in maniera sempre più autonoma. Lavorare in équipe é fondamentale per un educatore che vive la quotidianità delle famiglie e che si ritrova spesso ad affrontare situazioni impreviste. Solo attraverso il confronto con le realtà che ruotano intorno al nucleo familiare e la condivisione degli obiettivi che ci si pone insieme a genitori e servizi, si possono raggiungere i risultati sperati. P.I.P.P.I. dà importanza al lavoro dell’educatore che instaura un rapporto di fiducia con la famiglia e che l’accompagna alla ricerca di una propria autonomia, ma soprattutto mette al centro dell’intervento educativo il bambino e ciò significa che i genitori per primi devono avere uno sguardo su quelli che sono i concreti bisogni del figlio (ad es: mangia regolarmente? Dorme regolarmente?). Questo intervento è efficace nella misura in cui ci si pone in posizione di ascolto dei bisogni della famiglia e si agisce tramite azioni concrete. Nel contesto di équipe multidisciplinare – che prevede, ad esempio, il coinvolgimento di genitori, educatori, operatori del servizio sociale e insegnanti – si decidono obiettivi di benessere del bimbo che possano risultare strategici anche per quello degli altri attori della quotidianità. Il contenuto dell’intervento dell’educativa domiciliare riguarda appunto l’accompagnamento del genitore nel prendersi cura del figlio, rinforzare e apprendere le competenze necessarie per aiutare il bambino a crescere in condizione di benessere; il bambino viene messo in condizione di sviluppare le proprie capacità nelle diverse aree di crescita e tutta la famiglia può raggiungere il beneficio di un’integrazione soddisfacente nell’ambiente sociale di appartenenza. È dunque importante non confondere la parola “accompagnamento” con il termine “sostituzione” al genitore; l’educatore non prende decisioni autonome, ma si confronta con la madre o il padre rispetto alle azioni da perseguire, consiglia e sostiene le decisioni facendo sì che tutte le prassi educative passino dal genitore al bambino. Educatore é colui che favorisce il cambiamento attraverso il confronto, la presenza e il dialogo, perché di dialogo e di linguaggio si parla anche nel progetto P.I.P.P.I. Troppo spesso l’uso di un linguaggio eccessivamente tecnico e illusoriamente specialistico produce distanza tra la famiglia e i servizi; questo linguaggio è spesso causa ed effetto dell’impossibilità dei genitori e dei figli di partecipare realmente a percorsi di presa in carico di scelte che li riguardano, omissione che finisce per produrre autoesclusione. Gli operatori, disarmati, possono alzare le mani sconfitti, con la constatazione che “certe famiglie sono davvero impossibili”. Lo sforzo di tutti è quello di andare verso l’utilizzo di un linguaggio semplice, strategia che per gli educatori è già implicita nelle consuete prassi di lavoro. Semplice è diverso da semplicistico: la semplicità ha infatti scavato e attraversato - ma non evitato - la complessità. Un linguaggio, quindi, che sappia unire leggerezza e profondità, che getti le basi per un rapporto all’insegna della trasparenza con genitori e bambini, lasciando che si realizzi quindi un’autentica e durevole condivisione del potere relazionale.
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Buongiorno Valentina e grazie in anticipo del lungo tempo che ci dedicherai...
Buongiorno a voi e grazie dell’invito a partecipare al vostro editoriale GalinaNova.
Puoi gentilmente presentarti ai lettori dicendo chi sei e di che cosa ti occupi?
Mi chiamo Valentina Ferretti, lavoro come Assistente Sociale presso il Comune di Reggio Emilia dal 2007 e nello specifico ai Servizi Sociali Territoriali del Polo Sud della città. Fino al 2010 mi sono occupata prevalentemente dell’ambito di famiglie con persone non autosufficienti (disabili e anziani), mentre da allora in poi ho continuato lavorando su problematiche principalmente legate alla genitorialità e alle fragilità economiche.
P.I.P.P.I. in azione la testimonianza di Valentina
Ferretti
ASSISTENTE SOCIALE DEL POLO DEI S.S. SUD del Comune di Reggio Emilia
intervista di Riccardo Pinotti
Parliamo del Progetto P.I.P.P.I. Perché P.I.P.P.I. e perché proprio a Reggio Emilia?
E’ un programma di ricerca nato a fine 2010 dalla collaborazione tra Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’Università di Padova, Servizi Sociali e varie agenzie che lavorano nell’ambito della tutela dei minori (privato sociale, AUSL…). Parto da questa premessa perché mi sembra fondamentale: un lavoro che nasce dal raccordo tra istituzioni diverse, con la stessa mission sintetizzata in promozione del bene comune. P.I.P.P.I. (Programma di Intervento Per la Prevenzione dell’Istituzionalizzazione) propone linee d’azione nell’accompagnamento della genitorialità vulnerabile: in concreto, propone di innovare le pratiche di intervento nei confronti delle famiglie negligenti al fine di ridurre il rischio di allontanamento dei bambini dalla propria famiglia o comunque di preservare i legami significativi tra loro. Prende spunto anche da Pippi Calzelunghe e affonda le sue radici nella teoria della resilienza e nel modello ecologico. E’ stato scelto un campione di 10 famiglie. Ci puoi dire su quali criteri si è basata la scelta?
P.I.P.P.I. è approdato ai servizi di Reggio Emilia anche perché da diversi anni questi ultimi stavano lavorando in quella direzione: una rete integrata tra diversi soggetti (Servizi Sociali, AUSL, scuole, privato sociale, volontariato..), che da un lato tenta di promuovere la progettazione territoriale allo scopo di fare emergere e sostenere le risorse a disposizione delle famiglie, dall’altro incentiva interventi di aiuto a sostegno della domiciliarità, come la storica cultura dell’affido familiare (inteso anche come intervento part-time di sostegno tra famiglie) fino ai più “giovani” progetti di educativa intensiva domiciliare. Tutto questo teso alla prevenzione. Fin dall’inizio di questa sperimentazione era evidente quanto partecipare ad un programma nazionale di ricerca potesse essere una grande opportunità, in linea con i tentativi dei servizi di individuare nuovi approcci e modalità d’intervento. Di fondo il modello pareva non introdurre particolari novità: molte delle teorie su cui si fonda, infatti, sono conosciute e condivise. Il merito, però, che già si intravedeva, è quello di aver sistematizzato e reso facilmente fruibili tali teorie e metodi, integrando varie discipline (psicologia, sociologia, pedagogia, fisica....) attraverso la traduzione in strumenti utili. P.I.P.P.I. prevede la figura del coach territoriale a supporto delle diverse équipes multidisciplinari. Ci spieghi nel dettaglio il senso di questo ruolo e perché hanno chiesto proprio a te di farlo?
All’interno della sperimentazione è previsto il ruolo del coach, che è quello che rivesto anche io: è il soggetto che ha la funzione di facilitare gli operatori nella conoscenza e implementazione del programma, attraverso un accompagnamento delle équipes multidisciplinari e non direttamente con le famiglie; inoltre, funge da anello di congiunzione tra le équipes e il gruppo scientifico, ideatore e promotore di P.I.P.P.I. La proposta di diventare un coach è stata fatta ad alcune Assistenti Sociali del mio servizio, operanti all’interno dell’ambito della genitorialità: io ho accettato, su base volontaria, perché mi è parsa fin da subito un’interessante opportunità formativa e di partecipazione ad una ricerca su scala nazionale, rispetto ad un tema che mi interpella molto.
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P.I.P.P.I. lavora in ambio di prevenzione dell’allontanamento dei minori e viene inserito all’interno delle risorse di sostegno alla genitorialità. Quanto influisce la famiglia in un percorso del genere?
Chiaramente la famiglia che partecipa al programma diventa attore protagonista e ciò fa la differenza rispetto agli esiti che si possono raggiungere insieme. P.I.P.P.I. prevede come capisaldi teorici la partecipazione e la condivisione. Detta così la questione è molto generica. Puoi spiegarci nel dettaglio che cosa significa partecipare e condividere all’interno di un percorso di lavoro del genere?
Rispetto a questo, infatti, la partecipazione e la condivisione si possono davvero definire capisaldi del programma: nel corso della sperimentazione, sono emerse varie definizioni di ciò che si stava facendo - lavorare in tandem, cucire una coperta patchwork... - ed è come se i continui momenti di confronto e condivisione tra diversi operatori e anche insieme alle famiglie avessero permesso di mettere in circolo una nuova creatività del pensiero, aldilà dei ruoli e delle appartenenze, ma con lo stesso focus: la famiglia. Provate infatti ad immaginarvi che a fianco di un educatore e di una maestra, anche una figura sanitaria o un responsabile di Servizio si metta a disegnare e a commentare, a più mani e a più voci, un disegno sul percorso fatto, invece che redigere una relazione, protocollata e firmata.. Oppure immaginatevi le famiglie presenti durante gli incontri di rete tra tutti i servizi coinvolti rispetto alla situazione (la scuola, gli operatori sociali e sanitari, l’educatore, la famiglia di appoggio), progettare insieme gli interventi. Tutto ciò con strumenti semplici ma arrivando ad un quadro unico... e quindi ad un linguaggio comune.
Restiamo ancora per poco sulle particolarità del metodo. P.I.P.P.I. presuppone l’utilizzo di diversi dispositivi a sostegno della famiglia. Ce li puoi brevemente illustrare spiegando le diverse modalità di utilizzo?
I dispositivi d’intervento sono parte integrante della progettazione costruita con la famiglia e l’equipe per il raggiungimento degli stessi obiettivi, e sono principalmente cinque, a cui possono affiancarsi ulteriori dispositivi proposti dalle varie équipes: - l’educativa domiciliare, che consiste nell’intervento di un educatore all’interno del nucleo familiare; - la famiglia d’appoggio (sostegno sociale), che è risorsa informale, può anche già essere presente o conosciuta dal nucleo (parenti, amici, famiglia affidataria di sostegno), e che può rendersi punto di riferimento per la famiglia; - gruppi con i genitori/bambini, che si sviluppa in un ciclo di incontri, condotto da alcuni operatori; - partenariato tra scuola, famiglia e servizi, che è l’importante lavoro di rete tra i soggetti principali del programma; - sostegno economico, laddove se ne ravvisi la necessità nei confornti della famiglia. Importante è tenere presente che non sono dispositivi indipendenti l’uno dall’altro, ma strettamente correlati. P.I.P.P.I. chiede a tutti gli operatori e alle famiglie coinvolte di lavorare tenendo in considerazione il fattore “tempo”. Come viene scandito in P.I.P.P.I. il tempo?
Il programma di P.I.P.P.I. detta tempi ben ritmati e stretti rispetto alle possibilità del lavoro quotidiano all’interno dei servizi. La sfida è proprio quella di presidiare l’intensità degli interventi, attraverso tre momenti di verifica (tempo 0, 1- facoltativo - e 2) e una durata determinata del programma (per la nostra sperimentazione è stata di poco più di un anno).
All’interno di P.I.P.P.I. non manca la valutazione come strumento di analisi. Ci puoi spiegare cosa significa valutare e autovalutarsi?
Rispetto alla valutazione, in P.I.P.P.I. si propone il metodo della valutazione partecipativa e trasformativa: è un percorso ciclico, a cui ad ogni ciclo corrisponde una tappa dell’accompagnamento delle famiglie, scandito sempre da un momento di riflessione-negoziazione e un momento di azione. Partecipativa, perché richiede la presenza attiva di ciascun operatore e della famiglia, con cui costruire i significati di tutto il processo; trasformativa, perché forma i soggetti coinvolti ad un nuovo metodo di lavoro e alle pratiche valutative stesse. Promuove, in sostanza, processi di consapevolezza e autodeterminazione dei partecipanti, attraverso l’utilizzo del modello/strumento multidimensionale de “Il Mondo del Bambino” (il triangolo).
Che cos’è questo triangolo che continuamente ritorna in tutto il percorso di lavoro?
Questo “famoso” triangolo è dunque ciò attraverso cui si da voce principalmente al bambino, a chi gli sta accanto e al contesto in cui vive. Graficamente è a forma di triangolo con al centro il bambino e ciascun lato è una dimensione del suo “mondo”: il mio crescere, di che cosa ho bisogno da chi si prende cura di me, il mio ambiente di vita. L’obiettivo, che sta appunto al centro, è sostenere le condizioni che favoriscono lo sviluppo e il benessere del bambino. Ciascun lato è composto da alcune sotto-dimensioni, che esplorano le tre macro-dimensioni. Esistono due triangoli, differenti solo per l’utilizzo di parole più tecniche o più semplici, in base al destinatario dello strumento: il triangolo viene infatti utilizzato dal bambino e dalle famiglie con l’accompagnamento degli operatori, riempiendo con “la propria voce” il Mondo del Bambino. Il triangolo non è da scambiare con uno strumento valutativo, bensì di auto-riflessione e conoscenza dei bisogni del bambino e della sua famiglia, da cui partire per progettare insieme.
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Sul metodo di lavoro potremmo dibattere tanto ma preferiamo concentrare il resto della nostra chiacchierata sulla tua esperienza all’interno del percorso. Dicci innanzitutto com’è nata questa opportunità di lavoro e come ti è stato presentato il tutto.
Come accennavo prima, la proposta di partecipare a questo programma di ricerca è arrivata a tutto il Servizio Sociale in cui lavoro, che si occupa nello specifico di genitorialità. Era importante che chi accettasse di parteciparvi fosse mosso anche da una motivazione professionale propria, andandosi ad aggiungere al resto del carico di lavoro quotidiano. Io, nello specifico, mi occupo del tema dell’affidamento famigliare assieme ad altre colleghe, con cui si sta lavorando nella direzione di sostenere una prossimità sempre maggiore tra le famiglie d’origine e quelle affidatarie, elaborando progetti di sostegno tra famiglie. Questo va nella direzione di P.I.P.P.I. e dunque, dopo essermi informata circa i promotori di tale ricerca, è bastato poco per convincermi dell’occasione da non perdere. Tu sei un’Assistente Sociale. Come è stato accolto all’interno del Servizio Sociale il programma P.I.P.P.I.?
Tenendo conto dell’alto carico di lavoro che preme sui nostri servizi, e in particolare parlo per il mio profilo professionale, di primo impatto la proposta di P.I.P.P.I. ha fatto pensare ad un ulteriore impegno lavorativo da dover sostenere: come lo si sarebbe potuto conciliare con il resto? Poi, mano a mano che il lavoro in P.I.P.P.I. procedeva credo che, nonostante il grande impegno richiesto, si sia sperimentata una buona e reale condivisione del percorso fatto insieme tra diversi operatori. Quali sono state per te le principali assonanze con il tuo metodo di lavoro?
Rispetto al mio metodo di lavoro o, diciamo, al metodo a cui vorrei tendere, ho ritrovato soprattutto la forte e concreta integrazione tra servizi e la partecipazione attiva della famiglia. Altro aspetto che ricerco e che ho trovato qui è stata la progettazione attraverso microazioni e piccoli obiettivi, rispettando i passi della famiglia. Immaginiamo la fatica per portare avanti il tutto nel migliore dei modi. Questa parola “fatica” è uscita spesso da parte di voi operatori del Servizio Sociale. Come mai P.I.P.P.I. è stato così faticoso?
Faticoso è, soprattutto, il tentativo quotidiano di conciliare l’impegno nel programma P.I.P.P.I. con il proprio carico di lavoro. In particolare, le scadenze e l’intensità richieste da questa sperimentazione fanno emergere in maniera ancora più evidente la differenza con le modalità di tempi e ritmi con cui approcciamo normalmente il lavoro con le famiglie.
Abraham H. Maslow (1908-1970)
psicologo che concepì la gerarchia dei bisogni e la sistematizzò in quella che viene citata come piramide di Maslow, è un essenziale riferimento epr comprendere i presupposti del progetto P.I.P.P.I.
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Dal nostro punto di vista di educatori, abbiamo notato che P.I.P.P.I. è particolarmente in linea con il nostro “agire quotidiano”. Sarà forse una questione legata al fattore di prossimità fisica tra noi e le famiglie, ad ogni modo noi per primi facciamo molta fatica ad operare sul campo senza una condivisione e una partecipazione da parte dei diretti interessati. E’ stata la stessa cosa per voi del Servizio Sociale?
Per noi assistenti sociali, che spesso non abbiamo la stessa vicinanza sul campo che potete avere voi educatori, poter lavorare con una condivisione così stretta come quella che abbiamo sperimentato in P.I.P.P.I. ha fatto venire alla luce molti aspetti di conoscenza delle famiglie e dei bambini che diversamente fatichiamo a vedere.. Questo ha facilitato la comprensione e la scelta di che direzione prendere nelle singole situazioni.
C’è stata una bellissima formazione sui temi della conduzione in P.I.P.P.I. Chi è il regista di questo film o, se preferisci, chi c’è al timone di questa barca?
Gli incontri nelle équipes multidisciplinari sono stati fondamentali e innovativi quando vi hanno partecipato le famiglie stesse. Per gli operatori e forse, a parer mio, soprattutto per gli educatori è stata la possibilità di essere valorizzati ognuno per le proprie diverse competenze, sia attraverso una maggior conoscenza reciproca sia dagli esiti del lavoro quotidiano svolto assieme alla famiglia. E poi, aggiungerei, come dice P.I.P.P.I., che abbiamo provato ad osare nello sperimentare équipes a geometria variabile! Per quanto ci riguarda era piuttosto confortante sapere che il confronto sulle diverse situazioni era sempre vivo e si svolgeva a più livelli. Puoi parlarci degli incontri ad équipes miste e quali risultati hanno portato?
Per parlare davvero di esiti rispetto alla singole famiglie dovremo aspettare il follow up; in parte è emerso che il tempo di un anno, per la famiglie che avevamo scelto, è risultato scarso; se penso invece agli operatori, la mia sensazione, dopo il lavoro insieme e i tanti momenti di autoformazione, è stata quella di essersi sentiti più “squadra”.
Ora che la prima sperimentazione su Reggio Emilia è finita sarebbe forse ora di tirare qualche somma. Te la senti?
Come per tutte le sperimentazioni richiederà un tempo necessario ad essere calato nelle nostre pratiche quotidiane e probabilmente la possibilità di rendere un po’ più flessibili i tempi di durata del programma. La nostra Regione ha confermato al volontà di portarlo avanti. Molti progetti che si stanno sperimentando all’interno dei nostri servizi sono già in linea con questo programma; sarà, credo, importante pensare a come rendere sostenibile l’impegno che richiede ai singoli operatori.
Questa sperimentazione potrà mai far breccia all’interno del Servizio Sociale ed essere adottata in maniera più standard?
Sì, credo molto nella possibilità di mettere in circolo, anche su scala nazionale, le esperienze che in ambito sociale spesso restano proprie dei singoli operatori. Alla luce però di questa esperienza appena conclusa, penso anche che dovrei attrezzarmi ulteriormente per migliorare la conciliazione con quanto già porto avanti nel mio lavoro quotidiano.
Siamo giunti ai saluti. Grazie tante per il tuo prezioso contributo Valentina, lascio a te l’ultima parola per salutare i lettori di Galina Nova.
Vi ringrazio molto di questo strumento che state mettendo a disposizione degli operatori, che, come dicevo, ha il pregio di mettere in circolo esperienze e saperi, all’interno di questo complesso sistema di risorse e bisogni. Facciamone tesoro.
Valentina Ferretti, Assistente Sociale presso il
Comune di Reggio Emilia dal 2007 e nello specifico ai Servizi Sociali Territoriali del Polo Sud della città.
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i crinali del linguaggio per i servizi alle persone Dialogo con Daniela Scrittore, referente per le politiche familiari nel servizio di programmazione del welfare del Comune di Reggio Emilia
di Matteo Muratori
dott.ssa Daniela Scrittore
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Attraverso quale percorso personale e professionale ritieni di aver fatto tuo un repertorio linguistico che ti permette di interagire costruttivamente a tutti i livelli relazionali che prevede il tuo ruolo?
R
itengo il tema del linguaggio interessante e attuale, vi ringrazio per avere avuto la possibilità di fare questa riflessione. Credo che quello che oggi compone il mio repertorio linguistico sia frutto di un combinato disposto e un inestricabile intreccio tra percorso personale e professionale e di una curiosità che ancora mi appartiene e che mi porta ad esplorare saperi nuovi e a intrecciare relazioni con persone diverse per competenze ed esperienze. Il mio percorso professionale nell’ambito dei sevizi sociali nasce nella cooperazione sociale in un servizio di assistenza domiciliare rivolto a persone adulte con problematiche psichiatriche e ad anziani parzialmente e totalmente non autosufficienti a Treviso, per poi transitare in un servizio residenziale per anziani a Rovigo e approdare in un servizio sociale territoriale sempre rivolto a persone adulte e anziane a Reggio Emilia. Subito dopo, 5 anni di lavoro con persone disabili e con le loro famiglie, il coordinamento di un polo territoriale per altri 5 anni e il passaggio a quello che è diventato il mio ruolo attuale da 7 anni nel servizio programmazione del sistema di welfare, con la referenza delle politiche familiari. C’è un linguaggio diverso che ho appreso e in parte riutilizzato in ognuno di questi passaggi perché diversi sono i contenuti delle situazioni, diversi i contesti, diversi i riferimenti e le storie di vita delle persone, diversi i colleghi e diverse le implicazioni del mio lavoro. Ogni volta ho imparato qualcosa di nuovo e ogni volta si è reso necessario leggere e studiare per consolidare le competenze. Oggi mi destreggio tra un linguaggio giuridico-amministrativo, uno tecnico-professionale e uno umanistico-relazionale. Non sempre i sistemi con cui mi rapporto sono permeabili a un codice linguistico diverso, anche se trovo che nell’ambito dei Servizi Sociali/Socio-Sanitari/Socio-Educativi a Reggio Emilia si sia nel tempo sempre più affinata una competenza ad abitare i confini (tra giuridico-amministrativo e tecnico-professionale e, talvolta, tra tecnico–professionale e umanistico-relazionale), probabilmente dovuto anche al fatto che i luoghi misti di confronto sono molti e stimolano le diverse contaminazioni. Il linguaggio amministrativo-burocratico, per concentrarci su una tipologia linguistica spesso considerata ostica ed eccessivamente impersonale, vive di codici di riferimento molto precisi entro i quali infilare i contenuti. Di per sé, non è né buono né cattivo: è da considerare come uno scheletro, essenziale e ben definito, intorno al quale aggiungere, con le dovute attenzioni del caso, i contenuti di volta in volta opportuni. In questo senso, non si può dire che sia efficiente o efficace: l’immagine dello scheletro è realmente la più adeguata, perchè dà l’idea di qualcosa di imprescindibile eppure non sufficiente. Richiede, comunque, la premura della traduzione verso le persone che non hanno consuetudine verso esso: questo momento può essere un’occasione di confronto importante, una sintonizzazione sui significati, partendo da un materiale di spunto basico e univoco. Come altre forme di linguaggio, anche questo ha avuto un’evoluzione, segnata dalla contaminazione con codici di altri organismi. È un percorso, secondo la mia esperienza, che è più facile che si realizzi a livello locale. Numerose intese formali, come le convenzioni, sono state scritte a più mani, cercando di renderle esito di confronti innanzi tutto sul piano delle competenze e dei contenuti: trattandosi di atti burocratici, nulla avrebbe vietato di continuare a considerarli sede di tabelle e conteggi, preventivi, consuntivi e bilanci, mentre si è scelto di compiere lo sforzo di inserire contenuti di valore rispetto alle azioni che rappresentano. Durante questi tentativi, la contaminazione non è stata solo unidirezionale: gli operatori comunali hanno certamente dovuto trovare il modo di accogliere le istanze educative, sanitarie, scolastiche o quant’altro dentro gli atti, ma le diverse realtà che si impegnavano di volta in volta nelle scritture beneficiavano di un arricchimento concettuale e operativo del proprio lessico professionale. È stato – ed è ancora, sia perchè è una dinamica inesauribile, sia perchè nel corso degli anni i soggetti che intrattengono rapporti si sono rinnovati o avvicendati – un percorso di arricchimento, foriero di uno snellimento nei rapporti e nella comprensione della comunanza degli obiettivi delle azioni. Oltre ai momenti di confronto intenzionalmente organizzati, c’è un’ulteriore fenomeno di giustapposizione dei linguaggi che, se sfruttata in modo accorto, può creare una contaminazione funzionalmente positiva: si tratta della produzione di materiale documentativo in forma scritta da parte dei diversi attori sociali del territorio. Oggi il mio ruolo prevede di interagire con operatori dei servizi sociali (assistenti sociali e educatori) con figure educative di altri servizi e del privato sociale, con figure amministrative, con figure sanitarie, con coordinatori, responsabili e dirigenti di servizi pubblici e del privato sociale, talvolta con famiglie, singoli cittadini, insegnanti, politici. Nella mia esperienza, aver lavorato per alcuni anni a stretto contatto con educatori è stato un privilegio. Ritengo che la contaminazione delle scienze educative mi abbia consentito di arricchire un repertorio che il linguaggio psico-sociale rischiava di fossilizzare. Trovo che i linguaggi dei servizi educativi e socio-educativi siano creativi, polisemici, inclini a sviluppare prossimità anche irriverenti e abbiano in sé una vocazione alla positività. Personalmente ho coltivato diversi ambiti e spaziato tra linguaggi diversi, da quello filosofico e mistico a quello psicologico, a quello sociale, a quello organizzativo, a quello mito-poietico, a quello fiabesco, a quello delle narrazioni autobiografiche. Il linguaggio poetico resta il più esigente: dà il meglio di sé nella sottrazione. L’incontro con persone distanti o estranee ai miei codici linguistici professionali (ingegneri e storici dell’arte al pari dei miei vicini di casa russi e senegalesi) mi aiuta a vedere le contraddizioni, le ridondanze e ad essere un po’ disincantata... Frequentare saperi e discipline diverse dal mio ambito professionale specifico ha arricchito e tuttora arricchisce i miei punti di vista e mi fa sempre sperimentare quella faticosa estraniazione che credo provino le persone quando viene posto loro un contenuto e un linguaggio che non padroneggiano compiutamente. Provo ammirazione per chi riesce a comunicare concetti o idee complesse con un linguaggio semplice e immediato e ha l’onesto interesse a far sì che l‘altro possa effettivamente essere messo nelle condizioni di interagire senza sentirsi imbarazzato o stupido o impotente. Le parole possono essere delle trappole e il linguaggio ha innegabilmente a che fare con la dimensione del potere.
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Rilevi, nelle professioni che con maggiore frequenza intercetti quotidianamente nella tua professione, una sufficiente dimestichezza con la scrittura?
Per portare l’esempio dei servizi sociali, sono comparse produzioni scritte che sono documentazione delle azioni fatte verso le persone, in alcuni casi prodotte con il coinvolgimento diretto delle persone stesse. Dal mio punto di vista, sarebbe opportuno incentivare questo tipo di scritture, senz’altro per il valore di salvaguardia di esperienze significative e la creazione di repertori di casistiche orientativi per gli interventi futuri, ma anche per l’occasione di confronto, sintonizzazione e letterale collaborazione tra servizi e persone, riducendo così la distanza umana tra le parti e rendendo merito ai grandi movimenti di responsabilità che gli interventi nell’ambito sociale sottintendono. Una buona documentazione, se composta tanto di dati oggettivi quanto di letture competenti delle dinamiche, può essere la base per influenzare il piano decisionale degli interventi verso soluzioni più misurate e ragionevoli. Detto questo, notiamo che a fronte di molti luoghi di confronto tra le parti, rimane esigua la produzione di documentazione così intesa. Oltre a questi resoconti di esperienze precise, risulta affaticata anche la tensione a scrivere i saperi, che è un oggetto culturale ancora differente rispetto al documentare e rendicontare (azioni che sono spesso congiunte, come appena visto). Si ha la fortuna di incontrare, muovendosi tra i diversi ambiti e servizi, persone che possiedono saperi a volte anche di notevole spessore, costituiti di tante esperienze e del relativo bagaglio di studi, che tuttavia non lasciano traccia di questo loro patrimonio. Questa dissipazione è dovuta alla poca o nulla attenzione a lasciare dietro di sé qualcosa di scritto: è grazie allo scritto, invece, che si riescono a disseminare elementi capaci poi di permanere o, nei casi migliori, evolvere nel tempo. Non conta che siano scritti che testimonino teorie o sistemi definitivi, solidi e completi: hanno altrettanto valore le ipotesi e le annotazioni di ricerca, gli elementi dai quali si fatica a cogliere un quadro unitario coerente. Una sistematizzazione può essere fatta anche successivamente (dalla persona stessa o da chi la segue), ma se mancano i dati e gli spunti sui quali ragionare occorre ripartire da capo ogni volta. Nei nostri servizi sociali, questa scrittura di saperi con cognizione riflessiva non è riscontrabile; se pensiamo all’ambito educativo si riscontra lo stesso limite, pur con qualche segnale di vitalità in più. Si possono ipotizzare diverse cause che portano a questo deficit. Si può imputare ad una mancanza di tradizione: se nella professione che svolgo o comunque nel mio mondo di relazioni non conosco nessuno che abbia coltivato l’abitudine di affidarsi ad un simile genere di scrittura, difficilmente mi sentirò spinto a cimentarmi in tentativi pionieristici. Oppure può essere chiamato in causa una sorta di timore reverenziale verso gli autori di riferimento che orientano il mio operato e la mia sensibilità: trovandosi di fronte ai corpora dei grandi autori delle scienze umane, ad esempio, se è onesta la constatazione che non si scriverà mai nulla di tanto illuminante, è comunque un peccato trovarsi talmente scoraggiati ancora prima di iniziare da non fare nemmeno quanto è nelle nostre possibilità. Ancora, si può pensare che disorienti la varietà di forme testuali proliferata negli ultimi decenni, varietà testuale da intendersi sia stilisticamente che come prodotti editoriali: chi si voglia cimentare nella scrittura, può sentirsi spiazzato e non riuscire a fare il passo decisivo per formalizzare il suo sapere. Tuttavia, più banalmente, mi trovo più propensa a pensare che non sia così diffusa la mera capacità di scrivere. Tradurre in scritti riflessivi le proprie azioni e i propri saperi richiede una competenza diversa da quella del sapere in sé. Certamente, è determinante anche possedere una volontà di scrivere, derivata dalla consapevolezza dell’importanza del tradurre il sapere in scrittura. Si tratta di due presupposti che si rinforzano a vicenda, in una ciclicità continua che si autoalimenta, senza una rigida gerarchia tra i due momenti (l’urgenza di scrivere / la capacità di scrivere). Accade che se sono consapevole della necessità di trascrivere il mio sapere mi adopero per rinforzarmi nelle competenze necessarie ad una scrittura adeguata ma, inversamente, ogni progresso che faccio nella scrittura mi rinforza rispetto alla mia capacità di indagine del mio sapere, in un condizionamento virtuoso che – e qui forse è il punto difficile da sostenere per chi cerca di tenere i ritmi della professione e della vita odierna – richiede tempo. Ma, come si diceva poc’anzi, è tempo investito per lasciare una traccia durevole, capitalizzabile dagli altri che ci potranno seguire o direttamente da noi stessi, per direzionare le nostre scelte. È l’occasione per tenere alto il livello del pensiero - operando una manutenzione se il livello di partenza è già sufficiente – o di innalzarlo – qualora ci si renda conto di non avere tutti gli strumenti per leggere ed intervenire nel pezzo di realtà che ci compete. È difficile, comunque, condurre gli operatori dei servizi verso la scrittura. Pur spinti da buoni intenti, si rischia di imporre questo atto suggerendo modalità che vengono poi evase di malumore, intese come compiti commissionati dall’alto da togliersi di mezzo nei tempi più brevi possibili, visti come intralcio all’attività pratica e urgente che ci incalza. Occorre trovare la modalità per accompagnare le persone verso la scrittura, anche se questo non è semplice. La scrittura è impegnativa, richiede tempo e un atto di dedizione concentrato. Non si può, comunque, scaricare la responsabilità di questa mancanza agli operatori dei servizi: se si volesse realmente smuovere la situazione, occorrerebbe intraprendere questa direzione ai livelli decisionali, ma attualmente non si ritiene prioritaria questa scelta. Ci si trova tutti concordi nel notare che le condizioni della società stanno cambiando, con testimonianze che arrivano da ogni posizione: affidarsi al connubio scrittura-pensiero permetterebbe di trovare delle strade di significato in questi cambiamenti, andando oltre la denuncia della loro esistenza. È arduo, però, spostarsi dall’ottica del fare e risolvere all’ottica della ricerca: chi lo volesse fare, dovrebbe essere presente nei contesto da studiare con un atteggiamento quasi da antropologo.
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Dove si impara il giusto linguaggio per un operatore nel sociale? Può essere un’acquisizione conseguente ad un percorso formativo o, nella tua esperienza, si hanno esiti migliori seguendo altre strade (esperienze personali, attività in contesti dove il contatto diretto con le persone è essenziale, volontariato, ...?)
Prima del dove metterei il come. Si impara ascoltando. Plutarco diceva che si trae il massimo profitto da una conversazione ascoltando. Responsabilmente. E poi, qual è il giusto linguaggio? Io credo che sia quello che consente all’altro di comprendere e di essere compreso, se possibile di interagire e di dare il proprio apporto, non necessariamente convergente. I linguaggi che vengono utilizzati dagli operatori possono essere guidati da timori di perdita di autorevolezza e potere, da stanchezze, demotivazioni, pregiudizi, senso di sopraffazione, ansia, fretta, incertezze, inconsapevolezze... Queste condizioni anziché avvicinare distanziano, creano frustrazione. Ciò che si produce può essere un linguaggio allusivo o classificatorio oppure tecnico-amministrativo, non orientato alla trasparenza e che può alimentare la rabbia o l’impotenza dell’altro. Sicuramente il percorso formativo aiuta, soprattutto se è un percorso formativo esperenziale e che sostiene la riflessività. Pratica e teoria - teoria e pratica resta un assunto imprescindibile. Credo siano preziose le occasioni formative che accompagnano gli operatori ad essere consapevoli del linguaggio che utilizzano e delle differenze tra contesti in cui utilizzare i diversi linguaggi, a fare esperienze di linguaggi diversi, anche a rivedersi e a rileggersi nei linguaggi che adoperano: deve esserci alla base, però, un genuino interesse a migliorarsi e a cambiare. Il contatto diretto con le persone, ma anche la frequentazione di contesti differenti dagli uffici dei servizi, oltre che di setting diversi dal colloquio individuale, come esperienze personali o professionali di gestione, frequentazione o conduzione di gruppi, forniscono apprendimenti ulteriori. Chi unisce esperienze personali di volontariato o una personale disponibilità a vivere situazioni di aiuto tra persone può coniugare una prossimità, una vicinanza sensibile e farne tesoro, valorizzando gli apprendimenti che questo consente, senza timore di travasarli in un ambito organizzativo professionale. A causa della dominanza del paradigma tecnico-professionale che c’è oggi nei servizi, ritengo, però, che questo non sia sufficiente. Sarebbe utile affiancare un percorso professionale o personale di conoscenza di sé e delle proprie modalità espressive e relazionali. Le parole guidano i pensieri e le azioni. La rivisitazione del linguaggio richiede una rivisitazione dei paradigmi di riferimento.
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Seguendo l’approccio di P.I.P.P.I. (si veda l’articolo precedente in questo stesso numero) i soggetti vanno messi al centro del progetto, almeno come responsabilità del proprio percorso. Le teorie che prevedono questo accorgimento sono, di fatto, datate: perchè le si è rispolverate ora? È davvero un cambio negli intenti profondi del lavoro con le persone o si tratta di una scelta razionale e calcolata, obbligata da bilanci economici critici? A Reggio Emilia la direzione era stata tracciata già con l’avvio dei poli territoriali negli anni 2003-2005 L’orientamento al territorio e alle persone si muoveva sul solco della responsabilità e dell’empowerment. In questi anni si è continuato ad andare in questa direzione. Oggi sembra che ci sia una evoluzione legata al fatto che tutti siamo più fragili: le persone, i sistemi economici, i sistemi sociali. E’ innegabile che i bilanci sono in sofferenza. Ma anche i confini tra utenti e operatori sul versante della fragilità non sono più così netti. Le difficoltà economiche, specialmente, ma anche le fragilità psichiche, le difficoltà nell’ambito dell’educazione ci rendono più paritari tra professionisti e cosiddetti utenti. Come lavorare con le famiglie è una questione aperta: come renderle più partecipi delle decisioni che riguardano la vita dei loro figli e quindi anche delle loro vite? Cosa poter offrire ai bambini e ai ragazzi e come offrirlo (con quale metodo e per quali esiti?) per non disperdere le loro potenzialità? Quando e come allontanare i minorenni dalle loro famiglie? Come lavorare nelle conflittualità crescenti? Come rompere il circolo dello svantaggio sociale nelle famiglie vulnerabili e negligenti? Sono queste alcune delle questioni, prima ancora di quelle economiche, che ancora ci interrogano a fronte di scenari che cambiano. Nell’ambito della tutela dei minori non scordiamoci che risale al 2001 la legge sul superamento degli istituti per minori verso forme di accoglienza più familiari. L’evoluzione e la differenziazione dei servizi si è trasformata negli ultimi 15 anni. La crisi economica ha ulteriormente messo in discussione un modello sostitutivo di intervento. A Reggio Emilia risalgono a poco più di 5 anni fa le èquipe integrate con gli psicologi. In questi anni le università, quella parte del mondo accademico vicino ai Servizi in particolare grazie agli ambiti di studio affini alla pedagogia, hanno progressivamente spostato il proprio interesse dall’infanzia, all’età evolutiva, all’età adulta e cominciato a dimostrare interesse per quello che i servizi stavano facendo (mi riferisco in particolar modo agli interventi educativi domiciliari e agli esiti dei percorsi di comunità). Credo quindi che non ci sia in modo univoco solo la componente economica, che pure ha avuto come ricaduta una accelerazione verso un ripensamento di un approccio e della sua sostenibilità. Oggi, evidente, c’è un tema di tutela dei diritti. A macchia di leopardo, in modo imperfetto e parziale, arrancando, c’erano nel nostro territorio delle intuizioni, che rischiavano però di rimanere ancorate a singoli professionisti, mentre c’era la necessità di fare una esperienza più solida, che desse le basi per una riflessione più circolare e condivisa e, soprattutto, che consentisse di avere alcuni elementi di valutazione per avviare una riqualificazione seria e diffusa del sistema che interviene in questo ambito (famiglie e minori). Soprattutto nei momenti di maggiore fragilità servono riferimenti epistemologici forti che diano anche una cornice metodologica al lavoro. La teoria ecologica e la teoria della resilienza offrono la strada verso un nuovo umanesimo socio-pedagogico che, se viene tradotto in metodo e perseguito con costanza, riconsegna alle persone – tutte, bambini e ragazzi, genitori, adulti, operatori – la possibilità di avere una chance. La teoria, seppur datata, è consonante alle esperienze dei nostri Servizi e a ciò che in altri ambiti si sta cercando di proporre; soprattutto coniuga la triade bambino-famiglia-ambiente, che è stata oggetto di approfondimento durante e dopo la riorganizzazione dei servizi sociali territoriali. Si parla di persone e di percorsi. Implica più livelli di responsabilità. Traccia inoltre una direzione possibile per poter fare concretamente prevenzione. È un tentativo di invertire la rotta perché proprio la prevenzione rischia di rimanere la grande assente nel continuum degli interventi dei servizi, così spinti dalle urgenze e dai drammi delle vite delle famiglie e dei loro membri più fragili ed esposti. Tutto ciò non significa, ovviamente, non allontanare i bambini e i ragazzi, se c’è bisogno di farlo, ma farlo con appropriatezza, con una cornice più chiara e condivisa anche cercando di riconsegnare il tema della responsabilità come terreno di confronto. Sul tema delle risorse: è cruciale costruire documentazione dei processi e degli esiti del lavoro e degli investimenti nel sistema di welfare per essere più consapevoli dell’allocazione delle risorse e per non incappare nel rischio di trattare solo la cronicità sociale. L’intento è quello di sperimentare un metodo apparentemente praticabile e coerente con un percorso già avviato in altri ambiti, pur nella fatica che questo inevitabilmente comporta e consapevoli che si sta orientando una direzione, la meta è ancora distante. L’approccio democratico ai saperi, che riconosce ai genitori il sapere esperto dell’esperienza e ai bambini il diritto di parola, e tiene conto dell’apporto dei mondi, dei contesti abitati dai bambini e ragazzi, non è ancora diffuso e il modello patriarcale-sostitutivo ancora abita le pratiche dei nostri servizi.
Urie Bronfenbrenner, psicologo al quale si deve una compiuta sistematizzazione del modello ecologico dello sviluppo
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Di fatto, il ribaltamento di prospettiva suggerito dall'approccio ecologico suona - nonostante sia datato - come una soluzione dirompente e con poca soluzione di continuità con quelle per noi tradizionali, se la si vuole seguire con onestà in tutte le sue implicazioni: nelle sedi decisionali prossime agli uffici delle dirigenze dei servizi alle persone, quanto spesso capita di avere l'occasione di misurarsi con descrizioni e dati di interventi qualitativamente innovativi? Esistono parametri realmente efficaci che permettono di distinguere tra l'intervento naif e quello portatore di presupposti potenzialmente più validi degli interventi tradizionali? È realmente così difficile produrre innovazione negli interventi con le persone, nonostante sia evidente che il ritmo degli ultimi decenni dei cambiamenti sociali sia aumentato?
L’approccio ecologico è dirompente perché scardina l’ordine del sapere e del potere chiedendo però agli operatori e ai diversi piani dei sistemi una raffinata regia e una altrettanto raffinata governance. Innovare non significa inventare, ma rendere nuovo. L’innovazione passa attraverso il cambiamento. Capita che noi pensiamo di fare cose nuove perché abbiamo dato un nuovo nome alle cose, ma poi, quando con attenzione e rigore osserviamo i processi, ci rendiamo conto che la pratica è ancora distante dal dichiarato teorico. Capita che ci sia una spinta da parte della dirigenza, ma che fatica a trovare ancoraggi solidi tra gli operatori perché percepiscono i contenuti distanti o non riescono a tradurli nelle pratiche e nelle maglie strette della quotidianità. Oppure accade il contrario, ovvero che ci sono pratiche innovative che gli operatori mettono in atto, ma non sono documentate e approfondite e restano patrimonio dei singoli, non hanno la forza di risalire la corrente e diventare oggetto di interesse dell’organizzazione. Nell’ambito della fragilità sociale legata a difficoltà economiche ed abitative, dove l’espansione della crisi ha messo in evidenza che non potevamo rispondere con i soliti standard, è stato avviato un lavoro che tiene conto della necessità di avere dati qualitativi, oltre ad elementi quantitativi per tracciare i percorsi e farne oggetto di studio al fine di orientare le decisioni e confermare o meno alcune linee di intervento e di investimento dei servizi. Efficacia ed appropriatezza hanno a che fare con la valutazione. Oggi il tema della valutazione è debole, rappresenta un tallone di Achille nei Servizi Sociali in generale e anche nel nostro sistema. E’ stato messo a punto uno strumento di valutazione di processo e di esito (scheda tipologie), simile a quello dell’assessment di P.I.P.P.I., ma non è entrato in uso a pieno regime. La valutazione chiede misurazione, rigore nei tempi e presidio costante e condivisione di senso a tutti i livelli. È stato realizzato qualche anno fa un lavoro sull’affido che ha messo in luce alcune contraddizioni e la necessità di introdurre cambiamenti nell’approccio, nei contenuti, nel metodo e nel sistema organizzativo. E’ stata una buona prassi, ma è ancora debole l’assunzione permanente del processo. È servita per costruire alcuni riferimenti più solidi e consapevoli per gli operatori che lavorano nel gruppo affido. E a rifare una valutazione a distanza di qualche anno sull’affido-sostegno. Porta con sé il limite della mancanza di coinvolgimento dei diretti destinatari: oggi ci stiamo muovendo in modo parzialmente diverso e abbiamo più presente che il destinatario finale deve entrare nel processo di valutazione. Il modello della valutazione partecipata richiede l’assunzione di un altro paradigma, un posizionamento diverso da quello attuale, un cambio di prospettiva e su questo posso dire che abbiamo solo cominciato ad introdurre l’argomento. Sicuramente, a fronte di scarsità di risorse ma anche di nuovi e complessi bisogni, c’è oggi la necessità sempre più urgente di costruire evidenze, di tracciare i nuovi riti dell’educazione, di costruire documentazione clinica, scientifica del lavoro socio-educativo e psico-socio-educativo. Tracciare nuove rotte richiede di fare questo lavoro, ovvero riattraversare le pratiche e interrogarle di fronte ai nuovi fenomeni e sostare sui nuovi fenomeni per indagarli, conoscerli, approfondirli. È difficile produrre innovazione in servizi che addensano complessità organizzative e trattano situazioni complesse, perché la molteplicità dei protagonisti e la fluidità delle forme non sempre consentono di investire sull’autoriflessività e su quelle intuizioni che possono essere sperimentate e assunte a pratiche metodologiche. C’è anche una affezione al consueto, una forma di difesa autoregolante che fa sì che il nuovo sia sempre faticoso. Gli apparati inoltre creano delle barriere; avviare sperimentazioni leggere e flessibili con la presunzione di farle diventare di sistema resta una sfida che credo necessiti permanentemente di una struttura di ricerca, di governance e di formazione. A me le sfide piacciono, pur nel mantenimento di una certa e necessaria visione realistica. Altre parti dell’organizzazione le condividono, le sostengono e le promuovono.
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Rileggere Carl Rogers? Ancora? di Matteo Muratori
Scrivere è il mio modo di comunicare con un mondo a cui, in un senso molto concreto, sento di non appartenere del tutto. […] Scrivere è il messaggio che metto in bottiglia e lancio nell'oceano. La mia sorpresa è che vi siano persone che in un gran numero di spiagge – psicologiche e geografiche – hanno trovato le bottiglie, scoprendo che il messaggio si rivolgeva a loro. Per questo continuo a scrivere.
Il nome di Carl Rogers non genera nessun sentimento: solitamente, il suo pensiero viene incontrato durante corsi universitari di un qualche insegnamento X-Generale, sede in cui la preoccupazione del docente è presentare un panorama concettoso ed esauriente di teorie e, quella dello studente, limare il più possibile ancora le nozioni per farle entrare temporaneamente nella memoria, con la permanenza massima registrata sulla data dell’esame. E così, il ricordo del buon vecchio Rogers (morto 30 anni fa all’età di 85 anni) è vago, poco interessante, lo si trascura facilmente. Una volta terminati gli studi, difficilmente succede che qualcuno dedica di riprendere in mano un suo scritto da consultare direttamente. Sembra essere il comune destino degli autori più datati, il cui nome si tramanda nei decenni, ma viene progressivamente spostato nella linea delle citazioni (“X sostiene, basandosi sugli studi di Y, condotti sulla scorta delle teorie di Z, che partono dai presupposti di...”: di Rogers, ad esempio); questo non è che il caso più onorevole, perchè la fonte primaria viene ancora citata, ma sono numerosi i ricercatori che percorrono strade che pensano innovative, senza la minima consapevolezza del credito alle intuizioni originarie né ai loro autori. Esistono alcune tipologie di produzioni di indagine letteraria retrospettiva, tra le quali la biografia, l’autobiografia, l’antologia, il compendio manualistico e altre forme miste, ognuna con particolarità stilistiche e sentimenti di fondo peculiari. Volendo inquadrare il breve testo di Daniele Bruzzone intitolato Carl Rogers – La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo tra le forme di indagine citate, si ritrovano senz’altro caratteristiche della biografia e dell’antologia, ma ciò che lo rende un libro atipico – per il suo genere – è il sentimento di Gratitudine che trapela dalle pagine. Bruzzone tratteggia il profilo di un uomo mite, eppure dotato di caparbietà e chiarezza di intenti, privo di alte ambizioni eppure soddisfatto che il suo lavoro – e non la sua persona – venisse apprezzato e diffuso. Il confronto con i padri autentici di certe idee dirompenti è un’occasione unica per chi, con l’opportuna disposizione allo studio, voglia cercare orizzonti di senso per la propria professione, specialmente per chi si assume la responsibilità quotidiana di fare cura educativa. Leggere le parole di un padre ha una portata maggiore: non si è condizionati da interpretazioni, non sono indicate scorciatoie, non viene operata una cernita arbitraria per costruire metodi aberranti rispetto agli intenti originari, non sono ammesse sofisticazioni e contorsioni teoretiche. Si è in contatto con materiale del quale solitamente si riesce ancora a sentire il calore, la tensione del parto recente, lo stato di allerta rispetto alle contraddizioni e alle smentite. Si tratta di parole che ci parlano come se noi lettori di oggi fossimo interlocutori fidati al quale uno studioso ha necessità di esporre le proprie idee. Abbiamo tuttavia bisogno di essere accompagnati sulla soglia di questo colloquio da qualcuno che ci dica che ne vale la pena, che sarà una bella esperienza della quale lui stesso magari ha in prima persona beneficiato: ecco il valore del libro di Bruzzone rispetto al pensiero di Rogers, perchè è proprio questo che accade quando ci comunica la Gratitudine poco prima citata. Certamente, Rogers ha scritto talmente tanto materiale che, per orientarsi, un manuale di storia della psicologia sarebbe utile, non fosse altro per riuscire ad arrivare alle versioni definitive dei concetti principali; come accade per i più attivi pensatori, i concetti chiave del pensiero di Rogers non si sono cristallizzati una volta per tutte dopo la comparsa, ma sono rimasti in stato di revisione e ampliamento perenne, ipotesi orientative che ogni singolo colloquio con un cliente o confronto con un collaboratore erano chiamate a verificare. La “terapia ambientale”, che risuona come eco nella progettazione P.I.P.P.I., fu adottata da Rogers già verso la fine degli anni Venti a Rochester, come alternativa alle ortodossie psicologiche dell’epoca orientate ad un’analisi stretta del disagio. Era impegnato come direttore di un’istituzione per la prevenzione delle crudeltà esercitate sui bambini eppure, anche da quell’osservatorio che probabilmente lasciava poca speranza residua nel genere umano, Rogers difendeva la posizione che ogni bambino, se provvisto delle adeguate condizioni cognitive, emotive e sociali, poteva adattarsi alla vita in maniera ottimale. Le spinte per la crescita e l’integrazione presiedono spontaneamente l’organizzazione dell’individuo e sono presenti universalmente: possono essere soffocate, distorte e rese inservibili per tempi più o meno lunghe, ma permangono come tensione fondante dell’individuo. Assunti questi presupposti e raccogliendo conferme grazie alla sua febbrile ma mai esclusiva attività di ricercatore e terapeuta, si indirizzò verso l’approccio non-direttivo (ante litteram), per poi arrivare nel 1951 alla pubblicazione della celeberrima Client-centered Therapy.
Carl Rogers (1902-1987)
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Qua e là, disseminati nel libro di Bruzzone, si incontrano paragrafi ai quali si potrebbe non dare peso, eppure che possono avere un valore immediato per chi si dedica alle professioni di prossimità. Uno di questi (pp. 36-37), racconta di
un periodo difficile [1949-51], a causa di una relazione terapeutica con una schizofrenica che fece vacillare le sue difese, fino a farlo fuggire via con la moglie per un periodo di qualche mese (…). Al suo ritorno, fu costretto a sottoporsi a terapia con il suo collaboratore Ollie Bown, per ritrovare l’autostima e la fiducia nel proprio lavoro. Credere nelle persone, nella loro resilienza o, per usare un termine meno tecnico ma più immediato, nella loro bontà, non è affare semplice. Espone a delusioni brucianti, richiede fatiche sostenute in tempi lunghi per poi accorgersi, scorati ed esausti, che tutto è stato inutile. Sostenere gli altri può prosciugare: tuttavia, seguendo la logica rogersiana, non è possibile che una persona sana e matura si possa esimere dal tentativo di mettersi in discussione. Sana e matura sono due aggettivi che, affiancati a “persona”, possono essere usati come faro per navigare in tutta la riflessione di Rogers. Essere “sani” significa essere aperti all’esperienza, prima interiore (ascoltandosi senza timori) e poi estroversa; significa percepirsi in continua evoluzione, senza gli appesantimenti di schemi, fissazioni, limiti autoimposti o accettati; significa essere in sintonia con il proprio organismo, inteso nella sua interezza e come esemplare particolare della vita sulla Terra, perchè esso è il mezzo che abbiamo a disposizione per conoscere il mondo in cui siamo e la nostra condizione rispetto ad esso; significa, in ultimo, vivere costruttivamente, con un atteggiamento positivo sia verso l’autorealizzazione che verso compiti oggettivi. Il termine “maturi” è in realtà una cassa armonica di queste caratteristiche: ha a che fare con la loro stabilità e persistenza, a garanzia che possano essere acquisizioni stabili per un individuo. Una persona sana e matura sente, rispetta, organizza e rinnova una spinta vitale dalla grande portata, talmente grande che non può rimanere costretta nell’individualità: è in queste condizioni che si può diventare i terapeuti ideali. Infatti, solo chi si sente integro, in situazione di congruenza e di inscalfibile benessere può pensare di porsi in una relazione con l’altro senza esercitare potere, senza identificazioni inopportune, senza parassitismi. Un terapeuta del genere, quasi lucreziano, può rappresentare per la persona che chiede un confronto (il cliente, in condizione di temporanea non-sanità o non-maturità) un riferimento decisivo, dai contorni ben stagliati, dai valori notevoli ma non invasivi: un approdo, in sostanza, al quale affiancarsi per poter ri-centrare la propria esistenza, presso il quale avere la garanzia che quanto viene faticosamente ammesso può essere senza filtri, autentico, protetto dal rischio di subire stigma o valutazioni. Una persona sana e matura accetta il linguaggio dell’altro, senza imporre il proprio, che pure si sente libero di utilizzare ma di rivedere, perchè strumento al servizio di una relazione aperta al massimo livello. Ha fiducia che, se un sentimento ha modo di esistere in una persona, quella stessa persona da qualche parte possa avere le parole – nelle giuste condizioni – per parlarne, definendone gli estremi, i moventi e le tensioni. Per Rogers, è da preferire un terapeuta sano e maturo ma poco preparato tecnicamente a uno che abbia le proporzioni invertite: si può recuperare terreno rispetto ai concetti, alle prassi e alle tradizioni professionali facilmente, se lo si fa nell’ottica di uno slancio empatico verso l’altro e sui dati ricavati da una relazione aperta e non-direttiva. Viceversa, una preparazione raffinata, che prepari in vitro alla gestione di tutte le problematicità umane, non garantisce una tenuta sul banco di prova della realtà: non si può guadagnare l’equilibrio personale né raggiungere una sintonia con il proprio corpo, ad esempio, attraverso un tirocinio. Quel che è peggio è che il terapeuta che non sia sano e maturo, rischia di attuare dinamiche lesive per la dignità di colui che torna ad essere, da cliente che era, paziente. Possono esserci, quindi, persone lontane dalle professioni di cura che hanno raggiunto una completezza e congruenza tali da risultare preziosi testimoni per chi è in difficoltà. Non si deve per questo supporre che il terapeuta professionista possa essere superfluo: occorrono rigore, attitudine al confronto intenzionale con figure omologhe, capacità di gestire le situazioni impreviste e le proprie reazioni, così come molte altre competenze che rendono il ruolo di un terapeuta fondamentale. Se l’approccio di Rogers fosse stato fatto proprio da tutti gli ambiti dove la relazione tra le persone prevede una disparità (nella terapia, ma anche nella scuola, nel lavoro, nella politica...), il mondo sarebbe ben altro da questo. La logica del problem solving, preferita dalle istituzioni, ratifica il potere dei risolutori di professione, sostenendo il sottilissimo implicito che, se qualcuno si trova in difficoltà, una parte di colpa è sua personale; viene drasticamente derisa, inoltre, l’eventualità che chiunque possa trovarsi in difficoltà personale e che non è detto che se il disagio non rientra in un ICD o in un DSM non sia da prendere sul serio. Non avendo fatto nostra fino in fondo questa lezione, magari riconoscendone il valore ma bollando come utopia le possibili realizzazioni, probabilmente non ci estingueremo domani: i nostri genitori, ad esempio, hanno tutti vissuto in un mondo dove questi ragionamenti erano stati fatti eppure tenuti fuori dai sistemi ufficiali. Penso che siamo più a rischio di loro, non solo di passare per cocciuti (visto che i precedenti che dimostrano la validità dell’approccio sono nonostante tutto numerosissimi) ma anche di non saper gestire l’aumento numerico e di diversità di contatti umani ai quali siamo sottoposti nei nostri anni. Se non siamo capaci di entrare in un’ottica relazionale (dal piano relazionale fino a quello politico) costruttiva – nell’accezione complessa di Rogers – rischiamo di diffondere danni, invece che sfruttare le occasioni per diffondere il benessere. È un peccato, anche perchè è ovvio che prima o poi tutta quell’insoddisfazione tenuta viva nel tessuto sociale toccherà anche noi: ci renderemo conto in tempo, prima di disfarci dell’ultimo briciolo di fiducia negli esseri umani, di quanto sia desolante non avere chi ti ascolta? Meglio chiudere con Rogers, invece. Nel testo Un modo di essere, il silenzioso rivoluzionario si stupisce osservando una riserva di patate conservate nell’inverno nel suo scantinato:
Le condizioni erano sfavorevoli, ma le patate cominciavano lo stesso a germogliare – erano germogli pallidi, molto diversi da quelli verdi e sani che spuntano quando le patate sono seminate in primavera. E tuttavia questi germogli sottili e tristi crescevano fino a raggiungere la luce lontana della finestrella. Questi germogli erano, nella loro crescita bizzarra e futile, una sorta di espressione disperata della tendenza direzionata che ho descritto. […] La vita, anche se non le era possibile fiorire, non rinunciava a se stessa.
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Hikikomori : “stare in disparte”, “ritirarsi” – coniato dallo psicologo giapponese Tamaki Saito, è un termine che indica un comportamento che colpisce circa un milione di adolescenti e giovani adulti nipponici che vivono nella propria stanza e rifiutano ogni tipo di rapporto con il mondo esterno.
hikikomori inquadrature di
Paul Wright ed esperienze di G. Pietropolli Charmet
di Erica Muratori
E in Italia? Sarebbero tra i 20 e i 30 mila, secondo i dati raccolti dagli psicoterapeuti del centro milanese Il Minotauro, i giovani italiani che si ritirano, o meglio che ritirano il proprio corpo, dalla vita sociale per periodi di tempo che durano diversi mesi o anni.
Paul Wright, regista
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Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta
Hikikomori è anche il titolo di un film, un cortometraggio realizzato dal regista Paul Wright per il suo esame di laurea e pubblicato online dal Royal Conservatoire of Scotland.
Joe è un adolescente che ha deciso di non uscire dalla sua camera. Mangia, beve, dorme, usa il computer, si scatena, piange, ascolta musica, fa tutto quello che fa ogni adolescente ma dalla sua cameretta, chiusa a chiave e accessibile solo al piatto che ogni giorno entra ed esce da un buco nella porta per sfamarlo. Ogni tanto nella sua camera fa anche cose che non gli piacciono: si incide il petto con un paio di forbici roventi, prova a bere la sua urina, si alza in piedi sulla finestra per decidere se buttarsi, rimane steso sul letto con lo sguardo fisso, come morto ma non morto, il cuore funziona ancora e si vede dalla lacrima che gli scende sulla guancia. Queste cose non le fanno tutti gli adolescenti, bisogna sentirsi male per farle. Bisogna avere un dolore dentro per provare a suicidarsi ma anche, come fa Joe, per fare finta di suicidarsi. Il dolore è lo stesso e non sta tanto nella riuscita o meno dell’atto, non conta “quanto si fa sul serio”, ciò che conta sono i pensieri che ci stanno dietro. Da dove arriva il dolore di Joe?
La paura di essere brutti. È la risposta di Pietropolli Charmet, fondatore del Minotauro, nell’omonimo libro pubblicato nel 2013. Non è un dolore che caratterizza solo i giovani ritirati sociali: sono diverse le forme di manipolazione o occultamento del corpo in forte aumento negli ultimi anni. Tra queste i disturbi della condotta alimentare, i tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo. Come se nascondere il proprio corpo, ferirlo, farlo scomparire servisse a sentire meno dolore, almeno per un po’: finché non ci sarà bisogno di ricorrere ad un altro taglio, ad un gesto più eclatante o ad una dieta ancora più rigida per provare la stessa sensazione di sollievo, come in ogni dipendenza. La centralità del corpo in queste forme di “dipendenza dalla sofferenza” ha spinto Pietropolli Charmet a domandarsi il perché, o meglio i perché, di queste epidemie.
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“Il cucciolo come soggetto” Molti degli adolescenti che si sentono brutti e arrivano a nascondere o a maltrattare il proprio corpo sono stati bambini belli e bravi, capaci di rispondere alle aspettative degli adulti e di crearne di sempre più alte. Oggi non si chiede più ai nuovi arrivati di adattarsi alla cultura ma di esprimere sé stessi, la propria natura, al meglio. In una parola: di realizzarsi. Questo nuovo modello educativo, che per molti aspetti rappresenta un salto in avanti culturale, ha portato ad un cambiamento del tipo di dolore che deriva dal fallimento del mandato. Se fino a qualche decennio fa il mandato educativo era quello di adeguarsi alle regole e il dolore derivato dal fallimento si chiamava colpa, oggi per chi non assolve il mandato della realizzazione del sé subentra un nuovo tipo di dolore: la vergogna. A differenza della colpa, che riguarda un’azione e pone il soggetto in conflitto con un regolamento etico, la vergogna è pervasiva, perché riguarda il sé e per sopportarla l’unica soluzione sembra essere nascondere la prova più evidente del sé: il corpo.
In un certo senso l’apparire e il conseguente successo sociale in termini di inviti, interesse suscitato nella mente degli altri bambini e delle loro mamme sembra forse la caratteristica saliente del modello educativo all’ombra del quale sono cresciuti. […] Bambini affidabili, ben socializzati, molto bravi a scuola, apprezzati dalle maestre ma anche dai compagni di classe. […] Insomma all’inizio tutto andava molto bene, forse troppo? Pietropolli Charmet la chiama fragilità narcisistica. Ovvero: incapacità di vivere microtraumi personali quotidiani; una sorta di permalosità estrema che non ammette la possibilità di non essere al massimo, bellissimi e apprezzati da tutti. Arrivati alle soglie dell’adolescenza essere visibili e apprezzati diventa improvvisamente più complicato: il corpo cambia e con esso anche le aspettative degli adulti intorno: la richiesta è quella di essere piccoli uomini e piccole donne, di mostrare una virilità o una femminilità che non si conosce, con la quale non si ha dimestichezza e che viene scimmiottata, deformata dagli adulti stessi come sinonimo di magrezza per le donne e di forza, fisica ed intellettuale, per gli uomini. Infine avviene un altro cambiamento fondamentale, cambia la giuria: il pubblico che conta non è più, o non è solo, quello della famiglia e del mondo adulto ma soprattutto quello dei coetanei.
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Quale pubblico? Gruppo classe vs socialità in Rete Se una volta gli adolescenti per essere adeguati dovevano aderire a certi standard, oggi è necessario che trovino il modo di esprimere le proprie capacità in modo originale, visibile e apprezzabile dagli altri, il “pubblico”. Con l’adolescenza il pubblico più importante da cui ricevere approvazione diventa quello dei pari, che per gli adolescenti italiani coincide soprattutto con il gruppo classe. Esibirsi e farsi vedere dal gruppo dei pari diventa lo strumento più importante per essere popolari e realizzati, sempre che non ci si senta brutti. Se per qualche motivo coltivi il dubbio di non essere adeguato allora ti costruisci un falso sé, fai finta, imiti, provi a restare in equilibrio nella rischiosa passerella della scuola, senza scivolare. Tuttavia può accadere di essere smascherati dalle parole o anche solo dagli sguardi dei coetanei che, come killer, sono pronti ad uccidere con lo sguardo chi non viene reputato all’altezza. Troppo grasso, troppo permaloso, poco interessante… impresentabile. E così un giorno l’adolescente in questione decide di non presentarsi.
Joe non parla con nessuno ma ha un amico da qualche parte nell’immenso mondo del Web a cui scrive: “Sei il mio migliore amico”, “Non voglio uscire da qui”, “Ti voglio bene anch’io”. Quando la mamma, a tarda notte, prova a staccare la corrente Joe si arrabbia. Continuando a restare muto picchia forte i pugni sulla porta finché la mamma non riattacca la corrente e il pc si riaccende. Quasi a dire: “non togliermi anche questo filo mamma”.
Spesso gli adolescenti ritirati sociali intrattengono diverse relazioni sociali, anche intense, sul Web, dove, protetti dagli sguardi dei coetanei e alleggeriti del corpo sentono di potersi esprimere liberamente. Pietropolli Charmet sottolinea come Internet, se da un lato crea dipendenza ed espone questi adolescenti ad ogni tipo di aggressività e sessualità, dall’altro li tiene in vita permettendogli di continuare a vivere una forma di socialità e di sviluppare affetti e relazioni. Quelli che ritroviamo all’uscita dalle camerette non sono quindi enfants sauvages che per anni non hanno dialogato con nessuno ma ragazzi brillanti, forse intimiditi ma certamente non regrediti, molto intelligenti anche se poco propensi a intavolare trattative di natura psicoterapeutica con la nostra équipe, in grado di aprirsi gradualmente al progetto di recupero di aspetti per loro ancora attraenti della socializzazione con i coetanei.
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Gli eventi in-catenanti I cambiamenti sociali e culturali sopra descritti non riguardano solo gli adolescenti chiusi in camera o le ragazze che presentano disturbi della condotta alimentare ma influiscono in modo più o meno marcato su tutti gli adolescenti del nostro tempo. Oltre a questi, Pietropolli Charmet ha individuato alcuni eventi ricorrenti nella storia personale degli adolescenti che si ritirano dalla vita sociale.
I genitori… e i loro fantasmi Spesso andando a “rovistare” nella storia personale di un adolescente che si sente brutto, inadeguato, incapace di amare c’è una relazione molto intensa con uno dei due genitori, spesso la madre. Intensa ma non realmente materna, ovvero non realmente educante all’amore. Pietropolli Charmet ha osservato come il rapporto costruito da molte di queste madri fosse più simile a quello che si instaura tra due adulti, magari amici, con grande confidenza ma senza la responsabilità e, quindi, l’amore che caratterizza la relazione tra un genitore ed un figlio. Molte di queste figure materne hanno lasciato molta autonomia i propri figli, spingendoli a scegliere da soli anche quando i tempi non erano ancora maturi per farlo. Sono state sempre presenti ma hanno fatto le amiche, non le mamme. Dall’altra parte, il genitore “B”, il padre, è stato spesso assente per gli adolescenti ritirati sociali. Distante fisicamente o intellettualmente, in ogni caso lontano. Questo ha fatto sì che il genitore lontano diventasse sempre più simbolicamente importante, senza essere realmente d’aiuto nella crescita del figlio. I simboli pesano e condizionano, a volte, più delle persone realmente presenti. In questo quadro che potrebbe apparire senza soluzione Pietropolli Charmet rimanda all’importanza di essere concreti e tempestivi: è importante rimettere i genitori di fronte alla responsabilità richiesta dal proprio ruolo genitoriale, indipendentemente dalle loro fragilità personali: “Quando un ragazzo sta male non c’è più tempo per fare psicoterapia. Bisogna fare il padre e la madre e fare sostegno al ruolo”.
La fine del sogno amoroso Altro evento che può scatenare la reazione di isolamento dalla vita sociale e incatenare i ragazzi nelle camerette è il rifiuto amoroso. Essere rifiutati, lasciati o, ancor peggio, traditi può scatenare un sentimento di rabbia ma anche la vergogna di non sentirsi considerati sessualmente attraenti. Se l’adolescente Narciso è troppo poco abituato a sopportare le frustrazioni per accettare questa sconfitta i casi sono due: può prevalere la rabbia, il sentimento di vendetta. Non è previsto da Narciso il fatto di poter essere screditato, rifiutato, tradito: si tratta di un ingiustizia, di uno sbaglio dell’altro che, per questo, deve essere punito. L’altra possibilità è l’isolamento e il rifugio nelle relazioni virtuali, escludendo così il corpo e l’imbarazzo della relazione faccia a faccia.
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“Quando gli eremiti escono dalla cameretta”
Esperienze di colloquio aldilà della porta
Joe non parla ma ascolta. È fermo nella sua decisione di non dire una parola ma ascolta quelle che gli vengono rivolte dall’altra parte della porta. Ci sono le parole del dottore che cerca con tutta la sua professionalità di invitarlo a parlare con lui e ricevono come risposta uno sputo che, attraverso la sottile fessura della porta, riesce a centrare l’obiettivo. Ci sono le parole dello zio, decise a porre fine all’isolamento di Joe come i suoi tentativi di sfondare la porta. È ora di finirla, non è educato starsene chiusi in una stanza e non rispondere a nessuno. Joe risponde aprendo la finestra e alzandosi in piedi sul bordo per vedere che effetto farebbe buttarsi di sotto. Poi ci sono le parole della mamma di Joe e i silenzi della mamma di Joe. Ci sono le sue storie, le sue richieste quotidiane: “Joe prendi il vassoio, il cibo si fredda. Se hai bisogno bussa che arriviamo”. Le sue attese dietro la porta, il suo respiro che si sente oltre lo strato di legno che li divide. C’è la sua sofferenza, il suo terrore di perdere il figlio ma anche la sua responsabilità di rimanere adulta, madre, centrata sul dolore del figlio e non sul proprio. Un breve racconto quello di Wright, 12 minuti e 30 secondi di immagini e audio volutamente confusi, sfocati, sovrapposti come confusi e sfocati sono i pensieri che affollano la mente e il cuore di Joe. Uno spaccato breve ma preciso sul dolore dei ragazzi che si ritirano dalla vita sociale. E una proposta di via d’uscita: il dialogo, inteso in senso molto più ampio della sua componente verbale, formato da una pluralità di linguaggi e inserito in una relazione di qualità.
Joe esce dalla sua stanza. Prende il suo zaino e si copre bene: cappello e mascherina davanti alla bocca. Fuori c’è ancora buio e Joe corre fino alla fine della notte, fino alla fine della città. Raggiunge un bosco ma non trova l’amico che gli aveva dato appuntamento lì. Trova la sua mamma, che lo raccoglie in un abbraccio: Joe ha di nuovo un corpo. Pietropolli Charmet conferma: gli eremiti possono uscire dalla cameretta, dopo un lungo periodo in cui è molto difficile avvicinare questi ragazzi e parlare con loro si arriva ad un punto di svolta e gli stessi sono disponibili a raccontare la propria storia, a provare insieme al terapeuta a capire che cosa li ha portati lì e come uscirne. Il notevole aumento dei ragazzi che si ritirano dalla vita sociale ha portato gli psicoterapeuti dell’Istituto Il Minotauro a confrontarsi con alcuni colleghi giapponesi con una vasta esperienza di questo fenomeno. In Giappone una figura molto rispettata e ascoltata all’interno della famiglia è quella della sorella maggiore, considerata fonte di saggezza e di buoni consigli. Da qui è partita la riflessione che ha portato gli esperti del Minotauro a formare e impiegare giovani psicologhe nei colloqui con i ragazzi ritirati sociali, colloqui che per una prima, lunga fase, si svolgono aldilà della porta. Solo il tempo, l’attesa paziente e costante portano alla costruzione di una relazione di sempre maggiore fiducia:
Ha quasi sempre funzionato e dopo non brevi e drammatiche vicende relazionali consumate in dialoghi a porta chiusa, con bigliettini infilati sotto la porta, attese in corridoio, prudentissime proposte di bere assieme un caffè in cucina e via di questo passo verso la riabilitazione della socializzazione disastrata, alla fine la nostra inviata speciale è quasi sempre riuscita a portare il giovane eremita nei nostri atelier espressivi, primo passo verso la riorganizzazione della speranza a potercela fare a tollerare il contatto diretto con altri esseri viventi, al di fuori della realtà virtuale.[…] Da questa tipologia di bruttezza ci sembra che si possa guarire, anche se ho dubbi importanti che la guarigione possa avvenire spontaneamente, in assenza di cambiamenti nel sistema familiare o senza che intervenga dall’esterno una task force che organizzi la liberazione dell’ostaggio dalla prigione della paura della bruttezza e delle orribili false rappresentazioni sul proprio valore e sui diritti che ne derivano. Le giovani psicologhe si relazionano ai ragazzi con azioni semplici e quotidiane ma con dietro una salda preparazione teorica e l’equilibrio personale, necessario per mettere al centro della relazione il ragazzo, senza pretese di venire ricambiati o facilmente accolti. In questo, mi sembra di poter senza troppe forzature paragonare questo tipo di sostegno alla crescita e alla genitorialità a quello offerto dagli interventi di educativa intensiva e domiciliare che hanno a che fare con diverse fragilità e crisi adolescenziali, in famiglie già fragili ancora prima di scontrarsi con l’adolescenza.
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Nel numero scorso di GalinaNova ci siamo soffermati su alcune delucidazioni sui processi e sulle implicazioni dovuti alla presenza massiccia delle nuove tecnologie nell’ambito delle comunicazioni nella nostra vita. Guidati dal testo di Rushkoff Presente Continuo, accompagnati da Fiorello Ghiretti, Riccardo Pinotti e dai contributi degli educatori del Giro del Cielo, abbiamo lanciato un ideale dibattito rispetto alla necessità di aumentare la nostra consapevolezza rispetto alle scelte che facciamo in questo ambito: usando un Social Network, interagendo con un terminale portatile in presenza di altre persone, avanzando giudizi verso l’uso della tecnologia da parte di altre generazioni, prendiamo implicitamente una posizione rispetto all’opportunità o inopportunità di questi mezzi. Ci dimostriamo poi coerenti con i comportamenti verso i quali ci sbilanciamo? Usiamo forse, per queste valutazioni, un sistema di riferimento ormai non più adeguato perchè valido solo in un mondo ormai trasformato, i cui linguaggi e modalità di confronto non ritorneranno più come quelli che ci hanno orientato per il nostro sviluppo fino ad oggi? Invitiamo chi volesse riprendere il filo di questi ragionamenti al numero II: tuttavia, ci siamo resi conto che non era stato preso in considerazione, all’epoca, un aspetto che, per la sua portata, non ha tardato ad affiorare nell’ambito delle formazioni interne per gli operatori della Cooperativa Giro del Cielo. Si tratta della questione della disfunzione erettile. Vorremmo ora ripercorre sommariamente in queste pagine come siamo arrivati a parlare di questa compromissione psico-fisica, ripercorrendo un tragitto che, più che da studi intenzionali, ha seguito una sequenzialità logica. Ricordiamo, prima di riproporre le nostre riflessioni, che questa non è una rivista medica, né riconducibile ad una comunità scientifica: GalinaNova è un luogo cartaceo dove vengono archiviati materiali, sperando che l’ordine dato possa spingere le persone interessate a contribuire alla discussione e – perchè no – alla smentita delle argomentazioni riportate.
E.D. - ERECTILE DYSFUNCTION
@ pornografia online
di Matteo Muratori
I dispositivi della nuova informazione sono molto diffusi: non è vero che essere “nativi digitali” sia un marchio inevitabile, ma diciamo che è quasi impossibile evitare il contatto in età precoce con questi mezzi. La maggior parte dei contatti, per quanto riguarda i bambini, è incidentale: gli adulti hanno adottato questi strumenti per velocizzare processi – comunicativi, ricreativi, professionali... che già erano nel proprio repertorio, facendo comparire i terminali nell’ambiente domestico e non solo, di fatto interpretandoli come estensione della propria persona. In modo automatico, quindi, hanno investito i dispositivi in questione di alcune valenze che prima erano pertinenza di elementi analogici: intrattenere, informare, educare, distrarre, orientare i bambini, ora si può fare anche attraverso un tablet. La logica è sempre la stessa: risparmiare tempo ed energie per svolgere lo stesso compito – in questo caso l’occuparsi intenzionalmente della crescita dei figli. Attenzione, però: dire che succede questo e dire che è inevitabile che succeda questo è significativamente diverso. Se si volesse, alcuni accorgimenti adottati consapevolmente porterebbero ad altri esiti: diamo per scontato, tuttavia, che sia una soluzione davvero ardua da portare nella realtà, visto che l’evidenza delle tendenze generali è eloquente. I bambini entrano nella scuola e trovano i medesimi adulti che, un po’ per interesse e convenienze personali, un po’ per mandato istituzionale (non stiamo qui a ricostruire il piano della formazione sulle nuove tecnologie: azioni e sovvenzioni per l’aggiornamento sbucano ad ogni circolare, ministeriale o interna che sia), ripropongono gli stessi dispositivi. In questo contesto, il medesimo schermo si è trasformato nelle sue potenzialità: immerso nei fonti battesimali evidentemente presenti in ogni edificio scolastico, è stato formattato da ogni impurità, così che il suo sistema operativo sia finalmente libero dai peccati originali della Rete. LIM, tablet e soci diventano dispositivi per la Didattica, sia essa disciplinare, inclusiva, speciale, metacognitiva, laboratoriale o quant’altro. Adeguati, ora, nelle loro qualità, i dispositivi digitali tardano ad esserlo nella loro quantità: la Scuola ha poche risorse (sebbene è solo una questione di tempo, visto che la digitalizzazione garantirà risparmi inediti per la gestione pubblica), ben venga che alunni e docenti possano contribuire con i propri personali dispositivi. E, per dare un’apparenza consona all’efficienza che cerchiamo, nulla di meglio di un acronimo: BYOD, bring your own device, termine anche questo mutuato dal mondo della gestione delle grandi aziende. Gli adulti, quindi, assecondano il contatto dei bambini e dei giovani con le ultime tecnologie di massa. Non è ipocrisia, non è malafede: semplicemente, è un dato di fatto, cioè uno di quegli elementi di una cultura che non si ha più né tempo né voglia di mettere in discussione. Il conio di nuove etichette (“nativi digitali” e “BYOD” sono solo due tra i tanti esempi possibili) testimonia la normalizzazione di un evento e quindi l’abbassamento del livello di guardia rispetto alle dinamiche così denominate. Ci sono parecchi impliciti problematici che restano non evidenti alla maggior parte delle persone che si prendono la responsabilità di assecondare questo fenomeno, docenti e loro responsabili inclusi: questa è un’altra strada di indagine che, come redazione di GalinaNova, ci proponiamo di percorrere, anche se non in questo numero.
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Ratificare e, oltre, sospingere i piccoli e i giovani al contatto con questi strumenti che fanno dell’interattività la loro carta vincente, vuol dire legittimarli ad una fruizione di risorse in continua evoluzione. I software e le applicazioni si aggiornano con una frequenza entusiasmante, vengono resi disponibili gratuitamente contenuti e strumenti fino a poco tempo fa accessibili solo ai professionisti della multimedialità. Le banche dati si espandono e risultano sempre più attendibili le informazioni che contengono. Il flusso di informazioni e stimoli che garantisce la formazione di un giovane può essere fruito con soluzione di continuità tra ambiente scolastico e domestico, potenzialità ribadita dalla metodologia della flipped classroom, ad esempio. L’accesso ad internet, di fatto, è il presupposto a cui non si può rinunciare: senza quello, viene a meno la possibilità di accedere a piattaforme, MOODLEs, files nei clouds ecc. Favorendo la familiarità con le TIC, necessariamente facciamo in modo che i più piccoli aumentino i loro contatti con la Rete; con tutta la Rete, date le sue caratteristiche di policentrismo, pluriversismo e via discorrendo. Ed eccoci al momento dell’incrocio con alcuni dati, così da avvicinarci tutto ad un tratto all’argomento di questo articolo. Non si può ignorare che buona parte del traffico sulla Rete tratti dati che hanno a che fare con la pornografia. Può piacere o non piacere, ma le stime – pur rimanendo segnate da oscillazioni marcate – sostanziano il fenomeno come degno di nota. Non avendo la possibilità di verificare le percentuali per scegliere quelle più attendibili, scelgo un criterio arbitrario, ma che ritengo possa apportare un contributo “locale” ad una discussione “globale”: le cifre che riporto sono compatibili con i dati portati dai giovani e giovanissimi in carne ed ossa che incontriamo durante i nostri progetti come Giro del Cielo; non parlo solo dei progetti specifici mirati alla sensibilizzazione all’uso corretto dei social media, ma di tutte le situazioni mediate da educatori nelle quali viene affrontato l’argomento, direttamente o indirettamente. Una percentuale recita che il 12% del totale dei siti online sulla rete è a carattere pornografico: 4 milioni e mezzo di siti. Le ricerche sui motori di ricerca sono a carattere pornografico per circa il 25%. Le email scambiate ogni giorno con contenuto pornografico sembrano essere 2 miliardi e mezzo, l’8% del totale; si noti che è un numero che contiene solo i dati relativi alla posta elettronica, non gli scambi su social network. Il 43% degli utenti di internet è fruitore di pornografia online: non si tratta solo di adulti, il dato è sul complesso degli utenti. 8 dei principali 10 siti che gestiscono materiale pornografico appartengono alla medesima società informatica: l’elaborazione dei dati di navigazione degli utenti è processata nel modo più funzionale alla soddisfazione della richiesta in tempo istantaneo. Questi dati, ovviamente, riguardano il mondo del surface web, escludendo i contesti deep e dark. Stringiamo, ora, il campo d’analisi ai giovani (anche se sarebbe corretto parlare di bambini, in alcuni casi): nella fascia tra gli 8 e i 16 anni, la percentuale di utenti che ha visto materiale pornografico online è del 90%. Nella maggior parte dei casi, questi materiali sono stati reperiti senza intenzionalità, soprattutto se si scende come età. Tuttavia, l’età media per la prima ricerca intenzionale di materiale pornografico è di 11 anni. Fa inoltre riflettere il caso di alcune ricerche condotte nel Nord America (USA e Canada) su alcune fasce di età adolescenziale rispetto alle condotte correlate con la fruizione di pornografia online: al di là dei dati emersi, lascia allibiti l’impossibilità dei ricercatori di reperire, in alcune sedi di indagine, gruppi di controllo, cioè ragazzi che non visionassero regolarmente questo tipo di materiale. Fermiamoci qua, per adesso. Come mai il connubio internet-pornografia è così efficace, rendendo il fenomeno risultante dilagante e capace di autoalimentarsi? Come accade quando si analizzano dinamiche presenti nella società su larga scala, l’etichetta di “follia collettiva” non regge, né tantomeno il proclamare una decadenza dei costumi. Quando le proporzioni di un fenomeno aumentano oltre una misura prevedibile, infatti, ci si trova a constatare che quei precisi comportamenti hanno superato le zone più “civilizzate” del nostro cervello e ne hanno raggiunto le zone più profonde, primitive, istintuali. La nostra corteccia cerebrale ci supporta quando vogliamo compiere raffinate operazioni cognitive, portando alcuni individui per tutta la specie ad ottenere benefici (il progresso) spesso impensabili dalla generazione precedente, come nel caso delle scienze applicate; tuttavia, possiamo con certezza dire che l’essere umano compie la maggior parte delle scelte delle sue giornate fidandosi di una pre-logica, esito di processi insediati nelle zone più antiche del sistema nervoso. Il successo della pornografia online (che presto verrà rinnovata dalla “realtà aumentata” o virtuale) non è dovuto a particolari meriti di chi ne gestisce il business, bensì al fatto che siamo programmati per cadere in quella specifica tentazione. Nonostante i termini sembrino evocare l’eterna corruttibilità dell’uomo e altre visioni votate al pessimismo o alla misantropia, non è di questo che si parla – non è un articolo scientifico, ma nemmeno un sermone. Studi clinici rivelano che l’attivazione del Reward System – traduciamo con “circuito della ricompensa” – del nostro encefalo è decisiva quando si tratta di gestire alcuni compiti primari per la sopravvivenza, tra i quali l’alimentazione, il costruire legami e la riproduzione. La soddisfazione di un bisogno ascrivibile a questi ambiti porta a percepire una gratificazione diffusa, un benessere generale. Mangiamo e la nostra coscienza antica di predatori si tranquillizza; può però accadere che, di fronte ad una frustrazione che con la fame non è collegata, ricordandoci dell’effetto calmante del cibo ingeriamo alimenti per attivarlo. Se è chiaro questo meccanismo, immagino che abbiate trovato negli ultimi secondi altri esempi di questo genere di attivazione forzata del Reward System durante le nostre giornate. Anche per l’ambito dell’attività sessuale le cose funzionano in modo simile o, almeno, per quanto riguarda il cervello maschile. Senza cadere nella banalità delle diffuse rappresentazioni machiste, i ricercatori che hanno descritto l’effetto Coolidge si sono rassegnati a trovare riscontri dai dati per differenze di condotte molto rilevanti tra maschi e femmine. L’uomo – il maschio - non ha avuto sufficienti millenni per riprogrammare la genetica che guida lo sviluppo delle strutture cerebrali: se ragioniamo in termini evoluzionistici assoluti, ci siamo emancipati dagli altri rappresentanti del regno animale in realtà da un tempo minimo. Condividiamo con gli animali molti percorsi istintuali, tra i quali quelli che ci dispongono a rendere massime le opportunità di garantire la sopravvivenza della specie. L’effetto Coolidge ci dice che il maschio cerca di replicare la propria specie tramite il rapporto sessuale completo con una compagna; dopo un rapporto dall’esito ottimale, comincia il periodo della gestazione, durante il quale, sempre nell’ottica del tentativo di massimizzare le possibilità di sopravvivenza della specie, non ha senso che il maschio dedichi nuovi tentativi di accoppiamento a quella compagna. Si crea così una sorta di cambio di marcia tra l’individuo di genere maschile e quello di genere femminile, una diversità concretizzata in un tempo di 9 mesi completi, periodo utilizzabile dal maschio per accoppiarsi con nuove femmine, dalla femmina per portare a termine la gravidanza.
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La donna può portare avanti regolarmente la propria attività sessuale anche in questi 9 mesi senza correlazione con la nascita di nuovi individui. L’individuo di sesso maschile, invece, ha la possibilità di contribuire 365 giorni all’anno alla sopravvivenza della specie. Campi di studio della storia dei sistemi sociali umani, come ad esempio l’antropologia, ci mostrano come sono molteplici i dispositivi morali di controllo e sanzionatori che le Civiltà hanno adottato per sublimare e controllare questa programmazione naturale: si tratta di misure opportune ogni volta che si esce dalla dimensione tribale, dove ogni spinta alla sopravvivenza dell’individuo e della specie è prioritaria. Eppure, visti i tempi lentissimi di modifica del nostro sistema nervoso, siamo ancora segnati dalla stessa programmazione. È questa disposizione a massimizzare le possibilità di perpetrare la sopravvivenza della specie che assicura il successo alla pornografia on-line. Centinaia di possibili partner ad ogni sessione di navigazione – molte di più di quante un essere umano 1.0 potesse mai sperare di avere in una intera vita. In più, la possibilità di scegliere le prestazioni di volta in volta più coinvolgenti, nonché quella di passare istantaneamente ad altre offerte qualora quelle del momento non soddisfino. Tutto nella dimensione della virtualità, senza necessità di corteggiamenti, preliminari o premure post-vendita. Tutto, eppure, con lo stesso cervello da poco più che primati che ci caratterizza da millenni, sostanzialmente immutato. Come era prevedibile, gli studi hanno evidenziato che le partner sullo schermo sono capaci di attivare nello spettatore gli stessi percorsi cerebrali di quelle reali. E’ bene tenere presente che il materiale pornografico dei nostri anni è ben più coinvolgente ed accattivante di un prodotto in pellicola di un ventennio fa: l’industria della pornografia ha diversificato le offerte e, grazie ai dati sulla navigazione ricevuti e rielaborati in tempo reale, le è possibile rielaborare l’offerta in tempi brevissimi (proprio come per certi brand di produzione di abbigliamento è possibile orientare istantaneamente le proprie linee di produzione sui dati dei codici a barre dei capi di vestiario acquistati nei diversi punti vendita della propria catena). Ad ogni comparsa di una nuova partner virtuale, il nostro cervello rilascia grandi quantità di dopamina, uno dei neurotrasmettitori più potenti che il nostro corpo abbia a disposizione, proprio come avviene (si vedano gli accenni al circuito della ricompensa poco sopra) quando ci accostiamo a cibo buono, acqua, sostanze stupefacenti o, in misura minore, ad altri stimoli, come la musica. La caratteristica più attivante di una sequenza pornografica non è il fatto che ci siano corpi nudi, né l’atto particolare messo in scena, bensì la novità: questa novità è riconducibile, come dicevamo, alla necessità ancestrale di moltiplicare le possibilità di garantire la sopravvivenza della propria specie. La frequenza alta di questo tipo di sollecitazioni ha però una ripercussione davvero importante: promuove l’accumulo della proteina delta-FosB. Non è molto tempo che questa proteina viene studiata. Scelgo di introdurla in questo percorso con le parole di Wendy Suzuki, docente di Neuroscienze e Psicologia alla New York University.
Si è scoperto che droghe come la cocaina influenzano l’espressione di molti geni diversi all’interno del nucleo accumbens, e uno di questi geni esprime una proteina che tutti abbiamo nel cervello, la cosiddetta delta-FosB. Ad ogni assunzione di cocaina si ottiene un accumulo di delta-FosB nelle cellule del nucleo accumbens che permane per sei-otto settimane, e che aumenta ogni volta che la cocaina viene assunta. Ci sono prove secondo cui l’accumulo di delta-FosB sarebbe il vero “interruttore” che attiva il comportamento di dipendenza. Per esempio, il semplice aumento dei livelli di delta-FosB nel solo nucleo accumbens senza alcun precedente trattamento con stupefacenti fa sì che i ratti inizino ad assumere più droga rispetto ai ratti del campione di controllo. Si ritiene che questo sia un “interruttore” molecolare che mantiene attivo il comportamento di dipendenza anche quando non c’è droga a disposizione. È per questo che spesso chi smette di drogarsi si rivolge ad altri comportamenti di dipendenza, perché i suoi percorsi neurali sono stati alterati. La stessa proteina sembra essere coinvolta anche nel ricablaggio del cervello che si verifica con una dipendenza a lungo termine. Happy brain, Wendy Suzuki Studiata inizialmente nei casi di dipendenza da sostanze stupefacenti, la proteina delta-FosB si è notata anche nei processi di assuefazione e dipendenza rispetto alla fruizione di materiale pornografico online. L’accumulo in alcune zone del cervello – stimolato da picchi intensi e frequenti di dopamina – porta a modifiche delle strutture neurali stesse. La prima conseguenza è quella di una desensibilizzazione rispetto allo stimolo stesso: lo stesso materiale che prima sembrava estremamente coinvolgente e provocante, dopo breve tempo non lo è più. Men che meno, tra l’altro, risulta provocante la versione autentica dell’attività sessuale, quella che avviene nella vita reale, molto più contaminata da distrattori ed inconvenienti. Tutto questo comporta l’esigenza di “aumentare le dosi”, sia come quantità (rendere più frequenti le visioni e moltiplicare il numero di partner) che come qualità (assistere a pratiche correlate all’accoppiamento che siano in qualche modo inedite). La seconda conseguenza è che, contemporaneamente, c’è una sensibilizzazione spinta: quel preciso tipo di stimolo viene percepito come l’unico così potente – ed è così, visto che lentamente il cervello si specializza per privilegiarlo rispetto a tutti gli altri. La pornografia diventa di fatto l’unico stimolo che viene percepito come realmente eccitante, relegando tutti gli altri nella nebbia della noia. L’argomento “attività sessuale” viene rimappato nel nostro cervello, creando un’interferenza tra la sessualità come la si intendeva prima del bombardamento visivo multimediale e quella mediata da un dispositivo. Ammettiamo che il discorso non è nuovo, se si considera che l’industria della produzione cinematografica a luci rosse è febbrilmente attiva da decenni. Quello che rappresenta una novità non è tanto la comparsa di un nuovo tipo di materiale – sebbene ci siano stati cambiamenti anche in questo, prodotti dal feedback dei fruitori – quanto di una nuova disponibilità di fruizione, segnata dalla vastità del repertorio di scelta, da una quasi coincidenza tra il momento della scelta di iniziare una visione e il momento della visione stessa, dalla raggiungibilità completa del materiale. Questo processo, qualora non fosse preoccupante a sufficienza per le caratteristiche fin qui riportate, è reso problematico da ulteriori fattori. La proteina DeltaFosB permane per tempi lunghi nel tessuto nervoso dove compare: di per sé la proteolisi (cioè la degradazione delle proteine da parte del nostro organismo) è già un processo abbastanza complesso, ma per alcune varianti lo è maggiormente. L’accumulo è certo, nel caso di una fruizione consistente di pornografia online. Ora ritorniamo ad una questione di pochi paragrafi fa: un numero veramente considerevole di utenti giovani e giovanissimi della Rete accede a contenuti pornografici. Che cosa succede al loro cervello, se sottoposto al condizionamento appena illustrato? Un conto è parlare del cervello di un adulto, formato, specializzato in alcuni ambiti, che è presumibilmente funzionale nel compensare le nostre fragilità con le nostre abilità. Altra cosa, invece, è ragionare su una struttura ancora segnata da un’alta plasticità, da una definizione ancora in atto della “mappa generale”. Per confrontare le due casistiche rispetto all’argomento della fruizione della pornografia online, basta considerare che l’adulto assiste ad una rappresentazione alternativa di un atto che ha sperimentato nella realtà: se tutto va come deve, l’atto assistito virtualmente è meno ricco di quello reale, così che il cervello mantiene una preferenza per l’opzione autentica.
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Ci possono essere interferenze, ma comunque esiste una mappa sulla sessualità fisicamente vissuta, tra le sinapsi. Certamente, una pseudosessualità virtuale emenda l’atto da tutte le componenti che, se gli garantiscono una valenza significativa ed irripetibile e quindi lo rendono tra le attività relazionali più rilevanti per una persona, tuttavia possono anche essere fonte di incomprensioni, vergogna o anche semplicemente di problemi di logistica (reperibilità di un/una partner). Può accadere, quindi, che la scelta porti un adulto a risolvere la questione della propria sessualità online, soprattutto nelle situazione in cui concorrono stress e insoddisfazioni: l’assuefazione o, se si vuole evitare un termine che negli scorsi decenni è stato reso impreciso dalle campagne goffe e approssimative rispetto alle sostanze illegali, l’avvio e il consolidamento di una neuroplasticità che diventa incontrollabile, può colpire gli adulti. Per averne conferme, basta digitare su un motore di ricerca termini che abbiano a che fare con porn+addiction+help: esistono comunità di auto-aiuto che hanno esordito anche una decina di anni fa, offrendo accompagnamento sia online che attraverso sedute individuali o, forse più spesso, di gruppo, ricalcando di fatto approcci terapeutici comuni per le persone con problemi rispetto ad altre più note sostanze. Come è possibile una “intossicazione”, altrettanto si conoscono strade per la disintossicazione: sono percorsi che vanno calibrati sulla persona specifica ma, generalizzando, si ragiona in termini di mesi, per un riequilibrio completo, che permetta cioè alla persona di tornare ad affrontare la propria vita senza il condizionamento opprimente della ricerca delle esperienze delle quali stiamo parlando. Se consideriamo preadolescenti o adolescenti, ci si riferisce a persone per le quali è ben probabile che le esperienze complete reali rispetto alla sessualità siano inesistenti, o comunque non sufficienti ad avere una consapevolezza definita a sufficienza per poter dire di “essere orientati” rispetto alla questione. Se a questa incompletezza si aggiunge la componente della pornografia online – come quasi sicuramente avviene, secondo i dati solo superficialmente presentati poco fa - la sessualità assume nel suo cervello, come unica versione, quella informata da flussi audio e video. Quella è LA sessualità. A questo punto, si presentano almeno due implicazioni importanti, che di fatto si alimentano reciprocamente, rendendo ambigui i loro connotati. La prima - maggiormente culturale – è che l’immaginario ascritto alla sessualità viene forzato, assecondando le imposizioni dei gestori dei siti per adulti e, a monte, dei produttori stessi del materiale video. In questo modo, l’atto sessuale viene messo in primo piano eppure, al contempo, svalorizzato attraverso una standardizzazione che investe i corpi, i movimenti, le fasi e i rapporti di potere tra le persone coinvolte (anche se, per correttezza, trattandosi di attori, la dicitura puntuale richiederebbe di parlare di “persone rappresentate”). La seconda, che sommariamente si potrebbe definire psico-fisica, chiama in causa l’avvio dei processi che portano alla dipendenza già illustrati, con alcune aggravanti. Quelle che possono essere in questo caso considerate aggravanti, di per sé non sono altro che processi comuni evolutivamente fondamentali: la spiccata neuroplasticità e il pruning sinaptico. Il cervello di un adolescente ha, cioè, una forte capacità tanto di modificarsi verso la complessità (aumentando di dimensioni ma soprattutto nel numero di connessioni tra i neuroni) quanto di eliminare le connessioni quiescenti, le quali si dimostrano non utili all’esperienza vitale di quel particolare essere umano eppure capaci di occupare il poco spazio prezioso dentro la scatola cranica. Si sono etichettati questi processi come “aggravanti” specifiche rispetto alla dipendenza dalla pornografia online: nei cervelli di adolescenti e preadolescenti, pronti per natura ad elaborare e sovraelaborare ogni input esperienziale, una esposizione frequente all’input pornografico garantisce un attecchimento più sicuro di quanto non avvenga per un cervello adulto. Contemporaneamente, rischiano di essere tolte di mezzo le “mappe sane” della sessualità, ovvero quelle che ogni persona si crea in base alle proprie personali esperienze – positive o no che siano, ma sempre profondamente motivate. Posti in luce questi aspetti, dovrebbe essere ora evidente come risulti ben più problematica, rispetto a questa fascia di età, la strada della disintossicazione. Di fatto, non si tratta più di eliminare una modalità disturbante di un complesso di processi (la sessualità) da ripristinare, tolta la quale si può recuperare uno stadio preesistente. Nel caso dei giovanissimi, se si toglie la mappa della sessualità segnata dalla dipendenza, può non rimanere più nulla: si tratta di costruire in toto la sessualità della persona. Il raggiungimento di una dimensione di sessualità che sia opportunamente coniugata con l’affettività, con l’apertura cioè a se stesso e all’altro, rimane uno degli obiettivi più difficili da raggiungere per un essere umano, con le molteplici implicazioni che ne derivano. Un adolescente che si renda conto di essere stato condizionato da condotte pericolose per il suo equilibrio, magari dopo un primo approccio di accoglienza e cura, è ancora più a rischio di sentirsi fragile e insicuro, di continuare a vivere la questione della sessualità con senso di colpa, disorientamento e malessere. Gli studi sui giovani che hanno vissuto questa esperienza di dipendenza chiariscono che il tempo per decretare il successo di un intervento di recupero per soggetti in età giovanile è sensibilmente più lungo di quello necessario per gli adulti. I risultati sono però incoraggianti per quanto riguarda il benessere complessivo recuperato dai soggetti: una volta tolta di mezzo la pratica compulsiva, in molti casi migliorano di molto le prestazioni cognitive e psicofisiche generali della persona, in particolare si hanno miglioramenti nella gestione dell’ansia, nel rendimento della memoria, nella concentrazione e nell’attenzione. Nel contesto scolastico, si è notato addirittura la scomparsa di sintomi che originariamente erano stati imputati a disturbi specifici dell’apprendimento o della condotta. La mente, funzionando globalmente, lavora con una mappa che sovraintende ai flussi ormonali, ai livelli di testosterone e di cortisolo: tradotto in sensazioni vitali, ne vengono influenzati umore, aspettative, frustrazioni, paure, predisposizione alle sfide e tutto ciò che si smuove a livello conscio, inconscio o – sfera molto misconosciuta perché ambigua – di presentimento. Un cambiamento in una zona apparentemente molto specializzata della nostra mappa cerebrale, tanto specializzata da essere considerata funzionalmente isolata dalle altre, può portare a miglioramenti a catena in molti altri ambiti della vita di una persona. Nel numero precedente di questa rivista abbiamo colto l’occasione per condividere alcune riflessioni sui cambiamenti più o meno consapevoli che la tecnologia ha introdotto e sta continuando ad introdurre nella nostra vita. Rileggendo quelle pagine, non ci è sembrato di essere giunti a conclusioni apocalittiche, votate ad un pessimismo terrorizzante: pensiamo di esserci mossi con l’intento di guadagnarci cautela e consapevolezze. Era rimasto in sospeso, secondo noi, il tentativo di addentrarci – con il medesimo atteggiamento – in un discorso sulla sessualità forse ancora costretto da millenari tabù, eppure così intimamente connesso con la nostra gestione delle nuove tecnologie. La lezione è sempre la stessa: quando si introduce una novità, solitamente accade qualcosa di nuovo, senza che sia dato a nessuno il privilegio di ritenersi certi delle conseguenze. Continuiamo a muoverci perchè gli adulti che intercettano a diverso titolo i bambini e i giovani trovino un opportuno equilibrio tra l’ottimismo leggero (capace di trasmettere fiducia nel mondo) e una riflessività tempestiva (che permetta di accorgersi del superamento della soglia della gestibilità delle dinamiche che li circondano): ancora più se si tratta di fenomeni pervasivi della vita delle persone – e l’innovazione tecnologica ha questa caratteristica – non si può pensare che siano solo gli specialisti (insegnanti, educatori, terapeuti...) ad occuparsi della crescita sensata degli adulti di domani.
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