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NATIVITA’ DIGITALE
l a n u o v a p u ò f a r e tutto il resto
FEBBRAIO 2016 NUMERO SECONDO
Studi, riflessioni, vuoti e paure dell’educare e del vivere immersi nella tecnologia
LE CRISI DEL PRESENTE CONTINUO APPUNTI PER UN’EDUCAZIONE ANALOGICA NEL PRESENTE DIGITALE L’ILLUSIONE DEI SOCIAL MEDIA
liberamente edito da Giro del Cielo, SCS, Via Wybicki 12B_ 42122 _ Reggio Emilia
S E C ON D O
coop. sociale
n u m e r o
GalinaNova
giro del cielo Si tratta di una cooperativa attiva, in questa forma, da un paio d’anni: in altra forma, lavoriamo a Reggio Emilia e dintorni da 12 anni. Ci occupiamo di educativa, con tutte le tangenze e il lavoro di rete del caso. Bambini, ragazzi, famiglie: con questi tre termini, nelle loro variazioni sociologiche più disparate, ritroviamo i gruppi di persone con cui lavoriamo. La sede, situata in un ex-negozio sotto i portici di via Wybicki, segna il nostro posizionamento reale e ideale rispetto alle persone, ricordandoci che la sfida maggiore, oggi, è quella di incontrare l’altro come è e non come vorresti che fosse - grande o piccolo che sia. Negli anni ci siamo confrontati con alcune delle maggiori lezioni pedagogiche disponibili. Quando si scrive “maggiori”, ci si può riferire ad aspetti positivi, ma non solo. Si può essere maggiori per ingombro, portata utopistica, universalità, scientificità, durata della “fase normale”, autorevolezza... non è facile nè garanzia di efficacia, essere “maggiori”. Nel nostro caso, stiamo concedendoci una riflessiva permanenza nelle file dei “minori”: dobbiamo essere cauti nel muoverci, senza troppa baldanza di certezze, perchè sappiamo che ci muoviamo insieme alle persone delle quali ci occupiamo. Le persone, si sa, necessitano di tutta la delicatezza che comporta il farsi carico dell’occasione di vivere una vita: per i piccoli, altra ancora ce ne vuole, perchè è una vita che si fonda. Portiamo avanti diversi progetti, e passandoli in rassegna - doposcuola, interventi su bisogni educativi specifici, prossimità individuale, campi estivi, progetti di cittadinanza, formazione civile, discussioni di gruppo, supervisioni scolastiche, educativa di strada... - si noti, per favore, che non c’è nulla che non sia già stato fatto da altri. Eppure siamo così orgogliosi lo stesso, perchè quella è solo la struttura, quell’organizzazione che ci permette l’unica cosa veramente imprescindibile nel dare un senso alla nostra esistenza professionale: incontrare l’altro e scoprire il modo di rendere la nostra strada degna di essere percorsa.
GalinaNova è, per la nostra Cooperativa, lo spazio-tempo in cui dedicarsi alla cura del pensiero, trovando anche per esso una sede per essere archiviato e ripreso, così che ci supporti nel nostro operato di cura e nella nostra dignità di persone. Questo pensiero - messo in parole, rivisto, aggiornato, criticato... - testimonia la responsabilità che sentiamo verso la formazione (di noi operatori tanto quanto di quelli che incontriamo nei nostri percorsi). Ci affidiamo volentieri al confronto con altri professionisti dei quali abbiamo apprezzato la serietà, le competenze e, forse più del resto, l’attitudine empatica e rispettosa alla conoscenza autentica delle persone.
Fiorello Ghiretti, psicologo, ci ha accompagnato in un’indagine della quale abbiamo sentito l’autenticità in ogni momento. Ci ha suggerito l’analisi dei testi recenti di Douglas Rushkoff che, con le sue riflessioni capaci di sezionare il Nostro Tempo, ha causato in noi una una reazione a catena: molti pensieri - e forse anche preoccupazioni - covavano sotto la cenere da molto. Proviamo ora a guardarli qui, distesi su queste pagine: li regaliamo a chi sta cercando qualcosa di simile, ma anche a chi, in un presentimento lento, ancora non ha messo a fuoco la propria posizione rispetto alle nuove tecnologie. Riccardo Pinotti, responsabile dell’area di prossimità del GdC e antropologo, ha dato il suo ricco contributo per ampliare il quadro, con il suo saggio sulle illusioni dei social media, qui riportato integralmente: ben più che un articolo da rivista.
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in quest o n u mer o p. 04 _ un editoriale p. 06 _ l’ORA di Douglas Rushkoff
p. 12
_ l’illusione dei social media
p. 28 _ meccanizzazioni del tempo presente p. 30 _ Heisenberg, il walkman, gli avatar e noi
_ appunti per un’educazione analogica nel presente digitale
p. 36
p. 44_ breve bibliografia ragionata p. 48_ crisifiliaci p. 50_ esperti? voi?!
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l’editoriale
di Matteo Muratori
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ggi non è un problema parlare di nuove tecnologie: il soggetto del discorso è abbondantemente noto ad ogni fascia reddituale sociale confessionale e quant’altro che compongono la porzione di società occidentale nella quale ci muoviamo. Le nuove tecnologie sono democratiche, talmente alla portata delle nostre possibilità economiche o dei nostri sogni da farci sentire tutti sincronizzati in un nuovo modo di comunicare, di lavorare, di studiare, in tutto orgogliosi di sentirci esseri umani sensibilmente più avanzati rispetto a
poche manciate di anni fa. “Nuova tecnologia” di per sé è un sintagma tautologico: quel “nuova” è s o v r a b b o n d a n t e se accostato a “tecnologia”, non aggiunge nulla. Ogni strumento tecnologico che utilizziamo nelle nostre dense giornate e che sicuramente abbiamo a nostra disposizione in un raggio di due metri mentre stiamo leggendo queste righe, è inedito nella storia umana, se non completamente, almeno in alcune funzioni.
Potendo fare meglio un compito, ci affidiamo a dispositivi che possano garantirci questo risultato. È la storia di sempre dell’essere umano, e anche quella di un cervello con una crescita limitata, che si accartoccia in circonvoluzioni, solchi e scissure, ma costretto a combattere con il tempo dell’evoluzione del cranio. Negli ultimi decenni abbiamo visto l’esternalizzazione dei servizi da parte di istituzioni e aziende, secondo la constatazione che in alcuni casi sia più redditizio affidare le nostre competenze all’esterno, a qualcuno che possa fare meglio e più in fretta, permettendoci di avere tempo e risorse per dedicarci ad altro che sia, secondo noi, strategicamente più opportuno. C’è chi guarda questo processo con sospetto, ancora oggi. C’è ben poco di innovativo, a ben vedere: abbiamo creato e applicato innumerevoli volte questa strategia da qualche decina di migliaia di anni, proprio per permetterci di superare i vincoli del nostro corpo, prima dell’apparato tegumentario, poi dei sistemi scheletrico e muscolare, poi di quello nervoso – sfida, quest’ultima, che nell’ultima porzione storica ha rappresentato la frontiera.
Gli strumenti sono già tecnologia, tutto ciò che è estraneo al corpo umano ma interagisce con esso con uno scopo è tecnologia. Gli studiosi di estetica sentirono l’urgenza di farlo presente quando videro irrompere tra i sacri canoni della creazione artistica proprio la diffusione massiva dell’oggetto d’arte data dalle “nuove” tecnologie di quegli anni. Furono loro, trovandosi in quella situazione, a creare il concetto di “ ” (Lucien Goldmann, 1964) che diventò imprescindibile per le analisi successive: conviene stabilire tra
omologia
i fatti culturali e gli artefatti materiali – o in termini più generali, tra cultura e tecnologia – una pariteticità funzionale, un rapporto basato sul concetto di omologia.
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Semplificando un dibattito accademico pluridecennale, l’essenza di questo discorso è che anche gli “oggetti culturali” sono concepiti e usati dall’uomo in nome della stessa strumentalità che compete a quelli materiali. Più oltre: il progresso umano è dato tanto da fattori materiali quanto da quelli immateriali (innovazioni nella cultura). Precisato questo, si fa un passo indietro: dove l’uomo ha trovato la spinta per questi progressi, fossero materiali o immateriali? La risposta, molto logica, è “nel bisogno e nell’insoddisfazione”, cioè non trovandosi soddisfatto di un aspetto della sua vita – questo aspetto, si badi bene, è molto variabile: poteva anche essere la vera e propria sopravvivenza, di sé e del proprio nucleo familiare, ma anche la forte deteriorabilità della pittura a secco sulle pareti di una basilica – si dava da fare per creare un d i s p o s i t i v o m a t e r i a l e / i m m a t e r i a l e per migliorare la propria vita. Insoddisfazione. Bisogno. Poi arrivò – almeno nel nostro caro mondo occidentale – il benessere, certo frutto di lotte e patimenti, ma finalmente ottenuto e consolidato. Nel benessere non dovrebbero esserci bisogni: col benessere si ripresenta in modo irresistibile, invece, un’altra – già rodata, ma su scala minore - invenzione umana, quella dell’induzione al bisogno. Nuovi prodotti per una nuova qualità di vita (migliore, ovviamente). Nuovi prodotti che hanno spostato la nostra attenzione su nuovi interessi, prima inesplorati. Nuovi interessi che hanno riaperto facoltà intellettive prima intrappolate a doppia mandata. Nuove catene di desideri-prodotti-desideri che si autoalimentano, alimentando con la tanta energia in esubero soprattutto il marketing.
Ma, almeno all’origine, una “nuova tecnologia” non era frutto di un bisogno? Se è così, possibile che nel giro di in fondo pochi anni ci sia stata un’esplosione dei bisogni, visto il ritmo con cui le innovazioni vengono introdotte? Abbiamo ancora chiaro a quali bisogni rispondono i nuovi strumenti che immaginiamo, creiamo, aspettiamo e adottiamo ogni giorno? C’è il
pericolo che le risposte ai bisogni siano andate più avanti dei bisogni stessi? Per chi si prende per professione l’incarico di preoccuparsi delle persone è stato sempre importante distinguere i bisogni primari (quelli che possiamo ritenere a buona ragione universali) da quelli secondari e ancora di più da quelli indotti. Prendersi cura dei bisogni significa in alcuni casi dare risposte più o meno dirette, in altri casi aiutare a trasformarli in d e s i d e r i o , in una spinta di per sé sana, ricca di vitalità, se orientata da solide basi e tenuta lontana dagli autolesionismi.
La Rete, come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, è nata per es-
sere La Risposta, la soluzione istantanea alle nostre domande – magari, per chi era vissuto senza, rimaste in sospeso per molto tempo – e ai desideri. Ma torna il problema: avendo la possibilità di rispondere a tutto, di veder risolto ogni desiderio, non rischiamo di tralasciare le domande principali? Non rischiamo di vivere sincronizzati alla Rete ma sfasati rispetto al nostro corpo, alle nostre reali prospettive, alle relazioni nelle quali siamo immersi, alla nostra vita così com’è e non come chi orchestra i flussi di desideri indotti vorrebbe fosse? Chi volesse verificare quale sia il proprio personale posizionamento nella questione, se ha costruito il proprio repertorio di esperienza e significati vitali senza essersi affidato alla network
sociality (Manuel Castells, 1996) – cioè chi è nato prima della metà degli anni Novanta – può mettersi alla prova in un time-out, facendo l’esercizio mentale o pratico di concepire la sua esistenza – e soprattutto la sua prospettiva esistenziale – senza le tecnologie degli ultimi 20 anni. Ma chi è nato già nella situazione così come la vediamo configurata oggi, non corre forse il rischio di aver vissuto inconsapevolmente in un ambiente dove la quasi totalità dei suoi bisogni come persona
sono indotti? Ed è qui, probabilmente, la sfida di genitori ed educatori: aiutare i bambini e i ragazzi a capire ed esprimere i propri bisogni fondanti, per poi passare al desiderio e infine trovare i modi per muoversi nella ricerca nel modo più rispettoso degli altri possibile. Con la serena rassegnazione che, quasi sicuramente,
alcuni di questi modi non sono ancora stati inventati:
altre Nuove Tecnologie.
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l’OR A di
Douglas Rushkoff Studio e connessioni sul testo
“PRESENTE CONTINUO - Quando tutto accade ora” di Douglas Rushkoff, ed. it. 2014 Codice Ed., Torino
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di Erica Muratori
Presente Continuo: da qui è partito il nostro studio nei mesi di dicembre e gennaio. È partito, non si è concluso e non ha certo la pretesa di concludersi attraverso questa pubblicazione. Potremmo dire, infatti, che le riflessioni, come la rete del web, si sviluppano a ragnatela più che per elencazione. E in una ragnatela dalla forma così densa e irregolare è ben difficile, per non dire impossibile, che i nodi smettano di generare connessioni e possibili sviluppi. Proviamo di seguito a chiarire gli spunti che questo testo ci ha fornito e da cui sono partite le nostre riflessioni. Il testo è scritto da Douglas Rushkoff, giornalista e sociologo americano. Present Shock è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2013, in Italia nel 2015. Nella prefazione Rushkoff introduce i temi trattati nel libro, inquadrando l’ambito temporale di cui parla il testo: il PRESENTE, un presente diverso dal quello a cui ci siamo abituati – tanto per complicare le cose – nel passato, in continuo cambiamento. Questa mutata condizione non solo riguarda noi ma ancora di più coloro verso cui siamo naturalmente ed inevitabilmente responsabili, ovvero i bambini e i ragazzi.
Nel tempo presente assistiamo a quello che Rushkoff chiama collasso narrativo, ovvero ad una crisi della narratività: quest’ultima è stata una costante di tutta la storia, dall’invenzione della scrittura fino a pochi anni fa. Tutti “i grandi”, nei diversi ambiti e nelle diverse epoche, si sono affidati alla narrazione per trovare la propria strada, per iniziare la propria storia e, successivamente, per raccontarla agli altri. I testi sacri delle grandi religioni, come la Bibbia, sono colmi di grandi narrazioni. Anche le azioni della quotidianità, il sesso, il respiro, la giornata e la vita stessa seguono il ritmo della narrazione, che prevede un inizio, uno svolgimento e una fine. La nostra vita è già programmata secondo questo schema narrativo, schema che abbiamo imparato facilmente e che abbiamo dentro, ci appartiene. Fin dalla nascita le narrazioni orali, scritte, di vita vissuta, hanno accompagnato il nostro cammino creando prospettive e conforto.
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Le storie sono come delle bussole che ci permettono di orientarci rispetto a dove siamo noi, di capire in quale punto dello svolgimento ci troviamo. Anche l’informazione fino a pochi decenni fa rispettava i canoni narrativi, raccontava delle storie che avevano la duplice funzione di informare e di rassicurare il pubblico. Allo stesso modo le pubblicità erano strutturate come delle piccole storie. Con l’arrivo delle nuove tecnologie questa forma narrativa è cambiata. Per cominciare, oggi possono raccontare. Se pensiamo alla nostra infanzia non tutti avevano la possibilità e gli strumenti per raccontare: solo qualcuno, per le sue caratteristiche non comuni, speciali, aveva il ruolo dell’oratore/narratore.
tutti
Oggi, invece, Internet consente a c h i u n q u e di esprimersi davanti ad un pubblico tanto vasto quanto indefinito, e di farlo su qualunque argomento. Questo grande cambiamento nel modo di raccontare non è rimasto circoscritto alla rete ma ha modificato anche i programmi televisivi e il modo di relazionarsi e di esporsi delle persone. Ad esempio, oggi esistono tantissimi canali di informazione e quindi molteplici narrazioni che si contraddicono tra loro; non esiste più un’unica narrazione che siamo certi di poter prendere per vera.
Un altro cambiamento importante riguarda i contenuti: narrare in passato voleva dire selezionare a l c u n i tra diversi contenuti, ren-
dendoli così significativi. L’intento comunicativo era sempre rintracciabile e prima di compromettersi di fronte ad un pubblico ci si pensava molto bene. Al contrario, oggi i video su Youtube comunicano rispetto a qualcosa cosa su cui molto spesso non vale la pena di comunicare. L’intento non sembra essere tanto quello di trasmettere qualcosa di significativo a qualcuno, quanto semplicemente quello di mettersi in mostra, di ricevere tanti commenti, non importa se positivi o negativi. Quello, insomma, di essere visibile. Scorrendo i commenti di questi video la maggior parte sono negativi e chi commenta non articola, non comunica, ma scrive frasi a raffica, ripetute molte volte. La forma di narratività che fino a pochi decenni fa trovavamo in TV, nella pubblicità e nell’informazione in generale ci aveva abituato alla passività. Abbiamo invece, oggi, l’interattività: il telecomando ci permette di scegliere tra un numero sempre maggiore di canali (con il risultato che spesso passiamo da uno all’altro senza mai guardare un programma per intero), Internet, il fatto di potere fruire dei dati in streaming o scaricare ciò che vogliamo vedere, la TV on demand… Tutte queste possibilità hanno reso l’utente non più passivo ma interattivo. I generi televisivi di moda sono cambiati e si prediligono quelli in cui viene esaltata la prontezza critica dello spettatore. Non vediamo più, ad esempio, i video clip musicali, ma due persone sedute su un divano che li commentano. Altri generi che vanno per la maggiore sono le parodie, i video di recensione e i reality show, ovvero quelli in cui lo spettatore viene “elevato” al ruolo di commentatore, in cui ognuno ha qualcosa da dire su qualunque argomento, in cui tutti sono “esperti” di tutto. Il sistema dei commenti dei video non è fatto per dare un feedback agli autori, non importa cosa si scrive, ciò che importa ai padri di YouTube è che si scriva, che ci sia traffico. Mentre in passato la critica, la satira e le parodie erano rivolte a chi aveva il potere da parte di chi lo subiva, oggi questi generi si sono allargati fino ad arrivare a criticare chiunque - da parte di chiunque. L’esigenza di mettersi in mostra sembra il motore che muove anche molti sport che hanno avuto una grandissima diffusione negli ultimi anni. Per sport come snowboard, parkour, planking… lo scopo principale non è arrivare ad un epilogo (la vittoria) come accade per gli sport tradizionali, bensì quello di mostrare la propria abilità o, semplicemente, mostrarsi.
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Lo stesso tipo di cambiamento si può notare nei videogames. Rushkoff cita la teoria dei giochi infiniti di James Carse, che nonostante sia stata formulata prima dei moderni social games, ha previsto il passaggio dai giochi finiti, ovvero quelli che hanno una fine, uno scopo, dei vinti e dei vincitori a quelli infiniti, ovvero quelli in cui non c’è un traguardo, in cui le regole cambiano in fieri e lo scopo è quello di cercare di tenere vivo il gioco stesso. Negli ultimi anni sono sempre più diffusi giochi di questo secondo tipo, come i social games (in cui i partecipanti giocano insieme anche se ognuno davanti al proprio pc a km di distanza l’uno dall’altro) e i role-play games, in cui ci si immedesima nei personaggi del gioco. Rushkoff racconta di un episodio in cui ha sperimentato su di sé le potenzialità positive della tecnologia in ambito terapeutico: il terapeuta attraverso una simulazione gli ha permesso di rivivere un incidente d’auto, aiutandolo a rielaborare il trauma e nello stesso tempo ad immedesimandosi in prima persona nella situazione vissuta da Rushkoff. Tuttavia, l’autore mette prontamente in guardia rispetto ai rischi causati dalla possibilità di es-
sere, almeno virtualmente, in più posti contemporaneamente, introducendo così il tema di un altro grande shock del presente:
la digifrenia.
Douglas Rushkoff
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Il sovraccarico di stimoli e di interruzioni ci porta a pensare di dover tenere il passo con un ritmo insostenibile per non perdere il contatto con il presente. Ovunque ci troviamo siamo bombardati da messaggi e i nostri dispositivi sono più veloci di noi. Abbiamo persino applicazioni, come My Life, che usiamo per controllare la nostra vita - sanno meglio di noi, pare, cosa dobbiamo fare. Controlliamo la nostra vita attraverso questi programmi ma rischiamo di perdere di vista la vita reale. Noi educatori rischiamo di rincorrere elementi del presente continuo, cose da sbrigare, urgenze o presunte tali, anche quando siamo con i ragazzi, perdendo di vista l’umano che abbiamo davanti. Un esempio sono le promesse non mantenute: “Questa cosa la faremo, appena ci sarà tempo” e poi il tempo non arriva mai perché ci sono sempre troppe cose da fare. Questo tipo di comportamento provoca in noi adulti un senso di colpa più o meno leggero ma nei bambini, esseri umani in fase di crescita, provoca abitudine al fatto che anche una cosa importante si possa non fare e una promessa non mantenere. Nel presente continuo ogni faccenda non sbrigata rimane sulla nostra coscienza come un peso e ci sembra di sentirci tranquilli solo quando la nostra Inbox (0) ci mostra che abbiamo risposto a tutte le richieste che ci erano arrivate. All’estremo opposto c’è il “fare niente” alla Sudbury School. Un’insegnante di questa scuola libertaria, negli Stati Uniti, alla domanda “Cosa fa un insegnante alla Sudbury School?” risponde, appunto, “Niente”, spiegando poi che fare niente richiede un lungo apprendimento perché significa imparare a non far fare agli altri, ai ragazzi, quello che si vorrebbe facessero e a saper aspettare e rispettare i loro tempi.
digifrenia
Rushkoff definisce (dove digi sta per digitale e frenia per disordine dell’attività mentale) la tensione costante tra la richie-
sta del presente continuo, del falso ”adesso” digitale e la vita reale, l’”adesso” autentico, umano. È un conflitto sensoriale, smile a quello che proviamo quando viaggiamo in macchina e cerchiamo di leggere: alcuni sensi percepiscono che siamo fermi, altri ci dicono che ci stiamo muovendo a gran velocità. Il presente continuo va troppo veloce rispetto a come “andiamo” biologicamente. Rushkoff cita gli studi di Steven Johnson, secondo cui le grandi idee non nascono da illuminazioni improvvise ma da lunghi periodi di incubazione. Per questo Johnson chiama queste idee p re s e n t i m e n t i l e n t i . Questo accade tanto nella storia quanto nella nostra vita e nel nostro mestiere. Le idee ci mettono tempo per maturare e le intuizioni di un momento sono il frutto di meno sensibili precedenti elucubrazioni. Per questo è importante essere attenti al tempo della riflessione e dello studio, staccandosi dal fare troppo: non possiamo tralasciare la parte ideativa. È vero che sbrigare le urgenze toglie problemi sul momento ma seguire per mesi un’intuizione per arrivare al suo compimento può portare frutti più grandi e più importanti. Fare progetti significa caricare il futuro di aspettative e, quindi, di significato. I problemi arrivano nel momento in cui anziché caricare la molla la si sovraccarica, cercando di riassumere riflessioni e studi che richiederebbero tempi lunghi nell’istante presente e di sostituire i progetti con risultati immediati, nel qui e ora. Questa compressione del tempo viene definita da Rushkoff . Rushkoff cita l’ordine di civilizzazione di Stewart Brand, che individua diverse scale temporali che si muovono a velocità diverse e sono presenti contemporaneamente nella nostra società, come una serie di cerchi concentrici. All’interno del cerchio c’è il livello che si muove più lentamente: la natura, o tempo geologico. Mano a mano che ci spostiamo verso l’esterno del cerchio e aumentiamo la velocità, troviamo le culture, che possono durare per millenni, poi i governi, le infrastrutture, il commercio e, infine, la moda: l’anello più esterno in cui stili e capricci devono essere in evoluzione continua.
S OV RAC C A R I C O
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Per Brand la soluzione consiste nell’espandere la nostra comprensione dei livelli più lenti, ad esempio di ciò che sta dietro alla bottiglia di plastica che usiamo e di ciò che accadrà poi, fra qualche anno, se quella bottiglia oggi la gettiamo tra i rifiuti indifferenziati piuttosto che nel contenitore per il riciclo della plastica.
C’è sempre un’alternativa all’urgenza attuale, e non si tratta di prendersi una vacanza, ma di riconoscere una responsabilità più profonda. (S. Brand) Questa responsabilità è individuata da Rushkoff nella consapevolezza che tutto ciò che l’individuo compie nel suo flusso di attività del presente ha in qualche modo un effetto sulla comunità. Non si tratta quindi di scegliere tra il presente e ciò che lo precede, tra hard disk e RAM, ma di collegare questi due aspetti altrettanto importanti, vivendo il presente con una maggiore consapevolezza. Anche questi legami tra persone, tra cause ed effetti possono essere reali o spingersi un po’ troppo oltre nell’immaginazione. Rushkoff riporta l’esempio di una donna che alla radio rivela di aver capito il collegamento tra scie degli areoplani, sostanze chimiche e catastrofi naturali come quella dello tsunami in Giappone, immaginandosi uno scenario da 1984, in cui la stazione di controllo meteorologico HAARP avrebbe la capacità di controllare il tempo meteorologico e provocare terremoti. Cheryl – questa donna - non è l’unica a cercare legami tra eventi che non hanno nessun legame tra loro: Rushkoff chiama la ricerca di collegamenti anche dove non ce ne sono, che spesso porta alla proliferazione delle teorie della cospirazione, come quella della donna che abbiamo citato. Così i frattali, ripetizioni autogenerantisi di immagini sempre uguali, possono al tempo stesso orientare e disorientare. Se ne osserviamo uno ci colpirà la sua bellezza, simile per certi versi ad alcune meraviglie naturali come i coralli, ma nello stesso tempo proveremo una sensazione di vertigine, nel tentativo di trovare una fine a questa ripetizione infinita. Anche in questo caso, la soluzione proposta
frattalnoia
da Rushkoff per non rimanere intrappolati nella rete non ne demonizza né assolutizza le potenzialità: occorre imparare a sfruttare i suoi nodi, gli schemi che ci fornisce per orientarci nello spazio, le opportunità di creare connessioni ma al tempo stesso avere la cautela di chi non pretende di conoscere e di collegare tutto e tutti in un istante.
Il testo di D. Rushkoff nelle due edizioni, originale e italiana
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l’illu si one dei
social media di RICCARDO PINOTTI
Il luogo della falsa vita. Non è facile descrivervi questo luogo, che il Bianco chiama cinema, in modo che voi possiate immaginarlo chiaramente con i vostri occhi”. Il cinema è una capanna, più grande della grande capanna del capo Upolu, molto più grande. E’ buia anche in pieno giorno, così buia che non si può riconoscere neppure chi ci sta accanto. Stretti stretti i Papalagi siedono tutti in fila nel buio, nessuno vede il vicino, la buia capanna è piena di persone in silenzio. Ognuno è seduto sulla sua piccola panca e rivolto verso una parete. Dal fondo di una parete, come dal profondo di un burrone, sale un gran rumore. Proprio davanti alla parete si irradia una luce molto forte, come se sulla parete battesse un fortissimo raggio di luna, e in questa luce si vedono uomini che sembrano e vestono come veri Papalagi, che si muovono e vanno su e giù, camminano, ridono, saltano, proprio come si vede dappertutto in Europa. E’ come il riflesso della luna nella laguna. E’ la luna eppure non lo è. Così anche questo è soltanto un riflesso. Tuttavia, queste persone non sono creature vere. Se si volessero afferrare, ci si accorgerebbe che sono fatte solo di luce e che non si possono prendere. Sono lì soltanto per mostrare al Papalagi le sue gioie e i suoi dolori, le sue follie e le sue debolezze.
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SAMOAN WOMEN, 1910 circa
Mentre gli occhi del Papalagi vedono tutte queste cose liete o orribili, lui se ne deve stare seduto e zitto; non può rimproverare la fanciulla infedele, non può accorrere in aiuto del ricco signore per salvarlo. Ma questo non dà dolore al Papalagi. Resta a guardare ogni cosa con grande volontà, come se non avesse cuore. Non prova nessuno spavento e nessuno orrore. Osserva tutto come se lui stesso fosse una creatura del tutto diversa. Poiché chi sta a guardare è sempre convinto di essere migliore degli uomini che vede nella luce, e che lui non farebbe mai tutte le follie che gli vengono mostrate. Sta zitto, trattiene il respiro e tiene gli occhi attaccati alla parete, e appena vede un cuore valoroso o una nobile immagine, se la prende nel cuore e pensa: “Questa è la mia immagine”. Assorbire dentro di sé queste false immagini, che non hanno una vita reale, è ciò che procura tanto piacere al Papalagi. In questa stanza buia egli può entrare nella falsa vita senza vergogna e senza che gli altri vedano i suoi occhi. Il povero può fare la parte del ricco, il malato quella del sano, il debole quella del forte. Dedicarsi a questa falsa vita è diventata una grande passione del Papalagi, una passione spesso così grande da far dimenticare la sua vita vera. La conseguenza di questa passione è che molti Papalagi che escono dal luogo della falsa vita non sanno poi più distinguere questa dalla vita reale e restano confusi e smarriti, si credono ricchi quando sono poveri, o belli quando sono brutti. Oppure fanno cose orribili, che mai avrebbero fatto nella loro vita reale, ma non sanno più distinguere ciò che è reale da quello che non lo è. E’ uno stato molto simile a quello che noi tutti conosciamo negli europei quando hanno bevuto troppa kava europea e credono di camminare sul mare
13 Der Papalagi, Erich Scheurmann, 1920
l’illusione dei
illusione n. 1 ovvero
L'ILLUSIONE DI Rewind ai primi anni 90...vi ricordate i primi videogiochi da casa? “Please wait. I’m loading”. zzzzzzzz-----zzzzzzzzzzzzzz----zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz “Sorry not found”. Nessun ricordo. Avete cestinato l’informazione? Mmm, non credo, probabilmente si trova al sicuro in una qualche sottocartella di un qualche cloud. Avete fatto caso all’enorme nube grigia che si adagia gentilmente sopra le nostre teste padane, così sovente? Non vi hanno ancora detto al telegiornale che non si tratta di smog?!
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social media
I primi videogiochi erano analogicamente impressi su un nastro riavvolgibile e funzionavano così: una volta inserita la cassetta in un mangianastri, questo provvedeva ad avvolgere e riavvolgere il nastro più volte il quale trasmetteva i dati al computer; le informazioni venivano a loro volta processate dalla macchina e ci venivano restituite sullo schermo sotto forma di audio-video. Il videogioco, appunto. Il processo era per lo più meccanico e in realtà piuttosto semplice nella sua architettura. Chi fa parte della generazione degli anni ‘80 come il sottoscritto, ricorderà molto bene l’idea di rivoluzione che tutto ciò portava con sé: la sala giochi a casa tua! Incredibile, da quel momento non abbiamo fatto altro per diversi anni che racimolare paghette su paghette per poter comprare i nostri videogiochi preferiti. Ricordo che andare al negozio per scegliere era un momento indimenticabile. Sapevamo benissimo che potevamo comprare solo un gioco, però l’entusiasmo nel girovagare tra gli scaffali era sempre altissimo e ogni volta notavamo come pian piano questi nuovi distributori del divertimento stavano via via ampliando la loro offerta. I titoli disponibili crescevano e le riviste specializzate cominciavano a fare il loro corso rendendo i prodotti sempre più accattivanti. Io ero un grande appassionato degli arcade e dei giochi di sport, cercavo assieme a mio padre sempre la sezione apposita e quando si trattava di comprare, ricordo che un elemento molto importante nella scelta era il tempo di caricamento: un valore numerico impresso sul retro della scatola che indicava i minuti di attesa per il lancio del gioco. Dovete sapere che i primi computer erano molto lenti. A casa possedevamo il Commodore 64; far partire un videogioco significava attendere molto tempo, se poi si trattava di caricare altro dal classico platform con schermo fisso... si salvi chi può.
BATTERE IL TEMPO Scelsi Shinobi. Volevo a tutti i costi essere un ninja e non vedevo l’ora di ammazzare tutti. Una missione poco nobile, ma chiara. Il tempo di caricamento era di circa 160’. Quasi 3 ore di attesa, una tremenda lucida agonia. Vi assicuro che nel momento in cui iniziavi il gioco per davvero, non esisteva più niente, gli stimoli esterni erano pressoché azzerati e convogliavi al massimo tutti gli sforzi nella concentrazione della partita. Permettetemi di fare un confronto con i “giorni nostri”. Sono passati 25 anni da quelle lunghe attese e da quelle emozionanti battaglie e ci ritroviamo al giorno d’oggi in una situazione che non saprei bene come definire: opposta forse è sbagliato, probabilmente in un certo senso siamo anche oltre quel concetto. Oggi non aspettiamo più il momento per poterci connettere al gioco, quel tempo di attesa non esiste più e con esso il desiderio di giocare è stato completamente subissato dalla fruizione immediata del prodotto. Il progresso tecnologico ha fatto passi da gigante ed ora viviamo in uno stato di always on. Grazie alla banda larga, a casa o sui cellulari, le applicazioni restano sempre aperte, aggiornate e disponibili in qualsiasi momento. Ogni volta che qualcuno vuole mandarci un messaggio, una email, un tweet, un aggiornamento, un messaggio di notifica o di allerta, ecco qualcosa che squilla sulla scrivania o ci vibra nel taschino. Ne risulta che i nostri dispositivi e, per estensione, il nostro sistema nervoso, sono continuamente collegati all’intero universo online. “E’ mica il mio telefono che sta vibrando?” (sindrome della vibrazione fantasma: sensazione che il proprio telefonino vibri anche non avendolo nel taschino, e che sia sempre il proprio telefonino a vibrare). La faccenda si complica notevolmente perché non solo restiamo sempre connessi, ma siamo anche costantemente presi dal giocare più partite simultaneamente: ecco che subentrano, allora, l’esigenza e l’ansia di “battere il tempo”. Il sociologo e antropologo dei media Douglas Rushkoff, nel suo libro “Programma o sarai programmato”, afferma che facciamo del nostro meglio per tenerci al passo con l’inarrestabile ondata di richieste e comandi in arrivo, in base alla falsa premessa che muovendoci più rapidamente potremo liberarci dall’infinito flusso di notifiche che impone attenzione. In realtà, rispondere alla posta elettronica, ai messaggi testuali, ai tweet, alle chat, non fa che esacerbare il problema, portando ad ulteriori repliche che ci chiedono altre risposte, e così via. Ogni messaggio a cui si risponde innesca ulteriori repliche dalla parte opposta. Più replichiamo in tempi rapidi, più creiamo l’aspettativa che la prossima volta saremo altrettanto veloci. Questo meccanismo è progettato per non avere mai una fine. Personalmente ho notato che se facciamo tanto di disconnetterci un momento, anche per errore o per guasto momentaneo del sistema, ci rendiamo subito conto di come siamo inconsapevoli del fatto che non potremo mai competere con la velocità dei bit con cui i messaggi viaggiano. La nostra ambizione di battere il tempo è un’illusione.
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el momento in cui partiva il countdown per l’inizio della partita l’adrenalina saliva e le mani cominciavano a sudare per la paura di far cadere il joystick o per il timore che altri agenti esterni interrompessero il momento del “semaforo verde”. Ricordo benissimo che trattenevo il respiro perché persino esso era fonte di disturbo in quel momento! Pensavo tra me e me: “Ho atteso quasi 3 ore, finalmente ora tocca a me ed esisto solo io, in quel luogo e per quella missione”. Ogni tanto capitava che miei nonni o i miei genitori mi parlassero mentre giocavo, ma io non davo nessun cenno di risposta alla loro sollecitazione, né tanto meno alla loro presenza. Ero completamente da un’altra parte. La partita ad un certo punto terminava, spegnevo il computer e tornavo alla realtà, la sensazione era forte e mi ci voleva qualche istante per riassettare la mente, quasi come fosse un dispiegamento di ali a terra, l’atterraggio dopo un lungo viaggio fantastico e immaginario. Erano sensazioni strane, ma belle. E rieccoci ai giorni “nostri”. Sono passati 25 anni ed oggi, grazie alla potenza di Internet ed alla banda larga, possiamo effettuare infiniti viaggi immaginari. Bastano una connessione veloce e una manciata di click. Attraverso la rete possiamo essere potenzialmente dappertutto e in pochissimo tempo. Il 21 ottobre 2015 è arrivata realmente la data fino ad allora rappresentata solo sulla fiammante Delorean capace di fare viaggiare nel tempo i protagonisti d i R i t o r n o a l F u t u r o di Zemekis del 1985: eccoci nell’era del teletrasporto, quindi. Associamo quindi lo schermo del computer o del telefonino e gli account dei social network con le più profonde esperienze di vicinanza e di affinità condivise con altri individui e siamo contenti se teniamo una conversazione più o meno di élite su di un qualsiasi blog tematico. Nel frattempo, però, quello che succede nella realtà è che tendiamo a minimizzare quel che accade appena fuori dalla finestra di casa e ci dimentichiamo di salutare le persone quando gli sguardi per qualche motivo si incrociano (dopo aver comunicato con qualcuno in video-chat per giorni o per settimane, la sensazione di guardarsi direttamente negli occhi può rivelarsi soverchiante e sconcertante), o ancora proviamo un forte imbarazzo in ascensore quando siamo a stretto contatto con altre persone, quasi come se la prossimità fisica con qualcun altro sia qualcosa da evitare perché fastidiosa.
Più sembriamo vicini negli spazi digitali, meno sicuri si sentono tanti di noi nei luoghi reali. A cosa serve quindi essere dappertutto, se poi quando usciamo di casa per andare a bere un caffè al bar, o per comprare un giornale o per andare dal dottore, momentaneamente orfani del nostro schermo protettivo, ci sentiamo a disagio e spaesati? Un anno e mezzo fa ho fatto visita insieme a una squadra di colleghi educatori ad una scuola situata in profonda Galizia, dal nome O Pelouro. L’ambito spazio-temporale era alquanto sfuggente: essendo la scuola situata proprio sul confine tra Spagna e Portogallo, delimitato dal fiume locale, il lato est seguiva un’ora diversa dal lato ovest ed era piuttosto difficile capire il susseguirsi delle ore. La stessa incertezza la si provava anche riguardo allo spazio, si passava infatti continuamente da una nazione all’altra ogni qual volta ci si spostava dal paese. Ricordo che provai un disorientamento autentico, difficile da colmare con azioni concrete: l’idea di passare e di non lasciare una traccia univoca mi inquietava. Questa sensazione mi accompagnò bene o male tutto il tempo del soggiorno, ma devo dire che nonostante ciò vissi molto bene tutta l’esperienza e fortunatamente ne conservo oggi uno splendido ricordo. Infatti, avevamo deciso noi di andare in
quel luogo, non c’eravamo finiti per merito delle connessioni di rete e le motivazioni del viaggio erano chiare ed esplicite fin da subito . La costruzione
di senso di tutta l’esperienza è stata, in quel caso, un processo con un’elaborazione interna delle decisioni di programmazione autonome miste a momenti di esperienza vissuti in loco: mai e poi mai veniva si è lasciato il senso in balia di qualsivoglia rete.
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...se invece vuoi mandare a un amico che sta su un’altra isola solo un saluto, non hai nessun bisogno di andare da lui o di scivolare su quei nastri metallici. Soffi le tue parole in fili di metallo, che vanno come lunghissime liane da un’isola di pietra all’altra. E arrivano, più veloci di quanto possa volare un uccello. Der Papalagi, Erich Scheurmann, 1920
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MULTITASKING
Se senti il bisogno di ascoltare musica mentre cammini, non camminare. E per favore non ascoltare musica. (Taleb N. N.)
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Le mani del Papalagi non stanno mai ferme, non riposano mai per il gran fare le cose. Per questo i volti dei Bianchi sono spesso così stanchi e tristi, e per questo pochissimi fra loro arrivano a vedere le cose del Grande Spirito. Loro devono fare cose. Devono custodire le loro cose. Le cose stanno loro addosso e strisciano loro intorno come le formichine della sabbia. La sua testa è come le paludi delle mangrovie, che soffocano nel loro stesso limo, dove non crescono più né verde né frutti, dove salgono solo cattivi odori e ronzano sciami di insetti pungenti Der Papalagi, Erich Scheurmann, 1920
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“ ra che abbiamo finalmente imparato a mandare un sms con una mano sola mentre siamo fermi al semaforo sarà bene andare in fondo alla questione” (cit. Rushkoff). Ci diamo sempre
più da fare con il multitasking, cercando di dare attenzione parziale a più di una cosa alla volta, mentre in realtà non facciamo altro che passare il più rapidamente possibile da un compito all’altro. Alcune ricerche sul controllo cognitivo del multitasking rivelano che la nostra capacità di portare a termine dei compiti in maniera accurata e completa è inversamente proporzionale all’incremento di quel che proviamo a fare simultaneamente. La diretta conseguenza di tutto ciò, è che decidendo di sacrificare la riflessione e la ponderatezza in cambio del falso obiettivo dell’immediatezza, viviamo in uno stato di preallarme perpetuo. I risultati sono tutt’altro che brillanti, finiamo per essere esausti ed esauriti e ciò non va imputato alla tecnologia in quanto tale, bensì al nostro modo di usarla. E allora capita che continuamente ci scordiamo le chiavi di casa o della macchina perché nel momento che servono siamo sempre indaffarati in una telefonata, oppure ci togliamo i pantaloni e ci rinfiliamo gli stessi senza minimamente accorgercene etc...gli esempi possono essere davvero tanti. Forme di dissociazione ancor più gravi tra mente e corpo si stanno già manifestando. Dicono che si possa arrivare a chiudere la testa in mezzo alla portiera ancor prima di averla messa in macchina! Questa incessante rincorsa al dover fare per dover essere e viceversa, a volte con tendenze onnipotenti - dover fare tutto per dover essere tutto - è preoccupante.
Glenn Wilson, psicologo di fama mondiale, ha scoperto come il trovarsi in una situazione in cui si sta cercando di concentrarsi su un compito con, ad esempio, un’e-mail non letta nella posta in arrivo, può ridurre il QI (Quoziente Intellettivo) effettivo di 10 punti. Ha definito questo stato info-mania. Secondo l’autore, anche la semplice opportunità di fare più cose contemporaneamente è dannosa per le prestazioni cognitive. Anche se le persone attribuiscono molti benefici alla marijuana, tra cui una maggiore creatività e riduzione dello stress e del dolore, è ben documentato che il suo ingrediente principale, il cannabinolo, attiva i ricettori specifici nel cervello e interferisce profondamente con la memoria e con la nostra capacità di concentrarci su diverse cose contemporaneamente. Bene: Wilson ha mostrato che le perdite cognitive da multitasking sono ancora superiori alle perdite cognitive dei fumatori di cannabis.
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tiamo progredendo verso uno stadio evolutivo superiore dove tutto sarà condiviso: n u l l a s a r à p i ù i n d i v i d u a l e , m a c o l l e t t i v o . Ogni informazione sarà disponibile in qualsiasi momento e in qualsiasi spazio perché ovunque, non solo sopra la nostra testa, ci saranno agglomerati di clouds capaci di immagazzinare ricordi pronti a restituirceli in ogni forma ogni volta che vorremo. Gli effetti e i primi cambiamenti oggettivi li vediamo già: le grandi corporations hanno deciso già da tempo di modificare il proprio assetto organizzativo per trasformarsi da aziende altamente centralizzate in organizzazioni a struttura piatta o orizzontale. In questa nuova concezione organizzativa viene incentivato soprattutto il lavoro per team al fine di pensare e mettere in atto metodologie nuove che sviluppino la creatività e che aumentino al tempo stesso la partecipazione lavorativa. L’Occidente non può più competere con l’Oriente sul piano dei costi e delle economie di scala perciò l’imperativo che gira ai piani dirigenziali alti della grande economia e della massima finanza è creare innovazione continua sfruttando le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Lo strumento principe di questa nuova ascesa è la rete. La letteratura attuale è piena di riferimenti che valorizzano questi aspetti e in questo senso non è mia intenzione aggiungere null’altro di quanto sia già stato detto e scritto riguardo le nuove organizzazioni e sistemi 2.0. Vorrei per contro dare visibilità a coloro che invece portano avanti un’interpretazione decisamente più critica del mondo della rete e del modo in cui essa pervade e manipola la vita di tutti noi. Lasciatemi spiegare il concetto con un paio di esempi che prendono spunto dalla scienza dell’organizzazione e più precisamente dalle interpretazioni che una manciata di scienziati di Imola (BO) hanno portato alla luce riguardo l’avvento del post-fordismo e delle tecniche di organizzazione aziendale.
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Una metafora antica la si deve al riformatore utilitarista delle carceri inglesi, Jeremy Bentham, e porta il nome di Panopticon, ricavato dal greco, che sta per “posto che lascia vedere tutto”. Il postulato del Panopticon era la possibilità di addestramento delle anime, volto a produrre lavoratori (e consumatori N.d.A.) compiacenti. I detenuti che vi erano rinchiusi non potevano muoversi perché erano sotto stretta osservazione; dovevano restare fermi al posto loro assegnato ventiquattr’ore al giorno perché non sapevano, né avevano modo di sapere, dove si trovassero in un determinato momento i loro custodi, i quali invece godevano di piena libertà di movimento. Si ha quindi un controllo diretto da parte del supervisore, garantito dall’architettura del sistema panoptico, in linea con i principi del taylorismo, a quale si somma un controllo di tipo indiretto, ovvero non derivante dalla osservazione ma dall’osservabilità. Ed è questo l’aspetto più rilevante: gli individui sono consapevoli di poter essere osservati, pur senza avere la certezza di esserlo in ogni istante, e questa possibilità (non verificabile da parte degli individui) diventa strumento di controllo in sé, e induce quindi i comportamenti nella direzione desiderata dal controllore senza che vi sia necessariamente un vincolo o una costrizione tangibile e diretta, come l’uso della forza o di altro strumento coercitivo. Secondo la metafora del Panopticon, la visibilità non è essere visti, ma poter essere visti. La sorveglianza non è vedere, ma poter vedere. Di conseguenza, il potere non si manifesta solo nel controllo esercitato, ma nella capacità di controllo esercitabile (Maggi, 2001). E’ Focault a chiarirci l’idea, pur usando termini diversi:
Ecco il principale effetto del Panopticon: indurre i reclusi in uno stato di conscia e permanente visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere. Fare in modo che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se discontinua nella sua azione; che il potere tenda a rendere il suo effettivo esercizio non necessario; che questo apparato architettuale diventi una macchina per creare e sostenere una relazione di potere indipendente dalla persona che lo esercita.
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Un altro contributo interessante è offerto da Parker e Slaughter (19881994). Essi, a seguito di ricerche approfondite condotte su numerose fabbriche di automobili statunitensi, hanno descritto le nuove forme di organizzazione del lavoro come “management by stress”. L’argomento fondamentale dei due autori è il seguente: tutto il sistema produttivo viene
tenuto costantemente a un livello di pressione e di stress molto elevato , in tutte le sue componenti, incluse
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quelle umane. Il perpetuo stato di elevato stress consente infatti un monitoraggio costante e accurato di inefficienze e opportunità di miglioramento. L’esempio del metodo Andon è emblematico per chiarirne il funzionamento: secondo il metodo Andon, ad ogni postazione di lavoro viene associato un sistema di segnalazione (per esempio un tabellone luminoso) facilmente visibile, il quale indica gli eventuali ritardi di lavorazione. Quando un operaio si trova in ritardo, rispetto al ritmo della catena produttiva, preme un pulsante in modo che il tabellone si possa illuminare per segnalare, appunto, l’esistenza e l’origine del problema. Se la segnalazione resta accesa per più di un certo tempo stabilito, la linea produttiva si ferma. La situazione ideale, secondo la logica adottata, non è la costante assenza di segnalazioni, perché ciò indicherebbe un ritmo inferiore a quello possibile, dunque inefficienza. Il sistema, invece, viene tenuto costantemente ad una pressione tale per cui vi sia una continua presenza di un certo numero di segnalazioni di difficoltà. In questo modo, è possibile individuare all’istante quelle aree di lavoro che necessitano interventi per aumentare la produttività – sia aggiungendo risorse alle aree troppo sotto pressione, sia togliendo risorse alle aree sottoposte a pressione insufficiente.
La pressione complessiva viene mantenuta ad un livello desiderato in vari modi: per esempio, aumentando progressivamente la velocità della linea produttiva, oppure aumentando il numero di compiti assegnati ad ogni lavoratore. Quando le interruzioni si riducono troppo, quando cioè tutte le varie fasi sono in grado di tenere il ritmo di lavoro, la pressione sulla linea viene aumentata, al fine di innescare nuovamente questa velocizzazione progressiva della linea produttiva. Il meccanismo si può ripetere praticamente all’infinito, o per lo meno finché non si raggiungono i limiti fisici e tecnici di velocità delle operazioni. Va apprezzata l’ingegnosità di questo sistema, che in sostanza consente di innescare un continuo processo di auto-ottimizzazione (quello che i giapponesi chiamano kaizen), poiché il feedback informativo sulle fonti dei problemi si genera automaticamente. Non solo: la necessità di supervisione e controllo si riduce drasticamente, perché i problemi, quando si presentano, diventano immediatamente ovvi e visibili, grazie alla visibilità degli stessi garantita dall’Andon. Questo metodo va di pari passo con il mondo odierno delle connessioni in rete. Il problema è il ruolo delle persone in tutto ciò. Come viene vista la persona all’interno di un sistema del genere se non un elemento di disturbo e/o di rallentamento della linea produttiva? I più attenti avranno già capito dove voglio arrivare. Trasportiamo questa metodologia dalle grandi aziende statunitensi e giapponesi costruttrici di autoveicoli alla nostra piccola realtà dove non sono presenti tabelloni luminosi che segnalano anomalie e dove non esistono grandi linee di produzioni sottoposte ai cronometri di stampo taylorista, ma dove sono piuttosto presenti servizi alla persona, e dove il capitale umano è l’unico capitale in mano all’azienda. Dove si gioca la partita se non sul piano della comunicazione , e con esso sul piano in cui si stabiliscono i compiti all’interno di un gruppo di lavoro?
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ome osserva Brian Stelter, l’intelligenza collettiva dei due miliardi di utenti Internet e le impronte digitali che tanti di loro lasciano nei siti web, si combinano rendendo sempre più facile risalire alla fonte di qualsiasi video imbarazzante, di qualsiasi foto intima e di qualsiasi e-mail sconveniente: che la fonte lo voglia o no. Questa erosione dell’anonimato è sicuramente una conseguenza di social media sempre più pervasivi, dei servizi di hosting gratuiti di foto e video, ma forse più di tutto è dovuto al mutamento di opinione delle persone riguardo a cosa debba essere pubblico e cosa debba essere privato. Questo sarebbe un punto al quale dedicare abbondanza di riflessioni e su cui si concentra Bauman nel suo libro sulla sorveglianza liquida del mondo moderno:
Non ci sarà più luogo dove rifugiarsi per non essere spiati. E il paradosso è che siamo proprio noi – i sorvegliati – a fornire il più grande volume di informazioni personali, caricando contenuti sui social network, usando la nostra carta di credito, facendo acquisti e ricerche on line.
La gioia di essere notati (meglio conosciuta come s c o p o f i l i a ) ha avuto nettamente la meglio sulla paura di essere svelati. E ancora il vecchio incubo panoptico di non essere mai soli, ora pare proprio abbia ceduto il posto alla speranza di non essere mai più soli. Ad ogni modo staremo a vedere come andranno davvero le cose. Rushkoff afferma che questa eccessiva tendenza a spiattellare tutto online è anche la prevedibile reazione al fatto di trascorrere troppo tempo in un universo incorporeo, dove niente sembra avere stabilità e nulla viene registrato a livello di sensazioni piene. La risposta più semplice consiste nell’alzare il volume e l’intensità ogni volta. Ogni interazione sociale che non sia faccia a faccia è dannosa per la salute. Sempre Rushkoff paragona i nostri comportamenti digitali odierni a quelli di qualcuno alle prese con la sindrome di Asperger: dipendenza da contenuti verbali rispetto a quelli visivi, scarsa attenzione alle imbeccate sociali e alle espressioni facciali, apparente mancanza di coinvolgimento, incapacità di guardarsi direttamente negli occhi.
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Il Papalagi è un mago. Se canti una canzone, lui cattura il tuo canto e te lo restituisce ogni volta che vuoi. Ti mette davanti una lastra di vetro e ci imprigiona la tua immagine. E te la fa rivedere mille volte, tutte le volte che vuoi.
PRIVACY E DELLA COMUNICAZIONE ALLARGATA
Der Papalagi, E. Scheurmann
Questa descrizione può riguardare un po’ tutti noi quando siamo collegati, mentre comunichiamo digitando sulla tastiera, equivocando sui messaggi, insultandoci a vicenda in maniera accidentale, o cercando invano di interpretare il senso di una battuta rileggendola attentamente più volte. Secondo importanti studi di comunicazione, appena il 7% della comunicazione umana avviene a livello verbale . Il tono, il volume, e altre caratteristiche della voce ne coprono il 38%, i movimenti del corpo quali gesti ed espressioni facciali arrivano ad un notevole 55%. Come ha avuto modo di sperimentare ognuno di noi, il modo in cui una persona ci guarda negli occhi conta spesso assai più di quanto possa dirci verbalmente. Eppure, se siamo online, dipendiamo completamente da quel misero 7%. In mancanza di quegli indizi non verbali a cui normalmente facciamo riferimento per sentirci sicuri, per stabilire relazioni o per capirci a vicenda, possiamo solo chiederci cosa intenda davvero o cosa pensi di noi chi sta dall’altra parte dello schermo. In questo caso restano muti i neuroni riflessivi, le parti del cervello che apprezzano e si rafforzano quando chi ci sta di fronte approva con un cenno della testa o sorride mentre parliamo. Rimane bloccata la dopamina che normalmente viene rilasciata quando qualcuno si mostra d’accordo con noi. Assumiamo un atteggiamento sospettoso e protettivo anche quando la situazione richiederebbe l’opposto, se soltanto fossimo presenti in carne ed ossa. Per rendere ulteriormente l’idea, immaginiamoci di vivere in un mondo dove siamo muti, ciechi e sordi dove per capire quel che la gente intende dire e il modo in cui essa ci percepisce ci affidiamo solo a messaggi scritti. Inoltre aggiungiamo che spesso non abbiamo la più pallida idea di chi siano queste persone o cosa facciano nella vita. Vivere nella realtà sociale del 7% produce degli effetti concreti: gli adolescenti hanno smesso di scusarsi. Quando trattano male qualcuno e vengono beccati, al massimo confessano ma non dicono mai di essere dispiaciuti. E’ come
se l’effettiva ammissione di colpa contasse di più che avere dei sentimenti a riguardo. Il dispiacere scompare con il restante 93% della mancata comunicazione reale. Di queste tipologie di esperienze virtuali incorporee è pieno il mondo dei social media. La realtà è che questa progressiva erosione della privacy individuale, mista all’illusione di una comunicazione globale, ci sta facendo sprofondare più velocemente di quel che sembra nella casa degli specchi dove tutto rimbalza senza il minimo controllo e dove vince chi corre e chi urla di più (sindrome del punto esclamativo N.d.A.).
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’ambito digitale propende verso la scelta, perché ogni cosa va espressa in termini di linguaggio arbitrario e simbolico, come u n a s e r i e d i s ì o n o . Non di rado, a sua volta questo scenario impone analoghe scelte agli esseri umani che operano nella sfera digitale. In realtà quest’insieme fatto di scelte reali e illusorie rappresentano l’avverarsi di un sogno per gli esperti di marketing, pronti a tutto pur di convincerci dell’importanza di ogni singola preferenza espressa dai consumatori. Eppure non è colpa loro. Il marketing sta semplicemente sfruttando al meglio l’inclinazione preesistente nelle tecnologie digitali verso decisioni del tipo sì o no. In fondo la stessa architettura del digitale è basata sui numeri: ogni file, immagine, brano musicale, film, programma non è altro che un insieme di valori numerici. Per il computer tale valore viene rappresentato da una serie di 1 e di 0. Non esiste nient’altro tra quell’1 e quello 0, dato che il computer, al pari di un interruttore, o è acceso o è spento. Nel mezzo non c’è nulla. Tutto quello che intercorre tra
il sì e il no, tra l’acceso e lo spento, non può viaggiare nei cavi, nei chip o
nei pacchetti online. In più, le decisioni debbono essere prese in fretta, di solito rispetto a cose che non abbiamo verificato da vicino: il risultato è una preoccupante tendenza alla riduzione forzata della complessità in favore dell’iperconsumismo. L’inclinazione della tecnologia digitale verso scelte forzate si incastra fin troppo perfettamente con il nostro ruolo di consumatori, rafforzando il concetto per cui la scelta sia in qualche modo un atto liberatorio, trasformando la nostra vita interattiva in un’esca per ricerche di mercato. Basta pensare al numero di query che costantemente il computer ci sottopone ogni qual volta ci dobbiamo registrare a un nuovo portale o a una piattaforma di e-commerce o a un qualsiasi social network. Siamo ancora in tempo e sempre liberi di rinunciare a scegliere, di opporci a ogni classificazione o catalogazione della nostra personalità, basta scegliere di non scegliere. Rinunciare a scegliere non significa morire. E’ anzi vero l’opposto: è una delle poche cose che differenzia la vita reale dalle sue imitazionii digitali. Credere di essere sempre padroni delle proprie scelte all’interno dell’universo digitale è un’altra illusione ben architettata e carica di retorica.
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PARTECIPAZIONE
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Quando, posto di fronte a due scelte, ti trovi in una situazione conflittuale, non scegliere nessuna delle due.
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ato ormai per scontato che siamo costantemente connessi alle altre persone mediante lo schermo di un computer o di un telefonino, ci dobbiamo interrogare sulle diverse implicazioni che questo comporta in ambito domestico e sul posto di lavoro. Immaginiamoci per un momento un luogo virtuale che improvvisamente riesca a farsi eleggere come l’agorà di tutte le informazioni. Al suo interno viaggiano ordini, consigli, cortesie, richieste formali, richieste informali, commenti, appuntamenti individuali, appuntamenti di gruppo, comunicazioni lavorative, comunicazioni para lavorative, comunicazioni personali, comunicazioni di gruppo, pubblicità di eventi, link, battute, facce di approvazione, facce di rabbia, facce di tristezza, di paura, di gioia..., il tutto in continua e rapida evoluzione e con un ritmo sempre più incalzante nella successione dei messaggi. L’arena si autoalimenta e nel breve tempo cresce di portata: crescono gli account collegati, aumentano in modo esponenziale i messaggi e tutti sono sempre tenuti a rispondere e farsi carico delle richieste altrui. Tutti partecipano. Nel mentre le interferenze e i rumori di sottofondo incombono sempre più e la nostra lieve ma costante “notifica di allerta” si fa sempre più ingombrante. Lo paragono a una sorta di stress a bassa intensità che non essendo mai intervallato da periodi di recupero, alla lunga diventa estremamente nocivo per la persona. Per rendervi l’idea pensate alla cosiddetta tortura cinese dell’acqua, nella quale una goccia cade incessantemente sulla testa, senza mai dar tregua. Leggiamo tutto. poi di fatto cestiniamo ongi cosa subito dopo (Sindrome della memoria piena: leggo e cancello istantaneamente perché ho il timore che non ci sia spazio per altro, N.d.A.). Torniamo per un attimo all’Andon e alla situazione di empasse del povero operaio che non sa come comportarsi in caso di elevato stress. Davanti a ritmi elevatissimi e poca comprensione dei fatti che possibilità resta alla persona? Quattro possibilità: 1. fermare la linea, concentrando la pressione sociale del gruppo tutta su se stessi, 2. chiedere aiuto al proprio responsabile senza fermare la linea, ammettendo di fatto la propria inadeguatezza nel compito richiesto, 3. rincorrere il problema, spostandosi dalla propria postazione per cercare di risolverlo prima che venga “passato” a qualcun altro, 4. ignorare il problema, lasciando che il flusso produttivo continui - scaricando di fatto l’anomalia a valle o, in altri termini, posticipare l’arresto della linea scaricando su qualcun altro il peso della propria inefficienza. Le quattro alternative ipotetiche illustrano una situazione in cui, in realtà, i margini di manovra effettivamente disponibili sono assai ridotti per la persona; l’unica opzione davvero disponibile è quella di fermare la linea. Risultato: un’ inefficienza da parte del sistema e un’informazione diretta al team leader e agli altri membri dello staff circa l’incapacità di un membro di tenere il passo. Ne consegue che la pressione sociale del gruppo - data dalla spinta verso la conformità e dal controllo reciproco – si va ad aggiungere alla pressione tecnica già insita nel lavoro, configuarando una situazione di lavoro ad elevato grado di costrittività (Maggi, 1990), pur in presenza di una sostanziale riduzione del controllo gerarchico diretto di tipo tradizionale.
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L'ILLUSIONE (?) DI ARRIVARE AD ALCUNE
CONCLUSIONI R
ushkoff afferma che una società intera che considerava Internet un percorso verso interconnessioni positivamente articolate e nuove metodologie per la creazione di significato, si ritrova invece disconnessa al suo interno, priva di riflessioni profonde e svuotata di valori duraturi. Il tutto assume connotati ancor più devastanti se si ragiona in termini di evoluzione e sviluppo: se il cer-
vello impara tramite il computer, si auto-configurerà in maniera diversa da quando utilizzava come supporti di apprendimento i libri scolastici . Un cervello che ha imparato dai testi scritti è diverso da uno che ha seguito l’insegnamento orale, così come è diverso un cervello che apprende in un modus operandi logico-consequenziale da uno che apprende basato su principi evocativi e mitologici legati al divino e con una concezione spazio-temporale non lineare ma circolare. Le tecnologie hanno sempre prodotto dei cambiamenti sugli esseri umani: il fuoco ci consentì di cuocere la carne, fornendo in pratica cibo pre-digerito e alterando l’evoluzione dell’apparato dentale e del tratto digestivo. Coprendoci con delle pelli di animale abbiamo via via perso la peluria sul corpo. Analogamente, la scrittura ha cambiato il modo in cui elaboriamo e ricordiamo le informazioni, mentre la televisione ha modificato le modalità relazionali tra il cervello e lo spazio tridimensionale. I media e le tecnologie informatiche odierne ci permettono di delegare la memoria umana alle macchine, ampliando notevolmente la quantità di dati a cui possiamo accedere. Detta così può sembrare una conquista; in realtà, un effetto collaterale molto pericoloso è rappresentato dalla
progressiva perdita della capacità del cervello di ricordare.
Attraverso la rete abbiamo visto come sia possibile creare un quadro di dipendenza davvero pervasivo, potenzialmente illimitato, di tipo “panopticista”. Rushkoff, nel suo libro “Programma o sarai programmato”, espande molto bene il concetto del titolo: occorre riappropriarci della programmazione e del sapere informatico o in un prossimo futuro verremo inevitabilmente programmati. C’è un bellissimo film del 1999, Matrix, dei fratelli Wachowski, che trasporta questo concetto all’interno dell’eterna lotta fra uomo e macchina. Il protagonista Neo, asso dell’informatica, si aggrega ad un gruppo di resistenti il cui capo, Morpheus, crede di avere riconosciuto in lui l ‘Eletto, l’essere destinato a svegliare l’umanità dal sonno cibernetico e a lottare contro i poteri del Male che l’hanno ridotta in schiavitù. Un suo fallimento avrebbe portato la fusione tra il mondo reale e il mondo virtuale, con il secondo a fare da padrone per il resto dei nostri giorni. Forse siamo ancora in tempo per riappropriarci del nostro genoma umano. Se però è vero che i problemi non li può risolvere la stessa mente che li ha creati, forse è meglio lasciar perdere molto velocemente tutti questi discorsi e concentrare i nostri sforzi e il nostro tempo in favore delle nuove generazioni. Dobbiamo nutrire fiducia in loro perché, volenti o nolenti, in questa emozionante partita noi siamo gli spettatori.
di RICCARDO PINOTTI
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social media
Non togliere mai un’illusione a nessuno se non riesci a sostituirla nella sua mente con un’altra illusione. Ma non lavorarci troppo; l’illusione sostitutiva non deve essere necessariamente più convincente di quella iniziale.
Douglas Rushkoff – Programma o sarai programmato: dieci istruzioni per sopravvivere all’era digitale (Postmedia books, 2012) Erich Scheurmann - Papalagi: Discorsi del capo Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa (Barbès Editore, 2011. Prima edizione 1920) Taleb Nicholas Nassim – Antifragile, prosperare nel disordine (Il Saggiatore, 2013) GIovanni Masino – Le imprese oltre il fordismo: retorica, illusioni, realtà (Carocci Editore, 2005) Maggi Bruno - Interpretare l’agire: una sfida teorica (Carocci Editore, 2011) Zygmunt Bauman, David Lyon - Sesto Potere: la sorveglianza nella modernità liquida (Editori Laterza, 2013) Lamberto Maffei – Elogio della lentezza (Il Mulino, 2014) Marc Augé – Non luoghi (Eléuthera, 1992) Marc Augé - Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo (Eléuthera, 2009)
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MECCANIZZAZIONI DEL TEMPO PRESENTE Riflessioni e connessioni sulle meccanizzazioni secondo Boal di Erica Muratori
meccanizzazione [dal fr. mécanisation] s. f.
Azione ed effetto del meccanizzare e del meccanizzarsi.
meccanizzare [dal fr. mécaniser] v. tr. (io meccanizzo, tu meccanizzi ecc.) 1 Introdurre in misura prevalente macchinari e congegni meccanici per l’esecuzione dei compiti svolti in precedenza dall’uomo o dagli animali. […] 2 fig. Far diventare simile a una macchina: la catena di montaggio meccanizzata di chi lavora. || v. intr. pron. Trasformarsi in seguito all’introduzione di macchinari o di mezzi meccanici: ogni aspetto della vita umana tende a meccanizzarsi sempre di più.
N
el Teatro dell’Oppresso di Boal, meccanizzazione è sinonimo di limitazione. Come i frattali di Rushkoff, le meccanizzazioni di cui parla Boal sembrano avere una doppia funzione: se da un lato ci orientano, ci permettono di svolgere in automatico le azioni anche complesse della nostra vita di tutti i giorni, dall’altro questo automatismo rischia di diventare una prigione che ci impedisce di sfruttare a pieno le nostre possibilità espressive e creative, del corpo e della mente. Un generale mangia, beve, dorme, cammina, fa l’amore come tutti i generali... un contadino mangia, beve, dorme... (Augusto Boal) Le meccanizzazioni sono quindi forme di incontro che si sono cristallizzate in azioni, movimenti e parole fisse e che possono riguardare qualunque sfera del nostro essere: nella sfera sensoriale, ad esempio, presta attenzione a certe sensazioni, così che alcune discriminate più facilmente di altre; nella sfera muscolare ognuno di noi ha ipertrofie e atrofie, parti addormentate, altre tese, una certa voce; nei modi di relazionarsi e di esprimere le emozioni le esperienze vissute modellano quelle presenti; infine, le meccanizzazioni possono condizionare il livello intellettivo, psicologico e della personalità. Prima di acquisire la sfumatura negativa, le meccanizzazioni - nelle quali oggi potremmo estensivamente annettere le digitalizzazioni - sono semplicemente codici di comportamento e modi di esprimersi, con una loro dignità e utilità. Ciò che fa di esse una prigione non è quindi il comportamento in sé ma la mancata consapevolezza degli altri possibili comportamenti che si potrebbero scegliere al suo posto e la mancata fiducia nel poterli attuare. Alcune meccanizzazioni legate ai nuovi media si sono ormai fissate tra le abitudini di molti, e non si parla solo dei ragazzi: la postura e lo sguardo, spesso orientati verso i telefoni, il telefono come “riempitivo emotivo” nei momenti di stress o di disagio, la percezione di dover rispondere a tutto e a tutti in qualsiasi momento, il linguaggio dei social e delle emoticons … Nel tentativo di liberare i ragazzi dall’influsso talvolta negativo delle nuove tecnologie forse ci sorge spontaneo il parallelo con la celebre frase di Boal: un adolescente mangia, beve, dorme, fa l’amore come un adolescente… e forse l’immagine che ci viene in mente è quella di un ragazzino che riesce a fare tutte queste cose con lo smartphone in mano. Tuttavia, forse vale la pena di partire a lavorare da un’altra provocazione: un adulto mangia, beve,
dorme, fa l’amore…. Come? 28
opera di Stefania Santarcangelo 29
Werner Karl Heisenberg (1901-1976)
Heisenberg, il gli di Matteo Muratori
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T
ra le basi della meccanica quantistica, comparve nel 1927 un principio dall’applicazione molto limitata rispetto all’esperienza comune, ma foriero di una logica che meravigliosamente si sarebbe adattata al ragionamento della nostra età contemporanea. Si tratta del principio di indeterminazione, attraverso il quale il suo fondatore Heisenberg ammonisce chi si cimenti con grandezze fisiche coniugate in casi limite (cioè in sistemi coniugati anch’essi). Certamente nessuno si è imbattuto né incorrerà mai nella sua vita in questa casistica, eppure c’è in tutto questo un’implicazione che mostra quella logica generale che invece può essere interessante estendere anche ad altri campi umani: se si cerca di analizzare un fenomeno, è probabile trovarsi nell’impossibilità reale di farlo, perchè già l’osservare è una perturbazione, la quale influenza sia l’osservatore che l’oggetto osservato. E siamo alla fisica quantistica. Ma non è forse un caso che tra gli anni Venti e Trenta, all’interno della Scuola di Chicago (o scuola dell’ecologia sociale urbana), venne definito il concetto di osservazione partecipata. L’avvertimento sottinteso rispetto a questa pratica è il medesimo: non si può fare finta di non venire influenzati da ciò che si va a studiare, soprattutto in ambito umano. Ma, d’altra parte, se si vuole indagare l’evidenza di alcune dinamiche, il coinvolgimento è imprescindibile. La tecnica dell’osservazione è utilizzata in tutti quei casi in cui l’analisi richiedono un coinvolgimento diretto del ricercatore che, in questo modo, guarda il fenomeno dal di dentro diventandone parte attiva, condividendone le logiche e le interazioni quotidiane, sviluppando dunque la visione partecipante che è il presupposto della comprensione. L’osservazione partecipante prevede una partecipazione diretta del ricercatore alle pratiche, costumi, abitudini del gruppo indagato che non si limiti alla mera osservazione, ma comprenda l’integrazione dello stesso delle dinamiche contestuali indagate (Corbetta 1999, 367-370). Perché sia possibile un’osservazione partecipante, il periodo di permanenza nel contesto indagato deve essere relativamente lungo e il ricercatore non può limitarsi ad osservare le dinamiche in questo contesto, ma deve interagire attivamente con i soggetti studiati (ibidem). Visto che il coinvolgimento è il presupposto della tecnica, l’interpretazione rappresenta il suo strumento centrale. In tale processo il ricercatore deve mantenere un equilibrio tra i due estremi che caratterizzano il continuum della partecipazione (Davis, 1973, 333.343): il distacco del marziano e il coinvolgimento del convertito. Stefania Leone (a cura di), Nuove generazioni e ricerca sociale per le politiche giovanili, Franco Angeli, Milano, 2012
E siamo alla sociologia. Il passaggio successivo che chiedo di fare è quello di considerare come sia aumentata l’attenzione alle dinamiche sociali negli ultimi decenni: non sto parlando di competenze specialistiche, ma di una disposizione più simile spesso alla curiosità o al complottismo, ma che comunque ha elevato la capacità media diffusa di rilevare le tendenze della società rendendoci tutti più reattivi ed allenati ad analizzare quello che succede intorno a noi. Un ruolo importante in questo innalzamento – statistico, ripeto, e non positivo a tutti i costi – è da riconoscere ai nuovi media e alle infrastrutture telematiche avanzate, che permettono di entrare in contatto con quantità sovrabbondanti di dati grezzi e informazioni semilavorate. Siamo, in sostanza, tutti molto più sociologi di quanto lo si era dieci anni fa. Applicando questi ragionamenti alle Nuove Tecnologie, le implicazioni penso siano due, contraddittorie in parte. Tuttavia, è bene che qualcuno si dia da fare per uscire da questa contraddizione. La prima implicazione è che ognuno di noi può avere dati sufficienti per rilevare i cambiamenti che le NT stanno portando nelle nostre vite,
walkman, avatar e noi
comparando rilevazioni desunte da settori diversi della nostra società (la scuola, le tendenze economiche, il tempo libero, le idiosincrasie, le visioni del futuro...). Molti dati si rinforzano gli uni con gli altri, rendendoci chiari i condizionamenti che stiamo subendo accettando di partecipare, in molteplici modi, alla rincorsa tecnologica senza traguardo dei nostri tempi. La seconda implicazione riguarda l’impossibilità di vedere le cose così come sono effettivamente. Chi voglia capire come si stanno conformando alcune tendenze sociali legate alle NT, deve farlo conoscendole ed utilizzandole, ma così facendo modifica il proprio sguardo, adottando strumentalità nuove, differenti in funzionamento, potenzialità ed esiti. In più, nel tempo impiegato per raggiungere abilità tali da poter sfruttare a pieno tutte le potenzialità dell’oggetto tecnologico da studiare, con buone probabilità l’oggetto medesimo sarà diventato obsoleto e il fronte dell’interesse collettivo si sarà spostato in avanti. Per aggiornare la nostra “ricerca”, dovremo quindi accondiscendere alla logica della rincorsa continua alla tecnologia.
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La contraddizione è questa: abbiamo tutti gli strumenti per renderci conto dei condizionamenti che stiamo vivendo (o subendo – dipende dall’esperienza personale), ma non ci servirà a nulla, poiché la situazione sarà già mutata. Inoltre, in questa ricerca verremo sicuramente modificati anche noi osservatori. Sembra non ci sia uscita, eppure ogni labirinto ne ha almeno una. Se guardassimo indietro, invece che avanti? Se, invece che in corsa verso il futuro dal certo esito frustrante, ci mettessimo in condizione di ricordare quello che di simile è già accaduto, per poter disporre della completezza del processo (presupposti – genesi effettiva – fase di diffusione – implicazioni – spin-off) e magari desumere riflessioni utili? Rispetto alle Nuove Tecnologie c’è allarme, soprattutto pensando a chi sta crescendo in un mondo permeato da dispositivi e regolato da tempi inediti rispetto alla storia umana. Un bel ritratto della preoccupazione si trova nel gustoso recente (2014) film di Reitman, Men, Women and Children, reso attraverso la figura della madre di una delle ragazze protagoniste, sostenitrice senza compromessi del controllo massimo rispetto ai dispositivi utilizzati dalla figlia. Se oggi la sensazione di doversi difendere è così diffusa, ciò in parte è da imputare a quella auto-elezione a sociologi che molta gente si concede. Nel 1980 ci fu già un allarme simile, ma venne annunciato da un numero di persone molto più limitato, perlopiù specialisti di scienze umane di ambito accademico: non ci fu la possibilità di fare scendere la discussione in mezzo alle persone comuni, così chi osservò e disse la sua non potè vedere le proprie intuizioni sostenute dalle masse. Per raccontare questa storia, seguiamo le riflessioni di Iain Chambers, antropologo e sociologo (vero!) britannico, dal libro del 1996, uscito in Italia nel 2003 col titolo Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale. È la storia del Walkman.
Il walkman Sony. Lanciato sul mercato nella primavera del 1980, questo gadget urbano hi-fi nacque da un’idea che venne ad Aldo Morita, presidente della Sony, guarda caso mentre camminava per New York. Da allora è stata varata la possibilità di usufruire di una colonna sonora portatile che, diversamente dalla radio transistor, dall’autoradio e dall’intenzione esplicitamente opposta del grande registratore portato a spalla (il cosiddetto “ghetto Master” o “boogie box”), è soprattutto un’esperienza intensamente privata. Tuttavia tale rifiuto del comparto pubblico e l’apparente regressione a una solitudine individuale implicano anche una serie di sviluppi inaspettati. Con il walkman si ha simultaneamente una concentrazione dell’ambiente uditivo e un’estensione della corporeità individuale. Infatti il significato dell’ultima non è necessariamente nell’oggetto in sé - se ne sta lì, semplice, solitamente nero, spesso rivestito in pelle, del tutto inconsapevole - ma nell’estensione del potenziale percettivo. Sebbene possa sembrare che le persone che passeggiano con un walkman esprimano semplicemente un vuoto, la vacuità della vita metropolitana, quel piccolo oggetto può essere inteso come uno zero pregnante, come l’anello di congiunzione in una strategia urbana, come slittamento semiotico, come un segno critico in una particolare organizzazione di senso. (...) Nel suo aperto rifiuto della socialità, il walkman riafferma tuttavia la partecipazione a un ambiente condiviso. Esso prende parte direttamente alla trasformazione nell’orizzonte della percezione che caratterizza la fine del XX secolo e che presenta un mondo che si frantuma in seguito alla crescente accumulazione nei media di segni, di suoni ed immagini che si intersecano. Con il walkman addosso affrontiamo quello che ne Il paesaggio sonoro Murray Schafer chiama soundscape (Schafer 1977), un paesaggio sonoro che sempre più rappresenta un notevole collage; i suoni sono selezionati, campionati, confezionati e tagliati non solo dai produttori (deejay, rapper, tecnici del suono), ma anche dai consumatori (ciascuno di noi si forma la sua scaletta, salta dei brani, ne ripete altri, alza il volume per sovrastare la colonna sonora esterna oppure passa dall’una all’altra). Ogni ascoltatore e/o esecutore selezione è adatto al contesto sonoro circostante e, costruendo un dialogo con esso, lascia una traccia nell’ambiente. Il walkman, come la radio a transistor, il computer portatile, il telefonino e, soprattutto, la carta di credito, è uno degli oggetti privilegiati del nomadismo contemporaneo. Tuttavia, mentre il computer e la disponibilità di credito globale trasmettono la persona attraverso uno spazio atopico in una realtà virtuale più che corporea, dove il tempo è “ fatale” e lo spazio incidentale, il walkman riporta invece il mondo alla persona, riafferma il corpo del segnale laconicamente un’identità diasporica transitoriamente messa insieme. Come nella descrizione di Walter Benjaminin cui gli archi di Parigi gettano luce sugli interni, il walkman porta il mondo esterno all’architettura interna dell’identità. (...) In questo mondo mobile e avvolgente il walkman, come gli occhiali scuri alla moda iconoclasta, serve contemporaneamente a nascondersi e a distinguersi, riaffermando così paradossalmente il contatto individuale con certe dimensioni comuni benché mutevoli (la musica, la moda, l’estetica, la vita metropolitana... e i loro particolari cicli di mortalità). In questo modo il walkman diventa una maschera, una messinscena di una teatralità circoscritta. Si rivela come un significativo gadget simbolico per i nomadi della modernità, in cui la musica in movimento che decontestualizza e ricontestualizza continuamente l’esistenza acustica simbolica del quotidiano (Hosokawa 1984). Ma se finora il walkman rappresenta la forma estrema delle arti di transito, esso rappresenta anche l’estremo mezzo musicale che consente forme di mediazione con l’ambiente. Infatti offre la possibilità, sia pure fragile e transitoria, di imporre il proprio paesaggio sonoro su un ambiente sonoro circostante e in questo modo di addomesticare il mondo esterno; per un attimo tutto può essere ridotto con i pulsanti Stop/Start, Fast Forward, Pause e Rewind.
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Facendo parte dell’equipaggiamento del nomadismo moderno, esso contribuisce all’estensione protesica di corpi in movimento, intrappolati nella diffusione decentrata delle lingue, delle esperienze, delle identità, degli idioletti e delle storie che sono tutti distribuiti in una sintassi tendenzialmente globale. La tecnologia dello spazio è stata integrata e sempre più corrosa dalla tecnologia del tempo: il “tempo reale”, i “nanosecondi” dei chip dei computer e dei blip dei monitor, delle informazioni transitorie sullo schermo, dei suoni carpiti attraverso le cuffie. Ciò porta alla comparsa di un’ulteriore dimensione. “La velocità torna ad essere all’improvviso una grandezza primitiva al di qua di ogni misura sia di tempo che di luogo” (Virilio, 1984). Per viaggiare e lavorare in questo ambiente inseriamo la spina, scegliendo un circuito. Al posto dei “grandi racconti” (Lyotard) della città, messi da parte, il walkman consente una micro-narrazione, una storia e una colonna sonora individuali, non semplicemente un luogo ma un posto dove stare. L’ingresso in spazi pubblici di tale habitat privatizzato è un atto di disturbo. La sua qualità perturbante risiede nella deliberata confusione di confini preesistenti, nel suo provocatorio apparire “fuori posto”. Oggi la conclusione di posto, voci, storie ed esperienze che si manifestano “fuori posto” fa parte del senso complessivamente più ampio della crisi semantica e politica contemporanea. L’ordine spaziale precedente ha dovuto sempre più affrontare l’eccesso di linguaggi emersi dalle storie del linguaggio del femminismo, dei diritti sessuali, delle felicità, della questione razziale ambientale, che debordano e minano la sua autorità. Il walkman è dunque un atto politico? È certamente un atto che si intreccia inconsciamente con molte altre micro-attività, conferendo un significato differente alla polis. Nel produrre diverso significato dello spazio del tempo, anche esso partecipa alla riscrittura delle condizioni della rappresentazione, dove “rappresentazione” chiaramente indica sia le dimensioni semiotiche del quotidiano, sia la potenziale partecipazione a una comunità politica.
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Il walkman è uno strumento che amplifica il potenziale percettivo. Grazie a questo oggetto, la qualità della musica diventata migliore rispetto a quella di tanti dispositivi da tavolo presenti nelle case negli anni Ottanta: gli impianti che permettevano una riproduzione di qualità, infatti, non erano certo una priorità di quei tempi, nonostante il benessere economico bussasse alla porta di molte case italiane. Passò invece in secondo piano il sacrificio chiesto al resto del corpo, visto che le onde sonore non avrebbero più intercettato il nostro stomaco, la nostra cassa toracica né altre parti che da sempre completavano l’esperienza dell’ascolto. Il walkman era un dispositivo economico e, in fondo, il prezzo era comunque troppo alto pensando alla tecnologia che ci stava dietro: l’uso rimaneva vincolato dalla disponibilità di batterie – costo aggiuntivo – e dall’acquisto di musica. Qualora non si fosse scelta musica originale, era molto macchinoso creare le proprie personali compilation. La risoluzione di questi problemi si è portata a compimento con gli smartphone dei nostri giorni, con musica pronta per il download 24 ore al giorno, preoccupazione per la batteria rimossa e prodotti entry-level di qualità sempre soddisfacente. Si sono realizzate le
profezie di Chambers, con questo? Solo in parte: ascoltare musica è solo una delle molte attività che possono essere svolte in
multitasking con un terminale abbordabile per prezzo - uno smartphone, ad esempio. Non si vedono oggigiorno molte persone che camminano sognanti ascoltando musica continuamente: forse aumentano le percentuali se si guarda ai giovani, ma se li si compara col numero di utilizzatori assidui del walkman,
probabilmente non si notano enormi differenze nelle cifre. Ascoltare musica è impegnativo, o almeno intenzionale, ma lascia la sensazione di concedersi un lusso, di occupare del tempo libero; preferiamo invece tentare di dimostrare di non avere tempo libero, di essere intenti ad organizzare qualcosa, di usare gli spostamenti per curare relazioni per le quali non troviamo altri momenti. Questo è il senso delle Nuove Tecnologie, dopo tutto: liberarci dall’appesantimento di alcune incombenze
– ma, tacitamente, suggerirci che il mondo è pronto ad offrirci migliaia di altre cose da fare, all’istante. In realtà, se ci si libera un po’ di vita, contemporaneamente si spalanca la voragine della scelta, a volte più opprimente delle incombenze dell’agenda classica. È davvero accaduta questa la frantumazione e ricostruzione arbitraria del reale di cui parla Chambers? Probabilmente sì, il consumatore è diventato meno passivo, non accontentandosi più di prodotti ready-made, ma sintetizzando gli oggetti posseduti secondo gusti e ricomposizioni originali.
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È la “personalizzazione”, oggi data per scontata rispetto ai dispositivi che utilizziamo: cambiare sfondi, rivestimenti, avvisi sonori e quant’altro è la base per appropriarsi di un prodotto, per rendere uno smartphone il proprio smartphone, tanto da incorrere nell’autentica ansia in caso di perdita o rottura. Chi commercializza questi prodotti confida nel fatto che, se si concede al consumatore di investire emotivamente e temporalmente in un dispositivo, questo diverrà parte integrante della sua vita, rendendolo irrinunciabile. Gli uomini hanno bisogno da sempre di sentirsi diversi, unici – ma non tanto da sentirsi esclusi, nè da scalzare la possibilità di confrontarsi con gli altri. Questa non è una qualità nuova, fondata nella post-contemporaneità che stiamo vivendo. In passato era garantita dai possedimenti agricoli o animali, dalla moda, dalle sostanze assunte, dalle religioni ecc., mentre oggi, pur permanendo i termini di confronto materiali, si sono aggiunte possibilità virtuali. È probabile che ci sia un limite numerico nelle relazioni intrattenute con le persone reali oltre il quale le ansie di confronto calano drasticamente e ci ritroviamo a nostro agio con noi stessi per come siamo: aumentano le conferme su come siamo adeguati e accettabili come esseri umani, facendoci al contempo realizzare che non siamo costantemente guidicati e misurati dalle persone che abbiamo intorno. Forse – ma è ancora un’ipotesi – la Rete e la socialità virtuale possono addirittura essere agoniste a questo rilassamento. La storia del walkman offre diversi spunti, ma quello che qui preme sottolineare è questo: le caratteristiche emotive e caratteriali degli esseri umani lottano per emergere nonostante le omologazioni che tentano di essere imposte dagli interessi macrosociali delle diverse epoche. Preso atto di ciò, occorre ammettere che lottano per l’emersione tanto le istanze pro-sociali, quanto quelle anti-sociali, tanto quelle costruttive quanto quelle autolesionistiche. Sono tutte forze che richiedono azioni di volontà per ricadere sotto la nostra coscienza, così come necessitano di aiuti da parte dei nostri simili per essere corrette verso la costruzione di serenità. Le Nuove Tecnologie possono aiutarci sia in un compito che nell’altro, ma sono e rimarranno strumenti: la storia – e non solo
quella del walkman – ci mostra come l’uomo non abbandona la sua umanità senza lottare.
Se la lotta del genere umano è quella per la soddisfazione, come può esserci soddisfazione maggiore della sintonia con gli altri membri della specie stessa? Non con gli avatar, non con gli alter-ego: le persone reali, se ne hanno modo, tenderanno sempre alle persone reali.
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A ppunti per
un’educazione a n a l o g i c a nel presente digitale di Fiorello Ghiretti Ho ricevuto l’invito di Matteo del ”Giro del Cielo” a partecipare ad un incontro formativo dedicato al tema dei cambiamenti del linguaggio e dei modi di comunicare tra i giovani e sui giovani, soprattutto in relazione alle nuove tecnologie. Ho accettato, a patto di declinare l’idea di venirne a parlare come esperto (che non sono…) in quella di essere un aiuto per attivare una riflessione e un confronto nel gruppo di lavoro a partire dall’esperienza che ciascuno di noi sta vivendo rispetto all’uso delle nuove tecnologie, all’impatto che stanno avendo sui nostri modi di comunicare, stare insieme e di educare, modificandoli. Per poter iniziare questo confronto abbiamo concordato di leggere alcuni capitoli del libro Presente Continuo di D.Rushkoff, testo in cui si affrontano alcune delle conseguenze derivate dall’ampia diffusione degli strumenti digitali (computer, tablet e smartphone) nella comunicazione e nella relazione interpersonale. A seguito di tale lettura, chi se la fosse sentita avrebbe potuto proporre al gruppo alcuni spunti di riflessione. Colgo quest’occasione anche per restituirvi e commentare idealmente insieme a voi educatori questi contributi, non essendo riuscito a farlo durante quella serata (per vari motivi che fanno sì che le cose nel “mondo analogico” a volte vanno diversamente da come prefissato): così, ecco qua il tutto riorganizzato nella forma di questi brevi appunti.
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il tempo C
’è un aspetto prezioso nel concedersi il tempo per elaborare delle idee e scambiarsele, così da condividere il percorso di ricerca e trovare insieme spunti e ispirazioni per migliorare il lavoro di ciascuno. Questo tempo, infatti, il più delle volte ci sfugge a causa di una eccessiva programmazione che giunge a volte fino ad offuscare la consapevolezza di essere soprattutto persone in relazione gli uni con gli altri. Come dice Monica: “Risento moltissimo della tendenza a dover far tutto a ritmi velocissimi, di tenere il passo di tutto quello che succede perdendo, in questo modo, il contatto con quello che è più importante. Questo punto per me è importantissimo e so di doverci lavorare su molto: spesso il dover aiutare i ragazzi nei compiti, rispettando le richieste del genitore (quasi sempre concentrato solo sull’andamento scolastico del figlio), mi porta a non usare il tempo che ho a disposizione per fermarmi un attimo e parlare con i ragazzi, per ridere con loro. Io devo essere la prima a scandire meglio il mio tempo, a rispondere in quel momento (e non dopo) a una richiesta del ragazzo che va al di là del compito scolastico, ma che è fondamentale per la sua crescita”. E Alice si/ci domanda: “Com’è possibile rallentare, dare spazio ai “presentimenti lenti”, quando adulti e adolescenti sono costantemente immersi nella rapidità della vita moderna, gli uni presi dalla frenesia del fare e gli altri immersi nel velocissimo flusso di informazione della rete e dei social?”
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La formazione come auto-consapevolezza Essere educatori comporta la necessità di sviluppare e aggiornare costantemente una visione di sé e del mondo per essere in grado stare nella relazione senza mai perdere il senso della propria trama educativa. Questa condizione di consapevolezza, che dovrebbe essere perseguita in generale da qualsiasi soggetto adulto pensante, credo debba essere un impegno costante di auto- formazione di chi, per scelta, si assume il compito di educare. A questo proposito Erica afferma: “Essere alti ma non su un piedistallo. Alti, cioè formati: abbiamo bisogno di padroneggiare davvero i contenuti che vogliamo trasmettere e, soprattutto, scegliere quali contenuti comunicare, in quale momento. Nello stesso tempo il nostro linguaggio deve essere chiaro, comprensibile, alla portata dei ragazzi. Avere un livello alto di comunicazione vuol dire anche scegliere il modo migliore per trasmettere un messaggio, avere considerazione del proprio interlocutore, non fare del linguaggio una forma di potere.” Erica richiama un aspetto della responsabilità di essere un educatore, individuandolo nella cura continua delle proprie competenze comunicative, e Alberto aggiunge: “Il nostro compito sta nel riuscire a gestire (noi stessi in primis) la quantità di informazioni e di compiti da cui veniamo continuamente bombardati, dando la giusta priorità alle cose, lasciando per un attimo le questioni lontane e concentrandoci principalmente sulla persona che abbiamo di fronte”. Monica amplia il quadro affiancando al tema della responsabilità delle scelte anche quello della coerenza : “Spesso noi adulti tendiamo a giudicare i giovani, i ragazzi con cui lavoriamo per i loro atteggiamenti (uso spasmodico della tecnologia, eccessiva semplicità nel riflettere su alcuni avvenimenti che accadono), quando siamo noi stessi i protagonisti di queste azioni. Riflettere sui punti precedenti ed, in particolar modo, sull’uso del tempo, è fondamentale per non cadere nell’ipocrisia, elemento che io vedo come un grave pericolo per il mio lavoro. Il rischio più grande è essere portavoce di importanti nozioni per poi, nella concretezza e nella quotidianità, fare l’esatto contrario. Di conseguenza, il ragazzo non crede più nella figura dell’adulto, ma arriva a deriderlo, perché si contraddice lui stesso (spesso sento i ragazzi parlare e deridere certe figure adulte, perché si sono comportate in modo del tutto contraddittorio rispetto al ruolo che coprono).” Erica sintetizza così il concetto: “Coerenza: fare ciò che diciamo. Anche questo mi sembra un elemento fondamentale della comunicazione efficace. Senza questo elemento, che comporta un certo lavoro su noi stessi, non c’è sostanza, non c’è promessa di futuro, non c’è speranza in quello che diciamo. I ragazzi ci mettono davanti ad un esercizio continuo di coerenza”. Il momento della formazione è dunque il momento in cui si costruisce o si fa manutenzione di queste consapevolezze e rappresenta un essenziale complemento della propria professione di aiuto, la cui peculiarità e “stranezza” rispetto ad altre professioni consiste proprio nell’impegno a sviluppare proprio questa consapevolezza, così da occupare poi con significati condivisi il tempo e lo spazio del lavoro.
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La relazione educativa come sostegno ai ragazz/e nella scoperta di Sé Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente. (R.M.Rilke, Lettere milanesi)
Un aspetto che contraddistingue la relazione educativa è la sua asimmetria costitutiva, per cui da una parte dovrebbe esserci un “esperto di qualcosa” da trasmettere e all’altro lato colui che deve ricevere questa “cosa”, mediante la relazione. Il processo è relativamente semplice finchè si tratta di un insegnamento/apprendimento relativo a qualche specifica e definita competenza, molto più complesso quando il concetto di educazione si amplia fino a diventare un sostegno alla scoperta di sé nella fase in cui si forma la propria identità. E’ qui che occorre avere la capacità di cogliere e restituire alle bambine/i e ai ragazzi/e che si incontrano il senso del loro essere in divenire e affiancarli nello scrutare il loro orizzonte, aiutarli a scegliere la strada migliore per loro e accompagnarli. Un modo per realizzare questo compito di scoperta e costruzione della propria identità è quello di riuscire a raccontarla a noi stessi a agli altri, mano a mano che la storia si dipana. Siamo storie che devono essere narrate, storie formate da trame di esperienze molto personali intessute ad altre più comuni e collettive. Sapere raccontare seguendo una trama dà senso alle esperienze del passato e orienta il loro divenire.
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L’evoluzione tecnologica Ora accade questo: le tecnologie create per facilitare i compiti umani possono diventare un ostacolo al perseguimento degli obiettivi per cui sono state originariamente pensate. Tecnologie utilizzate per facilitare la comunicazione e le relazioni tra le persone possono trasformarsi in strumenti di isolamento, manipolazione, violenza e controllo degli uni sugli altri. Questo, a mio modo di vedere, è il tema in questione: quali sono i limiti entro i quali le tecnologie contribuiscono a facilitare ciascuno di noi nelle relazioni con gli altri e nella realizzazione personale e cosa accade quando questi limiti vengono, facilmente, superati? Chi presidia oggi questo ambito e si può fare portatore di esperienza da offrire a coloro che dentro a questo contesto hanno mosso i primi passi della loro vita? E’ il “nativo digitale” che, come spesso si dice, insegna al più anziano l’uso della tecnologia o siamo di fronte ad uno stravolgimento della relazione, dovuto alla incapacità dell’adulto di seguire le trasformazione in corso e di raccontarle a sé e agli altri? Focalizziamo l’attenzione sulla capacità di stare nel presente della relazione o di sapere utilizzare in modo appropriato le tecnologie, favorendone un uso costruttivo e cercando di impedirne gli effetti controproducenti. Allora, come dice Alessandro: “Dobbiamo essere i primi a non farci prendere dalla “digifrenia”, sia quando siamo con i minori e abbiamo il cellulare a portata di mano che nelle comunicazioni tramite messaggi e whatsapp. È importante non perdere di vista il fatto che abbiamo di fronte essere umani e non pratiche da sbrigare.”. Ed evitare così il “rischio di rincorrere gli elementi del presente continuo e di perdere di vista l’umano che abbiamo di fronte: è un rischio che sento molto presente nel nostro mestiere, soprattutto quando passiamo dei periodi di nostra poca disponibilità di energie, o forse di poca stabilità. In queste occasioni rischiamo di vedere quasi un rifugio nelle urgenze, o presunte tali, nelle cose pratiche da fare, perché ci sembra di sentirci soddisfatti facendo tante cose, ci sembra di essere bravi e ci permette di non dare troppa attenzione all’essere, più faticoso da curare.”(Erica)
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Cosa sta cambiando nel linguaggio dei ragazzi La scoperta di Sé stessi, della propria identità, è un interrogarsi alla luce dell’esperienza e le risposte, a mano a mano che si accumulano, diventano materiale per comporre il racconto di “Sè”, la propria storia. In questo viaggio, in cui il rapporto con gli altri è indispensabile riferimento, le possibilità e i modi per ciascuno di raccontarsi sono negli ultimi dieci anni veicolate da nuove forme di comunicazione rese possibili dalle tecnologie informatiche, che riducono - fino ad annullarle - tutte le distanze di spazio e di tempo e si assommano alle precedenti fondate sul confronto “faccia a faccia” (le nottate passate a parlare con un amico o un’amica) e sui media analogici (come era, ad esempio, la scrittura del diario cartaceo), spesso sostituendole. La comunicazione digitale propone nuove forme di relazione mediate da dispositivi tecnologici e schermi in cui le caratteristiche “virtuali” dei profili personali rappresentano nella migliore delle ipotesi rappresentazioni di aspetti parziali e semplificati delle relazioni reali. Fino ad oggi, le capacità dei ragazzi di conoscere e di operare in questi contesti sono apprese “sul campo” e perlopiù non sono oggetto di confronto con adulti più esperti e perciò spesso non sono poste al vaglio di una consapevolezza critica dei limiti che queste situazioni comportano. Nel suo libro, Rushkoff analizza l’evoluzione dell’uso di queste forme di comunicazione digitale e rileva un fondamentale cambiamento nel modo di relazionarsi e raccontare sé stessi agli altri determinato da una modificazione delle strutture narrative sottostanti che produce un effetto di “presentificazione” dellastoria personale, in cui sostanzialmente si adombra l’idea del futuro (il raccontarsi e il confrontare progetti, speranze e timori ad essi associati) in favore di una spropositata attenzione al rispondere a continui stimoli nel “qui ed ora”, ad essere sempre “sul pezzo”, al bisogno di sentirsi sempre al centro della scena. Sui complessi motivi sociali ed economici sottostanti a questi cambiamenti si rimanda alla lettura del libro, mentre focalizzerei l’attenzione sulla nostra capacità di riconoscerne gli effetti nella quotidianità della relazione con i ragazzi e le ragazze che incontriamo, come fa Alberto, che commenta: “Per quanto riguarda il collasso narrativo, ne possiamo trovare riscontri ormai in qualunque ambito della vita dei ragazzi, che fanno molta fatica ad esprimersi (perché ormai le comunicazioni sono dettate dai mezzi moderni, comunicazioni semplificate e riassunte come quelle degli sms/whatsapp prima e dei social network poi). Prima di tutto, i ragazzi fanno molta fatica ad esprimersi in un italiano corretto, lineare e lessicalmente ampio.” E Alessandro rileva come “tutti possono raccontare tutto, anche chi non ha niente da dire o non ha particolari capacità di comunicazione, con il rischio che il linguaggio e la forma di comunicazione siano limitati e scadenti”. Questi modi di raccontarsi agli altri interfacciati da dispositivi digitali sono spesso caratterizzati secondo Umberto, da “- Vocabolario spesso impoverito e ricco di insulti. Per essere più veloci, la comunicazione spesso è a spot o abbreviata e, per essere più incisiva utilizzando pochi termini, è ricca di parole volgari e di offese. - Calo della comunicazione verbale. Con l’uso dei nuovi mezzi, la comunicazione verbale è drasticamente diminuita. - Interesse per lo più a mettersi in mostra: non avendo un vero e proprio interlocutore e non essendoci uno scambio reale prevale l’interesse a mettersi in mostra o l’illusione di ricevere attenzione alla volontà di trasmettere o far passare qualcosa. “ La rappresentazione di sé mediata dai dispositivi tecnologici espone a forme di illusione e di inganno alle quali Riccardo dedica un’ampia riflessione (in questo numero riportata integralmente: L’illusione dei social media - NDR), densa di molti spunti critici, a cui chi si occupa di educazione è tenuto a prestare attenzione e che consiglio di leggere nella sua completezza. In aggiunta a questo impoverimento verbale, sempre più frequentemente si osserva come, mano a mano che queste modalità si sostituiscono alla relazione personale “dal vivo”, si giunge al paradosso di non riuscire a farne a meno anche quando sono in relazione “faccia a faccia”, denotando in tal senso una crescente dipendenza dall’uso dell’interfaccia digitale che Rushkoff, con un neologismo chiama “digifrenia”.
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che fare?
Ma quali sono le strade che si possono intraprendere per tentare di porre qualche rimedio a questa situazione? Una preliminare avvertenza, se si desidera essere ascoltati dai ragazzi, è quella di avvicinarsi al loro mondo senza troppi pregiudizi che aumentino la distanza relazionale, anziché ridurla. E’ Alberto che ce lo ricorda: ”Nonostante il mondo degli adulti sia sempre stato un po’ distante da quello di bambini e ragazzi, a causa delle nuove scoperte, dei recenti e repentini cambiamenti nella cultura, nel modo di pensare ecc, attualmente i ragazzi la pensano in maniera molto diversa dagli adulti, rispetto a qualche decennio fa. Dobbiamo riuscire a non giudicare i ragazzi per come la pensano, per come sono cresciuti all’interno di questo sistema in continua evoluzione.” A partire da questa premessa mi sembra che dalle riflessioni portate possano essere individuate almeno tre diverse vie, ognuna delle quali può essere sviluppata e approfondita mediante progetti, metodi e strumenti specifici, che ciascuno può scegliere di intraprendere a seconda delle proprie sensibilità e attitudini.
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- Il ritorno a casa dei migranti digitali
Le soluzioni verso un corretto utilizzo degli strumenti non consistono tanto nel vietarne o limitarne l’uso, quanto piuttosto nel conoscerli, per poi consentire ai ragazzi di ammettere assieme a noi quando l’abuso o il cattivo uso dello strumento finisce col tradirne le promesse iniziali. Come dice Monica: “Proprio perché ora la tecnologia (internet, i social network) domina il presente in modo rilevante e, nello specifico, il mondo degli adolescenti con cui mi relaziono, credo sia importante conoscere il linguaggio specifico dei mezzi tecnologici, come anche espressioni che nascono dai social network e che fanno parte del linguaggio quotidiano dei ragazzi”. Una proposta educativa, che è emersa da molti consiste pertanto nell’entrare nella tecnologia, utilizzarla per realizzare nuove forme di espressione di sé, come sostiene, ad esempio, Alberto: “Rispetto al modo in cui è cambiato il modo di narrare e alla possibilità che offre la tecnologia di essere tutti narratori, nel nostro lavoro credo sia fondamentale permettere al minore di raccontarsi garantendogli la possibilità di essere lui, artefice delle attività da sviluppare insieme, venendo incontro al suo bisogno di raccontare, partecipando al suo mondo, stimolando la sua creatività.” Magari non rinunciando, come adulti, a ricordare e testimoniare come si viveva nel mondo analogico, quando eravamo senza telefono e senza schermi; esplorare assieme il confronto tra il passato e il presente può consentire di scoprire i vantaggi e gli svantaggi dell’uno e dell’altro mondo e ri-attualizzare aspetti di quest’ultimo che rischiano di andare perduti. Il saggio di Riccardo “L’illusione dei social media” è senz’altro un buon esempio di come questo metodo di confronto antropologico/storico - il guardare al presente con occhi di altre culture (o di generazioni che ci hanno preceduto) - può essere sviluppato.
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- Ascoltare e parlare “faccia a faccia” Sandra suggerisce un’altra via per scoprire
nuovi significati nella relazione educativa: “Riuscire a recuperare attitudini e pulsioni umane staccandosi dalla tecnologia. Ragazzini sempre attaccati al telefonino per giocare ai videogiochi, dove il tutto-e-subito e il qui-ed-ora non permettono di pensare al futuro, di avere dei sogni. Si ha una completa perdita di significati.” O, almeno, della loro estensione temporale, della loro durata. Così per Erica occorre che sia l’educatore stesso a sviluppare attenzione alla narrazione della propria relazione con i ragazzi, “ovvero tenere presente sia la loro storia che l’andamento della nostra relazione con loro o della loro relazione nel gruppo. Saper quindi cogliere i momenti proficui di svolta, di cambiamento nei quali è necessario spendere più energie perché la storia di quella persona e della sue relazioni possa realmente evolversi, fare uno scatto e non restare ad un punto fermo. Aiutare i ragazzi a raccontare la propria storia e, raccontandola, a rileggerla. Riuscire a farlo, come ci siamo detti, senza domande dirette ma sfruttando le occasioni che si presentano e le domande meno dirette.” Secondo Alice questo possibilità di raccontare non è però immediata e chiama in causa il domandarsi se i modi di comunicazione dell’adulto siano ancora efficaci: “il nostro linguaggio è comprensibile agli adolescenti? Ci capiscono? O dobbiamo trovare nuovi modi di comunicare ricostruendo la grammatica della relazione?” . Lavorare con i ragazzi e le ragazze sulla predisposizione di situazioni che consentano di esplorare la grammatica dei sentimenti per esprimerli in parole e in storie è un esercizio prezioso, ma è possibile solo se c’è qualcuno che ascolta e, come una cassa armonica, lascia risuonare il tutto.
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- Il corpo, le emozioni
La terza via è rappresentata dal riemergere della consapevolezza di essere un corpo con una sensibilità che a volte dimentichiamo di coltivare e mi sembra esaustivamente tratteggiata dai seguenti contributi. Sandra ci ricorda di una differenza fondamentale tra le relazioni on-line e l’Esserci: “La maggior parte delle cose che si vedono sul web non sono tangibili, non esistono realmente. Il rapporto che noi abbiamo con i nostri ragazzi ha il privilegio di essere autentico, reale sia nelle situazioni positive che nelle difficoltà; è possibile che loro possano anche non apprezzarlo o capirne l’importanza, ma garantisce la possibilità di entrare in una relazione fisica ed emotiva reale.” Anche Erica, seguendo altre associazioni, giunge alla stessa consapevolezza : “Quello che si è detto rispetto alla digifrenia, alle nuove tecnologie e ai nuovi modi di relazionarsi con esse mi rimanda ad un altro linguaggio che credo si stia sempre di più perdendo nel tempo presente: quello del corpo, dei gesti, di tutto ciò che non è parola. In un percorso sul Teatro dell’Oppresso ho avuto modo di sperimentare su me stessa la fatica di esprimersi con un linguaggio, quello non-verbale, che conosco poco e non mi appartiene. Nello stesso tempo, sforzandomi di riuscirci attraverso gli esercizi proposti, mi rendo conto delle immense opportunità di espressione che tutto il linguaggio non verbale offre e a cui spesso non pensiamo. Se penso ai ragazzi, una delle cose che più mi colpisce è lo sguardo. È raro vedere i ragazzi della Lampada (progetto rivolto ai ragazzi in età da scuola secondaria superiore, NDR) alzare lo sguardo verso la persona con cui stanno chiacchierando durante la merenda. Una buona parte delle loro conversazioni informali si svolgono con lo sguardo sul telefono, ognuno al proprio. Ad alcuni dovremmo provare a chiedere di che colore sono le pareti, per vedere se l’hanno mai notato.” Approfondendo questo aspetto della percezione di ciò che ci circonda e della capacità di esprimere le emozioni ad essa associate, Alberto ci riporta ai significato della distinzione tra comunicazione digitale e analogica, riaffermando il bisogno di valorizzare quest’ultima nei percorsi educativi: “Emozioni, il “trasportare fuori”, una parola che al giorno d’oggi ci riporta ad una triste realtà: spesso alcuni dei nostri ragazzi non riescono ad esprimere le loro emozioni, perché la loro espressività passa perlopiù attraverso il digitale. Per chi ha un po’ di familiarità con alcune nozioni tecniche e scientifiche, il termine analogico definisce qualcosa che passa attraverso infiniti stati, infinite sfumature di quello che può essere un orario, un colore, una temperatura, oppure appunto un’emozione. Il termine digitale invece definisce una specie di interruttore: in un orologio potranno esserci le ore, i minuti, i secondi, perfino millesimi di secondo, ma in mezzo a questi millesimi di secondo cosa c’è? Non c’è niente. Così vale per le nostre emozioni, per i nostri sentimenti: spesso conosciamo qualche “sentimento base”, come la rabbia, la gioia, l’allegria, la tristezza, ma rischia di diventare tutto bianco o nero, acceso o spento, perché ci basiamo un po’ troppo sulla vita vissuta digitalmente. Insegnare ai ragazzi ad usare il corpo, a liberare le possibilità che il corpo, lo sguardo, la voce offrono penso possa essere una valida risorsa per lavorare con loro sulle emozioni e anche sull’apprendimento”.
In conclusione, mi sembra, condividendo questa considerazione, che una educazione al corpo, agli affetti e ai sentimenti sia ancora, oggi più che mai, necessaria, che interessi ai ragazzi e alle ragazze e che possa rappresentare per loro uno dei maggiori motivi di contrasto alle seduzioni del mondo tecnologico “virtuale”. Per gli educatori: sperando di essere riuscito a fornirvi in questi appunti qualche utile suggerimento per alimentare i momenti di incontro con i vostri ragazzi e ragazze, ringrazio tutti - le partecipanti e i partecipanti - quelli che hanno contribuito a portare le loro idee (soprattutto quelli i cui contributi, esclusivamente per motivi tecnici, non sono riuscito a ricevere in tempo e ad inserire nei commenti) e quelli che le hanno pazientemente ascoltate e hanno condiviso il buffet finale.
FIORELLO GHIRET TI Psicologo e Psicoterapeuta Consultorio Giovani - AUSL RE
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But my son and my daughter Climbed out of the water Crying, Papa, you promised to play And they lead me away To the great surprise It’s Papa, don’t peek, Papa, cover your eyes And they hide, they hide in the World
BREVE di Fiorello Ghiretti
The Night Comes On - L. Cohen
“La cultura del narcisismo” C. Lasch, Bompiani, 1981 La cornice in cui collocare la crisi data dai cambiamento sociali, economici e culturali del secolo scorso è la cosiddetta Cultura del Narcisismo. Per chi desiderasse avventurarsi nell’analisi di Lasch va detto che tratta di un’ampia cornice all’interno della quale vengono trattati molti aspetti delle principali trasformazioni socio-culturali da cui originano i nuovi tratti della personalità individuale dei partecipanti alla nostra attuale cultura. Senza entrare nel merito delle questioni aperte da questo studio (per molti aspetti discutibili, come lo sono, ovviamente, anche quelle dei testi indicati in seguito) credo che il suo valore risieda a tutt’oggi nella potente visione di insieme da cui è possibile trarre spunti di riflessione per molte possibili approfondimenti. Prenderei da questo testo la prima provocazione. Siamo nel 1980, ben prima dello sviluppo di tutti gli attuali dispositivi tecnologici che consentono quella peculiare fuga dalla realizzazione di sé, realizzazione che necessita di un progetto e quindi di una narrazione, nel presente continuo. La provocazione inizia con una premessa: ”Nuove forme sociali richiedono nuove forme di personalità, nuovi modi di socializzazione, nuovi sistemi di organizzazione dell’esperienza. Il narcisismo sembra rappresentare il modo migliore per tenere testa alle tensioni e alle ansie della vita moderna, e le condizioni sociali prevalenti tendono perciò a fare affiorare i tratti narcisistici che, in gradi diversi sono presenti in ciascuno (...). Tali condizioni hanno trasformato anche la famiglia, che è a sua volta un fattore determinante della struttura profonda di personalità (…). Gli sforzi dei genitori moderni perché i loro figli si sentano amati e desiderati non riescono a nascondere una freddezza di fondo – l’indifferenza di chi ha ben poco da trasmettere alla generazione successiva e vede in ogni caso come prioritario il proprio diritto alla realizzazione di sé” (pag 64).
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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA Poiché mi è stato chiesto di lasciare una traccia affinchè chi vuole possa approfondire, provo ad indicare alcuni testi che inquadrano la crisi della narrativa tradizionale (descritta nel libro di Rushkoff che abbiamo condiviso) all’interno della più ampia cornice da cui origina la richiesta di imparare a narrare la propria storia personale, sottostante all’ideale di realizzazione di Sé della cultura contemporanea e alla crisi. L’educatore in quanto persona, uomo o donna, spesso “giovane adulto”, è chiamato in prima persona a rispondere a questo compito di ricerca di Sè e della propia identità sociale prima ancora di potersi proporre come un modello o un esempio all’interno della relazione educativa con i più giovani. Condivido con voi, pertanto alcune letture che considero “buone” per questo scopo, fermo restando che rappresentano una piccola scelta tra una ormai vasta letteratura in proposito, caratterizzata da volumi brevi (a parte il primo) tutti disponibili in versione economica, in cui si predilige il carattere sociologico dell’analisi, delineando il contesto dell’agire educativo e collocando i problemi sul versante psicologico e relazionale. La traccia suggerita, cari educatori, è più da intendersi come un biglietto di invito ad una successiva condivisione, a partire dal quale mi auguro di poter incontrare quanti di voi fossero interessati a continuare il confronto. Il figlio del desiderio - M. Gauchet, VitaePensiero edizioni, 2010
In questo nuovo contesto sociale del narcisismo i figli non “capitano”, ma sono il frutto di desiderio “programmato” dei genitori. “Il bambino è diventato il figlio del desiderio, del desiderio del figlio. Era un dono della natura o il frutto della vita attraverso di noi, certo, ma senza di noi e malgrado noi. D’ora in poi non potrà che essere il risultato di una volontà espressa, di una programmazione, di un progetto”( pag.8). L’autore non esita a chiamare questo cambiamento “una rivoluzione antropologica” e nell’arco di di meno di un centinaio di pagine ne illustra i fondamentali effetti sulla vita dei nuovi genitori e dei loro figli. L’infanzia viene identificata come “l’ultima utopia politica ”, l’ultima speranza di vedere realizzato un mondo diverso da quello che i genitori conoscevano. Nelle precedenti visioni utopiche il bambino vi compariva come idea del futuro della società, ora “é l’utopia di una società di individui intergralmente realizzati. Ciò significa avere, da una parte, un universo di individui che scoprono sé stessi da soli, per autocostruzione, al di fuori di qualsiasi pressione o vincolo sociale, dall’altra una modalità di coesistenza senza violenza, dove ogni individuo è sufficientemente realizzato in sé stesso da poter accettare le differenze degli altri” (pag.15). Questo orizzonte utopico riveste un ruolo fondamentale nel forgiare una l’idea di educazione conseguente.
L’epoca delle passioni tristi - M. Benasayag/ G. Schmit, Feltrinelli editore 2004
La realizzazione di sé è resa possibile da una concezione del futuro che consenta di vivere il presente nella speranza di un progressivo miglioramento sia individuale che sociale. Secondo gli autori “la cultura occidentale si è costituita a partire da questo “non ancora” carico di promesse messianiche...L’occidente ha fondato i suoi sogni di avvenire sulla convinzione che la storia dell’umanità sia inevitabilmente una storia di progresso”. Ad un certo momento questa concezione della storia entra in crisi rapidamente, al punto che “oggi c’è un clima diffuso di pessimismo che evoca un domani meno luminoso, per non dire oscuro (...), inquinamenti di ogni tipo, diseguaglinze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie. La lunga litania delle minacce ha fatto precipitare il futuro da una estrema positività a una cupa e altrettanto estrema negatività”. E l’idea di sé del “figlio del desiderio” comincia a richiedere una attenzione e un sostegno educativi rivolti per attenuare o scongiurare i rischi, incombenti, di un “crollo narcisistico”.
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Presente Continuo - D. Rushkoff , Codice edizioni, 2014 Un viaggio nel presente tecnologico che illustra in modo chiaro e documentato le promesse e le seduzioni del mondo virtuale per coglierne gli effetti dirompenti nella quotidianità di ciascuno di noi. L’autore approfondisce la decostruzione della narrativa tradizionale, in conseguenza della quale l’angoscia del futuro “come minaccia”, trattata nel libro precedente, viene rimossa in favore della “presentificazione” del futuro, e svela le logiche di controllo e sfruttamento sottostanti a molti dei programmi più in voga sui nuovi dispositivi tecnologici a cui, inconsapevolmente e docilmente, stiamo consegnando, giorno dopo giorno, la nostra vita e la nostra libertà: “Ciò che la tecnologia può fare degli esseri umani mi preoccupa molto meno di quello che gli esseri umani stanno scegliendo di fare a loro stessi per mezzo della tecnologia: la riduzione delle presone a profili per modelli predittivi (vedi Facebook) e la trasformazione del mercato, operata dalle banche di investimento, in un campo di battaglia algoritmico non sono state scelte operate dalle macchine, ma dagli esseri umani”.
Cosa farò da grande, G. P. Charmet, Laterza edizioni, 2012 Dobbiamo quindi quindi ricominciare a pensare al futuro affinchè i “nuovi” figli, al momento dell’adolescenza (il passaggio più importante per la realizzazione dell’adulto di domani), non siano scoraggiati in partenza e sospinti al fallimento proprio dall’incapacità dei loro genitori e degli adulti che li circondano di favorirne la nascita sociale. Il libro offre un’analisi - attualizzata e riferita al contesto italiano - dei vari ambiti, a partire dalla famiglia, in cui il mondo degli adulti è chiamato a questo ripensamento per favorire e sostenere una progettualità nelle giovani generazioni. Dice l’autore: ”La capacità di sperare che esista un tempo futuro in cui potrà realizzarsi il suo progetto e sarà possibile sviluppare maggiore creatività e amore rappresenta per l’adolescente il requisito per riuscire ad essere sereno e laborioso, impegnato nell’allenarsi ad imparare mestieri e sport e, nel frattempo, godere dell’amicizia, dell’amore, dell’avventura, del viaggio, del rischio”.
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Costruire la propria vita - U. Beck, edizioni Il Mulino, 1997 La ricerca della libera realizzazione di sé non può essere socialmente assicurata e garantita e comporta come pedaggio la necessità di temperare gli eccessi di individualismo ed egocentrismo propri della cultura del narcisismo, nonchè di sviluppare la capacità di assunzione su di sé di un rischio di fallimento. Si chiede l’autore: “Sta forse dilagando un’epidemia di egoismo, una “febbre dell’io” che è immune da farmaci di natura etica, come ad esempio “pillole di noi” e quotidiani appelli alla difesa del bene comune? O sono piuttosto i singoli che, ingegnandosi e affannandosi per la propria vita, agiscono da pionieri, da fautori di un cambiamento più profondo? (...) Non può darsi, quindi, che in questa lotta per un nuovo rapporto tra individuo e società (il cui obiettivo è la costruzione di una vita personale, ma anche sociale in un nuovo senso del termine) venga manifestandosi un mutamento evolutivo capace di cambiare le basi della società occidentale?” Speriamo di stare lavorando per questo!
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“Crisifilia”, sostantivo singolare femminile, la cui prima attestazione risale all’anno 2006. È un termine che significa “indulgere compiaciuto e morboso nei confronti di una situazione di crisi, di grave difficoltà”. Non so se stiamo indugiando in modo compiaciuto nella crisi, ma c’è da augurarsi che dalle crisi siamo capaci di trarre piacere, viste quante ce ne sono. Se così non fosse, oltre che essere perpetuamente in fase critica, saremmo anche votati alla dannazione terrena. E dire che crisi non è una parola così aspra, se la si riporta alla sua etimologia, a quel verbo greco krino il cui significato è separare, cernere, ma anche discernere, giudicare, valutare: tutte azioni che prevedono una competenza e una pazienza nell’applicazione. Separare è stata questione di sopravvivenza nell’agricoltura e nell’allevamento, tanto per fare un esempio. Ma da quando le società hanno provato a darsi ordine con le logiche conservatrici più o meno esplicite, le cesure hanno sempre spaventato. Altrettanto intimoriscono le fratture nell’identità e le esperienze importanti degli esseri umani. Le prime crisi che ci hanno presentato nel nostro percorso scolastico sono state quelle storiche, giustificate sempre con pochi ben determinati fattori scatenanti: quando portavano a progressi e benefici degni di nota, le crisi venivano chiamate rivoluzioni. Se fortunati, sempre a scuola avremmo poi incontrato insegnanti capaci di affrontare l’elemento “crisi” ad un altro livello umano, quello della cultura, ed in particolare della letteratura: generazioni intere accomunate da angosce e movimenti interiori sovraindividuali (all’apparenza) tali da generare nuovi modi di esprimersi, da mettere fuori fuoco temi prima così cari e da lì in poi futili. E nel frattempo, nel mondo esterno alle mura scolastiche, avremmo conosciuto le multiformi difficoltà della vita reale, con le relative nominabili “crisi”: le crisi adolescenziali, immobiliari, di astinenza, matrimoniali, patrimoniali, interiori... Siamo fortunati a vivere in un’epoca - il cui inizio è piuttosto recente, per la verità - in cui la maggior parte delle crisi possono avere un nome; ciò comporta il vantaggio di sapere che si è bene o male in una norma, in una prevedi Matteo Muratori dibilità. Possiamo giustificarci di fronte al mondo e scaltramente prevedere come dovremmo gestire le manifestazioni del nostro malessere, sentendoci di non turbare più di tanto le persone che abbiamo accanto, mettendole nella condizione di poter alzare le mani disarmati e dire “è in quel tipo di crisi, io non posso farci nulla”. Infatti, un altro vantaggio che deriva dalla normalizzazione della crisi è che sono state ratificate professioni per occuparsi delle persone che vi incorrono. Come se tutto procedesse per strappi, non è più prevista una professione di prossimità alla persona che non debba garantire di saper gestire le crisi: se prima il saper entrare in contatto con la dimensione turbata di una persona era un sapere occulto da guaritori, sacerdoti, psico-professionisti e pochi altri dal carisma estemporaneamente riconosciuto, ora è un punto inevitabile del curriculum di insegnanti, avvocati, medici generici, allenatori, impiegati di sportello e così via. Tutti siamo chiamati a mostrare sensibilità, o quantomeno a ri-recitare quella che ci è stata presentata negli anni dai reality show, dai reportages, dai film-verità, dalle catene di Sant’Antonio su WhatsApp, dalle pagine Facebook...: abbiamo ricevuto un’istruzione, abbiamo il dovere di metterla a valore! E più ci dimostriamo sensibili, più guadagniamo crediti da spendere per essere ascoltati quando incorreremo nella prossima crisi. Seppellendo un po’ di più, ad ogni perpetuare del meccanismo, la consapevolezza antica che la vita è fatta di momenti difficili, che una volta venivano affrontati con l’amor proprio e la responsabilità da adulti senza abbozzolarsi dentro lo status di crisi (vd. Miguel Benasayag, Gérard Schmit, 2014, ne L’epoca delle passioni tristi, ad esempio). Anche perchè c’è una questione che non si deve dimenticare: svaporati i fumi delle crisi à la page, c’è la terra bollente di chi in crisi c’è davvero - quel tipo di crisi che può portare via le persone sul serio. Se il rischio per la società è la crisifilia, c’è un risvolto anche per chi si adopera nelle professioni di cura. Mettersi accanto alle persone definendosi capace di un approccio adeguato, richiede l’obbligo di aggiornamento, proprio perchè è implicito il fattore dinamico ed evolutivo nella dimensione umana.
Crisifiliaci
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Occorre essere pronti ai cambiamenti che le persone portano perchè maturano, perchè invecchiano, perchè regrediscono, perchè attraversano vicende impreviste nel loro svolgimento o nelle loro implicazioni; ma occorre allo stesso modo essere accorti dei cambiamenti che si inscenano attorno alle persone stesse, dal momento che – anche se spesso per orgoglio o titanismo vogliamo sentirci capitani del nostro vascello – siamo impregnati di relazioni fino al midollo, così che la variabilità alla quale ogni persone è esposta diventa esponenziale. È nostro dovere quindi tenerci aggiornati sulle tendenze sociali, studiando, documentandoci, confrontandoci con figure competenti o complementari alla nostra. Anche in questo processo virtuoso, tuttavia, è facile rimanere abbagliati: si rischia di vedere ovunque conferme ai fenomeni studiati, attivando indiscriminatamente allarmi o travisando le evidenze sotto ai nostri occhi. Vediamo ovunque disturbi specifici di apprendimento, applichiamo a chiunque l’etichetta “depresso”, riconosciamo tratti autistici in ogni vissuto. Può succedere realmente, ed è tanto più probabile quanto meno ci si confronta con colleghi o collaboratori ai quali possiamo riconoscere credibilità e fiducia. C’è un argomento che è oggetto di dibattito, in questi anni, tra i professionisti della cura, che probabilmente è urgente, anche se altri dicono che è inutile trattarne: è l’analisi degli effetti delle nuove tecnologie sulla vita delle persone. Parlarne risulta ostico perchè comporta che ci si metta in discussione personalmente, dal momento che chiunque è un utente di un qualche terminale e, in questo modo, è collegato alla Rete globale. Qui non si vuole entrare nel merito delle argomentazioni pro o di quelle contro: vorremmo prendere questo caso per continuare il ragionamento che fino a queste righe si è srotolato. Infatti, anche le nuove tecnologie hanno portato degli sconvolgimenti imprevisti nelle nostre vite, o quantomeno lo sono stati i tempi che hanno segnato l’avvicendarsi della novità. È ovvio che questo assalto – orchestrato? Atteso? Subito? Sognato? - ha generato rivoluzioni nella vita delle persone, e nulla era più prevedibile del fatto che in occasione di questa rivoluzione la zecca delle “crisi” coniasse nuove edizioni dei suoi prodotti. Leggere gli studi di Douglas Rushkoff è un’occasione preziosa di approfondimento del panorama della nuova socialità digitale e dei rischi nei quali si può incorrere: si tratta di testi che organizzano una varietà di dati la cui connessione è superficialmente imprevedibile, eppure così evidente e lampante una volta mostrata. Come è proprio delle epifanie, svela agli occhi, ma ruba le parole alla mente e alla bocca: si rimane costernati, disorientati sul da farsi. I professionisti della cura che affrontano questo testo come formazione e aggiornamento, tuttavia, non possono permettersi questo tipo di smarrimento – o almeno, visto che siamo umani, diremo che non possono permettersi di manifestare con superficialità questo smarrimento nel proprio operato. Occorre infatti trarre spunti di riflessione e avviare la discussione con colleghi o affini. Ma, prima di ogni altra cosa, è necessario premurarsi di non cadere in quell’ossessività già vista, quella che riscontra in ogni dove indizi di digifrenia e di collassi narrativi. L’argomento delle nuove tecnologie chiama in causa le nuove generazioni, anche se non in modo esclusivo: se per i nati prima del 1995 la diffusione di terminali sempre più performanti e l’aumento della percentuale del tempo della nostra vita in cui siamo “connessi” sono aumentati con gradualità, chi è nato con queste dinamiche già consolidate intorno a sé vive implicazioni differenti. La congettura più immediata è che un quattordicenne di oggi abbia una parte di cervello che funzioni digitalmente, e che quella parte conformi lentamente, quasi esondando, anche le rimanenti. Non è detto che sia così, in verità. È qui, rispetto a questo “non è detto che sia così”, che si gioca la sfida degli educatori (o dei rieducatori di jervisiana memoria): studiare i rischi sottili della full-immersion digitale alla quale siamo ormai costretti, per capire come entrare in contatto con quegli elementi esclusivamente ed eternamente umani che ancora segnano e garantiscono la crescita delle nuove persone. Siamo obbligati a togliere di mezzo la convinzione che non possa esserci più dialogo con i bambini e i giovani, che il divertimento si svolgerà solo online, che non ci sarà più necessità di maestri. Ricordiamoci di quante volte è successo che, per trovare appigli per risolvere le situazioni esistenziali complicate delle persone che si rivolgevano a noi, ci siamo affidati alle riflessioni di psicologi, psichiatri, pedagogisti, pensatori del passato – tanto che a volte si trattava di figure ante litteram – trovando le migliori risposte, o almeno le più adeguate provocazioni. Un adolescente che adotta un abuso da MMORPG (gioco di ruolo in rete multigiocatore) è prima di tutto un adolescente, con tutte le peculiarità, le ricerche e le energie dell’età: è ancora possibile aiutarlo come adolescente, prima di darlo perso tra le terre infestate di demoni in cui gioca? Non è una domanda retorica, visto che noi stessi, gli Adulti, non crediamo seriamente alla possibilità di rivedere alcune nostre dipendenze dalla tecnologia che ci portano ad essere compulsivi verso i nostri terminali, concedendo immancabilmente a questi la precedenza rispetto alle persone reali che abbiamo intorno. Possiamo rieducarci un po’, noi, e chiedere anche scusa se siamo stati poco rispettosi? Poi, come sempre, i professionisti della cura delle persone cercheranno di fare il loro lavoro, che si sono scelti e che scelgono ogni giorno. Però, siamo poi tutti sulla stessa barca. E non è una barca in un MMORPG, è vera: ci ricordiamo ancora che cosa vuol dire?
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Esperti? VOI?! di Giorgia Bertani
Riflessioni in coda ai percorsi di guida all’uso (e al non uso) dei Social Network in classi di scuola secondaria inferiore
I
motivi per proporre e realizzare un progetto sui Social Network nelle scuole sono molteplici. Il mondo vastissimo della rete infatti interessa tutti, ma proprio tutti: insegnanti, genitori, alunni e, non di meno, dirigente, apprezzano e fanno loro il nome del progetto così come i suoi contenuti, nelle sfaccettature più varie ed a volte imprevedibili. Non c’è che dire, è un argomento indubbiamente di moda. Conferenze, dibattiti, articoli sui quotidiani, trasmissioni televisive e (perché no?) ore scolastiche si sprecano: tutto è dedicato a capire, conoscere, approfondire il mondo virtuale che sempre più si sta imponendo nella nostra vita quotidiana e reale.
I giovanissimi delle scuole medie e superiori si coinvolgono molto facilmente su questo tema, ne sanno ben più degli adulti e
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spesso anche di chi si presenta come esperto, non hanno paura del web e, attenzione, sono nativi digitali. Ci siamo inventati questa definizione che sa di alti studi per trovare la maniera di dire che loro maneggiano tutto quel ben-di-Dio da sempre e lo sanno gestire, mentre noi adulti l’abbiamo incontrato nel mezzo del cammin e ci siamo lentamente tutti dovuti rassegnare all’idea di doverci avere a che fare – chi più, chi meno, raramente senza dubbi o timori. Così, oggi, ragazzi e ragazze navigano senza problemi, camminano con gli occhi attaccati allo schermo di un cellulare o di un Ipad, comunicano sentimenti ed emozioni con piccole icone che li rappresentano senza più dover nemmeno nominarli e “diventan matti se il cell si scarica”. Mentre guardiamo tutto questo, noi adulti molto spesso ci scherniamo e ci preoccupiamo: stanno troppe ore al telefono, ne fanno un utilizzo poco consapevole, non sanno più guardarsi in faccia, la sera navigano fino a tardi invece di riposare… Gli adulti delle famiglie, se sollecitati a riguardo esprimono quasi sempre forte preoccupazione: sono ben consapevoli di non essere in una posizione idonea a guidare i propri figli nel mondo del web. Il ruolo di guida prevede il trovarsi davanti, mentre gli adulti si devono accontentare di rimanere indietro. Questo scarto e la sensazione conseguente di inadeguatezza alimenta il timore che i figli possano incontrare persone pericolose, che la rete sia poco sicura, che chiunque possa localizzare i loro ragazzi… L’angoscia è condivisa anche da insegnanti, catechisti, educatori, allenatori – l’esercito dei Preoccupati si allarga -, quasi tutti noi adulti proviamo diffidenza e resistenza verso la rete.
Ma presentimenti simili conducono a reazioni molto diverse, guidate ora da casualità ora da accorata intenzionalità: alcuni sfidano i tempi ostinandosi alla refrattarietà – accompagnata da orgoglio - alle nuove tecnologie, altri giurano che non si iscriveranno mai su FB, altri ancora insistono nel dire che anche il registro scolastico cartaceo era meglio di quello elettronico. Insomma, pare ripetersi l’andava meglio quando andava peggio dietro il quale ci trinceriamo quando ci sforziamo di mascherare la paura, per la verità in modo impacciato. Ovviamente è una dimensione che ci fa paura perché non la conosciamo, una dinamica per cui ci in passato ci han fatto paura gli stranieri, o per la quale ci attacchiamo al solito che ci dà sicurezza, visto che non vediamo ancora chiaramente come potrà essere il nuovo. Eppure dovremo, prima o poi, rassegnarci del tutto e convivere pacificamente anche con la rete, mostro più grande di noi, apparentemente più grande del mondo, che si evolve velocemente, tanto velocemente che non si fa in tempo ad acquistare un computer che già uno migliore è stato piazzato in commercio, con app che si moltiplicano e quasi si auto-evolvono, con logiche nuove che costringono a sforzare la nostra materia grigia già così affannata dalle corse della vita di ogni giorno. Vengono indetti incontri di formazione e dibattito – giustissimi – e spesso interviene qualche genitore che, a seguito di motivi ben circostanziati, afferma di non comprare il cellulare al figlio (o di non iscriverlo a FB, o di non permettergli l’uso di WhatsApp….) perché “sulla rete ci sono i pedofili”, “sulla rete ci sono le persone poco raccomandabili” e, ancora, “sulla rete ci si insulta”. Sì, tutto vero. Solo che i pedofili sono anche per strada, anzi, le statistiche dicono che spesso sono conoscenti o familiari della vittima. Le cattive compagnie sono reperibili senza sforzi appena fuori casa e, continuando, gli insulti sono diventati ordinaria amministrazione, pronti all’uso contro chiunque ti sia davanti in macchina, alla cassa del supermarket, nella tua immaginazione... Il punto è (ed è solo un punto di vista) che come prima si dava la colpa alla società ogni volta che l’urgenza era quella scagionare parzialmente un adolescente per un comportamento inopportuno – con tutte le gradazioni riportate scrupolosamente dalle cronache - oggi la tecnologia è compartecipe della colpa, lei, che devia tutti i nostri figli, ragazzi, alunni… come se nessuno fosse colpevole MAI, come se la RESPONSABILITÀ completa fosse tramontata per sempre.
Invece no, non stanno proprio così le cose.
Nelle scuole si interviene, di classe in classe, per spiegare che la tecnologia è uno strumento e che lo strumento, come il coltello, non è né buono né cattivo, dipende da chi lo usa e da come lo si usa. È il cervello che fa la differenza. Tutto qui: il messaggio non può essere formulato in modo più semplice di così, eppure sarebbe sufficiente che i ragazzi lo facessero proprio, senza attenuanti e alibi. Se i ragazzi possono fare questo salto di consapevolezza, sarà bene per ogni ADULTO recuperare nel frattempo un po’ di senso della propria adultità, che non deve essere scritta solo sulla carta d’identità, ma anche risultare nei pensieri e nell’esperienza. Stare con i ragazzi a parlare di web è interessantissimo, stimolante e divertente. Ma si possa finalmente dire a chiare lettere ciò che spesso formatori ed esperti delle nuove tecnologie esitano a dichiarare: non se ne può proprio più di sentire adulti lamentarsi dei figli che stanno sempre al cellulare e scoprire che sono loro stessi a falsificare i dati per l’iscrizione a FB; non è tollerabile che sia nato un nuovo reato, lo stalking, per il quale si viene arrestati se si lede la libertà altrui, fine perpetrato immancabilmente attraverso SMS e messaggerie affini; non è nemmeno logico che gli adulti siano sempre di corsa, sacrificando il tempo per l’ascolto e l’attenzione ai più giovani, i quali se li vanno poi senza ostacoli a cercare in rete. La questione è molto semplice ed è antica come il mondo: con i ragazzi bisogna starci e starci davvero, col cuore, con la testa. Servono dedizione e fatica, sicuramente in misura maggiore da quelle necessarie per imparare ad utilizzare l’ultimo dispositivo touch appena messo in commercio. È da ipocriti dare la colpa a loro se passano il loro tempo in solitudine a chattare. E se chattano anche quando noi siamo presenti, allora abbiamo sbagliato qualcosa: forse non siamo così interessanti, forse non così credibili. I ragazzi sanno relazionare benissimo e ascoltare ogni adulto che a sua volta li ascolti e li apprezzi. Dimostrare questo assunto sembra una sfida, ma forse la vera sfida per noi – così
sofisticati, rapidi, evoluti - è accettare che la soluzione sia la più semplice e lì, alla portata di tutti.
Percorsi condotti nel periodo marzo–aprile 2015 in 12 classi, alunni di età 12-15 anni, italiani e stranieri. 1 ragazzo solo sul numero totale non ha il cellulare. Il 100% delle classi ha nominato e chiesto informazioni su pedofilia e stalking (alcuni ragazzi hanno dimostrato di avere poca chiarezza). 1 classe seconda e 1 classe terza hanno spostato molto l’argomento sulla sfera sessuale (informazioni, siti, insulti e ricatti a sfondo sessuale). 1 solo ragazzino (di classe terza) ha parlato di deep web, dandone la giusta definizione. È iscritto su facebook circa il 60%, MOLTI si sono iscritti con i genitori, POCHI di nascosto, TUTTI hanno falsificato l’età.
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Gal i n a N o v a NUMERO
SECONDO
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g i r o d e l c i e l o @ g m a i l . c o m
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