GHY Guwahati Research Program, 2015

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GHY



Sommario

Atom Boma Birchatiar Desh (a cura di Alessandra Messali)

pg. 1

Gli hippy vivono nelle riserve Martino Genchi pg. 7

Number Station Mario Ciaramitaro pg. 13

Ventuno Luglio Duemilaventiquattro Riccardo Banfi pg. 19

Twiga Matteo Primiterra pg. 27

Manju Alessandra Messali pg. 31

Il Progetto Martino Genchi pg. 33

Nella cittĂ di Guwahati Paolo Rosso pg. 44

Tatarama Matteo Stocco pg. 51



Atom Boma1 Birchatiar Desh a cura di Alessandra Messali

[…] Quando Jagat, Gaya e il cane Jelly raggiunsero la stazione di polizia, una lunga scia di fumo si estese nel cielo di Sadiya ed improvvisamente un suono orribile, simile ad un tuono, si propagò portando con se un forte odore di bruciato. L’ufficiale immediatamente convocò i vigili del fuoco e si diresse a Sunpura pensando che si trattasse di un incidente, eppure, quando raggiunsero la zona, fu subito evidente che non lo era. Un’area di più di mezzo miglio2 era stata completamente annientata e ogni cosa, vivente e non, era carbonizzata. Questa sorta di strano devastante fenomeno non era mai stato visto in Assam. […] Dopo aver assistito all’esplosione della bomba atomica, Gelai e il suo team tornarono al campo segreto sul pendio e raggiunsero il dottore. «Chi è?» «La Compagnia.» Il dottore uscì e Gelai con un sorriso vittorioso disse: «Dottore la nostra missione ha avuto successo!» 1. Atom Boma è il primo libro di proto fantascienza pubblicato in lingua Assamese nel 1946, anno seguente l’esplosione di Hiroshima e Nagasaki (1945) e precedente alla dichiarazione d’indipendenza dell’India (1947). Il libro è stato tradotto in occasione della pupplicazione GHY da Mitali Devi, Alessandra Messali e Rashmita Phuran. 2. Un miglio è pari a 1.609 metri. 1


«Davvero?» «Del tutto! Ora...» «Ora cosa?» «Quale sarà il raggio d’azione delle prossime e in quanti giorni saranno pronte?». «Sto procedendo, ognuna delle due avrà effetti almeno fino a 3 miglia. Mi serviranno ancora due giorni per completare il lavoro, quindi fate in modo che nessuno mi disturbi.» «Grazie! Passerò dopodomani a prenderle. Se vorrà potrà andarsene da qui non appena le avremo ritirate. Ci assicureremo noi di farla tornare senza pericolo a Guwahati. Di quanti soldi ha bisogno? Potremmo arrivare fino a 100.000 rupie se lo desidera, e ora arrivederci.» Dopo la discussione Gelai e la Compagnia lasciarono il dottore e raggiunsero il loro campo. Uno degli uomini dal nome Gahin disse: «Sardar, il sotto ispettore Jagat e i suoi hanno raggiunto Sadiya.» «Come? Ne hai le prove?» «Ieri, quando sono stato al Bazar, il cane Jelly e il servo Gaja mi hanno visto e inseguito talmente rapidamente che mi hanno reso stanco e pure furioso! Fortunatamente in qualche modo ho trovato la via per scappare.» «Hai lascito qualche traccia lungo il cammino?» «Probabilmente no, mi è caduta a terra la borsa ma l’ho subito raccolta...» «Cosa c’era dentro?» «C’erano solamente delle noccioline, e poi sono scappato verso la giungla.» «Quindi, quasi certamente non troveranno alcun segnale del 2


tuo passaggio?» «Probabilmente no.» «Bene, adesso ascoltate.» disse Gelai rivolgendosi a tutti «Io, Gahin, e Brihaspalia andremo a Tinsukia da dove manderemo i telegrammi, mentre voi due starete di guardia qui e in caso di pericolo ci raggiungerete a Tinsukia. Ci troverete travestiti da mercanti Bhatya.» Finita la conversazione la compagnia si sciolse. Dopo aver raggiunto Tinsukia in perfetto orario, Gelai andò all’alloggio e prese una stanza. Subito s’occupò di spedire alcuni telegrammi al governatore dell’Assam e all’ispettore di Sadya. Tra i mittenti c’erano anche i redattori di alcune riviste delle principali città indiane come Calcutta, Bombay e Delhi. “Ci sono stati numerosi gruppi in India, così come in Assam, che si sono stabiliti in alcune terre quali Hindustan, Pakistan, Ahmstan, Bamunstan, Sudsaztan per loro beneficio. Queste azioni hanno riguardato anche noi e quindi come loro sentiamo la necessità di avere un pezzo di terra per creare una comunità di rapinatori, ladri e coraggiosi furfanti. Noi vogliamo un Muktisthan3. Non ci sarà la necessità di dividere l’India per nostro beneficio. Abbiamo solamente bisogno di un quadrato di 2 miglia nel mezzo della foresta collinare così da permetterci di gestire i nostri affari in modo indipendente, senza alcuna legge o regolazione. Le persone non entreranno se non saranno coraggiose e audaci. Quindi per questo scopo, richiediamo al governo indiano e a quello assamese di consegnarci un posto isolato entro 3. Muktisthan, terra della redenzione. 3


una settimana. Altrimenti le due grandi città4 dell’Assam verranno distrutte da una bomba atomica. In prova del fatto che siamo in grado di farlo rivendichiamo qui l’episodio dell’incidente di Sunpura. Solamente una settimana. O Muktisthan o la distruzione delle due città. La scelta è vostra. By Galai Sardar, Assam L’incidente di Sunpura non scosse solamente l’India ma anche altre potenze mondiali. L’America, maestra della bomba atomica, gli Inglesi che agirono come se avessero tutto sotto controllo e la Russia che si limitò a scuotere il capo. […] La paura di una possibile guerra mondiale spaventò la popolazione assamese. La comunità, oppressa ormai da anni dal dominio britannico aveva perso il proprio potere economico e politico e in questo contesto l’incidente di Sunpura confuse e disorientò ancor di più il popolo. In massa scapparono dalle città con macchine e motociclette e ritornaronò a popolare i piccoli villaggi. Iniziarono nuovamente a cercare case e a comprare terre, scavare canali per l’acqua e civilizzare nuovi luoghi. Entrambe le città erano rimaste deserte. Assamesi o non assamesi, buisnessman o operai se ne erano andati. Solamente i lavortori statali erano rimasti, ma anche tra loro, che avrebbero dovuto occuparsi dell’amministrazione delle città, ci furono persone che fuggirono verso le periferie per trarsi in salvo. 4. Guwahati e Dibrugarh. 4


Fu così che la bomba atomica di Gelai scosse l’intero Assam. […] Una volta giunto al distretto di polizia Jagat Daroga scoprì tutto a proposito della bomba atomica, eppure non ne rimase scosso. «Come? non sei sorpreso?» Domandò il comandante. «Assolutamente no.» «E Perchè?» «Le ho già detto in passato che nulla è impossibile per Gelai. Lui sa come collaborare con persone molto intelligenti ed istruite e grazie al loro aiuto ottiene sempre ciò che vuole.» «Quindi cosa possiamo fare?» «Troviamolo!» «Ma come possiamo trovarlo? Non abbiamo nessun indizio.» «Loro sono qui, vicino a Sadiya.» «Sadiya?» l’ufficiale saltò con sorpresa. «E come fai a saperlo?» «Non te lo dirò. Tu non volevi nominarmi per questo incarico e quindi non è mio dovere, chiedo scusa.» «Devi essere indulgente, ora puoi chiederci tutto l’aiuto del quale hai bisogno.» «Voglio due vestiti da militare e una forza armata che dovrà sottostare alla mia supervisione e tenere una distanza da noi di almeno 200 iarde.5» «È un compito davvero semplice.» Nel dire questo, l’ufficiale chiamo il suo suo sottotenente e gli ordinò di procedere con l’incarico. […] Notarono una roccia violentemente staccata dalla montagna, sembrava che qualcuno fosse passato di lì. Jagat 5. Una iarda è pari a 0,9144 metri. 5


e Gaya entrarono nella grotta con spirito audace quando improvvisamente si udirono due colpi di pistola e due pallottole li colpirono, entrambi caddero a terra. Jelly iniziò ad abbaiare attirando l’attenzione della forza armata che entrando nella caverna mise in fuga gli uomini di Gelai. Nel frattempo Gelai raggiunse attraverso una strada angusta il campo segreto dove si trovava il dottore, non dimenticandosi di richiudere dietro di se il passaggio utilizzando dei massi. «Dottore! Dottore!» «Chi è?» «La Compagnia» «Di cosa avete bisogno?» «Se ha completato la bomba la consegni» «Ho bisogno di un’altra ora.» «Non abbiamo tempo, i nemici hanno già raggiunto la caverna, quindi qualsiasi cosa lei abbia ce la consegni.» «È tutto pronto Sardar, devo solamente inserire l’esplosivo nel contenitore.» «Per favore, faccia alla svelta!» Il dottore mise velocemente la miscela nella scatola. Erano le dieci di sera, la barca attendeva nel fiume, tutto era pronto. […]

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Gli hippy vivono nelle riserve Martino Genchi

Era già da un’ora che il terminale del V.TE. non trasmetteva nulla. Niente di niente. Aveva provato tutto quello che era in suo potere, ma la linea non era tornata. Aveva tastato lungo i lati, provato a muovere le mani in ogni direzione, scosso la testa e perfino staccato e ricollegato la batteria. Ma niente. E intanto la metropolitana correva e correva, le fermate passavano e lui era lì bloccato. Non sapeva cosa altro avrebbe potuto fare. Nemmeno sapeva se era stato in grado di mandare un segnale Help. Anche se c’era riuscito, nessuno era accorso ad aiutarlo. Se c’erano altri nel suo vagone dovevano essere nelle stesse condizioni. In quel caso anche loro avrebbero gesticolato e scosso la testa. Solo pochi però avrebbero avuto il coraggio di scollegare la batteria come lui e la cosa lo faceva sentire colpevolmente orgoglioso. In ogni caso il V.TE era del tutto neutro. Se il guasto aveva colpito anche altri allora voleva dire che c’era stato un grosso problema. Un problema enorme, forse perfino un malfunzionamento di griglia? A complicare le cose aveva quel terribile colore blu che impregnava tutto l’ambiente. Era un colore che lo innervosiva tantissimo. Puzzava terribilmente di malfunzionamento di griglia. La cosa lo atterriva. Certo, avrebbe anche potuto disattivare il V.TE privandolo della batteria, ma poi? Sarebbe restato al buio, che era molto peggio di quel blu. E allora, cosa avrebbe fatto? Stava dando un’occhiata al giornale del mattino quando era 7


successo. Così, all’improvviso. Leggeva un lungo articolo sull’impennata della borsa di Tokyo, ma si era fermato a guardare un video animato in cui dei paperi tridimensionali ballavano davanti a lui. Una pubblicità di shampoo per auto. Poi all’improvviso, nel mezzo del balletto, tutto era diventato blu. Per un secondo aveva pensato che fosse parte della pubblicità ma gli era subito sembrato troppo strano. Nessuno avrebbe usato tutto quel blu per pubblicizzare un prodotto. Era un colore che avrebbe fatto passare la voglia di comprare a chiunque. Malfunzionamento. Era l’unica spiegazione. Prese coraggio e provò a staccare di nuovo la batteria. Buio. E poi blu, di nuovo. Intanto aveva iniziato a convincersi sempre di più che nessuno sarebbe arrivato ad aiutarlo. La sua fermata forse era già passata, ma con il V.TE disconnesso come avrebbe fatto a capirlo? Il senso di disagio stava diventando insopportabile. Uno spaesamento sempre più disarmante. Era mille volte peggio di quel videogioco del labirinto che girava sul V.TE quando era ragazzo. E in più non c’era pausa o quit. Niente vie di uscita comode né scorciatoie. Come avrebbe fatto ad andare in ufficio, a casa, da qualsiasi parte, se il V.TE non si fosse riattivato? Di solito quando stava per presentarsi un’avaria, o eri a corto di batteria, tutto si metteva a lampeggiare. Nel V.TE apparivano subito grosse frecce luminose che indicavano la strada per incontrare il tecnodrone più vicino. Nel peggiore dei casi sarebbe partito un segnale Help al V.TE più vicino, il cui proprietario avrebbe visualizzato le manovre da compiere per aiutarti. Una volta collegato, il cavo di emergenza avrebbe passato tutte le informazioni che servivano per arrivare ad un tecnohub. Il V.TE della metropolitana poi avrebbe dovuto 8


rilevare l’avaria. Allora si sarebbe udita la melodia-attesa, quel suono tranquillizzante che invitava tutti a stare fermi, annunciando che i tecnodroni sarebbero arrivati di lì a poco. Malfunzionamento di griglia. Non credeva potesse succedere. Inspirò, cercando di non farsi prendere dal panico. Dopotutto poteva ancora camminare, anche se non avrebbe avuto alcun senso. Un’altra lunga boccata d’aria. All’improvviso si ricordò che poteva emettere dei suoni con la bocca. «Hmmp» azzardò. Ma come avrebbero potuto sentirlo? Aveva il microfono scollegato! Passò un mucchio di secondi, ma poi udì un suono molto attutito, al di fuori del terminale audio. Lontanissimo, quasi una vibrazione. «Mhha». Qualcuno? Forse c’erano davvero altri nel vagone con lui. Nel giro di cinque minuti i “Hhhg” e gli “Hmma” rimbombavano nel vuoto della carrozza, attutiti e sordi, lontanissimi attraverso la plastica del suo terminale audio. Almeno una decina. Una decina di persone che guaivano assieme chiuse dentro a un vagone della metropolitana, con i V.TE scollegati a guardare quel blu accecante. Era un modo assurdamente limitato di comunicare. Decisamente primitivo. Aveva letto da qualche parte nel V.TE che nella preistoria gli uomini potevano comunicare tra loro con i suoni della bocca, ma faceva davvero fatica a immaginare come ciò fosse possibile. E adesso eccolo lì, nel vagone, come un troglodita a emettere quei suoni orrendi. Niente trasmissione diretta, niente F-MS, niente televoce. Non potevano scambiarsi nemmeno una stupida mail di testo. E nemmeno poteva usare iThem per determinare chi fossero quegli altri attorno a lui. All’improvviso il vagone si fermò, solo che stavolta non arrivarono i tecnodroni. Quando le porte si aprirono, sentì delle braccia che lo avvolgevano e qualcuno che inseriva uno spinotto 9


nella sua presa audio. Almeno quella funzionava ancora, perché subito sentì la melodia-quiete e, come si doveva fare in quel caso, si addormentò. Si svegliò in modo automatico, stranamente naturale, senza bisogno della melodia-sveglia. Era davvero insolito. Aveva un gran mal di testa e un forte senso di vertigine. In effetti sentiva ancora il debole suono della melodia-quiete da qualche parte fuori di lui, sovrastato da altri rumori innaturali, com’era possibile? Quello che aveva davanti era diverso da tutto ciò che avesse visto fino ad allora. Diverso in una maniera strana. Era come il videomondo nel V.TE, solo più distante, non riusciva a metterlo a fuoco, come se fosse troppo lontano. C’erano sagome grigie sopra di lui e una luce fortissima al centro. Più forte di qualsiasi luce nel videomondo. Figure antropomorfe, coperte di un azzurrino spettrale, si muovevano attorno a lui osservandolo con strane facce ingrigite. Sembravano quasi quei paperi della pubblicità prima che tutto diventasse completamente blu. Solo che, a parte la luce, qui ogni cosa era sbiadita, con colori scialbi a cui non era abituato, perfino più opachi di quando attivava la modalità a risparmio energetico del suo V.TE. Vide che armeggiavano con qualcosa attorno alle sue tempie. Una delle sagome scollegò il suo cavo audio, e la melodia-quiete cessò. Poi ci fu un suono che assomigliava alle comunicazioni che trasmetteva il V.TE, solo che veniva dalle orecchie, dalla presa audio scollegata. Come era possibile? «Questo qua si è svegliato. Cosa facciamo?» «Si è svegliato? L’hai staccato? Cazzo! Dai in fretta, riattacchiamolo!» 10


Una delle sagome calò su di lui, calzandogli sul viso un nuovo V.TE, serrandolo ai lati. La melodia-quiete era ricominciata, si addormentò un’altra volta. Quando udì finalmente la melodia-sveglia il V.TE funzionava alla perfezione. Per fortuna! Fu un enorme sollievo ritornare ai colori vividi dell’animazione di fiori sboccianti che aveva programmato per sé come prima immagine della giornata. Era sdraiato su un comodo letto. Sentiva il morbido cuscino dietro la nuca e le calde coperte sul corpo. E i bellissimi colori dei fiori erano tutto attorno a lui. Passò una mano sulla plastica liscia che gli copriva il volto. Si sentiva al sicuro. Sollevò il busto appoggiandosi sulle braccia, i fiori si ritirarono fuori dal campo visivo con movimenti a spirale. C’era un messaggio in sovraimpressione, davanti alla visione tridimensionale della sua camera da letto che lentamente compariva sullo sfondo. Lo informò che era a casa. Gli disse che erano le 8:00 e che, fuori, pioveva. Poi comparve l’immagine di una busta fluttuante, nell’aria davanti a lui. La cliccò. Partì una musica di cortesia e un altro messaggio, più lungo, prese a scorrergli davanti.

NAUMANN CORPORATION. SIAMO TERRIBILMENTE SPIACENTI PER L’ACCADUTO. IL SUO V.TE È RIMASTO COINVOLTO IN UN GRAVE MALFUNZIONAMENTO DI SISTEMA CAUSATO DA UN ATTACCO INFORMATICO AL TECNOHUB LOCALE.

SIAMO FELICI DI INFORMARLA CHE I COLPEVOLI 11


SONO GIÀ STATI INDIVIDUATI E RESI INOFFENSIVI.

PURTROPPO IL SUO V.TE PERSONALE È RISULTATO IRRECUPERABILE

ED

È

STATO

NECESSARIO

SOSTITUIRLO. L’OPERAZIONE DI AGGIORNAMENTO È STATA CONDOTTA DA TECNICI QUALIFICATI, SOTTO NOSTRA SUPERVISIONE E RESPONSABILITÀ E NON LE SARÀ ADDEBITATA ALCUNA SPESA ULTERIORE.

LA RINGRAZIAMO PER LA COLLABORAZIONE DIMOSTRATA.

AUGURANDOCI UNA RINNOVATA FIDUCIA NEI NOSTRI CONFRONTI, LA PREGHIAMO DI ACCETTARE IL NUOVISSIMO VIDEOGIOCO GLI HIPPY VIVONO

NELLE RISERVE COME OMAGGIO PERSONALE DEL PRESIDENTE.

CORDIALMENTE H.F.NAUM VERSIONE 8.0.01

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Number Station Mario Ciaramitaro

Oggi è afoso. Guardo la strada fuori casa dalle finestre della cucina. Kumar sta uscendo di casa e trasporta con sè qualcosa. Non mi sembra una borsa normale, c’è nelle dimensioni, qualcosa di strano: le proporzioni e la forma tradiscono che dentro la sacca grigioazzurra c’è un blocco squadrato grande come un mattone e qualcosa d’altro che crea un volume come una grossa matassa di corda sottile. La sacca appare essere stata in un luogo umido per un po di tempo, vedo delle chiazze di colore diverso quasi ammuffite. Cosa te ne frega di cosa trasporta?* Mia moglie. Esco lo stesso ignorandola. La luce è quella del tardo pomeriggio quando il sole è già tramontato ma il cielo riverbera ancora. Le ombre nette del mezzogiorno sono scomparse da qualche ora e ogni cosa è morbida, calda, il momento prima dell’oscurità. Lo seguo mentre attraversa il villaggio. Si ferma a una bottega vuota e saluta il fabbro. Per evitare di essere notato compro qualcosa all’emporio. Kumar ci sta mettendo un sacco, non so cosa comprare davvero. Ecco che sta per salutare, Namaskar a te amico mio. * Per volere dell’autore i dialoghi non sono stati virgolettati. 13


Compro un padello di metallo visto che mi hanno rubato quello che avevo lasciato in veranda. Kumar, si avvia per la strada che porta al fiume, quella che abbiamo ricoperto di mattoni rossi l’anno scorso, cammina tranquillo. Pago il padello e giro i tacchi verso casa. Voglio tagliare attraverso la strada che sta dietro i negozi per osservarlo da più avanti. Infilo il padello sotto la camicia e comincio a correre, sono sicuro di prenderlo. Mia moglie ha ragione, non so cosa me ne frega di quel vecchio. Non lo so, mi sento un ragazzino e mi basta. Forse non avevo poi così voglia di aspettare la cena a casa. Sono sicuro che lui mi abbia seguito almeno una volta in vita sua. Deve averlo fatto. Arrivo senza fiato sopra la collina tra la boscaglia, e vedo Kumar più in basso che cammina ancora sulla strada lastricata di mattoni rossi. Non sembra fare nulla di particolare ma ad ogni modo, è ormai tardi per girare da soli alla sua età. Ecco che rallenta il passo. Si volta. Osserva. Non può vedermi, è troppo concentrato su dove si aspetta di vedere qualcuno per notare la mia figura quassù. Ora credo stia cercando di capire bene in che direzione andare, perché mi sembra che stia osservando delle cime di alberi. Difatti lascia la strada e si incammina attraverso i campi dei contadini. Ho tempo prima che esca dalla mia vista, non c’è bisogno di muoversi. Ci vorrà almeno un altra ora prima che faccia buio. Da qui vedo il fiume che si muove lento e le barche lunghe e sottili dei pescatori ormeggiate già a riva. Sull’altra sponda tutta la città è già illuminata e pronta a prolungare il giorno nelle strade asfaltate, nel Fancy Bazar, e in tutta la periferia. Grandi raggi luminosi che si allontanano dal centro di Guwahati. 14


Kumar è ormai al limite della foresta. Voglio proprio vedere dove diavolo va. Si è fermato un momento ed ha finalmente aperto la maledetta sacca. Da qui non vedo cosa tiene dentro, ma di certo sta accendendo una fiaccola. Ora Kumar diventerà una luce da seguire nella boscaglia. Non capisco se mi sta chiedendo di seguirlo. Forse dopotutto non gliene frega nulla. Scendo la collina puntando verso dove la fiaccola è sparita nella boscaglia. Cominicia ora a fare più fresco. Mando un sms a mia moglie. Torno dopo. La fiaccola di Kumar è chiaramente visibile in mezzo alla boscaglia. Si rimpicciolisce lentamente, il vecchio starà camminando con calma. Credo si sia fermato. Ora la luce diventa più grande. Ha acceso un falò. Mi voglio avvicinare. Gli alberi si muovono lentamente seguendo la brezza serale che viene dal fiume, e con il loro ondeggiare scompongono la mia percezione del falò di Kumar. Kumar mi sembra indaffarato attorno alla sacca, sta srotolando qualcosa. Da qui appare come un cavo di acciaio molto lungo e fino. Non capisco che diavolo di cerimonia sia questa, e se poi sia davvero una cerimonia. Il vecchio sta in qualche modo sistemando il cavo a terra attorno al falò che ha acceso. Si spoglia e fissa silenzioso il falò facendosi un poco affumicare. La sua pelle grinzosa e secca riverbera un arancio vivo, il corpo ossuto è calmo e disteso. Chiude gli occhi. Poi fa qualche passo indietro e vedo che conta i passi muovendo le labbra. 15


Mi accorgo che tiene nella mano sinistra una delle due estremità del cavo di acciaio. Dopo otto passi si ferma. Apre gli occhi e comincia ad arrampicarsi sul primo albero, portandosi dietro il cavo di acciaio. Si arrampica con fatica, prende le sue pause per riposarsi, ma è chiaro che vuole arrivare fin dove i rami reggono il suo peso. Non entro mai nella foresta di notte, non perché sia pericoloso, ma non mi sembra un posto dove stare, stare qui a guardare lui è strano, sento che i rumori sono molti ma non riesco a percepirli, formano semplicemente una colonna sonora a questa scena. Sono totalizzato nel contemplare quest’uomo. Kumar scende dall’albero dopo aver fissato il cavo più in alto possibile. Io sono rimasto fermo e comincio a sentire un poco l’umidità fresca. A terra, prende tra le mani il cavo di acciaio e comincia a disporlo in un cerchio attorno al falò che continua ad illuminare tutta la scena. Kumar si muove ora più velocemente, quasi fosse in ritardo. Tira il cavo fino alla sacca, e mettendo una mano all’interno, ne estrae un apparecchio. Collegato l’apparecchio comincio a sentire qualcosa. shhhhhhhhzzzhzzzzzzzzzzzzzhhhtttthzzzzzz È rumore bianco. Kumar alza il volume. Tutta la foresta risuona ora del suono uguale ma in continua evoluzione con continue interferenze che si sovrappongono. Kumar si sta ora muovendo attorno al falò camminando con i piedi sopra al filo. Apre le braccia e le chiude, sembra essere in ascolto. Mi appare come un sacerdote dell’etere. Si muove lentamente per avere il tempo di percepire i cambiamenti. Ha quasi finito mezzo giro attorno al falò ed è chiaro che 16


c’è qualcosa che lo turba, i movimenti diventano sempre più repentini come a voler resettare le posizioni e ascoltare dall’inizio. I suoni appaiono quasi costanti nella loro evoluzione ma vedendolo sempre più nervoso capisco che io non posso percepire nulla. Si ferma. Il braccio destro disteso nella mia direzione con la mano destra piatta.Corre verso di me. Rimango paralizzato dalla velocità dei suoi movimenti e prima di poter anche solo pensare a cosa fare, mi raggiunge e mi atterra prendendomi per un piede. Kumar! Vecchio! Ma lui non risponde. Con una forza che non sospettavo, mi immobilizza con un ginocchio sopra la mia schiena. Kumar! Lo giuro me ne vado! Lui silenzioso ascolta il vociferare spaventato e aspetta il silenzio. Così taccio. Non succede nulla. I nostri corpi si trovano a dieci metri dal falò che è rimasto l’unico suono. L’apparecchio è muto. Lui calmo si alza e mi aiuta. Ho bisogno di te, dice. Dammi il pezzo di metallo che hai. Io tiro fuori il padello e glielo porgo in silenzio. Lui lo tiene in una mano e con l’altra mi afferra il posto destro e mi fa capire di seguirlo. Kumar appoggia il padello sul cavo. Poi afferra la mia caviglia sinistra e appoggia il mio piede sul padello. Il suono dell’apparecchio ricomincia sfrigolare in tutta la sua potenza. Prende le mie mani e le orienta ascoltando il suono che l’apparecchio produce. Percepisco una sorta corrente che attraversa il mio corpo, una specie di sollecitazione muscolare 17


continua, ma non è dolorosa. Ora sento non nelle orecchie ma nel cervello un fischio continuo, una nota. Percepisco nel mio corpo una certa gioia, una energia moltiplicabile. Kumar, mi guarda negli occhi, fa un cenno con il capo e mi fa intendere di non muovermi. Sparisce qualche metro dietro di me. Credo sia salito anche lui con i piedi sul cavo di acciaio perché il fischio è cambiato, la corrente che mi attraversa è aumentata. Penso di stare per impazzire. La foresta, il fiume, il falò, tutto è scomparso, sento solo la nota. Chiudo gli occhi. Ascolto. Three Echo Seven Juliet Delta Delta Kilo Nine Eight Romeo Uniform One Five Quebeq Two One Three

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Ventuno Luglio Duemilaventiquattro Riccardo Banfi

(1) «Fanculo! Ci hai messo nei casini. Ti avevo detto di non farti notare.» «Possiamo trovare una soluzione.» «Ma che cazzo di soluzione vuoi trovare? Siamo pieni di merda fino al collo e non c'è più nessuno in città che vuole aiutarci.» «Il pittore di Danish Road? «Si certo. A lui bastano 10 rupie per spifferare tutto alle guardie armate del Lago. Vuoi che ci portino in quella cazzo di prigione a marcire? I delfini ci tortureranno fino alla morte.» «Cerchiamo di superare il blocco del GAT e muoviamoci a North Guwahati. Abbiamo tutto quello che ci serve.» «Lo capisci o no che ti hanno inseguito e ci hanno circondati? Se proviamo soltanto a uscire sul terrazzo potrebbero attaccarci dall'alto. Sono riusciti a trasformare il cielo di un colore così azzurro che permette a tutti i loro specchi sospesi di registrare ogni movimento in città. Basta una goccia d'acqua per scovarci.» «Ci sono dei modi per nascondersi dai riflessi e impedire ai delfini di tuffarsi.» «Ma mi stai ascoltando? Tutta quella yaba che ti sei fumato ti ha ridotto il cervello in poltiglia. Passami una sigaretta e chiudi quella cazzo di bocca.» «Ma Rajat …. » «Ti ho detto di chiudere quella cazzo di bocca e passarmi una 19


sigaretta. Vuoi farmi fare la fine di Johnny? Aveva organizzato tutto in modo impeccabile, aveva preso accordi con quelli del Tempio dei Sette Pianeti e con la gang di Pan Bazar.» «Ma nessuno poteva prevederlo.» «Esatto. Potevamo riprendere il controllo ma per colpa di una sciocchezza lo hanno giustiziato. Da quando è morto è cambiato tutto.» (2) «E' nel mercato.» «Tracciate i suoi spostamenti senza che se ne accorga. Se lo catturiamo solo non ci dirà mai dove si trova Rajat. Dobbiamo inseguirlo fino alla loro base.» «Sta parlando con qualcuno ma non riesco a vedere chi sia. Non riesco ad identificarlo.» «Fammi vedere. Muovi di 18° verso est lo specchio 2B. Vira ancora di 7°. Riprova di 32° a ovest.» «Sono in una zona d'ombra.» «Ma come è possibile. Dobbiamo sapere con chi sta parlando Attivate i sensori. Trovate un modo. Trovatelo!» «Negativo: non abbiamo visibilità.» «E allora rilevate tutti quelli che escono da quel mercato. Cercate delle corrispondenze. Dobbiamo sapere di chi si tratta.» «Abbiamo perso l'obbiettivo.» «Mandate qualcuno. Qual'è la porta d'acqua più vicina?» «Happiness capitano.» «Veloci. Non abbiamo tempo da perdere. Voglio almeno quattro guardie a setacciare la zona. Dobbiamo scoprire il passaggio. Ci porterà da Rajat.» 20


(3) «Tutta colpa della yaba. Tutta colpa di quella merda.» «Proviamo a contattare Ioti.» «Dalla yaba all'alcol. Vuoi iniziare ad elencare tutti gli spacciatori che conosci?» «Ioti è uno dei pochi che è riuscito ad avere dei benefici da questa storia. Da quando i delfini hanno iniziato la loro mutazione e hanno preso il controllo è diventato l'uomo più ricco della città. Gli accordi per il contrabbando di alcol lo hanno reso intoccabile. Gestisce tutto il traffico a Guwahati e Charanjit lo ha nominato supervisore al Laboratorio di Sperimentazione Riflessi.» «E per quale motivo dovrebbe aiutare dei ribelli che vogliono riprendere il controllo della città e eliminare i delfini?» «Il Laboratorio è a North Guwahati. Potremmo convincerlo a farci imbarcare sul traghetto della mattina e oltrepassare il fiume come se fossimo degli operai.» «Ti ripeto: perché dovrebbe aiutare dei ribelli? La caduta del regime rovinerebbe i suoi affari e poi molti lo vogliono morto.» «Yaba. E' un tossico. Come pensi che siano riusciti a costruire il ponte di bambù? Hanno dato una partita di droga a Ioti e Ioti ha fatto da intermediario con Charanjit.» «Potrebbe sempre fare il doppio gioco.» «E' un rischio lo so, ma dobbiamo provarci. Non ne ho molta ma possiamo farcela.» «E come pensi di raggiungere il Paradise? E' a 1 km da qui e non ci sono passaggi liberi. Li hanno scoperti tutti, anche quello del mercato.» «Dobbiamo tentare la fuga nel modo più semplice possibile. 21


Usciamo dalla porta di entrata e saliamo su uno dei bus che vanno verso Lamb Road.» «E gli specchi? Te li sei dimenticati?» «Abbiamo ancora le divise delle guardie del Lago. Se ci fermano diciamo che ci hanno appena dato il cambio e che stiamo tornando alle nostre abitazioni.» (4) «Un messaggio dalle guardie. L'uomo con cui parlava Cuki era lo spacciatore di Yaba di Uzan Bazar. Non è stato difficile fargli sputare il rospo.» «E ... » «Cuki ha comprato della droga ed è scappato da un passaggio che porta all'House 78 di MC road. Lo hanno inseguito. Pensiamo che sia quella la loro base operativa.» «Perfetto. Mandate tutte le guardie che potete a circondare il palazzo e mostratemi i riflessi. Dobbiamo individuare a che piano si trovano e procedere.» «Ricevuto.» «Cosa?» «Ricevuto capitano!» «Chiamate anche Ravi e ditegli di tenersi pronto a un attacco. Questi ribelli hanno sempre trovato il modo di metterci le reti fra le pinne e sono sicuro che ci proveranno anche questa volta. Se riusciamo a farli fuori nessuno ci potrà più fermare e avremo pieno potere su tutto l'Assam.» «Capitano. Sono al nono piano.» «Rilasciate le scimmie. Penseranno loro a comunicarci le loro parole. Li abbiamo in segno.» 22


(5) «Merda le scimmie. Muoviti Cuki. Muoviti. Dobbiamo andarcene. Prendi lo zaino. Via.» (6) «Paradise. Stanno andando al Paradise.» «Chiamatemi Ioti. Immediatamente.» «Ecco capitano.» «Ioti! Non so cosa tu abbia in mente ma Rajat e il suo compare si sono camuffati da guardie del Lago e stanno venendo da te. Spero che tu non stia cercando di fottermi.» «No Charanjit io non so nulla.» «Non voglio fidarmi.» «Ma Charanjit! Dimmi cosa vuoi che faccia.» «Beh! Stanno venendo a chiederti aiuto per attraversare il fiume e raggiungere North Guwahati. Noi li faremo entrare e li ammazzeremo prima che se ne accorgano.» «Ok Charanjit.» «Tu dagli corda. Accetta la loro proposta. Noi penseremo al resto. Attento però a non fare passi falsi perchè ti chiudiamo in una cella a marcire.» (7) «Siamo arrivati. Ferma l'autobus.» «Merda ci sono dei delfini.» «Non abbiamo più nulla da perdere.» «Ma che cazzo!» 23


«Non guardarli e vai dritto alla porta.» «Non voglio morire.» «Cuki tappati quella cazzo di bocca e fai come ti ho detto.» (8) «Eccoli! Sono entrati. State pronti. Se le cose si mettono male: sparate e sparate ancora» (9) «Signore. Ci sono due guardie del Lago che vogliono parlarle. » «Fatele entrare.» «Buongiorno Ioti.» «Buongiorno. Cosa volete da me?» «Ci hanno mandato dal Lago per comunicarle un messaggio.» «Voi. Lasciateci soli.» «Grazie Ioti.» «Di che messaggio si tratta?» «Siamo Rajat e Cuki. Ci serve il tuo aiuto.» «Ah! Voi due. Cosa volete? La mia testa? Uccidermi?» «Dobbiamo andare a North Guwahati e camuffarci da operai. In cambio ti abbiamo portato della yaba.» «E quanta ne avete? «600 grammi. La abbiamo presa da Ravi al mercato.» «Molto interessante!» «I delfini ci stanno inseguendo e l'unico modo per non farci catturare è raggiungere l'altra riva del Brahamaputhra.» «Siete dei ribelli e siete venuti da me solo perché sono la vostra ultima speranza. Voglio avere un potere più forte sulla città. 24


Voglio il controllo anche dello smercio di yaba.» «Affare fatto! Ma ti prego ora organizza il nostro trasporto a North Guwahati. Ti prego.» (10) «Sono entrati. Fate avanzare i nostri e state pronti a sparare.» «Ioti ha fatto uscire tutti dal suo covo ed è rimasto solo con Rajat e Cuki.» «Che cazzo sta facendo quello stronzo. Lo sapevo! Pronti a intervenire. Al mio tre. Uno .... Due ..... SPARATE!»

_______________ Indagine: Grey Sky Intercettazione 235T96H, Protocollo 256F, 21.07.2024 Distretto B6, Polizia di New Delhi, India

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Twiga Matteo Primiterra

La spina dorsale le cominciava a fare male, si contorceva e piegava le gambe ma la pressione del collo contro il duro metallo gli segava parte della pelle. Le lunghe orecchie diventavano violacee, come quando le mangiurie cantano in primavera, e la zampa anteriore destra continuava a scivolare nella poltiglia biancastra. La discesa era stata semplice e l’entusiasmo alle stelle, la vista della piccola pallina verde e blu, simile a quelle con cui giocavano gli zonti facendole rotolare lungo le pareti di cristallo bianco, li aveva tranquillizzati. Lo stinco sinistro era completamente ricoperto di melma, quasi a formare uno stivaletto come quello che indossava Sailor quando danzava nel lago. Il magnum 8000 aveva determinato con incertezza l’area di perlustrazione, nonostante fosse di ultima generazione. Garantiva in effetti la più completa copertura ma in questa zona il suo potente raggio non aveva effetto. Il primo fu Sangi, fece leva con forza e saltò giù. Il punto prestabilito era perfetto, non li avrebbero mai identificati, specie di ogni tipo si trovavano in quell’ambiente, ed una in più non avrebbe fatto differenza. I reticolati che li custodivano creavano dei piccoli habitat, incutevano un certo timore, ma gli occhi di questi esseri, persi nel vuoto dei loro, 27


erano innocenti come quelli dei neonati. La notte era silenziosa e quieta, simile a quella delle lande dell’estremo ovest. Rimasti per un pò di guardia a contatto con i nuovi esseri, partirono in esplorazione. I lunghi steli verdi si fondevano ad armate grigie e colorate che pretendevano di sorvolare il verde tutt’intorno. Il comandante trainava il gruppo dei tre, Sangi era al fianco di Asi. Poco più avanti il verde lasciava spazio al polline marrone, le narici si gonfiavano e lo stomaco si contorceva. Il suolo diveniva pian piano più duro e lo sguardo acquistava una prospettiva più ampia. Potevano vedere il mondo dinanzi ai loro. Il frastuono nelle orecchie era assordante, un lamentio continuo mai sentito prima, a tratti ricordava il sibilo delle canaglie in volo nei giorni di plenilunio. La melma acquisiva i colori del grigio e continuava a salire lungo le gambe, il freddo gli congestionava le ginocchia immobilizzandole. Se osservavano con attenzione dinanzi a loro, notavano che questo mondo era diviso orizzontalmente a metà, come fanno il cielo e il mare in alcune zone del Nord Gala. Ponendo il lungo collo in posizione eretta, lo sguardo incontrava strane forme luminose di geometrie diverse, bagliori che si riflettevano nelle pupille e ne ingrandivano l’iride. Ma se il lungo collo si piegava in avanti verso il basso, come quando si mangiano le patagonie dal terreno, allora le luci lasciavano spazio ad una forma desertica di civiltà. Le uniche forme di vita in movimento erano quieti quadrupedi appollaiati nel centro della via, il loro lento deambulare li ipnotizzava, Asi ne fu rapito. 28


Attraversarono un lungo tratto illuminato senza essere infastiditi e notati. I loro passi erano leggiadri e lo spostamento d’aria lasciava una sottile polvere alle loro spalle. Li stavano attendendo oramai da parecchio tempo, ma avevano perso ogni comunicazione con il gruppo beta. Ci fu un istante in cui a loro parve di averne finalmente trovato uno: nelle vicinanze di un piccolo mare verdastro, di forma rettangolare, dove i bagliori delle luci si diffondevano all’interno. Lì sulla riva si trovavano altre specie, simili a quelle già viste prima nei reticolati. Nel mezzo però una figura dalle forme riconoscibili appariva minuscola ai loro occhi: era uno di loro! Il corpo era quello, le gambe erano quattro e il lungo collo era ben visibile, ma sembrava come ingabbiato in un busto che ne annullava l’eleganza delle forme. Capirono che alla figura, qualsiasi cosa fosse, mancava l’anima. Si convinsero che non poteva essere uno di loro. Oramai la melma era arrivata all’altezza dello stomaco, riusciva ancora a vedere dinanzi a se il bluastro fiume che scorreva tra i due lembi di terra, tutt’intorno bipedi che stridevano e stridevano le loro macchine infernali. Era come essere partecipe ad una grande festa a cui nessuno si interessava. L’incontro con il primo bipede nel buio della notte era stato casuale. I suoi occhi incavi e la sua delicatezza nei lineamenti non incutevano timore, li osservava con fare sbigottito ma sereno al tempo stesso, quasi ipnotizzato in un ricordo atavico. Il comandante si mise in posizione di difesa ma nell’essere non suscitava nessuna preoccupazione, al pari degli altri incontrati prima continuava nel suo deambulare. 29


Fu solo dopo che ne capirono le intenzioni. Il bipede emanava un sibilo dalla parte superiore del corpo avanzando lentamente verso il comandante: gli si mise dinanzi e cominciò a muoversi, come ad indicare la via. Il tragitto fu scortato in breve tempo da migliaia di bipedi, tutti che si dimenavano intorno, il frastuono era assordante, ma sembrava il loro fare naturale, come quando gli imenottari infestano la pianura nella stagione dell’amore. Il grande ovale giallognolo fissava il suo volto, gli occhi cominciavano ad essere stanchi e si socchiudevano, come quelli degli axoloti quando scavano le buche nell’acqua. Il calore si mescolava al freddo della melma, che oramai aveva coperto tutto il busto e si stava innalzando lungo il collo. Non rimaneva molto tempo. La foschia cominciava a diradarsi e intravedevano a distanza una grande marea bluastra che costeggiava un altro tratto di terra. I bipedi li invitavano a proseguire. Fu solo allora che lo videro. I cilindri si incuneavano nel liquido in fila indiana, uno dietro l’altro. Grandi piloni di grigio scuro che sorreggevano tratti di archi fino in fondo all’altra sponda. Solo gli occhi e le orecchie erano rimasti scoperti dalla melma, ma li giù in fondo, sulla barriera arenosa, poteva vederli. Erano tre, il gruppo alfa, quello di Sangi. Vedevano solo il capo che faceva capolino all’interno di un reticolato di fanghiglia che si innalzava al cielo. I bipedi lo avevano incastonato nel loro mondo in fattura. 30


Manju Alessandra Messali

[...] «Andiamo» disse senza voltarsi. «Aspettami» rispose accelerando il passo, ma lui era ormai distante e non si preoccupava più della sua presenza. Sapeva che, nel buio della notte, lei non l’avrebbe abbandonato. Imboccarono una strada in direzione Gs road, restavano i soli ad animare l’asfalto nero, ancora bagnato. Attraversarono la carreggiata e tornarono ad accorgersi di quel suono, un crepitio ovattato che come un lamento s’infiltrava nel silenzio di Guwahati. «Facciamo in fretta prima che arrivi un altro black out». Entrarono in un edificio, una luce di servizio tagliava lo spazio in diagonale, come un segnale ad indicare la via verso la scala interna. Nel buio umido della rampa poteva sentire i gradini risuonare a ritmo alterno sotto ai loro passi e questo per ora bastava a farla sentire al sicuro. Una volta sul pianerottolo aprirono la porta tagliafuoco e raggiunsero la terrazza. «Ecco, da qui lo puoi vedere se non mi credi» disse tra i denti. Manju mai avrebbe pensato che quell’immagine potesse presentarsi davanti ai suoi occhi. Dai tetti e dalle pareti delle case filamenti di ferro germogliavano dal cemento armato, teneri e flessibili crescevano torcendosi tra loro fino a formare dei solidi tondini verticali. In pochi minuti avevano raggiunto i tre metri d’altezza e dalle venature lasciavano sgorgare una linfa grezza di colore grigio. Le gocce si addensarono in una colata morbida di cemento che lentamente andava a creare dei solidi pilastri, solette, pareti, tetti, interi edifici. 31


Quando realizzò che la città si stava autogenerando sotto ai loro occhi, alzando lo sguardo non era già più possibile vederne la fine. Era ormai giorno ma non se ne accorsero perché era ombra tutt’attorno. [...]

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Il Progetto Martino Genchi

Ricordo ancora la prima volta che Yama mi parlò del Progetto. La ricordo con un nitore inquietante, che mi dà la sensazione di qualcosa incastonato in un blocco di vetro. Non è esattamente un’immagine limpida, ma le sue parole mi sono vivide come ghiaccio e affilati coltelli, e non potrò mai dimenticarle, almeno finché la mia mente continuerà ad esistere. E ricordo benissimo la luce nell’ufficio, il riflesso del sole bianco e giallo che trasfigurava il cupo palazzo di fronte alla nostra finestra rendendo tutto latteo e cangiante. Mi era stato subito chiaro che Yama aveva qualcosa di strano, me ne ero accorto già dal caffè di mezza mattina, che prendevamo spesso assieme alla macchinetta nell’atrio degli ascensori. Sembrava teso e si guardava intorno in un modo insolito, con il collo rigido e gli occhi che correvano da un angolo all’altro della stanza, senza soffermarsi su niente. Più ci ripenso più mi ripeto che avrei dovuto stare attento a quel dettaglio che invece mi scivolò addosso senza che – lì sul momento – gli dessi peso alcuno. Scambiammo alcune parole senza particolare significato, come facevamo a inizio giornata, quando ci incontravamo nei corridoi. Non ricordo cosa mi disse. A volte parlavamo di lavoro, altre della serata precedente. Qualche stronzata su una collega che oggi aveva una gonna più corta del solito, o i tacchi più alti. Non mi ricordo, ma ho il sospetto che in quell’occasione ci fosse qualcosa di più, un segnale, qualcosa che mi è sfuggito. Una parola insolita, non so. Forse un dettaglio che non tornava sull’incarico che svolgevamo a 33


quel tempo, o una battuta che non era da lui. In ogni caso la giornata poi riprese al solito ritmo, e mi concentrai su quello che avevo da fare. Come ogni giorno Yama veniva nel mio ufficio di tanto in tanto a consegnare una cartella, o a discutere qualche particolare che andava definito meglio. In quelle occasioni non divagavamo mai, niente battute né opinioni personali. Scambiavamo soltanto le parole che servivano. Di solito, se capitava, ci lasciavamo andare solo verso il tramonto, quando il grosso del lavoro era stato svolto e il clima dell’ufficio si allentava. Allora il sole che tramontava ad occidente si rifletteva sul palazzo di fronte e rimbalzava indietro entrando dalle nostre finestre che invece guardavano a est. Il pomeriggio si riaccendeva di una luce irreale che riempiva la sala riverberando su tutto. Mi ricordo benissimo l’ombra del ficus accanto alla finestra, a quell’ora era una diagonale oscenamente allungata fino alla parete grigia su cui tenevamo la lavagna magnetica. Yama era entrato dalla porta che stava sulla destra di quella parete, e si era schermato gli occhi con la mano per proteggersi dal chiarore che era nella stanza. Fece otto lunghi passi in direzione della mia scrivania, scandendo il ritmo in maniera enfatica con la voce: «Tu-um! Tu-um! Tu-um! Tu-um!» e si gettò sulla sedia. E poi iniziò a parlare. Il suo discorso fu lungo e pervaso di un’affettazione che ancora mi dà i brividi. Tutto il Progetto emerse dalla sua bocca, a tratti caotico ma nel complesso di limpida precisione, passo dopo passo, tutto quello che avrebbe fatto. Che abbiamo fatto. «Che ne dici?» aveva poi detto. «Sembra buono. Ma, scusa, da quanto ci pensi?» «Tutta una notte». 34


I suoi occhi erano ancora come al caffè, davanti all’ascensore. Di nuovo quegli occhi che non credo di aver mai visto prima. «Solo una notte? Per tutta questa roba?». Aveva parlato per almeno un’ora, senza che io riuscissi ad interromperlo se non con dei vaghi mugugni. «Sembra materiale di prim’ordine» continuai «ma come ti è venuto?». I suoi denti bianchissimi apparvero dietro la linea delle labbra tirate: «Un colpo di genio, con in più un grammo di Pandora® e due capsule di citalopram». «Non credevo che mischiare erba e antidepressivi fosse così produttivo». «Nemmeno io. Comunque non ho dovuto concentrarmi più di tanto, semplicemente buttarmi sul divano e spegnere la luce, è venuto tutto da solo, quasi come un sogno. Quando mi sono alzato stamattina avevo tutto lì, impresso negli occhi come un’incisione. Non vedo l’ora di lavorarci su, di vedere se può funzionare». Il suo accenno di sorriso divenne un ghigno, ma poi tornò all’improvviso serissimo. «In ogni caso voglio sapere cosa ne pensi. Io sono davvero convinto». «Potrei starci» azzardai: «Lasciami qualche giorno». E poi ci ho pensato. Ci ho pensato tanto, fino a farmi venire mal di stomaco. La cosa era intrigante al punto che presi una settimana di pausa dal lavoro. Staccai telefono e modem. Niente computer, niente posta. Alla portinaia dissi che ero in ferie, feci una scorta di pasti surgelati, qualche busta di zuppa istantanea. Per una settimana sono rimasto chiuso tra lo studio e la cucina. Andavo a dormire per sfinimento e dopo due ore già mi alzavo con in testa il Progetto. Ci ho lavorato di brutto e alla fine ho concluso che si poteva fare, che era una buona idea. Un’ottima idea. Così mi sembrava. Sarebbe cambiato tutto, 35


questo era certo. E infatti è tutto cambiato, come no. Eccome se è cambiato. Chi l’avrebbe detto. Insomma tornai in ufficio. Tornai da Yama con le idee chiare: «Procediamo. Avanti. Si deve fare». «Bene», disse lui. «Bene». E invece non fu bene. Non fu bene per niente. Anche se tutto sembrava andare per il meglio, tutto perfetto. Tutto secondo i piani, nessuna sbavatura, nessun errore. Iniziammo dapprima in sordina, con calma. C’erano ancora molti aspetti da approfondire. Lavoravamo in ufficio, nelle pause e nei tempi morti. E poi di sera, dal tramonto in avanti, sul tavolo delle riunioni, restavamo fino a tardi. Vedere la città che si accende dal finestrone divenne ordinario. Le insegne e i lampioni. Gli aerei verso l’aeroporto che appaiono al crepuscolo come stelle lontane, sempre più luminose finché virando sviavano dietro ai palazzi e sparivano ammiccando a tempo con le lucette di posizione. Al lavoro facevano battute, il nostro rendimento calava. Cosa ce ne sarebbe dovuto importare? Loro non lo sapevano, ma noi stavamo lavorando al Progetto. Sarebbe cambiato tutto, poveri illusi, altro che graduatorie interne e premi di produzione. Chi se ne frega di cose così. Chi se ne frega del giudizio dei colleghi o dei superiori. Cose troppo effimere per noi. Fango opposto alla roccia. Paglia contro il cemento, diceva Yama. Finalmente venne il momento di fare il grande salto. Entrambi ci licenziammo. Vendemmo tutto quello che avevamo, l’appartamento in città, la casa dei miei genitori, la villa sulle Alpi di Yama. Le nostre macchine, i mobili, le azioni e i buoni del tesoro in cui avevo investito i risparmi di anni. Yama aveva 36


parlato per mesi con un suo amico banchiere, lo aveva coinvolto – diceva – e convinto senza rivelare niente più del necessario. Ci avevo parlato anch’io varie volte, ed eravamo riusciti ad entusiasmarlo, anche se forse in un paio di occasioni ci facemmo scappare qualche dettaglio un po’ delicato, che importava? D’altronde avevamo bisogno dei soldi per il Progetto, non potevamo andare troppo per il sottile. Mi fidavo di Yama, se lui diceva che andava bene, così era per me. Insomma l’amico aveva coinvolto altri privati, ricchi speculatori e fondazioni, e aveva dato il via ad una cordata di finanziatori. Da quel canale sarebbero arrivati altri fondi: «Non meno di quanto servirà al Progetto». Con quei soldi ci trasferimmo lontano dalla città, isolati e alla larga da tutto. Individuammo un grosso stabilimento disperso nell’arida campagna, vicino alle colline che rompevano la monotonia dell’altopiano. Era stato una vecchia fornace di mattoni su cui avevamo fatto delle ricerche al catasto, sapevamo che era abbandonato da mezzo secolo. I vecchi proprietari erano spariti e nessuno aveva ritenuto di doverlo abbattere, né di farci qualcosa. Era talmente isolato che non importava ad alcuno che fosse lì. Eccetto che a noi. Sistemammo gli impianti manomettendo il vecchio contatore, avremmo succhiato un bel po’ di corrente e non volevamo dare nell’occhio. C’era ancora l’allacciamento alla rete che aveva dato energia alla fornace e, se bastava a loro, probabilmente sarebbe stata sufficiente anche per noi. La prima volta che accendemmo le luci nell’edificio centrale fu meraviglioso. Un enorme spazio libero davanti agli occhi, con al centro tralicci di ferro immensi che sostenevano le capriate dell’alta copertura. Solidi come colonne di un tempio e leggeri come lo scheletro di 37


un antico volatile. La vernice bianca che aveva coperto tutto era spesso scrostata e annerita, ma avevamo pulito il più possibile e l’insieme era vuoto e ordinato. Partimmo decisi come non mai, lucidi e concentrati. Con quella determinazione che viene soltanto dall’essere convinti fino al midollo. Era un lavoro lungo, ci sarebbero voluti anni. C’era molto da fare. Il primo periodo fu epico e me lo ricordo pervaso da un entusiasmo che non credevo avrei mai provato. Ho ben presente gli innumerevoli viaggi verso i depositi di piccole ditte dei paesi vicini, dove ci facevamo arrivare i pezzi che servivano. Ricordo le giornate spese nell’ombra del capannone centrale, a dare direttive ai tecnici e agli operai, e ricordo le loro tute bianchissime. Ne assumemmo molti tramite contratti di consulenza, altri attraverso le agenzie interinali. Li facevamo lavorare un mese, al massimo due. Mai di più. Assegnavamo loro compiti molto specifici e pochissimo tempo, così da non lasciare spazio a nessuna speculazione. Nessun pensiero che potesse far intuire cosa stavamo facendo. Era tutto organizzato nel dettaglio. Spostavamo in continuazione le parti su cui bisognava operare tra i vari edifici secondari, le scambiavamo tra loro ad ogni passaggio in modo che nessuno avrebbe potuto ricostruire il quadro d’insieme. Arrivammo perfino a produrre numerosi componenti, addirittura intere sezioni, con piani di lavoro distorti nei particolari costruttivi più specifici. Anche se qualcuno avesse riunito tutte le persone che avevamo coinvolto interrogandole a fondo, e se pure quelle avessero ricordato tutto alla perfezione, avrebbe raccolto tante di quelle informazioni inutili e fuorvianti da renderlo pazzo nel tentativo di decifrarle. 38


Il Progetto era complesso, e molte strutture andavano costruite prima che potesse iniziare a funzionare, ma avevamo calcolato attentamente i tempi e procedevamo spediti. A ripensarci, i primi mesi corsero via come l’acqua. Limpidi, veloci. Nemmeno saprei dire a che punto eravamo alla fine dell’anno. Di certo so a che punto eravamo quando finì il secondo, perché fu allora che apparve la prima anomalia. Lo sapevamo, era previsto. Sapevamo che le anomalie sarebbero apparse qua e là sul continente. Erano il primo effetto del Progetto, erano parte della rivoluzione che auspicavamo. E noi eravamo ansiosi di sapere che tutto era efficiente, che il Progetto stava funzionando come doveva. A quello servivano i test periodici che avevamo programmato, ed era per quello che avevamo svuotato il capannone e licenziato tutti. Ci vollero quasi tre mesi di preparazione. Dovemmo trasportare e collegare ogni singola parte da soli, predisporre tutte le connessioni e verificarle più volte. Testare il blocco di controllo, con i server che gestivano i programmi di avvio del test. Occupava un’intera stanza e doveva essere calibrato in maniera maniacale. Avevamo studiato tanto ed eravamo preparati, ma arrivammo alla fine completamente sfiniti, e si trattava di provare soltanto una parte minima dell’intero corpus del Progetto. Il giorno che attivammo per la prima volta il modulo di test è uno dei momenti che ho meglio impressi dell’intera vicenda. Ricordo che scoppiai a ridere quando Yama mi si presentò all’alba con un lungo cappotto cenere e una cravatta sgargiante di un assurdo color salmone che aveva comprato apposta. Non era certo da lui. La mattina era tersa, con un vento gelido, chiarissimo, che 39


soffiava dalle montagne. La polvere del piazzale si sollevava da terra appena di un soffio, scivolando lontano veloce e leggera. Si muoveva come un fluido spettrale formando delle striature impalpabili che scorrevano sopra al piano più scuro della strada. Ricordo il freddo ghiacciato che emanava dal ferro della maniglia attraverso il mio guanto di pelle quando aprimmo la porta metallica del capannone. Il test di per sé non ci avrebbe detto molto. Tutto quello di cui ci saremmo potuti accorgere sul momento sarebbe stato un grosso malfunzionamento, un corto circuito o un grave errore di sincronizzazione. Tuttavia, se avesse funzionato, voleva dire che il Progetto aveva davvero un senso, che non era un vicolo cieco ma una strada aperta verso il futuro. O almeno così credevamo. Comunque quella volta fu un successo. L’anomalia fu contenuta e perfettamente gestita. Qualche istante e poi più nulla. Ci volle un sacco di tempo per poterla localizzare. Me lo ricordo con precisione, ventinove giorni. Erano già pronti gli strumenti di inferenza, i calcolatori e i programmi che avrebbero dovuto fornirci i dettagli. Il luogo esatto dove era apparsa e la sua durata. L’unica cosa che sapevamo con una certa precisione era il momento in cui si sarebbe presentata. Non erano calcoli facili, bisognava gestire enormi quantità di dati estrapolandoli da una serie complessa di fenomeni reali, informazioni, e notizie. L’anomalia dopotutto non sarebbe stata una cosa evidente, nessuno avrebbe potuto accorgersene. Andava dedotta dal suo riflesso sulla realtà quotidiana, un effetto difficile da distinguere nel caos di eventi che ancora pervadeva la terra a quel tempo. Sapevamo però che gli indizi sarebbero stati molti, parecchie 40


decine, forse centinaia. E sempre in qualche modo connessi tra loro. Una centralina elettrica che esplode in Svizzera, così come un ritardo nella migrazione delle sterne, potevano essere segnali. Ma anche il ritardo nella migrazione di una sola sterna, o un suono anomalo nell’orecchio di una persona qualunque. Raccogliemmo di tutto. Fatti di cronaca, registrazioni telefoniche, flussi di raggi cosmici, bollettini meteorologici, qualsiasi cosa su cui riuscissimo a mettere le mani e che fosse avvenuta nel momento del test. I computer accumularono le informazioni e calcolarono per quasi un mese e alla fine la individuammo. La prima anomalia. E fummo pure contenti. Che idioti! Stappammo Champagne e urlammo al blu cupo della notte. Come lupi alle stelle, nel vacuo spazio di quella grande pianura davanti a noi, urlammo fin verso lontane montagne distanti. Fu una sera di giubilo, ma subito dopo ricominciò il lavoro. Volevamo procedere ancora, volevamo arrivare alla fine. Eravamo sicuri che avrebbe funzionato, ed era di nuovo il momento di rimboccarsi le maniche. Assumemmo altri tecnici e lavorammo ancora più a fondo fino all’estate e per tutti i mesi che seguirono. Yama era entusiasta. Ripeteva in continuazione cose esaltanti: «L’inizio di un’era nuova!» oppure «Siamo il futuro!», e ne era convinto. Anche io ero convinto, allora, e rispondevo a tono: «E così sia!» Seguirono altri test, ed altri lunghi periodi di lavoro. Dovemmo viaggiare molto, spostarci di stato in stato e di città in città per attuare tutti i dettagli necessari alla crescita del Progetto. Cose che andavano gestite in luoghi specifici, qua e là per i continenti. Piccole modifiche all’ambiente, cose 41


all’apparenza insignificanti, ma fondamentali per quello che stavamo facendo. Andammo avanti, avanti fino alla fine. Il Progetto era pronto, tutto predisposto. Lo avviammo nella sua forma compiuta con il test numero 67. Quello definitivo. Ricordo la tensione del primo giorno, il lungo elenco delle cose da fare, in ordine preciso e sistematico. Le revisionammo assieme io e Yama, seduti nell’ombra fuori dal capannone. Iniziammo col sole ancora dietro l’orizzonte, nascosto lontano in quella sterminata pianura dentro cui ci eravamo rifugiati. Ripetemmo ogni passo, ogni gesto, ogni azione, ogni cosa da fare e da dire, per essere sicuri. Ci volle tutta la mattina. Tutta una mattina spesa a sfogliare lo spesso blocco stampato pieno di cifre, elenchi, istruzioni. Ricordo che a un punto mi alzai in piedi, sollevando gli occhi dai registri. Guardai una lucertola uscire da un foro polveroso, la vidi scattare per qualche centimetro scivolando sulla parete, e poi battere le palpebre al primo calore del sole. Ed annusare l’aria, la lingua saettava ad assaggiarne l’odore. E poi incominciammo. Attuare l’intero Progetto avrebbe preso mesi, ma ormai era avviato. Eppure fu già qualche giorno dopo l’inizio della procedura che successe qualcosa di strano. Fu una cosa che durò meno di un istante, sottile come un foglio di carta. Come un lampo di buio. Come un bagliore di luce al contrario che sprofonda in un attimo, un flash nero velocissimo che non so spiegare. Non un blackout elettrico, qualcosa di più. Me ne accorsi per un soffio, ma se dovessi dire quale fu il momento in cui iniziai a sospettare che forse ci eravamo sbagliati, beh, fu proprio in quel momento. Rimasi agghiacciato, inchiodato a me stesso 42


dal terrore. Non appena lo sguardo di Yama dall’altro capo della sala incrociò il mio e vidi i suoi occhi, vidi di nuovo quel lampo nero, così strano, fulmineo, dentro il profondo delle sue pupille. E poi iniziò tutto ad incrinarsi. Ma ormai non si poteva fermare, il Progetto era avviato ed operativo, e noi non potevamo farci niente. Andammo avanti, continuammo a provare, a cercare di capire dove fosse l’errore, e se ce ne fosse uno. Ma le cose seguitavano a guastarsi sempre di più. Smontammo tutto pezzo per pezzo, revisionammo tutto, ricostruimmo tutto da capo. E intanto eventi strani continuavano a succedere. Iniziammo ad accorgerci che le anomalie non erano più così facili da gestire. Per niente facili. Ci sembrava che qualcuno, tra la gente, incominciasse ad avvertire qualcosa di diverso. Non quello che speravamo ma qualcosa di incongruo, di errato, sempre più intensamente. Entro breve ne fummo sicuri. Ci eravamo sbagliati. Ci siamo sbagliati. Era troppo presto, non eravamo ancora pronti, non doveva accadere, non era previsto, non era nemmeno possibile. Eppure... Fu chiaro che il Progetto era da abbandonare al più presto. Chiudere tutto e tamponare i buchi, ma ormai era tardi, davvero troppo tardi. Non ce l’abbiamo fatta. Alla fine correvamo avanti e indietro revisionando tabulati tra la polvere del capannone. Fasci di luce animata di particelle tagliavano l’aria, filtrando dall’alto attraverso le griglie delle finestre. Centinaia di pagine che conoscevamo quasi a memoria – moduli, tabelle, l’ossatura dell’intero Progetto – erano sparse per l’immenso pavimento, disposte come un grande disegno. 43


Lo percorrevamo cercando una chiave, in preda all’angoscia, tentando di recuperare un qualche controllo. Poi cominciò davvero a scapparci di mano. Inarrestabile. Come impugnare qualcosa di solido che si sgretola, ti si scioglie tra le dita, diventa cascata e poi mare in burrasca. E adesso è andato tutto alla malora, quello che abbiamo innescato non si può più fermare, non ci sono più le condizioni per farlo. È troppo tardi, decisamente troppo tardi. Adesso che ci penso mi viene quasi da ridere. Adesso che non resta più niente di ciò che era prima. Abbiamo distrutto tutto quanto, smembrato ogni ordine in un grottesco groviglio senza senso. Abbiamo fallito. Yama è fallito, il nostro mondo è fallito, tutto è fallito. Il Progetto è fallito. Anche a me manca poco. Abbiamo fregato l’intero universo, tutto quello che avevamo. Che idioti siamo stati. È passato perfino il terrore, l’angoscia, tutto. L’unica cosa che mi rimane è un vago senso di rassegnazione, ormai ingrigita e debole pure quella.

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Nella città di Guwahati Paolo Rosso

Nella città di Guwahati, all’inizio del 2014, si verificò un fenomeno alquanto strano. La città a quel tempo era invasa dalle immondizie e non esisteva un vero servizio municipale di pulizia e di ritiro dei rifiuti. Le uniche persone che ponevano un minimo d’ordine erano i più poveri che, rovistando nei bidoni, riciclavano il possibile. Le persone più abbienti, come di usanza in quel luogo, non si interessavano dei possibili danni che anche la loro salute poteva subire, solamente gli odori non erano a loro graditi. Ogni minuto si sentivano urlare dai balconi i servi delle ricche famiglie. Esortavano i poveri a spostare le immondizie del palazzo perché troppo ricche di escrementi olezzosi. Se questi non ubbidivano l’usanza era di lanciare in strada alcuni biscotti e prometterne altri a lavoro finito. Spesso si vedevano uomini azzuffarsi con cani per contendersi le briciole, soprattutto quelli che, non conoscendo l’uso del bastone, non sapevano tenere le bestie a distanza. Un’aria apocalittica avvolgeva la città, spesso i fumi delle numerose fabbriche chimiche rilasciavano nel cielo dei gas che tingevano l’atmosfera. Questi gas, mescolati allo smog e alle cloache, erano la probabile origine di strani fenomeni. Non di rado di notte, incrociando un uomo, si poteva vedere nei suoi occhi una luce fluorescente. Molte persone iniziarono ad avere crisi simili a quelle epilettiche, la maggiore parte della popolazione aveva un tic per cui involontariamente rivoltava i bulbi oculari a ritmo continuato. 45


L’occultismo religioso presente nel paese venne associato a questi fenomeni. Nel tempio di Kamakwilli i sacrifici animali si moltiplicarono e le persone più ricche, come auspicio di protezione della propria famiglia, ricevevano il cuore pulsante di una fanciulla squartata dal bramino proprio di fronte ai loro occhi. Più le malattie aumentarono e più i fenomeni sacrificali si accentuarono e anche i cattolici di Guwahati ne furono irrimediabilmente scossi. Le suore della confraternita di Don Bosco iniziarono ad autoinfliggersi pene tremende e i preti, tormentati dal mito della creazione del Brahamaputra, si masturbavano in pubblico dando poi il loro seme da bere ai discepoli. Alla stazione di Guwahati dovettero installare delle transenne tra la banchina ed le rotaie perché ogni giorno decine di persone venivano spinte sotto i treni in transito. Un giorno accadde qualcosa di incredibile, una particolare specie di uccello, il corvo Stocco, cambiò sembianze. Gli occhi erano fluorescenti ed una cresta verde spiccava dal piumaggio nero. Questi uccelli incominciarono a rubare i rifiuti urbani. Stormi si abbattevano su una zona e la ripulivano in pochi minuti. Gli scienziati dissero che la città di Guwahati, essendo prospiciente al gigantesco greto del fiume Brahamaputra, era soggetta a correnti ventose che mescolavano diversamente le sostanze chimiche rilasciate dalle numerose fabbriche presenti nel raggio di 50km. Le emissioni non erano controllate e le mescolanze avevano influenze imprevedibili sia sull’uomo sia sugli animali. 46


In pochi giorni gli uccelli ripulirono la città. Attendevano che la minima cosa venisse abbandonata per gettarvisi in picchiata e farla sparire. L’evento attrasse numerosi curiosi da tutto il mondo e in breve alcune leggi dovettero essere promulgate. Gli abitanti usavano salire sui tetti con numerosi bidoni, iniziando a gettare i rifiuti nell’aria per compiacere i turisti. Gli animali, rapidissimi nella loro risposta, rimanevano spesso infartati al suolo per il troppo stress ricevuto, numerosi morivano ricoprendo le strade. La classe dirigente, abituata a convivere con persone e animali morenti, non si scompose per nulla ma evidenziò come la scarsità di uccelli poteva condurre all’estinzione del fenomeno e al conseguente dileguamento dei turisti. Per ristabilire l’equilibrio la città venne riempita di cestini. I sacchetti avevano due maniglie che due corvi potevano afferrare agevolmente col becco e portare via. Ogni tanto quelli più giovani ed eccitati giocavano a prendere al volo fogli di carta prima che cadessero nei bidoni. Il professor Hussein decise che voleva scoprire dove tutti questi rifiuti andavano a finire. I corvi volavano verso nord est ma nessuno sapeva dove si fermassero. Salendo su un elicottero alla ricerca di questo luogo sconosciuto si spazientì perché il pilota aveva azionato il mezzo senza aprirgli la porta, probabilmente la maniglia era sporca e lui non aveva intenzione di insudiciarsi. Bussando in modo deciso sul vetro del velivolo lo costrinse a spegnere il motore, scendere, aprirgli la porta ed allacciargli la cintura. Finita l’operazione gli sputò in faccia per ricordargli l’errore. 47


Volando raggiunsero l’Arunachal Pradesh, zona di confine con la Cina e al centro di numerose dispute territoriali. La zona di alta montagna al confine con il Tibet era in molte sue parti pressoché inesplorata. Il modo migliore di volare era stato quello di posizionare l’elicottero all’interno degli stormi più grandi, per non rischiare di finire fuori rotta. Più o meno continuamente la pala dell’elicottero falciava uccelli e il professor Hussein scherzava chiedendosi se gli altri si sarebbero lanciati a raccogliere le carcasse, ormai spazzatura. In realtà sapeva benissimo che non avrebbero raccolto rifiuti organici ma l’odio che nutriva verso queste bestie, che avevano ripulito la città rendendola troppo asettica, era una pulsione che non riusciva ad ammettere e che lo accompagnava. Ad un certo punto, dopo aver valicato due cime particolarmente alte, si ritrovarono dinanzi uno spettacolo incredibile, un’intera vallata era ricoperta di rifiuti. Il tutto aveva un ordine ben preciso, strutture costituite da oggetti dello stesso tipo erano asssemblate con maestria ingegneristica. Una metropoli si sviluppava seguendo un preciso ordine geometrico, sembrava l’incrocio tra un luna park, Manhattan e un grande magazzino. Gli uccelli però non abitavano quel territorio. Dopo aver depositato i rispettivi carichi lo sorvolavano, come in una contemplazione estatica, e poi sfrecciavano via velocissimi. Si concedevano un momento di meditazione prima di riprendere il colossale lavoro. Il professor Hussein rimase estasiato, pensò subito a quanto successo gli avrebbe portato creare un parco a tema se avesse 48


potuto avere quell’area immensa tutta per sé. Appena tornati a Guwahati, per mantenere il segreto, fece sgozzare il pilota dal suo servo e lo sacrificò all’ avatar di Shiva Primterrapposct per risolvere la forfora vaginale di sua moglie dovuta alla scabbia contratta l’anno precedente. In pochi giorni acquistò la vasta proprietà, contattò un giovane manager musicale di Guwahati per organizzare un Ecofestival e ottenne l’aiuto dell’ex-rocker assamese psicopatico e direttore della TV nazionale per diffondere la notizia dell’apertura. Nel piano finanziario ogni persona avrebbe pagato fior fior di quattrini per accedere a questo mondo incredibile e si prevedeva un incasso di 100.000 crones nel primo mese. Grazie a tutto ciò l’India sarebbe diventata il centro mondiale del riciclo creativo. Ma quel giorno, quando questo mondo fantastico stava per essere rivelato, successe qualcosa che ancora oggi non è molto chiaro. La città era invasa da migliaia di persone e i potenti avevano annunciato che in alcuni giorni avrebbero dato una notizia che avrebbe cambiato il corso della storia. Religiosi, fricchettoni, accademici, giornalisti e curiosi arrivati da ogni angolo del pianeta erano a Guwahati. La ricchezza aveva fatto riscoprire aree archeologiche scomparse sotto i palazzi abusivi, le macchine che cirvolavano erano solo elettriche e i delfini del Brahamaputra saltavano vivaci al ritmo della puja. Ma le correnti d’aria della valle fluviale mutarono, dando forma a una nuova miscela di scorie chimiche e la mattina del 15 Febbraio 2014 l’aria si tramutò in un gas marrone. In 30 minuti circa milioni di persone e di animali si sciolsero 49


e scomparirono lasciando come unica traccia una scia di acido che fondeva il suolo. Da quel giorno la città cambiò il suo nome in Messalkimelpota: la città delle pozzanghere acide fatte di persone fuse. Solo il dinosauro Piedino, ritrovato in una grotta del parco Kazirangtlana, scorrazzava tra le strade senza alcuna preoccupazione leccando le pozzanghere.

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Tatarama Matteo Stocco

Sento qualcuno disteso accanto a me, ogni tanto ci sfioriamo involontariamente, una coscia, la schiena, a volte le natiche, scivolo sulla sua pelle umida di sudore. Come tutti gli altri ci troviamo chiusi in questa stanza, distesi, molto probabilmente uno accanto all’altro. Intuisco che lo spazio che ci divide è limitato perché ad ogni mio movimento rischio il contatto con qualche sua parte del corpo, forse ci troviamo ad una decina di centimetri di distanza. Nonostante i ricettori dei miei bulbi oculari siano stati momentaneamente disattivati, in questo buio indotto riesco a prevedere le sue posizioni, se avessi più tempo a disposizione sono sicuro che sarei in grado di ricostruirne la fisionomia. A tratti vengo investito dal suo forte alito, sembra aver mangiato aglio, molto probabilmente prima di entrare qui dentro. Me lo immagino non molto più basso di me, sulla quarantina, fisico asciutto, giù in strada probabilmente al chiosco davanti ai bordi del marciapiede, ad aspettare che la frittura porti a galla delle palline deformi color marrone chiaro, “dorate” croccanti, scivolose, incredibilmente unte. Con sguardo ebete ed assente continuo a guardare l’olio bollire, in attesa di far scivolare giù per l’esofago quella massa di pasta fritta, ancora calda, fino allo stomaco per poi scioglierla con una burrascosa digestione, esalando quei mefitici gas che avrei inalato mio malgrado, qualche ora dopo. Avrà atteso sicuramente qualche minuto prima di avviarsi alla porta d’ingresso, guardandosi intorno per evitare di incrociare 51


qualche conoscente. So benissimo come ci si sente in quel frangente, quella fastidiosa sensazione di immotivata vergogna, nonostante la facciata del palazzo sia anonima, uguale a molte altre e priva di alcuna insegna, ci si sente sempre osservati ogni volta che si deve entrare qui, come se tutti sapessero dove stiamo andando. Sono sicuro che la privacy e la segretezza dell’identità dei clienti siano i punti chiave del contratto, proprio per questo i ricettori dei bulbi oculari vengono disattivati quando si deve entrare nella stanza, nessuno deve vedere l’altro. Nonostante ciò, ogni volta che mi trovo a poca distanza da questo posto ho come la sensazione che una coperta intessuta di giudizio mi venga gettata addosso, pesantissima, grande tutta il mio corpo, rallentandomi il passo sempre di più fino all’ingresso, per poi polverizzarsi una volta che le due porte si chiudono alla mie spalle. Allora, una volta perso il peso della momentanea paranoia, accelero il passo e volo sulle scale, scorrendo i sette piani del palazzo come l’aria che entra dalle finestre, arrivando alla porta di quello che sembra essere un appartamento come tanti altri. E come tanti altri non lo è. Posti come questo possono cambiarti in breve tempo e sicuramente mi hanno migliorato, ridando dignità ad ogni mio giorno ad ogni mio sforzo diventando un rifugio da quella che era, e continua ad esserlo al di fuori di qui, una vita di merda. Sono nato con un percorso già segnato, come tanti altri dopo la rivoluzione medico sanitaria. I miei genitori, prima della formazione del feto, decisero di avviare un processo che avrebbe influenzato la mia vita fino alla tomba: come in tutti, anche in me erano presenti diversi geni dei miei predecessori, 52


tramandati dalle diverse generazioni, contenenti informazioni “inespresse”, quindi inutilizzabili. Gli ingegneri genetici spostarono questo archivio proteico per farmi nascere con una sorta di innata “coscienza”, in poche parole, ai ricordi che avrei collezionato in vita si sarebbero sommati quelli di altre persone. L’obbiettivo dei mie genitori era quello di salvarmi e salvarsi dalla media borghesia ormai in declino, investendo tutti i loro risparmi in questa operazione che si sarebbe rivelata come una sicura assunzione presso Tatarama*. Pagato fior fiore di rupie per passare tutto il giorno a farsi leggere il cervello e cavarmi fuori dalla testa ricordi che non ho mai vissuto. I miei si sentivano fortunati, a detta degli esperti il quantitativo di memoria che si poteva recuperare dai geni dei miei nonni, bisnonni e compagnia bella avrebbe contribuito per un buon 45% alla ricostruzione virtuale dell’originale ambiente della città, tante erano le informazioni che mi sarebbero arrivate. Pensandoci dovrei ringraziarli, se non fosse stato per il mio impiego non avrei mai potuto trovare questo luogo. Un anno fa il mio gruppo di lavoro stava ricostruendo i modelli di rappresentazione del secondo quadrante nord/ovest della città, nella zona del fiume dove una volta si presumeva dovesse esserci un piccolo villaggio di pescatori. Le immagini estrapolate dai miei dati cerebrali coincidevano con gli scritti pervenuti dagli storici. All’improvviso uno degli assistenti incaricati nella lettura dei miei fasci neurali interruppe la scansione per avvisarmi che i dati che stavano raccogliendo mancavano di alcune delle informazioni relative ad una * Prestigiosa azienda statale incaricata nella ricostruzione del panorama virtuale. 53


piccola via. Un bug metteva in conflitto i miei ricordi con la mia coscienza del presente. Si trattava di un inconveniente che si verificava con una certa frequenza, i miei ricordi del presente ovvero la mia geografia della città, non permettevano la lettura delle informazioni trasmesse nei miei geni prima della mia nascita, dando come unica verità quella del presente non ammettendo che lì, in un remoto passato, la città non fosse mai stata quel piccolo villaggio di capanne e natura rigogliosa. Chiesi all’assistente incaricato di geo localizzare i miei ricordi e di darmi informazioni precise sulla locazione del bug. Come da procedura standard in questi casi, dopo il mio servizio giornaliero, mi diressi verso il luogo indicato come la fonte dell’interferenza. Incrociando i dati della mia memoria attuale con la lacuna riscontrata in quelli genetici, il punto esatto risultava essere un palazzo residenziale, uno dei più alti in quella zona, all’incirca sui nove piani con delle grandi terrazze sul tetto. Si trattava sicuramente di uno di quei palazzi per borghesi, simile a quello dove i miei genitori vivevano un tempo, prima di arricchirsi alle mie spalle e trasferirsi in una di quelle villette in periferia per nuovi eco-friendly-ricchi. I portoni d’ingresso del palazzo erano aperti, un inserviente stava pulendo i pavimenti, decisi di approfittarne per entrare ed esplorarne gli interni. In quei casi un comportamento del genere non sarebbe stato ammissibile da parte del regolamento Tatarama, perché avrei arricchito il mio presente di ulteriori ricordi rischiando di rendere il bug ancora più difficile da debellare. Non ci pensai e presi a salire le scale. Arrivato al settimo piano trovai la porta di un appartamento aperta e dentro, in quella che sembrava essere una piccola sala d’ingresso, un ologramma in stand by con una piccola nota in 54


rosso a caratteri occidentali che indicava l’assenza di un segnale per connessione in rete. Entrai per dare una veloce occhiata. Al mio ingresso il segnale dell’ologramma venne ripristinato e mi venne indicata una zona della stanza, in un angolo alla mia destra. Non volendo fermare la spinta di curiosità che mi aveva portato fin li, mi avvicinai alla parete come indicato nel segnale video, scoprendo che in quel punto c’era una sorta di piccola porta scorrevole che si ritirò non appena mi misi li di fronte. Entrai in una piccola stanza che aveva l’aria di essere uno sgabuzzino, dalla fioca luce color rosso. Vicino ai miei piedi c’era una scatola di metallo, la aprii per vedere cosa potesse contenere ma la trovai vuota. Sulla parete davanti a me apparvero delle scritte luminose, indicando il contenitore vuoto. Accompagnando le insegne olografiche, una voce femminile registrata, dal tono sereno indicava: «Il gentile cliente è pregato di depositare i propri indumenti nel contenitore in basso a destra». Le indicazioni grafiche erano accompagnate da sottotitoli in inglese e da alcune icone che illustravano le azioni da compiere per renderle più comprensibili. «Prima dell’avvio del processo di lavaggio le consigliamo di selezionare le diverse fragranze disponibili, altrimenti selezioni la voce preferite per avere accesso ad una lista di detergenti precedentemente utilizzati», la mia curiosità si accese ancor di più. Ricordo come in quel momento non mi fossi minimamente preoccupato di quello che mi stava accadendo, non so come ma stavo dando tutto per scontato, ritrovandomi nudo in un stanzino, in un palazzo che non conoscevo, in una zona della città che non avrei mai frequentato, guidato da insegne luminose e voci robotiche. Lasciai che tutto scorresse senza 55


troppo riflettere, l’avessi fatto sarei caduto sicuramente in preda al terrore. Scoprii che, per puro caso, la lista di fragranze conteneva tipi di saponi e bagnoschiuma che solitamente usavo, anzi erano quelli che più preferivo, molto probabilmente i più scelti dalla maggior parte dei clienti. Selezionai essenza di fico e la voce robotica femminile mi chiese se volevo far partire con anticipo la fase di lavaggio, acconsentii. Mi venne indicato di indossare delle ciabatte, apparse - non so come e da dove accanto alla scatola e guarda caso della mia giusta misura. Dal soffitto partì una leggera pioggia d’acqua e bagnoschiuma ad una piacevole temperatura. Non appena il flusso si interruppe, si avviarono una serie di getti d’aria calda lungo le quattro pareti, asciugandomi completamente. Le insegne cambiarono ancora e riapparvero delle nuove icone per spiegarmi che l’ultima fase prima dell’ingresso nella stanza principale prevedeva la preparazione all’assenza di microgravità e alla cecità indotta. Anche in questo caso non mi allarmai, per mia fortuna avevo già provato la cecità indotta a causa di un controllo oculistico, il che mi permise continuare il flusso di incoscienza che mi stava trascinando dal mio ingresso in quel luogo. L’interfaccia luminosa mi chiese di accettare le condizioni di sicurezza prima di dare avvio alla fase di preparazione. Accettai e non appena diedi il mio consenso provai l’esperienza della microgravità, perdendo equilibrio e cadendo all indietro. L’assenza di gravità aveva spinto verso l’alto la pianta dei mie piedi arrivando a qualche centimetro dal pavimento, facendomi perdere stabilità e cadere all’indietro. Fortunatamente il mio volo venne attutito dalla microgravità stessa impedendomi di battere la testa. Me ne stavo sdraiato a terra, inerme, provai a muovermi ed inaspettatamente ci riuscivo benissimo, non 56


ero però in grado di alzarmi, in quella condizione era possibile muoversi solamente da distesi. Girando su me stesso vidi che sul pavimento si trovava un piccolo contenitore, l’insegna suggerì di aprirlo e di inghiottire la capsula al suo interno, la ingurgitai e dopo qualche secondo la cecità indotta inizio il suo effetto. Non appena i miei occhi divennero incapaci di vedere sentii che la parete davanti a me si stava sollevando, e come trasportato da una corrente, il mio corpo uscì da quella stanza. Feci il mio ingresso in uno uno spazio pieno di suoni irriconoscibili e quelli che sembravano essere dei mugolii di piacere maschili. Mi agitai, questa volta la paura ebbe la meglio, mi resi conto con quanta ingenuità e stupidità ero finito in mani sconosciute, potenzialmente in pericolo di vita ... le peggiori ipotesi passarono veloci per la mia testa lasciandomi nel panico. Provai ad alzarmi ma la microgravità continuava ad impedirmelo, allora in quello spazio buio iniziai a dimenarmi violentemente cercando di spostare il mio corpo verso il lato dal quale presumevo fossi arrivato. Anche questo tentativo fallì miseramente. Così, oltre al panico e alla rabbia, si aggiunse un sentimento di profonda vergogna portandomi ad un pianto disperato, raccogliendo il mio corpo in posizione fetale. Quella che sembrava essere una mano iniziò ad accarezzarmi la testa poi pian piano tutto il corpo, per arrivare in fine al mio sesso. Sembrava conoscermi, si muoveva con la dolcezza di una madre e con la malizia di un’amante, portandomi lontano da quei sentimenti di angoscia. Era una sensazione che riconoscevo ma non avevo mai provato, in vita mia non avevo mai sentito nulla di così vicino all affetto come quel gesto. Semplicemente accarezzandomi. 57


In un momento mi sembrò chiaro cosa stesse accadendo. Durò poco quel momento di lucidità, l’eccitazione si prese tutto il mio lato razionale dando sfogo ai miei desideri più repressi. Mi resi conto di ciò che mi circondava, come reazione al mio iniziale smarrimento: tutto attorno dovevano esserci dei corpi di uomini e donne, li sentivo muoversi, respirare affannosamente, eccitati, sudati, ogni tanto mi toccavano, tutti come immersi in una enorme vasca d acqua, fluttuanti. La stanza non doveva essere molto grande perché le collisioni con gli altri erano frequenti, se non costanti. Disteso sul mio lato sinistro, allungai le mani in avanti, cercando di catturare quella mano che mi aveva salvato dalla mia ingenua disperazione. Sentii di aver afferrato un corpo femminile, lo portai verso di me con forza dimenticando che con la microgravità ogni movimento risultava almeno il doppio più intenso rispetto alle normali condizioni. Mi ritrovai a fluttuare all indietro assieme a quel corpo sconosciuto, finché non sbattemmo contro una parete, il sedere della donna si scontrò con il mio bacino facendo scivolare il mio sesso dentro di lei. Iniziai a muovermi sfogando la mia paura e convertendo quel senso di vergogna in rabbia e bramosia. Dopo poco sentii il bisogno di esplodere e mi lasciai andare, liberando il mio seme dentro un corpo di una perfetta sconosciuta. Mi staccai da lei e subito una mano mi prese la spalla facendomi fluttuare verso un altro lato della stanza, spingendomi dentro ad uno stanzino. La voce robotica mi accolse per la seconda volta, avvisandomi che sarebbe ripartita una doccia con la fragranza scelta prima, mi rimanevano pochi minuti prima di cambiare le mie scelte precedenti. Impassibile accettai le impostazioni attuali aspettando lo scorrere dell’acqua. Mi alzai in piedi poiché un 58


ulteriore avviso mi informò della progressiva diminuzione della microgravita. Lavai il mio corpo mentre pian piano i miei occhi riacquistavano la vista. Nonostante le diverse sensazioni contrastanti, avevo in chiaro una cosa sicuramente: mi sentivo bene, per la prima volta in vita mia mi sentivo di essere stato parte di qualcosa di vivo, bello, sincero, pieno di verità. Il senso di colpa che avrei dovuto provare nei confronti di mia moglie era distante anni luce da me, anzi, una volta tornato a casa mi sentii ancor più motivato nell’ignorarla e il massimo contatto che riuscii ad avere fu quello di chiederle di farmi trovare qualcosa per cena. Con quell’aria da cane bastonato ed il muso sempre piegato a terra annuì, ritirandosi con il suo telefono in sala da pranzo per prenotare il cibo e magari parlare non so di cosa con le sue amiche, siano sempre davvero esistite delle amiche. Mi chiusi in camera ascoltando della musica, evitando così di sentire quella ridicola voce che non ho mai sopportato. E pensare che un tempo, per un certo istante, quando si concedeva a me, la ritenevo una donna potenzialmente interessante. È durata poco, finendo nella banalità dell’abitudine, nei soliti schemi di tutti i matrimoni organizzati dai genetisti per poter sperare in una prole dalle grandi capacità. Dopo circa dieci anni non si era vista nemmeno l ombra di un feto, un fallimento completo, una donna incapace di procreare nonostante la sua qualifica come dottore veterinario, phd ad Harvard con i massimi voti. Tutto inutile se non riesci a dare dei figli, carta straccia per vantarsi di un lontano passato glorioso, alla faccia di un presente penoso. La nostra vita sessuale si era estinta ormai da lungo tempo, dopo dei macabri tentativi di ravvivarla nella vana speranza di trovare un minimo di dignità, cercando almeno di adempire al dovere 59


di un matrimonio programmato. Incidenti di calcolo, molto probabilmente anche i sommi genetisti possono commettere degli errori, nonostante continuino ad ammettere che questi imprevisti sono imputabili solamente alla coppia e alla scarsa volontà nel riuscire a costruire una serena convivenza. Riescono sempre a costruirsi un aura da semi divinità sentendosi in grado di prendere qualsiasi tipo di decisione, nonostante le loro conoscenze siano ristrette ad un preciso campo. Loro non potranno mai sapere quanto io mi senta fortunato, graziato. Sono sicuro che la rivelazione di questo luogo e la mia salvezza si sono avverate grazie all’intercessione di Siva, come ricompensa alla mia devozione. Questo luogo non è un posto dove dare sfogo alla propria sessualità, questo luogo ha del mistico, del trascendentale, mi riporta alle lezioni di storia quando il mio tutor mi raccontava degli antichi riti orgiastici, quando un tempo la spiritualità veniva interpretata direttamente dalle scritture originali e non sicuramente come quanto accade oggi: milioni di persone che si fanno imbonire dalle nuove stupide correnti di pensiero mischiate a qualche nozione scientifica, buona a sopprimere i nascenti dubbi di quella parte di popolazione che pian piano si sta istruendo da sola e come una potenziale marea di atei sta minando i bastioni di un credo che sembrava essere ormai consegnato all’eternità. Il mio pensiero viene bruscamente interrotto, accanto a me il mio sconosciuto compagno continua a muoversi come lo avevo lasciato prima di perdermi nei pensieri, si muove con più vigore e forza, diffondendomi addosso il suo maleodorante alito. Ne approfitto per sputare la capsula per la cecità indotta che segretamente avevo tenuto sotto la lingua. Oggi ho preso 60


una decisione, voglio vedere chi mi sta accanto, almeno per poco. Con le mani mi avvicino a dei fianchi di donna, le mie mani affondando in una maniglia di tenera carne, stringo più forte che posso e avvicino il mio corpo, arrivando da dietro. Sento che il suo sedere mi viene offerto con un movimento sensuale, facendo ondulare il bacino, accompagnandolo dolcemente al mio ventre. Piano piano, cercando di simulare la naturale indifferenza dello sguardo di un non vedente, cerco di indirizzare i miei occhi davanti a me. Con molta difficoltà metto a fuoco, una macchia rosa si fa sempre più contrastata mentre il suo colore si fa sempre più spento, grigio. Davanti a me non ho una donna, mi sembra di vedere una sorta di proboscide o grande tentacolo con alla sua estremità una sorta di vagina. Cerco di prendere forza, sicuramente si tratta di uno strano difetto percettivo, dovuto alla scarsa luce. Apro del tutto gli occhi ormai incurante di dover fingere la mia cecità. E purtroppo quella proboscide antropomorfa è ancora li, davanti a me e per di più sto cercando di penetrarla. Con velocità mi stacco da quel corpo informe, ondeggiando goffamente, sospeso sopra il pavimento. Nell’impeto mi faccio fuggire un urlo, sembra che la cosa riesca a sentirmi e si ritrae come una sorta di lombrico. La seguo con lo sguardo mentre se ne va nella penombra e mi accorgo che tutto attorno a me non c’è la minima presenza di essere umano alcuno. Allora mi giro di scatto per controllare quello che pensavo essere il mio vicino compagno dall’alito fetido, e con altrettanto orrore scopro che si tratta di un altra proboscide, per di più maleodorante. Realizzo in un attimo che tutte le presenze umane che pensavo essere qui presenti, altro non sono che una serie di proboscidi appartenenti ad un corpo che ancora non riesco a vedere. 61


Sono sicuro che seguendole arriverò a scovarlo. Sembra che abbiano percepito il mio cambio d umore, ritraendosi tutte verso il centro della stanza, in quello che sembra essere il punto più buio. Ho perso la mia dignità in così poco, avessi ingoiato quella pillola ora tutto ciò non sarebbe accaduto. Vista la mia inadempienza nei confronti della mia divinità protettrice e il suo dono, visto il mio rifiutare le regole quindi il mio peccare così meschino, prendo coraggio e mi decido ad affrontare l’orribile realtà dei fatti, forse morire in questo caso sarebbe la giusta punizione e la miglior fuga dalla vergogna. Mi avvicino scivolando, disteso, verso il luogo in cui le proboscidi si sono ritirate. Anche se è più buio, riesco ad intravedere una massa informe, una sorta di corpo obeso, senza testa, fluttuante. Come una sorta di medusa rivestita di carne umana, con i suoi tentacoli ritirati tutto attorno. Noto delle ulteriori sporgenze al di sopra del corpo informe, sembrano dei seni, numerosi, cadenti. Mi avvicino ancor di più fino ad arrivare a toccare una delle estensioni, come reazione, questa dischiude quella che sembra essere una vagina, molto probabilmente una di quelle con cui ho avuto a che fare negli ultimi mesi. La creatura non sembra essere spaventata, non emette alcun suono e vedo dal suo ritmico ondulare che sta respirando, in maniera tranquilla, come se fosse in attesa di una mia reazione. Allora preso da un’incontrollabile attrazione mi trascino con le mie braccia il più vicino a lei, arrivando in cima a quei seni, abbracciandoli, baciandoli, succhiandoli. Me ne accorgo troppo tardi, sento che le vagine dei diversi tentacoli ormai si stanno prendendo ogni parte del mio corpo. Un estremo piacere si diffonde. In poco mi ritrovo con tutti i miei arti immobilizzati, 62


a pancia in giĂš. Davanti a me fluttua la piccola pillola per la cecitĂ indotta. Mi muovo come un disperato, allungo la lingua, non so come, ma riesco a portarla verso me e la inghiotto. La vista inizia ad andarsene pian piano. Sono di nuovo felice.

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GHY Tutti i diritti riservati Š 2015, Microclima

Concept: Mario Ciaramitaro, Martino Genchi, Alessandra Messali

Contributi: Riccardo Banfi, Mario Ciaramitaro, Birchatiar Desh, Martino Genchi, Alessandra Messali, Paolo Rosso, Matteo Stocco

Immagine di copertina: Matteo Stocco

Editing: Riccardo Banfi, Alessandra Messali

Traduzioni: Mitali Devi, Alessandra Messali, Rashmita Phuran

Ringraziamenti: Svetlana Kozlova Realizzazione: Orchid, Guwahati, India Febbraio 2015


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