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UN PASSO INDIETRO BLA
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Girls support girls la storia ritorna OPPRESSIONE la libertà si piega al TERRORE
Metropolita SOMMARIO N.4 SETTEMBRE 2021
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APPROFONDIMENTI Chi sono i talebani in parole semplici di ALESSIA SPENSIERATO
Direttore responsabile ROSSELLA PAPA Editore ALESSIA SPENSIERATO
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BRAVE Cosa ne sarà ora delle donne afghane? di VALENTINA GALANTE
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ATTUALITÀ La "Tomba degli imperi" che ancora non conosce pace
BRAVE Il diritto allo studio è in pericolo
di ARIANNA LOMUSCIO
di FRANCESCA MAZZINI
anmagazine 20
BRAVE La battaglia femminista delle ostetriche
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LIBRI 3 libri per spiegare ai bambini l'attuale situazione
di MARIA PAOLA PIZZONIA
di STELLA GRILLO
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BRAVE Cos'è la sharia in poche parole di ALESSIA SPENSIERATO
CINEMA Hava, Maryam, Ayesha. L'audace denuncia sociale della regista afghana Sahraa Karimi di GIULIANA AGLIO
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ATTUALITÀ Le repressione della comunità LGBTQ+
CINEMA Il cacciatore di aquiloni Dipinto di un Afghanistan affranto
di FEDERICA TOCCO
di GIULIANA AGLIO
editoriale
Un passo indietro D I R O S S E L L A PA PA
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numero di questa rivista è dedicato ai corsi ricorsi storici, a una Storia: quella dell’Afghanistan, che fa il passo indietro. I talebani invadono Kabul e scende di nuovo il buio. Se le parole possono condannare, possono anche denunciare. Se possono raccontare, possono anche arrivare. Questo è il nostro ponte per attraversare una pagina nuova ma così antica, che non possiamo sorpassare senza prima dare. Come in una scena di “Come pietra paziente” di Atiq Rahimi, la storia ritorna oppressione, l’evoluzione preclude la condanna, la libertà si piega al terrore. Afghanistan e donne, quello che si prepara a essere già l’editoriale di un’annata terroristica, il titolo storico di una futura tesi di laurea con l’aggiornamento al 2021, quando a Kabul ritorna il buio, anche fuori dal burqa. Era il 2012 quando il regista Atiq Rahimi aveva rappresentato al cinema la condizione delle donne in Afghanistan. La terra di nessuno, del terrore, occupata dai padroni talebani che dietro gli abusi inneggiavano a un’ipocrisia di sistema che scardinava qualsiasi status politico e sociale. Ma quel bluff oggi sembra annichilire nuovamente la condizione del popolo afghano, delle donne dimenticate, all’alba di una nuova ondata di occupazione e governo. E qualsiasi vacua promessa anche questa volta riecheggia con l’atrocità antica che ora tocca (ri)vivere. Mm
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AT T U LA STORIA DEL
La "Tomba d che an non cono DI ARIANNA
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e guerre che hanno imperversato in Afghanistan sono state tante, e la nostra generazione conosce bene la situazione difficile che attraversa una terra inquieta, che, ad oggi, ancora non conosce pace. A ripercorrere la storia dell’Afghanistan si capisce, dopotutto, il perché di questa situazione.
UNA STORIA DIFFICILE LUNGA MILLE ANNI
Una definizione, dalle origini lontane e contestate, di cui ancora non si sa con certezza chi sia l’autore, definisce l’Afghanistan come “la tomba degli imperi”: molti, infatti, sono stati gli imperi che hanno cercato di controllarla e conquistarla, però invano. Crocevia di grandi potenze, il territorio afghano è stato bramato da molti: “Nelle montagne più remote esistono tribù che non solo non sono mai state conquistate, ma che non hanno mai visto radicarsi un potere interno”, così esordisce lo storico Stephen Tanner, autore del libro Afghanistan, a Military History. E come la storia ci insegna, è solo nel momento in cui conosciamo le cause che possiamo capire chi siamo oggi, e capire perché la situazione afghana sia così complicata e difficile da risolvere. Nonostante il terreno aspro, difficile e poco accogliente l’Afghanistan è sempre stato l’obiettivo dell’espansionismo di imperi vicini e lontani, principalmente
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per la sua posizione strategica. Da qui passava la Via della Seta, e arabi, greci, fenici, ma poi l’India, l’Iran, la Cina, l’Unione Sovietica, hanno cercato di soggiogare il popolo afghano. Ma per comprendere i fili della storia che ci portano fino ai giorni nostri, bisogna tornare al 1893, anno in cui la Gran Bretagna e l’Afghanistan firmano un trattato che segnava il confine tra l’India britannica e l’Afghanistan. Una linea che in realtà non esisteva davvero, ma immaginaria, posta per questioni di strategia politica coloniale, limitando la comunità pashtun, che oggi ancora è la maggioranza etnolinguistica del territorio afghano. E oggi cosa significa il ritorno dei talebani per le donne afghane? Il governo talebano, oltre ad essere estremamente repressivo ed estremista in termini generici, è anche e soprattutto un qualcosa di estremamente patriarcale e misogino. Alcuni testimoni sostengono che nel percorso compiuto per arrivare alla Capitale, i talebani abbiano setacciato ogni casa incontrata, stilando liste di donne nubili che vanno dai dodici ai quarantacinque anni, con il fine di strapparle alle loro famiglie e darle in spose, contro il loro volere, ai guerriglieri, essendo definite “bottino di guerra“. Una ragazza racconta: “Stamattina le mie sorelle ed io abbiamo nascosto le nostre carte di identità, i diplomi e i certificati. è stato devastante. Perché dobbiamo nascondere cose di cui dovremmo essere fiere? Sembra di dover bruciare tutto quello che ho realizzato in 24 anni.” Da
ieri, per le strade afghane, non circolano donne. A Kabul, le saracinesche di un centro benessere su cui erano raffigurate bellezze all’occidentale, vengono coperte da uno strato di vernice bianca. Ovviamente la condizione femminile, precedentemente al rientro dei guerriglieri, non è che fosse al pari dell’Occidente; come riportato da ActionAid, che denuncia ancora spose bambine e matrimoni forzati nonostante l’impegno di diverse Onlus che operano sul territorio, tra cui Pangea Onlus. Grazie anche alle storie Instagram di Pangea, riusciamo a carpire un po’ di più di ciò che sta accadendo: la Onlus citata è stata costretta a distruggere la documentazione di tutta la sua attività per salvaguardare l’identi-
tà di coloro che sono state aiutate negli ultimi anni e la propria incolumità. Le attiviste temono di uscire per le vie dove girano armati i miliziani e che potrebbero giustiziarle, così come hanno fatto con i membri delle Onlus dei distretti vicini. Intanto, i parenti che vivono all’estero invocano aiuto e soccorso per le proprie care, come lo chef Hamed Hamadi, il quale, da anni vive a Venezia ed ha fatto un appello affinché la sorella venga tratta in salvo dall’Afghanistan. Il portavoce dei talebani ha assicurato il mantenimento del rispetto dei diritti delle donne e dell’accesso all’istruzione, oltre al consenso a lavorare, uscire sole ed indossare l’hijab.
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AT T U A L I TÀ
QUANTA PAURA FA LA REALTÀ?
Nonostante ciò, perpetra un clima di scetticismo. Si teme che tutta l’indipendenza guadagnata nell’ultimo ventennio, vada così dispersa. Riflettere su ciò che potrebbe spettare a quelle donne provoca un brivido lungo la schiena. E per chi come noi, vive nella parte di mondo fortunata, risulta impensabile aver bisogno del consenso per fare quelle cose definibili come normale routine. Fa paura pensare alla condizione delle sorelle afghane, nuovamente vittime del terrore di tornare a non avere una voce, a non esistere. Sembrerebbe la trama di un romanzo distopico e invece, è proprio la realtà.
IL CUORE DEL PROBLEMA AFGHANO: GLI ANNI QUARANTA E LA GUERRA FREDDA
Successivamente l’Afghanistan diventa indipendente dal 1919, e successivamen-
te negli anni Quaranta dichiara non valido il trattato precedente e rivendica la propria influenza sui pashtun al di là dei confini con l’India britannica. La comunità pashtun rimane divisa, e questo diventa il cuore del problema afghano. L’Afghanistan continuava a reclamare i diritti sui pashtun oltre i propri confini territoriali, così facendo la situazione diventava sempre più complessa, tra tensioni tra etnie, religioni, e territori. Così il Pakistan decide di utilizzare gruppi islamisti per risolvere la questione dei confini e far pressione sull’Afghanistan. E’ questo il fulcro di ciò che poi si riverserà nei giorni nostri: una questione di aree di influenza che caratterizzerà poi una storia lunga più di 60 anni. Siamo nella Guerra Fredda, e il Pakistan, insieme all’Arabia Saudita e agli Stati Uniti, ha finanziato e armato i mujaheddin, che in quel momento stavano lottando contro il governo di matrice sovietica in Afghanistan, e contro gli stessi sovietici, definiti i nemici della patria islamica per eccellenza. Questa forte ac-
La Gran Bretagna e l’Afghanistan firmano un trattato che segnava il confine tra l’India britannica e l’Afghanistan.
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L'Afghanistan dichiara l'indipendenza
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L'Afghanistan rivendica la propr influenza sui pash oltre i confini dell'India britanni
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cezione patriottica spinge i mujaheddin a continuare il conflitto, fino a sfociare, nel 92 in una vera e propria guerra civile.
PERCHÉ OGGI LA QUESTIONE AFGHANA È PIÙ IMPORTANTE CHE MAI?
E’ proprio negli anni Novanta che si impongono i talebani, dal taglio più estremista e dalla lettura del Corano più conservatrice. E la figura dei talebani diventa importante per il nostro filo conduttore tra la storia, che ci porta all’ 11 settembre 2001 e al 7 ottobre, in cui si da il via all’operazione militare Enduring freedom, che mira a distruggere l’emirato talebano e alla “missione di pace” volta a “esportare la democrazia” in Afghanistan. Da quel lontano 2001 l’Afghanistan non ha più conosciuto pace: si giunge a qualche settimana fa. L’Afghanistan non esiste più, e si trasforma nell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. E i talebani conquistano Kabul. E dopo venti anni, gli Stati Uniti e le forze Nato
Pakistan, Arabia Saudita e USA armano i mujaheddin contro il governo afgano di matrice sovietica
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decidono di ritirare le truppe, e la popolazione civile scappa in massa verso l’Occidente, regalando all’umanità immagini difficili da accettare. Ma perché i talebani sono riusciti ad accedere al potere? Cosa è andato storto nell’intervento statunitense di “esportazione della democrazia”. Elisa Giunchi, docente in Storia e istituzioni dei Paesi musulmani all’Università degli studi di Milano, in un’intervista al Fatto Quotidiano risponde così a questa domanda: “Nonostante vent’anni di intervento militare da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati i talebani non sono mai stati sconfitti realmente, e sono andati occupando aree via via più ampie del territorio, fino a controllare 4-5 anni fa circa il 40 per cento del Paese“. I talebani, secondo Elisa Giunchi: “Hanno imparato l’arte della diplomazia. La corrente pragmatica del movimento, che sta prevalendo, si rende conto che per ottenere il riconoscimento della comunità internazionale è necessario presentare al mondo un’immagine leggermente più soft di quella che li ha resi noti negli anni Novanta”. Mm
Inizia una guerra civile e acquisisce rilevanza la frangia estremista dei talebani
Dopo gli attentati alle Torri Gemelle, inizia l'operazione Enduring degli USA che vuole distruggere l'emirato talebano
I talebani conquistano Kabul, nasce l'Emirato Islamico dell'Afghanistan
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APPROFONDIMENTI
Chi sono i talebani in parole semplici
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a parola “talebano” in pashtu significa “studente” o “ricercatore”. Il movimento, nato nei primi anni ’90 nelle scuole islamiche in Pakistan, ha condotto per decenni una campagna terroristico-militare contro la democratica Repubblica Islamica dell’Afghanistan. Secondo le stime della NATO, i Talebani hanno attualmente circa 85.000 combattenti. Secondo gli esperti, i Talebani sono finanziati dall’Arabia Saudita. Il loro obiettivo è una forma rigorosa di Islam sunnita con una rigida applicazione della Sharia, la legge islamica. Questo include esecuzioni pubbliche e praticamente nessun diritto per le donne, a cui non è permesso lavorare. I talebani rifiutano le elezioni e le strutture democratiche. Gli afghani che hanno lavorato per ambasciate, eserciti e media occidentali sono considerati traditori dai talebani e temono per la loro vita. Nel 1994, i talebani presero il controllo militare della città di Kandahar. Due anni dopo conquistarono la capitale Kabul e hanno formato l’Emirato Islamico dell’Afghanistan (che vogliono ricostruire anche ora). I talebani hanno poi rovesciato il presidente Burhanuddin Rabbani, uno dei padri fondatori dei mujaheddin afghani che avevano combattuto contro l’occupazione sovietica.
Nel 1998 i talebani controllavano quasi il 90% dell’Afghanistan. Solo il Pakistan, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno riconosciuto il governo talebano nel paese. Sotto il loro dominio, omicidio e adulterio erano puniti con la condanna a morte, con esecuzioni pubbliche spesso eseguite subito dopo la sentenza. Alle persone giudicate colpevoli di furto venivano amputate le mani. Gli uomini dovevano farsi crescere la barba e le donne dovevano indossare il tradizionale burqa. Inoltre, secondo l’ONU, i talebani hanno commesso almeno 15 massacri contro la popolazione civile tra il 1995 e il 2001, violenze spesso commesse insieme ai combattenti di Al-Qaeda. La televisione, la musica e il cinema furono vietati. Le ragazze potevano andare a scuola solo fino all’età di 10 anni. In un’intervista con iNews, il primo sindaco donna in Afghanistan, Zarifa Ghafari, ha vive da anni sotto la costante minaccia dei talebani. Ghafari oggi vive a Kabul perché non poteva più vivere in sicurezza nella città di Maidan Shar, dove era eletta sindaco dal 2018. Ci sono state non solo minacce ma anche attentati alla sua vita. Suo padre è stato ucciso a colpi di pistola lo scorso novembre. Due giorni dopo l’assassinio di Massoud, Al-Qaeda, alleata con i talebani, realizzò gli attacchi contro il World Trade Center di New York e il Pentagono a Washington. Le vittime furono quasi
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APPROFONDIMENTI
3.000. L’organizzazione terroristica Al-Qaeda con il suo leader Osama ben Laden, ritenuta responsabile degli attacchi dalle autorità statunitensi, operava dalle zone controllate dai talebani. Il capo di stato dell’emirato talebano era il mullah Omar, nato nel 1960, che rifiutò di estradare Osama ben Laden. Dal 7 ottobre 2001 un’alleanza della NATO guidata dagli Stati Uniti ha attaccato le posizioni talebane in Afganistan. Dopo la conquista, l’Occidente ha installato il governo di transizione di Hamid Karzai nel dicembre 2001. Allo stesso tempo, la Forza Internazionale di Assistenza alla Sicurezza (ISAF) è stata inviata nel paese per addestrare l’esercito afgano e aiutare nella ricostruzione del paese. Lo scorso aprile il presidente americano Joe Biden ha annunciato il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan entro l’11 settembre 2021. Non stupisce che i talebani siano tornati a controllare Kabul e, quindi, l’Afghanistan. Nonostante la cacciata formale ad opera degli Stati Uniti, nel 2001, dal Paese non se ne sono mai andati, anzi. Oggi sembrano più forti e organizzati di prima. Dopo l’annuncio di Joe Biden sulla fine della missione americana, il movimento ha riconquistato vigore e in pochi mesi è arrivato a Kabul. Dopo essere sopravvissuti a due decenni di guerra, i talebani hanno iniziato a
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conquistare vaste aree di territorio, rovesciando ancora una volta il governo afghano. Attualmente sono più numerosi che mai: 85mila combattenti a tempo piano, secondo recenti stime della Nato. L’avanzata verso Kabul è stata più rapida di quanto molti avessero temuto. In molti casi i talebani sono stati in grado di conquistare le principali città senza combattere, poiché le forze governative si sono arrese per evitare vittime civili. Rimossi dal potere in Afghanistan dalle forze guidate dagli Stati Uniti nel 2001, i talebani non si sono mai arresi e ora, mentre Washington si prepara a completare il ritiro entro l’11 settembre, dopo due decenni di guerra, i militanti hanno ripreso il controllo del Paese. Il gruppo aveva avviato colloqui diretti con gli States nel 2018 e nel febbraio 2020 le due parti avevano raggiunto un accordo di pace a Doha che impegnava gli Stati Uniti a ritirarsi e i talebani a evitare attacchi alle forze statunitensi. Ma nell’anno successivo, i talebani continuarono a prendere di mira le forze di sicurezza e i civili afgani iniziando una veloce avanzata in tutto il Paese. Mm
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Cosa ne sarà ora delle donne afghane?
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a cultura non è a senso unico o appannaggio di un solo schieramento: la cultura ha il grande pregio (e privilegio) di essere di tutti, di poter essere utilizzata come strumento di attacco e di difesa. Privilegio che si estende a tutte le arti, e quindi anche alla musica, permettendo ai propri pensieri di prendere forma nel lirismo e in grado di portare altrove grazie alle sensazioni che provoca in chi la
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ascolta. Anche in un posto lontano da quello in cui ci troviamo. Ashraf Ghani ha abbandonato la carica di presidente dell’Afghanistan ed è fuggito in Uzbekistan, lasciando ingresso libero agli estremisti e abbandonando il Paese alla disperazione più totale. Non appena il gruppo radicale islamista ha preso possesso delle strade di Kabul, è iniziata una diaspora del popolo afghano: in tanti hanno preso d’assalto l’aeroporto per fuggire e trovare rifugio altrove.
FACCIAMO IL PUNTO: PRIMA UN PO’ DI STORIA
Nel 1992 venne proclamato lo Stato islamico dell’Afghanistan, retto dai mujaheddin che si dimostrarono da subito deboli e disorganizzati; ciò permise, tra il 1996 e il 2001, l’ascesa al potere da parte dei talebani e dunque, l’istituzione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Applicarono una versione estrema della sciaria, comportando così l’instaurazione di un sistema estremista e repressivo, mosso da motivazioni (apparentemente) religiose. Dopo vari eventi di violenza autoctona, l’11 Settembre 2001 i talebani rivendicarono la paternità dell’attentato terroristico alle Torri Gemelle, a New York: questo convinse gli Stati Uniti ad invadere l’Afghanistan, dando inizio all’operazione Enduring Freedom. Il regime integralista cadde a Novembre 2001, in meno di un mese. Successivamente, al potere salì Hamid Karzai fino al 2014, pur sempre affiancato da contingenti NATO a causa dell’instabilità politica e degli attentati terroristici compiuti dai talebani. Questo clima di calma persevera fino a Gennaio 2020, quando, l’allora Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annuncia il ritiro di tutte le truppe statunitensi, attuato sotto il
Governo Biden. Questo ha provocato la riconquista da parte delle milizie talebane.
MA IN COSA CONSISTEVA IL PRIMISSIMO CONTROLLO TALEBANO?
Durante il passato regime talebano, si impose a tutta la popolazione una visione del mondo arcaica, quasi medievale: vietate la televisione, la musica e il cinema. A marzo 2001, distrussero due enormi statue raffiguranti Buddha, ovvero i Buddha di Bamiyan, poiché, secondo il credo talebano, raffiguravano degli idoli, andando contro la legge islamica. Vennero imposte restrizioni alla libertà personale: gli uomini non potevano tagliare la barba. Chi ne soffrì maggiormente furono le donne: costrette ad indossare il burqa, non era loro consentito l’utilizzo di cosmetici e gioielli, non potevano uscire di casa se non accompagnate da uomini appartenenti alla loro famiglia e non potevano avere contatti con quelli che non ne facevano parte. Inoltre, una donna non poteva guidare un’auto, una moto o semplicemente, andare in bicicletta. Pena la lapidazione, lo stupro o la morte. Mm
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Il diritto allo studio è in pericolo DI FRANCESCA MAZZINI
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el paese continuano esecuzioni e vendette nei confronti di chi è nemico del regime. Le prime minacce sono state rivolte a chiunque abbia collaborato con l’Occidente e, ovviamente, alle donne. L’unica speranza di sopravvivere al momento è quella di fuggire. L’aeroporto di Kabul in questi giorni è preso d’assalto e centinaia di persone si ammassano lungo gli ingressi dello scalo nella speranza di trovare un volo. La situazione purtroppo non cessa
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di degenerare. Ora è in pericolo anche il diritto allo studio, soprattutto per le ragazze.
I TALEBANI CONTRO IL DIRITTO ALLO STUDIO: LE STUDENTESSE DI HERAT NON POTRANNO PIÙ FREQUENTARE CLASSI MISTE
Dopo la stipulazione di liste con i nomi di tutte le donne nubili all’interno del paese (da offrire come bottino di guerra
ai soldati), i Talebani si macchiano oggi di un’ulteriore vergogna. Con la prima fatwa vietano le classi miste a Herat ed in tutte le altre università dell’Afghanistan occidentale, mettendo così a rischio il diritto allo studio per migliaia di ragazze. A seguito di una lunga riunione tra professori universitari, proprietari di istituzioni private e i rappresentanti del nuovo regime, questi ultimi hanno annunciato che d’ora in poi gli studenti di diverso sesso non potranno più frequentare insieme le lezioni. La protesta dei docenti e dei titolari delle scuole private non è servita a nulla.
Alcuni professori hanno riferito ai giornalisti che per colpa di tale decisone il diritto allo studio della popolazione femminile verserà in condizioni di grave precarietà. Le università private infatti non possono sostenere il costo di gestire corsi separati per ragazze e ragazzi. Migliaia di studentesse quindi potrebbero essere costrette a non frequentare più le lezioni. Solo nella provincia di Herat ci sono 40.000 studenti universitari con appena 2.000 professori. Inoltre dopo la presa di Kabul da parte dei Talebani, tutte le bambine e le ragazze hanno di nuovo l’obbligo di indossare l’hijab a scuola. Mm
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La battaglia
femminista delle ostetriche D I M A R I A PA O L A P I Z Z O N I A
«Dopo le conquiste si rischia di perdere tutto. Ma le ostetriche in Afghanistan vogliono continuare a lavorare» Il racconto dal centro maternità di Emergency nel Panshir che resiste ai talebani 20 Metropolitanmagazine n. 4
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’è una donna italiana che si occupa di gestire di un gruppo di giovani donne, infermiere e ostetriche. Si tratta di una cosa assolutamente non scontata. Sarebbe peculiare ovunque, ma lo è soprattutto in Afghanistan. La resistenza è femminile, delle donne per le donne. Accade nel “fortino” inespugnabile della Valle del Panshir, la provincia ribelle a nord-est di Kabul. Lì un gruppo di donne dice no alla nuova avanzata dei talebani. Come negli anni ’80 aveva respinto l’invasione sovietica.
IL VOLTO DELLA RESISTENZA MEDICA DELLE DONNE IN AFGHANISTAN:
Rafaela Baiocchi è responsabile dei progetti di ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Anabah. Ospedale che co-gestisce insieme a Keren Picucci. Rafaela racconta la storia di un luogo unico dove vengono formate generazioni di nuove professioniste. Donne che, vista la situazione attuale, ora aspettano nel limbo di sapere quale sarà il loro destino. Rafaela Baiocchi è un medico ascolano. Il centro è un vero e proprio baluardo in un Paese dove la condizione della donna è storicamente un discrimine. Ma non solo: è un luogo unico di formazione medica. Qui si creano generazioni di nuove professioniste.
La sede del Panshir, la prima aperta da Emergency in Afghanistan, è molto particolare, si direbbe unica. Come mai? Perchè ha questa caratteristica: essere un ospedale al femminile. In oltre vent’anni, nel contesto di Anabah, le cose sono cambiate molto per la donna: «Ricordo al tempo della mia prima missione, nel 2007, come fosse difficile reperire infermiere e ostetriche. Oltre a limiti professionali le candidate ne avevano a livello generale, non parlavano l’inglese, addirittura non sapevano leggere l’orologio. Ottenere il via libera dalle famiglie, dai genitori o dai mariti, per fare i turni di notte era quasi impossibile e una volta fidanzate e vicine al matrimonio le perdevamo. Fare formazione non era semplice. Oggi le cose sono diametralmente opposte, al punto che riusciamo addirittura a selezionare le migliori. Le ragazze non hanno alcuna intenzione di sposarsi, vogliono trovare un lavoro, restare autonome, fare carriera insomma. Non va dimenticato che molte famiglie si reggono soltanto sul loro stipendio. E poi ci sono le pazienti, sempre più consapevoli della necessità di fare un parto in sicurezza e non di rischiare la vita in casa». Rafaela Baiocchi per ilfattoquotidiano.it.
RESISTENZA AL FEMMINILE
Un risultato ottenuto nel tempo con grande pazienza e che ora rischia di essere reso vano dal nuovo governo dell’Emirato Islamico di Afghanistan:
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«Tutte le mie collaboratrici si stanno chiedendo cosa sarà di loro, cosa accadrà di qui a breve”, spiega la dottoressa di Emergency. “Al momento c’è un livello di rassicurazione alto perché l’arrivo dei talebani è stato più morbido del passato, ma la tensione serpeggia tra loro, la vivi, la senti. Venticinque anni fa sanno tutte cosa è successo, molte erano appena nate, ma le loro madri c’erano e hanno vissuto quell’incubo. È normale, dopo un quarto di secolo di conquiste non è facile vivere in un limbo del genere col rischio di vedere vanificato tutto. C’è tensione, ripeto misurata, ma c’è». Rafaela Baiocchi per ilfattoquotidiano.it.
LA SITUAZIONE DEL PENSHIR:
Il Panshir per il momento è l’unica provincia dell’Afghanistan a non essersi arresa all’avanzata talebana. Si parla della Valle dei 5 Leoni, compreso Ahmad Shah Massoud. Era l’eroe di origini tagike assassinato a Bazarak il 9 settembre del 2001, due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle e agli Usa. La stessa terra dove Gino Strada, nel lontano 1999, inaugurò il primo ospedale di Emergency in Afghanistan. In quel periodo il centro di chirurgia avanzata si occupava prettamente delle conseguenze della guerra. Oggi
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la situazione è cambiata. Perché anche se quella struttura tratta ancora feriti d’arma da fuoco e mine, ha allargato il campo al resto della chirurgia di elezione. Soprattutto è diventata una clinica pediatrica e di neonatologia e hub per le cure di ostetricia e ginecologia.
COME RESISTERE AI TALEBANI?
Se a Kabul e in altri centri del Paese si osservano scene deliranti, tra paura e disperati tentativi di fuga, nel Panshir la situazione, per ora, è tranquilla: «Tutto attorno la provincia ci sono tafferugli e alcuni feriti sono stati portati qui da noi. Detto questo, è come se noi vivessimo in una sorta di campana di vetro. Nulla di grave è accaduto negli ultimi giorni, nessuno è venuto a darci indicazioni. Quotidianamente il nostro servizio navetta trasporta i dipendenti da Kabul all’ospedale, e viceversa, senza incontrare ostacoli. I check-point ci sono sempre stati, prima erano gestiti dalla polizia e dall’esercito afghani, adesso dai talebani, ma a nessuno è stato impedito di passare. E soprattutto a nessuna dipendente (il personale della pediatria è tutto femminile, ndr.) è stato posto l’obbligo di indossare il Burqa. La percezione che tutto possa cambiare in peggio c’è, di fatto la vita in ospedale e nel Panshir va avanti normale. L’unica differenza è un lieve e fisiologico calo degli ingressi di pazienti, soprattutto
da Kabul, a causa della limitazione degli spostamenti in questa fase». Rafaela Baiocchi per ilfattoquotidiano.it. Un calo che preoccupa lo staff: se le donne, anche se hanno bisogno dell’ospedale, restano a casa il più a lungo possibile, diventa sempre più difficile salvarle e salvare i loro bambini.
LA STRUTTURA DI ANABAH IN AFGHANISTAN:
La struttura di Anabah effettua 7mila parti l’anno, numeri elevatissimi: nel 2007 se ne facevano 1.000 e nel 2016 4mila. Oltre alle due dottoresse italiane, Emergency ad Anabah, seguendo da sempre la sua politica di affidamento delle strutture al personale sanitario locale, impiega 11 medici del posto oltre a infermiere, ostetriche e personale vario. Per ora nessuno si muove dal Panshir: «Non siamo pazzi – precisa la dottoressa,
giunta al suo 14° anno di Afghanistan, continuando – non vogliamo restare per puro spirito di eroismo, ma fino a quando la situazione resta in questi termini non sussiste alcun motivo per abbandonare la struttura. Emergency è un’organizzazione neutrale e così si è sempre comportata, in Panshir, in Afghanistan, nel mondo. Del resto nel 2000 quando gli altri scappavano Gino (Strada, ndr.) è voluto entrare a Kabul per aprire un altro ospedale». Rafaela Baiocchi per ilfattoquotidiano.it. Ma c’è una mancanza di personale internazionale? Al riguardo la dottoressa conclude: «Siamo pochi perché il personale locale è ben formato, altamente professionale e dunque in grado di sostenere il peso di una gestione così delicata». Rafaela Baiocchi per ilfattoquotidiano.it. Ostetriche e infermiere afghane sono state formate per portare avanti l’ospedale di Anabah. E così vogliono continuare a fare. Mm
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Emirato islamico non vuole che le donne siano vittime, dovrebbero essere nelle strutture di governano sulla base di quanto prevede la sharia”. Lo hanno detto i talebani in una conferenza stampa, dopo il loro ritorno al potere dell’Afghanistan, a distanza di 20 anni. Sembra una frase che da una parte apre alle donne, ma dall’altra pone un limite non da poco: la Sharia appunto. C’è allora da capire che cosa sia. La parola sharia in arabo significa sentiero, retta via, e nella religione musulmana indica un insieme di concetti astratti che si desumono dai principali testi sacri. La sharia quindi non è un testo scritto, bensì, come ha scritto qualche anno fa l’esperta di studi islamici Asma Afsaruddin, «una serie di principi etici e morali ad ampio raggio», che per il fedele musulmano sono perfetti e immutabili. Da soli però non bastano per indicare la retta via, dato che molto spesso non riguardano casi specifici: a tradurre la sharia in leggi scritte e particolari (i fiqh) sono i fuqaha, i giuristi. Secondo i fedeli musulmani, dato che i fiqh sono prodotti dall’uomo, diversamente dalla sharia hanno una natura fallibile e modificabile: sono quindi aperti a interpretazioni diverse, talvolta anche contraddittorie. È uno dei tanti aspetti “orizzontali” dell’Islam, una religione in cui di fatto non esiste un’autorità centrale ritenuta diretta espressione di Dio, come nel caso del
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Papa per i cristiani cattolici; né un clero selezionato con metodi simili in tutto il mondo, come accade con l’ebraismo (assieme all’Islam, cristianesimo ed ebraismo condividono la credenza in un unico Dio e nella sacralità della figura di Abramo). Tutte le principali scuole di interpretazione della sharia concordano però nel selezionare le due fonti primarie da cui dev’essere dedotta: il Corano, cioè il libro delle rivelazioni che il profeta Maometto avrebbe ricevuto da Dio nel Settimo secolo d.C., e la sunna, cioè le azioni che Maometto e i suoi primi seguaci avrebbero compiuto mentre erano in vita. La sunna è
La parola sharia in arabo significa sentiero, retta via, e nella religione musulmana indica un insieme di concetti astratti che si desumono dai principali testi sacri. rappresentata dagli hadith, cioè versi che contengono la vita di Maometto, tramandati prima oralmente e poi successivamente messi per iscritto. Le altre due fonti sono motivo di discussione fra le varie dottrine
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dell’Islam: sono l’ijma, cioè il consenso dei giuristi (non riconosciuto per esempio dalla dottrina sciita), e il qyias, cioè il ragionamento deduttivo che porta a prendere una decisione su un caso simile previsto dalle fonti primarie. I contenuti della sharia si dividono in due macrocategorie: quelli che regolano il rapporto fra l’uomo e Dio (ibadat) e quelli che regolano i rapporti fra gli uomini (muamalat). Fra i primi ci sono i cosiddetti cinque pilastri dell’Islam, che hanno a che fare con la fede e la preghiera: la professione della propria fede, la preghiera, l’elemosina, il digiuno nel mese sacro di Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca, cioè la città in Arabia Saudita in cui si ritiene sia nato Maometto. Fra i muamalat ci sono invece le norme da tenere nei confronti delle altre persone e delle cose: per esempio l’indicazione che uomini e donne hanno pari dignità davanti a Dio (che proviene da un versetto del Corano), o ancora le norme che «impongono ai fedeli di essere giusti nei loro affari, di astenersi dalle bugie, di promuovere sempre le cose giuste e rifiutare quelle sbagliate», sintetizza la studiosa Asma Afsaruddin. Alcuni muamalat possono essere molto specifici: come per esempio l’indicazione di non mangiare la carne di suino, che si trova in quattro capitoli del Corano. Molti altri invece hanno bisogno di essere interpretati per assumere un significato concreto nella vita delle persone. Il divieto di consumare alcool che tradizionalmente
viene associato all’Islam deriva da un hadith in cui Maometto vieta di consumare sostanze «intossicanti». Anche nel caso dei talebani l’applicazione della sharia si è spesso mischiata con altre cose. Nel suo libro sui talebani, Taliban: Militant Islam, Oil and Fundamentalism in Central Asia, lo storico pakistano Ahmed Rashid ricorda che per il popolo pashtun, cioè l’etnia di cui fa parte la stragrande maggioranza dei talebani, «i confini fra le leggi tribali pashtun e la sharia sono sempre stati molto labili». Durante i primi tempi della loro espansione in altre zone dell’Afghanistan, i talebani erano determinati a imporre un misto di sharia e leggi tribali pashtun, fatto che «venne interpretato come un tentativo di imporre le leggi pashtun di Kandahar», cioè della zona di provenienza di moltissimi talebani, «su tutto il paese»; e non come un tentativo di imporre la sharia. Cosa prevede? La Sharia può cambiare anche nel tempo, per cui è praticamente impossibile sapere come verrà applicata dai talebani del futuro. Possiamo guardare come era interpretata prima del 2001, prima della caduta di Kabul per l’intervento armato dell’occidente. Prevedeva: • La condanna a morte per i comunisti • Le mutilazioni di mani e piedi per ladri e criminali • Le donne non potevano uscire di casa senza burqa e senza il marito o un parente di sangue
• Le donne non potevano guidare bici, motocicli e automobili. • La separazione dei sessi negli spazi pubblici era totale. • Le donne non potevano apparire in fotografie, riviste, tv e giornali, né potevano lavorare fuori casa ed entrare in contatto con uomini diversi dal marito o dai parenti. L’ultima volta che i talebani sono stati al potere in Afghanistan, dal 1996 al 2001, hanno bandito la televisione e addirittura gli strumenti musicali, stabilendo un dipartimento per la promozione delle virtù e per la prevenzione del vizio, sul modello saudita. Hanno imposto restrizioni sul comportamento, l’abbigliamento e gli spostamenti, controllati dalle forze di polizia, autorizzate a umiliare pubblicamente e frustare le donne disobbedienti. Anche per reati banali sono state previste condanne esemplari, come il taglio delle dita per chi osava indossare lo smalto. Per l’adulterio era prevista la condanna a morte per lapidazione. I talebani si presentano oggi con una faccia più moderata, promettendo un trattamento diverso per le donne. Non è chiaro se si tratti di una strategia di propaganda per aprire il dialogo con la comunità internazionale e garantire il riconoscimento del nuovo ordine o se qualcosa sia cambiato negli ultimi 20 anni. Mm
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AT T U A L I TÀ
La repressione della comunità LGBTQ+ DI FEDERICA TOCCO
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n Afghanistan, con la presa di potere dei Talebani, le organizzazioni internazionali hanno paura che nasca una dura repressione verso la comunità LGBTQ+. A preoccupare i membri della comunità di tutto il mondo sono le parole di un giudice talebano, Gul Rahim, che qualche mese fa avrebbe detto: Per loro, ci possono essere solo due punizioni: devono essere lapidati o schiacciati da un muro che gli cadrà addosso. Il muro deve essere alto da 2,5 a 3 metri. Parole molto forti che hanno allarmato le varie organizzazioni mondiali che hanno iniziato a mobilitarsi per proteggere le minoranze.
LA MOBILITAZIONE DELLE ORGANIZZAZIONI PER PROTEGGERE LA COMUNITÀ LGBTQ+ DAI TALEBANI
Per proteggere le minoranze all’interno dell’Afganistan, 139 organizzazioni si sono riunite. L’obbiettivo delle organizzazioni non è solo proteggere gli omosessuali, ma anche donne e
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bambini, tutti in grande pericolo ora che i talebani hanno riconquistato il potere. Tutti i gruppi hanno dichiarato di essere preoccupati per la mancanza di sicurezza degli emarginati all’interno del paese e chiedono che i diritti umani vengano rispettati in base alla costituzione e agli accordi sui diritti umani ratificati anche dall’Afghanistan. Le organizzazioni chiedono alla comunità internazionale di dare assistenza a queste persone molto vulnerabili e dichiarano: Temiamo che le persone Lgbtiq siano ulteriormente criminalizzate e perseguitate, poiché le autorità talebane hanno recentemente rilasciato dichiarazioni secondo cui le condanne a morte saranno ripristinate per gli uomini gay. […] Le persone Lgbtiq afghane vivono già da diversi anni nella paura della violenza e delle uccisioni, e temiamo che questa situazione si possa ulteriormente aggravare. In Italia arriva l’appello – denuncia di Pietro Turano, portavoce di Gay Center, che tramite tramite un post su Instagram dice: Poche settimane fa il giudice talebano Gul Rahim raccontava alla testata tedesca Bild che le donne potranno uscire di casa solo
con il permesso per le faccende familiari e domestiche, mentre quelle single verranno perseguitate. Gli omosessuali saranno lapidati, oppure schiacciati sotto il crollo di un muro alto tre metri. La società afghana del 2021 è inoltre molto diversa da quella di 20 anni fa. Soprattutto per quanto riguarda le generazioni più giovani che in larga parte non sono cresciute sotto regime. Chiediamo corridoi umanitari immediati per la popolazione afghana in pericolo e l’impegno dei governi occidentali nell’accoglienza e nella protezione delle fasce attualmente più esposte.
LA VOCE DELLA COMUNITÀ LGBTQ+ AFGHANA
Negli ultimi giorni i giovani della comunità LGBTQ+, come anche tanti attivisti afghani, cancellano i propri profili social e rompono le proprie sim per non essere rintracciati, finendo però isolati. La paura è tanta e nel profilo Instagram @afghanlgbt, uno dei pochi rimasti attivi, leggiamo: Noi Lgbtq+ afghani siamo minacciati di sterminio per quello che siamo. Chiediamo di concedere l’asilo a tutte le persone Lgbtq+ dell’Afghanistan. Mm
Siamo minacciati di sterminio per quello che siamo. Chiediamo di concedere l'asilo a tutte le persone Lgbtq+ dell'Afghanistan @ A F G H A N LG B T
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LIBRI
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per spiegare ai bambini l'attuale situazione D I ST E L L A G R I L LO
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uello che sta accadendo in Afghanistan sta avendo risonanza in tutto il mondo. Il nuovo appuntamento del venerdì con la rubrica Letteratura per l’Infanzia, proponetre testi per tentare di spiegare ai bambini e ai ragazzi la situazione attuale; tre storie delicate fatte di forza, speranza e verità.
I PERCHÉ DEI BAMBINI SPIEGATI ATTRAVERSO LA LETTURA
La situazione in Afghanistan è ormai tristemente nota. L’arrivo dei talebani a Kabul porta, inevitabilmente, anche bambini e ragazzi a porsi delle domande. Molti perché e interrogativi da parte di grandi e piccini in una situazione che sembra incerta, claudicante, e a cui non si può dare una risposta esaustiva o concreta. La lettura, tuttavia, può essere uno strumento adatto per tentare di introdurre ai bambini un’argomentazione così delicata e spinosa; un modo per cercare di chiarire l’attuale momento storico che l’ Afghanistan sta vivendo. Lo strumento letterario per eccellenza è per i bambini un oggetto chiave capace di indurre alla riflessione. Ecco quindi, di seguito, tre libri sulla situazione attuale in Afghanistan, il cui filo conduttore narrativo passa dalle sofferenze, ai diritti, all’importanza della libertà.
Fiori di Kabul Gabriele Clima Einaudi, 2021 160 pagine 12€
Il primo libro che parla di Afghanistan, modi di vivere, e privazioni di diritti inalienabili è Fiori di Kabul, di Gabriele Clima edito Einaudi Ragazzi. Questo romanzo è una dichiarazione d’amore alla libertà: ambientato in Afghanistan, precisamente a Kabul, la protagonista della trama è Maryam; una ragazza vittima della politica conservatrice del paese che si trova a dover fare i conti con un padre rigidamente fedele alle tradizioni vigenti. Un giorno, presso casa di Maryam, sosta una straniera che sta attraversando l’Afghanistan in bicicletta. Questo incontro e questo momento preciso della sua infanzia, sarà determinante per le sue scelte future, da adulta. Maryam ”sceglie” la bicicletta come simbolo e strumento di emancipazione lì dove, in Afghanistan, alle donne è negata qualsiasi cosa. La protagonista, nel susseguirsi delle pagine, compie un percorso di crescita e consapevolezza analizzando le proprie dinamiche familiari e il contesto in cui vive. La storia raccontata nel libro Fiori di Kabul si ispira alla realtà e, più precisamente, alla figura di Shannon Galpin, attivista, viaggiatrice e produttrice di film che, nel 2010, fu la prima ad attraversare i 225 chilometri della valle del Panjshir.
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Il libraio di Kabul Åsne Seierstad
LIBRI
Rizzoli, 2008 321 pagine 10€
Una storia che è amore per la libertà attraverso i libri. Il libraio di Kabul, edito Rizzoli 2002, è la fotografia messa in parola di un momento travagliato della società afghana. Come lo stesso titolo suggerisce la storia si svolge, anche qui a Kabul, in Afghanistan. E’ il 2002 e i talebani si sono ritirati dall’ Afghanistan; in quel momento, Åsne Seierstad, giornalista ed esperta di conflitti internazionali si trasferisce a Kabul con l’intento di capire, in prima persona, cosa sta accadendo in una situazione sociale così martoriata. Soggiorna presso la casa del libraio Sultan Khan, una permanenza che le permette di vedere e vivere da vicino i contesti giornalieri e quotidiani di una tipica famiglia afghana. Una testimone sì, di guerra, ma anche di un popolo che dopo tanto patire ricerca la speranza e brama la libertà. Il libraio di Kabul è il resoconto di un’esperienza diversa e particolare attraverso gli occhi della reporter norvegese; un libro sulla dignità, il coraggio, l’amore per i libri e la lotta alla sopravvivenza, in una società che opprime il diritto alla libertà di ognuno.
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La matita magica di Malala Malala Yousafzai Garzanti, 2017 41 pagine 18,50€
Non si parla propriamente di Afghanistan in quanto Malala è pakistana, ma il suo impegno dà voce a tutte quelle bambine, donne e ragazze che si sono viste negare la libertà. Malala è la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la pace; il suo è un impegno per l’affermazione dei diritti civili e per il diritto all’istruzione – bandito da un editto dei talebani – delle donne della città di Mingora. Il testo parla della sua storia personale: una ragazza cresciuta e vissuta in una terra martoriata dalla guerra. Una ragazza che, crescendo, ha visto svanire improvvisamente il suo diritto allo studio: non avrebbe più potuto frequentare la scuola solo perché era una ragazza. Il suo rifugio, i sogni: Malala sognava di possedere una matita magica per cambiare il mondo, un mondo che è riuscita a cambiare realizzando i suoi sogni, pur non avendo una matita incantata; così, senza alcun matita fatata, Malala nella solitudine della sua cameretta, ha deciso di raccontare le sfide che ogni giorno era costretta ad affrontare. Parole che hanno fatto il giro del mondo, dando una visione globale e dettagliata di quello che, ancora oggi, alcune donne, bambine, e persone sono costrette a subire. Mm
CINEMA
Hava, Maryam, Ayesha
L'audace denuncia sociale della regista afgana Sahraa Karimi D I G I U L I A N A AG L I O
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l film diretto dalla regista afgana Sahraa Karimi è ambientato nella capitale dell’Afghanistan, in una Kabul che fa da cornice ad un tema principale: la donna come madre, in un paese in cui si rischia di diventare ancora una volta cittadine di seconda classe, vittime di violenza e discriminazioni sistematiche, soltanto per il fatto di essere donne.
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HAVA, MARYAM, AYESHA: COME NON ARRENDERSI ALLA SOCIETÀ PATRIARCALE
Avvezza al documentario, la regista Sahraa Karimi nel 2019 compie il grande salto e approda al lungometraggio di finzione con una storia a capitoli che offre un interessante spaccato sulla città di Kabul, tra modernismo e tradizione in cui ogni capitolo è dedicato ad una donna e ad ogni segmento corrisponde un filtro sulla società afghana. Già autrice di due documentari sulla condizione femminile in Afghanistan, la regista, viaggiando in diverse città e villaggi afgani, ha raccolto dal profondo del Paese storie vere di donne raccontate nel film dall’audace denuncia sociale Hava, Maryam e Ayesha. Hava è il prototipo della casalinga afgana, Maryam è una donna colta, un’intellettuale, e Ayesha è un’adolescente della classe media. Tutte stanno tentando di non arrendersi alla società patriarcale che è stata loro imposta. Tre donne afgane di diversa estrazione sociale, affrontano così grandi sfide nelle loro vite. Hava, una donna legata alle tradizioni, incinta, della quale non importa niente a nessuno, vive con i suoceri. La sua unica gioia consiste nel parlare con il bambino che ha in grembo. Maryam, una colta giornalista televisiva, sta per divorziare dal marito infedele, il quale scopre che è incinta. Per vedere il potere che emana il Cinema sociale occorre rivolgere lo sguardo a oriente, dove regimi teocratici provano a schiacciare le società su modelli regressivi, come accade in Afghanistan, in Iran, in Israele o in Palestina e dove il coraggio di autori e registi come Sahraa Karimi, Mohsen Makhmalbaf, Abbas Kiarostami, Jafar Panahi, Amos Gitai, Hany AbuAssad o Elia Suleiman produce un cinema
fortemente politico e su cui riflettere molto, un manifesto culturale dal contesto sociale disperato senza riscatto.
LA FUGA DISPERATA DELLA REGISTA AFGHANA A KABUL
In 20 anni di tregua l’Afghanistan festeggiava la cultura di un paese risorto, Sahraa Karimi è stata la prima donna presidente dell’Afghan Film Organization, oggi ci dice affranta, riprendendosi in un breve video, diventato virale, mentre, velata, fugge per le strade di Kabul ansimando e correndo e invitando le donne a tornare a casa: «i Talebani sono entrati in città e stiamo fuggendo, Siamo tutti spaventati. Questa non è una clip di un film Horror, questa è la realtà a Kabul. La scorsa settimana la città ha ospitato un festival del cinema e ora scappano per salvarsi la vita. Straziante da guardare ma il mondo non fa niente». Pochi giorni prima Sahraa aveva lanciato un appello alla comunità nematografica e artistica internazionale chiedendo aiuto per il suo paese. Non è servito. Il cuore della poetica di Karimi resta sempre l’indagine sui soprusi subiti dalla donna in una società pesantemente patriarcale, a causa di tradizioni intoccabili e inamovibili e di conflitti che hanno bloccato sul nascere il processo di democratizzazione. Non servono introduzioni né inquadramenti storici: bastano le tre protagoniste, ognuna delle quali a suo modo martire e prigioniera. Non c’è catarsi, non c’è riscatto; e soprattutto non c’è una fine: la storia dello smantellamento di una società tradizionale improntata al maschilismo, non è che alle sue prime battute. Mm Metropolitanmagazine n. 4
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Il cacciatore di aquiloni
dipinto di un Afghanistan affranto D I G I U L I A N A AG L I O 38 Metropolitanmagazine n. 4
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nterrogando la Storia, si riscontrano in periodi diversi fenomeni e circostanze simili, tanto che anche le epoche più lontane ci aiutano a comprendere meglio il tempo in cui viviamo. Oggi si ferma l’attenzione ed effettua alcune riflessioni proprio in questi tempi, rispetto al film Il Cacciatore di Aquiloni, basato sul romanzo dello scrittore statunitense di origine afgana Khaled Hosseini, in un epoca in cui, come oggi, la devastazione regna sovrana e la barbaria più grande si attua a Kabul, in Afganistan dove, dopo 20 anni di spargimenti di sangue, dolore, tragedie, donne, bambini e popolo afghano, abbandonati senza speranze nelle mani dei Talebani, cercano la fuga in tutti i modi, anche aggrappandosi agli aerei che decollano, andando incontro alla sola morte disperata.
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IL TRAMONTO DEGLI AQUILONI
Questi giorni duri riportano alla mente le tristi pagine del romanzo best seller, Il Cacciatore di Aquiloni, di Khaled Hosseini, così come la stessa trasposizione cinematografica diretta da Marc Forster: Amir, torna a Kabul dopo anni e trova il disastro, gli aquiloni non volano più, la bellezza è fuorilegge e le donne sono diventate invisibili. Una storia che racconta la bella e innocente amicizia tra Amir e Hassan, compagni inseparabili fino a quando un episodio divide per sempre i loro destini, sullo sfondo di un paese straziato dalla guerra. Un viaggio nella misteriosa terra dell’oppio, per comprendere meglio cosa sta succedendo in Afghanistan. Oggi assistiamo alla sconfitta indegna dei governi, alla morte della civiltà, e alla vittoria delle barbarie sui diritti e sulla dignità degli esseri umani. Gli aquiloni di Kabul smetteranno di volare e non basteranno di certo i droni occidentali a difenderne l’esistenza. I Talebani avevano in passato vietato di far volare gli aquiloni nei cieli dell’Afghanistan ed è certo che verrà restaurato l’Emirato Islamico. Il regime degli studenti del Corano per anni aveva impedito alla popolazione quel tradizionale festeggiamento che segnava la fine del gelido inverno e l’arrivo delle belle giornate di primavera che coinvolgeva grandi e piccini in una grande competizione in cui vinceva chi riusciva a far volare il proprio aquilone più a lungo, ed ora torna l’inverno sulle donne di Kabul, oggi bottino di guerra: un film nella storia visto troppe volte.
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LA BARBARIA DEL NOSTRO TEMPO
Anche se l’Afghanistan non è mai stato un paese idilliaco ed egualitario, ha avuto tempi migliori prima del controllo dei Talebani. Non tutti sanno che negli anni ’70, per esempio, il Paese asiatico era la destinazione hippie per eccellenza e che approvò persino il suffragio femminile prima degli Stati Uniti. Prima dell’arrivo dei talebani, le donne potevano vestirsi come volevano senza timore di essere punite o diffamate. Ma adesso, loro sono lì, terrorizzate e affrante e non c’è giorno che passi senza chiedere aiuto. I talebani bussano alle loro porte e già sanno che non potranno uscire di casa da sole né lavorare, non potranno studiare né scegliere i vestiti da indossare. Fa terribilmente ribrezzo il proibizionismo in tutte le sue più gravi sfaccettature. E tutta la sottomissione assoluta ai talebani. La storia si ripete perché ladri, barbarie, imbroglioni e truffatori esistono in ogni tempo. Le donne. L’universo al femminile, da queste parti, ha molto poco da vivere in pace. Ammutolite e umiliate, il loro tempo da vivere è scandito unicamente da chi decide per loro. Nulla di più. I pochi passi in avanti che l’Afghanistan aveva fatto nei diritti delle donne saranno perduti. Le donne erano riuscite ad avere l’indipendenza, a poter lavorare e formarsi come medici, infermiere, insegnanti, giornaliste o governatrici locali. Qualcosa che non si vedrà più. C’è solo la possibilità di ricorrere la storia che dal 1996 è arrivata al 2001, quando i talebani hanno governato l’Afghanistan, per capire quanto ci sia in gioco in questo momento.
IL BIMBO INTERIORE NON MUORE MAI
La parte finale de Il Cacciatore di Aquiloni ha un doppio significato: da un lato Amir riscopre la voglia di tornare a essere felice mentre gioca con gli aquiloni con Sohrab, dall’altro proprio Sohrab comincia a superare gli orrori che ha vissuto. La spensieratezza di Amir nel ritrovare quel lato di bambino in se stesso giocando con l’aquilone e correndo sereno come faceva a Kabul; dall’altro la disperazione, la malinconia e la tristezza di Sohrab che è rimasto traumatizzato dal suo passato ma che alla fine riesce comunque a sollevare un piccolo sorriso che riempie il cuore di gioia ad Amir. Il Cacciatore di Aquiloni è un piccolo capolavoro, denso di significati profondi in molteplici campi, da quello personale a quello etnicoculturale, riassume mirabilmente la
condizione di un Paese nonché spiccata denuncia, che riesce ad entrare nel cuore dello spettatore. La forza di denuncia di questo film è efficace, tanto quando ci dimostra la Storia: non è vero che si può seppellire il passato, ma esiste sempre un modo per tornare ad essere buoni. Oggi, Indietro di vent’anni, i Jihadisti già in libertà: adesso torna l’incubo del terrorismo. La Jihad di tutto il mondo, a tutte le latitudini, si esalta: per vent’anni, l’Afghanistan era stato quieto, Bin Laden era stato eliminato insieme ad Al Qaeda. Intanto, la mortalità infantile si dimezzava e i laureati passavano da 20mila a 31mila l’anno. Adesso, è finita. Adesso, il mondo è in preda a un trauma che sfascia insieme alla pace anche i nostri film, le canzoni e i sogni. Ma l’importante è sempre saper ritrovare il Peter Pan che sta in noi. Mm
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