Metropolitan
magazine 2 ILE APR
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CAT CALLING Le donne di successo non hanno mai abbassato la guardia (e neanche la testa)
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Girls support girls
Metropolita SOMMARIO N.1 APRILE 2021 DIRETTORE RESPONSABILE: ROSSELLA PAPA EDITORE: ALESSIA SPENSIERATO
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INTERVISTA Conversazione con Letizia Battaglia: la bellezza esorcizza l’orrore
ATTUALITÀ In Puglia gli assorbenti non sono beni di prima necessità: vietata la vendita in zona rossa
di ROSSELLA PAPA
di FRANCESCA PERROTTA
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CINEMA Il ridicolo discorso di Harvey Weinstein
ATTUALITÀ Non è importante concentrarsi su quello che dice “Er Faina” ma sul fenomeno del cat calling
di CHIARA COZZI
di FRANCESCA PERROTTA
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BRAVE Giulia Schiff: «Le donne che parlano non piacciono a nessuno» di GIORGIA BONAMONETA
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CINEMA David di Donatello, tra le nomination anche quattro registe donne di EMILIA MORELLI
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MUSICA Dieci canzoni che urlano Girl Power! di CHIARA COZZI
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MONDO In Etiopia l’epidemia è di violenza sessuale. Lo stupro è un’arma di guerra di FRANCESCA PERROTTA
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MODA Il corpo delle donne: la moda lancia gli abiti con il seno
CINEMA Come i Premi Oscar discriminano le donne da oltre 90 anni
di GIULIA DI MAIO
di CHIARA COZZI
editoriale Metropolitan magazine, la voce per la vita di tutti
D I A L E S S I A S P E N S I E R AT O
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etropolitan Magazine lancia e annuncia la sua prima rivista digitale periodica. Un tocco di rosa nel bel mezzo di un campo non coltivato: dare voce alle donne, in primis come scrittrici e in secundis come oratrici, in un mondo che spesso non le ascolta. Dare la voce a tutti, tra diritti calpestati e non riconosciuti: raccontare la verità senza mezze misure, soprattutto senza mai rimanere in bilico tra parole non scritte e sempre dette. Dare voce è la missione principale del Metropolitan, la rivista digitale periodica selezionerà una serie di articoli già usciti sulla testata online https://metropolitanmagazine. it/ e altri ancora in esclusiva per i lettori che sceglieranno di leggerci ogni mese o tutti i giorni. La rivista cambierà racconti, protagonisti e scenari, ma con lo stesso denominatore comune: la verità. Non siamo un rivista femminista, sarebbe troppo riduttivo, ma siamo un giornale progressista. Tutte le notizie sono studiate e sviscerate nel profondo, per dare la giusta informazione indipendente ed imparziale che oggi il lettore merita. La politica si racconta, non compra. La storia si racconta, non si manipola. La donna si racconta, non si inventa. I diritti si pretendono, non si raccontano. Combattere non per dirlo, ma per scriverlo. Oggi scrivere è la miglior arma che abbiamo per raccontare la verità che non si sa. Metropolitan è questo. Mm
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I N T E R V I S TA
CO N V E R SA Z I O N E CO N L E T I Z I A BAT TA G L I A
La bellezza esorcizza il dolore D I R O S S E L L A PA PA
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P
rima di parlare con Letizia Battaglia, qualche giorno fa, mi sono ricordata di quando da bambina mi divertivo a essere fotografata. E forse, senza saperlo, come le sue bambine avere negli occhi il terrore e lo stupore della vita: ora capisco come in uno scatto fosse stato immortalato il disincanto, la camera oscura di un presagio che non avremmo mai potuto cambiare. Letizia Battaglia si è presentata con i capelli rosa, come me l’ero immaginata, e una sigaretta accesa che è durata tutta l’ora dell’intervista. Erano dettagli, di espressioni e vizi, che quasi facevano da metronomo a un racconto che ci “ha emozionato, ci ha terrorizzato, ci ha rivelato”. Accompagnata da Sabina Pisu, con cui ha scritto il libro “Mi prendo il mondo ovunque sia. Una vita da fotografa tra passione civile e bellezza” edito da Einaudi lo scorso anno, Letizia si è confidata a voce alta, ma con la tenerezza e lo struggimento di chi ritorna dalla battaglia. La più grande fotoreporter della storia, Letizia è stata la prima donna a diventare fotografa in un giornale. Ma anche una politica sempre avvincente, e sempre un’artista in ogni suo approccio. E con Sabrina Pisu, autrice giornalista e inviata, con cui ha analizzato anche gli scenari socio-politici che hanno incorniciato la sua vita, ci ha permesso in questo libro di contestualizzare una storia che ci appartiene. “Mi prendo il mondo ovunque sia” non rappresenta solo
l’occasione di conoscere meglio Letizia Battaglia come fotografa, reporter, politica e soprattutto donna, ma anche un ponte per osservare la storia, quella della seconda metà del Novecento. Questo libro ci arriva come una testimonianza anche storica, e potrebbe farci parlare di mafia. Noi invece vogliamo parlare di bellezza. Quindi di coraggio, libertà. La bellezza è l’unico rimedio alla paura, e ora più che mai ne abbiamo bisogno. E ancora, questo libro allora ci appare come un inno alla vita, alla ricerca dell’identità. E se da una parte vuole salvaguardare la memoria, dall’altra – come si dice nell’introduzione – è quasi un monito che va oltre anche la Storia, e approda invece quasi nel futuro: quello di non arrendersi, di perseguire quel guizzo di libertà, come ha fatto Letizia nella sua vita.
L’INTERVISTA A LETIZIA BATTAGLIA
Letizia, da piccola, credeva che il matrimonio prima, il lavoro dopo e la fotografia in fine potessero darle la libertà che cercava. E in quella libertà si condensava la sua autenticità. Come lo è ancora, così autentica. E per esserlo ancora così tanto mi chiedo oggi, nel 2021, qual è la libertà di Letizia Battaglia? È complicato che io riesca a capirlo. Mi prendo delle piccole libertà, come quella di avere i capelli rosa a 86 anni, al posto dei capelli neri come le signore della mia età. E le mie nipotine ci vanno matte per i miei capelli rosa. Mi piace
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I N T E R V I S TA
non arrendermi. Parto dalla libertà di essere una nonna diversa. La libertà di credere che ci sia un futuro. È avere sempre una macchina fotografica, come davanti ai mafiosi: io comunque scatto. Anche se ho paura. È continuare a vivere nel futuro più che nel passato. Come libertà è anche dirigere il Centro Internazionale della Fotografia, gratis, per Palermo e per le donne. La libertà è continuare, con dignità e rispetto, con eleganza. La libertà è esserci. Non ho paura neanche di morire, perché intanto vivo. Non posso perdere la mia vita per la paura. Come è stato detto spesso, si pensa che le fotografie di donne nude di Letizia siano un atto politico: per scampare all’imbroglio della società patriarcale che in qualche modo ci costringe allo sguardo maschile. È un concetto che si può definire femminista, ed è la fotografia, e l’arte, in questo senso uno strumento di provocazione? È uno dei mezzi. La fotografia, come elemento culturale e di memoria, ha un ruolo. Prima nessuna donna perbene si sarebbe fatta fotografare nuda. Io oggi voglio dire: ogni donna è bella comunque, a qualsiasi età e in qualsiasi forma. Voglio andare contro i canoni della bellezza. E contro lo sguardo maschile. La mia è una solidarietà: è un modo anche per fare politica, come lo può essere ad esempio il mio progetto “Palermo nuda”. Mi piace lavorare con le donne, come ho fatto anche con la rivista Mezzocielo. Mi piace anche smantellare i canoni, è bello diventare anche più belle: quindi corrette, più sapienti in rapporto a quello che si fa.
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In più di un’occasione ha raccontato di aver incontrato da bambina un orco. E poi nella vita ha incominciato a fotografare le bambine. E avevano gli occhi tristi. Si percepiva in loro quasi un dolore inconscio, adulto. Attraverso la fotografia voleva immortalare e riconoscere in loro la sua stessa delusione? È stato per lei un modo per esorcizzare questo trauma? Mi sembra anche qui, un modo di scongiurare l’orrore con la bellezza. Ho incominciato a fotografare bambine ma non sapevo perché. Le vedevo, mi emozionavano e le fotografavo. Solo dopo, negli anni, ho capito che cercavo la bambina che ero stata. Una bambina che sognava cose meravigliose, che aveva a che fare con cose gentili. Quel sogno è stato infranto. E mi ha segnato per tutta la vita. È strano, un signore che non ho mai più rivisto ha segnato la mia storia. Per sempre. Queste bambine avevano lo sguardo sognante, triste ma forte. È stata una cosa inconscia: io fotografo le bambine con l’inconscio. Ora lo so, l’ho capito dopo tanti anni cosa cercavo in quegli occhi. Eppure, per molto tempo sono stata in balia delle bambine. Le bambine, il sogno infranto, il mio.
SABRINA PISU, IL RACCONTO DI UN PATRIMONIO DA SALVAGUARDARE
Quasi attraversando i ricordi di Letizia, è soprattutto Sabrina Pisu a indicarci il senso di un lavoro che va ben oltre l’esperienza giornalistica. Come un
percorso che entra nelle viscere e non abbandona, l’incontro e il rapporto tra Sabrina e Letizia ci trasmettono un valore nobile. “In tutto quello che dice Letizia c’è una perla” – con dolcezza ma consapevolezza, ci racconta Sabrina Pisu– “che è un concentrato non soltanto di esperienza ma di sensibilità. Io ho cercato di raccogliere tutto quello che diceva, che per me rappresentava un patrimonio da salvaguardare. È la memoria della nostra storia, per conoscere il presente e il futuro non possiamo prescindere da quello che c’è stato prima. È stato un impegno anche doloroso, perché quando si racconta qualcosa lo si rivive”. E allo
stesso tempo, quello che è stato il loro lavoro diventa per tutti noi lo stimolo per un progetto di bellezza, ma anche di denuncia, che ci interroga sulle responsabilità. Ricordandoci quello che Letizia ci ha detto prima di chiudere l’intervista, un’esortazione di Donna per le donne: oggi è un dovere delle donne esserci, un dovere e non più solo un diritto. Non farci sorpassare. Non farci mettere in un angolo. Sceglierci. Anche tra di noi. Con il tentativo, per tutta la vita, di esorcizzare l’orco. Perché anche se resta la ferita, deve rimanere la fiducia. E poi, da qui, pretendere la felicità. Mm
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CINEMA
Il ridicolo discorso di
Harvey Weinstein DI CHIARA COZZI
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arvey Weinstein, ex produttore di Hollywood condannato a 23 anni di carcere per molestie sessuali, ha chiesto ricorso contro la sentenza del giudice James Burke. I legali dell’uomo hanno infatti depositato un appello lungo ben 166 pagine in cui dichiarano che il processo che ha visto colpevole l’imputato si sia svolto in un clima di ingiustizia. Quattro delle vittime interrogate, addirittura, non sarebbero neanche tali, ma le loro testimonianze sono servite alla corte solo per far passare Weinstein come un essere abominevole.
HARVEY WEINSTEIN: LA FARSA DI UN “MARTIRE”
In barba a tutte le testimonianze raccolte contro Harvey Weinstein (di cui si è fatto portavoce Ronan Farrow con un’inchiesta che gli è valsa il Pulitzer e raccontata nel libro “Predatori”), dunque, gli avvocati dell’ex boss della Miramax puntano a cambiare le carte in tavola e a mostrare l’uomo come la vera vittima della questione. D’altronde lo avevano già fatto lavorando sulla sua immagine pubblica, mostrando quell’uomo una volta florido entrare in tribunale emaciato e sostenuto da un deambulatore, al fine di influenzare l’opinione comune. Gli avvocati del team di Weinstein criticano inoltre il giudice per non aver permesso ai testimoni della difesa
di intervenire in aula; probabilmente dimenticano che l’uomo è stato condannato “solo” in relazione a due accuse e assolto da altrettante ben più gravi nei confronti della produttrice Annabella Sciorra. Ecco dunque che il carnefice diventa a tutti gli effetti vittima. Tralasciamo dunque le volte in cui ai miliardari sono stati concessi privilegi solo per il loro status; o le volte in cui hanno potuto macchiarsi di reati senza conseguenze immediate (come nel caso di Jeffrey Epstein). Ma soprattutto, si sta tentando di mettere da parte il problema più grande: le testimonianze di chi ha subito, di chi vivrà per sempre il trauma di mani (e non solo) indesiderate sul proprio corpo, di chi con l’inganno e con l’estorsione è stato violato non solo fisicamente ma nella parte più intima e recondita di sé.
CULTURA DELLO STUPRO E MECCANISMI DI IDENTIFICAZIONE: UN PROBLEMA ANTICO
Facile, a posteriori e per terze persone, dire che una vittima “se l’è cercata”, “voleva fare carriera velocemente”, “poteva dire di no”. Il problema è più serio del previsto: quando si parla di violenze, non vengono mai messe in conto le componenti psicologiche della vittima, ma solo quelle fisiche. Sì, perché per molti il consenso sessuale è riconducibile soltanto all’apertura delle gambe: come se fossero le porte automatiche di un supermercato.
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CINEMA
Questa associazione pericolosa non fa che aumentare la cultura patriarcale dello stupro, in cui le donne sono incessantemente viste come un oggetto, un giocattolo meccanico nelle mani degli uomini. Ma perché, invece, non si sceglie di credere alle vittime, ma ci si schiera dalla parte dell’accusato, specie se è ricco e potente?
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Purtroppo in questo caso entrano in gioco i meccanismi di identificazione: nessuno vorrebbe mai trovarsi nei panni di chi soffre. Meglio, invece, tentare di immedesimarsi in chi detiene il potere. Un potere che, con uno schiocco di dita, può cambiare anche la vita degli altri. E, soprattutto, le posizioni di privilegio consentono di percorrere scorciatoie.
UN PROCESSO DI PORTATA STORICA
Il processo a Weinstein ha cambiato tutto: l’industria spietata di Hollywood è stata messa con le spalle al muro, e le voci delle vittime hanno cominciato a risuonare forti nell’aria. Via il bavaglio, aprite le orecchie: qualcuno deve parlare. Ne ha la necessità, il bisogno vitale per non cadere nell’oblio. A scrivere la storia devono essere le vittime, e non i carnefici. Le
testimonianze servono proprio a questo: a non lasciare che le proprie sofferenze vengano dimenticate o, peggio, siano state vane. Scegliamo di schierarci nei confronti di chi, esponendosi, resta solo. Ascoltiamo le sue parole e, se non è in grado di parlare, diamogli la nostra voce e denunciamo, denunciamo sempre. La storia sta cambiando: cambiamo anche noi. Siamo artefici del cambiamento. Mm
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In Puglia la zona rossa “rinforzata” vieta la vendita degli assorbenti dopo le 18 perché non sono beni di prima necessità, che vale a dire
Far finta che le mestruazioni non esistano D I F R A N C E S C A P E R R O T TA
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nformiamo la gentile clientela che, nel rispetto delle recenti disposizioni relative all’emergenza Covid-19, NON È POSSIBILE ACQUISTARE I PRODOTTI PRESENTI IN QUEST’AREA“. Il cartello in questione è quello attaccato sui ripiani ‘proibiti’ di un supermercato in cui Alessia Rita, studentessa 22enne della provincia di Lecce, si era recata per comprare degli assorbenti, che le sono stati tuttavia negati perché
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dopo le 18 l’acquisto è vietato: no, non è Lercio. “Non sono beni di prima necessità” – le hanno spiegato dal negozio. Ma la 22enne pugliese non è rimasta in silenzio e ha scattato la foto per denunciare tutto su Facebook, dove in poche ore ha fatto il giro del web. “Siamo arrivati all’assurdo”, ha scritto nel post di sfogo in cui ha raccontato l’accaduto: “Quindi non solo sono
considerati ‘beni di lusso’, non solo paghiamo il 22% di IVA, ma adesso devo anche privarmi di un qualcosa di cui io e miliardi di donne abbiano bisogno ogni mese. Che facciamo, per questa zona rossa non facciamo venire le mestruazioni?”. La Puglia è infatti attualmente in zona rossa: la nuova ordinanza del Presidente
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della Regione Michele Emiliano stabilisce delle restrizioni alla vendita di una serie di prodotti: “Con decorrenza dal 27 marzo e sino al 6 aprile 2021, tutte le attività commerciali consentita dal Dpcm del 2 marzo 2021 in zona rossa (articolo 45), chiudono alle ore 18, ad eccezione delle attività di vendita di generi alimentari, di carburante per autotrazione, di combustibile per uso domestico e per riscaldamento, delle edicole, dei tabaccai, delle farmacie e delle parafarmacie”, si legge nell’ordinanza che, di fatto, giustifica l’atto della cassiera di non procedere all’acquisto degli assorbenti, poiché passate le ore 18. Se non fosse che, a peggiorare la cosa è stata la richiesta di un’autocertificazione in cui si attestasse che Alessia aveva il ciclo. Una follia, oltre che ennesima contraddizione di decreti che non tengono conto delle necessità delle persone, in particolare delle donne, nei confronti delle quali è doveroso rispettare le normative antiCovid, ma non quelle del loro essere appunto delle donne, visto che non possono farsi venire il ciclo dopo le 18.
“ESSERE DONNA COSTA”
126€
+13%
Spesa annua media in assorbenti di cui 23€ solo di Iva
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Ma il problema è ben radicato. Intanto perché, in media, si stima che una donna spenda in assorbenti circa 126 euro l’anno, di cui 23 solo di Iva. Per la legge italiana gli assorbenti non sono un bene di prima necessità, e quindi sono tassati al 22%. Una cifra irrisoria, se solo non ce ne fosse bisogno dai 3 ai 5 giorni al mese per circa 40 anni della propria esistenza: e per una questione igienica normalmente si cambia l’assorbente più di una volta al giorno. Nonostante lo stereotipo che le dipinge come supereroine, anche le donne provano dolore: perché, fra le altre, hanno la rogna di dover sopportare il dolore fisico causato dalle mestruazioni. Dunque alla spesa si aggiunge il prezzo da pagare per gli antidolorifici: non si tratta semplicemente di sbalzi d’umore, brufoli, stanchezza, dolore al seno e nervosismo – che comunque sembra già abbastanza – ma molte soffrono di nausea, crampi, mal di schiena, mal di testa. Il ciclo rappresenta un costante stravolgimento ormonale,
La differenza di costo dei prodotti femminili per la persona rispetto ai maschili
nonché emotivo, psicologico e fisico, che accompagna la donna in tutto il mese. Alle proteste contro la cosiddetta “tampon tax”, c’è chi obietta proponendo di utilizzare le pezze di cotone come facevano le nonne, senza dunque esser costrette a utilizzare gli assorbenti. Per fortuna i tempi si evolvono e in commercio si trovano prodotti che si allontano dallo “dall’archetipo dello straccio” ma i prezzi non sono propriamente indifferenti. Il prezzo dei normali assorbenti oscilla tra i 4 e i 5 euro a confezione, mentre se volessimo ‘evolverci’ acquistando quelli in cotone, dovremmo anche spendere di più: la maggior parte sono sintetici. Per non parlare di altri espedienti, come le coppette mestruali o i pannolini di stoffa che comunque, anche rappresentando un ‘investimento’ perchè non sono usa e getta, richiedono di essere sostituiti, e oggi vengono utilizzati da chi fa una scelta di tipo etico, più che di risparmio. Perché anche questi sono soggetti al 22% dell’Iva. In Francia, ad esempio, l’imposta è stata ridotta al 5,5%, mentre in Inghilterra, Olanda, e Belgio al 6%. In Italia non è cambiato nulla: molte ragazze continuano a vivere la normale condizione di essere donna come qualcosa di cui vergognarsi. “Due giorni fa mi sono sentita in imbarazzo, mi sono sentita privata di un qualcosa che ho e non posso fare a meno di avere! Mi dispiace che per alcune donne questo sia una stupidaggine ma credo che nel 2021 viviamo ancora in ‘un mondo troppo asessuato, dove l’unico sesso a prevalere sia quello maschile’, come
diceva Carla Lonzi. L’obiettivo dei gruppi femministi “DEMAU” e “Rivolta Femminile” è sempre stato quello di riuscire a portare la società in un mondo bisessuato, dove ad esistere fossero uomo e donna. Questo purtroppo credo sia successo ancora in minima parte”, si legge scritto sul profilo Facebook di Alessia che ha continuato a denunciare quanto accaduto, contribuendo a mettere in luce quanto ogni diritto legato al genere femminile venga ripetutamente negato, suggerendo alternative che sono sempre più impegnative o dispendiose in termini di tempo e denaro. “È la natura, accettala”, si dice. E non si tratta solo della salute, perché le donne spendono di più anche per abbigliamento e prodotti della cura del corpo. Il report del New York Department of Consumer Affairs del 2015 ha confrontato il prezzo di 800 prodotti di oltre 90 brand, dimostrando che l’abbigliamento per le ragazze costa il 7% in più rispetto a quello per ragazzi, quello da donna adulta l’8% in più, i giocattoli per bambine il 7%, e i prodotti per la persona raggiungono il 13%. La disuguaglianza di genere è un problema reale ma sembra che la condizione di svantaggio da cui partono le donne, soprattutto sotto questi punti di vista, debba essere taciuta. Invece necessita di un cambiamento prima di tutto culturale. Le istituzioni in Italia ancora non hanno deciso di affrontarlo. Il fatto che neanche se ne parli è sintomo di qualcosa che non funziona come dovrebbe. Mm
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Non è importante concentrarsi su quello che dice “Er Faina”, ma sul fenomeno del
Cat
Calling
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olendo partire dall’etimologia del vocabolo, “cat calling” è un termine, fra i tanti, preso a prestito dall’inglese, “lingua in cui la parola è attestata col significato attuale a partire dal 1956”, come riporta l’Accademia della Crusca. Formato dal verbo (to) catcall, il termine cat calling è intraducibile alla lettera. Nel suo significato originario di “verso che i gatti fanno di notte” è attestato a partire dal 600. Mentre dalla seconda metà del settecento aveva per lo più il significato di “grido, lamento, suono simile a un lamento”, e veniva utilizzato per indicare l’atto di fischiare a teatro gli artisti sgraditi e il fischio di disapprovazione stesso. Attualmente, il cat calling è diventato un vero e proprio fenomeno – molto diffuso, eppure non propriamente riconosciuto – che si riferisce a tutti quegli atti o commenti che vanno dal “ciao bella” ai complimenti non richiesti e principalmente volgari, riferiti al corpo piuttosto che all’atteggiamento della donna da parte di sconosciuti: espressione di una mentalità sessista e maschilista tale da considerarsi una specifica forma di molestia di strada, nonché molestia sessuale. Perché la violenza sulle donne può manifestarsi in diverse forme, da quella fisica a quella mentale, così come verbale. La stessa che, in particolare, colpisce molte donne in modo inconsapevole, segnandola – come in tutti gli altri casi di violenza di genere – nel profondo, tanto che spesso ci si chiede “che cosa ho fatto?”
SMINUIRE O NEGARE IL CAT CALLING VUOL DIRE RISTABILIRE DINAMICHE DI POTERE
Fu il caso di Ruth George a riportare l’attenzione sulle molestie da strada e sul fenomeno del catcalling: la studentessa di 19 anni fu uccisa a novembre dello scorso anno, a Chicago, da uno sconosciuto incontrato per strada, che insistentemente aveva commentato il suo aspetto e l’aveva seguita. Per poi stuprarla e strangolarla nel parcheggio del campus, proprio perché si era rifiutata di ‘parlare’ con lui, come lo stesso omicida disse nel giustificare il suo atto. La tendenza è spesso quella di minimizzare il problema, finendo, nel migliore dei casi, per ridurlo a ‘maleducazione’, tutte quelle volte in cui non si può dare la colpa alla donna per il modo in cui si era vestita o atteggiata. Perché il confine tra complimento e molestia, a quanto pare, è labile. Dietro quelle che vogliono apparire come ‘belle parole’ non risiede il movente ‘sessuale’, non c’è una scarsa capacità di resistere agli impulsi. Dietro quelle parole, di fatto, si cela una stereotipizzazione di genere da cui deriva nient’altro che una scarsa stima nei confronti della donna, ridotta così ad oggetto del desiderio, dunque destinataria di fischi, commenti, domande invadenti, che con le lusinghe hanno poco a che spartire: “Mi fai impazzire” o “Vuoi uscire con me?” non sono sintomo di reale interesse, non sono manifestazioni di piacere, ma di “mascolinità”. Nasconderle dietro un complimento sono un modo per fingere
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che poi sia la donna ad aver frainteso, e quindi la menzogna è doppia: non era un complimento e non c’erano buone intenzioni. Per questo le cose necessitano di essere chiamate con il loro nome, che in questo caso è molestia. Uno studio sul tema, condotto su scala internazionale dal movimento contro lo street harassment “Hollaback!”, in collaborazione con Cornell University, nel 2015, ha dimostrato come per l’84% delle donne intervistate (16.000 provenienti da 22 Paesi), la prima esperienza di catcalling sia avvenuta prima del compimento dei 17 anni. Un dato a dir poco preoccupante, se si considera quanto può influire sulla crescita di un adolescente. Senza dubbio, la varietà di reazioni è legittima: c’è chi non si infastidisce di fronte a certi tipi di ‘attenzioni’. Ma l’indagine ha mostrato come i sentimenti più comuni siano rabbia e senso di umiliazione. Nonché depressione e bassa autostima della donna, portata di conseguenza a cambiare abbigliamento, a prendere strade più ‘affollate’ e tranquille, a tornare a casa prima di una certa ora, e con le chiavi in mano lungo il tragitto. A cambiare la mappa delle proprie abitudini che di fatto porta a limitare le proprie libertà. Secondo una ricerca di Fairchild e Rudman, nel 2018, solo il 20% delle donne affronta apertamente gli uomini che le molestano. Perché il senso di impotenza, mischiato alla paura, ti costringe a non reagire. Per il timore di subire ulteriori violenze, spesso. E alla fine ci si sente anche in colpa di aver provocato quello sguardo maschile.
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PUNTIAMO SULL’EDUCAZIONE
Il problema non è se gli uomini sono così o no, il problema è quello che fanno. Mettersi nei panni di una donna significa automaticamente accorgersi del ‘privilegio’ di cui l’uomo gode, ereditato per via culturale, da cui deriva il secondo problema, che sta nella narrazione che si dà di questo fenomeno, inquadrato ancora su quel filo del rasoio che oscilla sempre di più dal lato più comodo, quello cioè dell’accezione positiva del termine catcalling. In quest’ottica, un cambiamento di mentalità sembra più che lontano: da un lato, la mancanza di violenza fa sì che non venga inquadrato come un vero e proprio reato, dall’altro sono le donne stesse a evitare di parlarne, perché la vergogna o il semplice rischio di aver ‘ingigantito’ o ‘frainteso’ un episodio – come in molti casi si pensa – spinge al silenzio. Nella nostra cultura persiste l’idea per la quale ricevere attenzioni da parte degli uomini, qua e là, è assolutamente
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Donne che hanno subito catcalling prima dei 17 anni Fonte: Cornell University (2015)
normale. Ma ci sono stati anche casi in cui dal pedinamento, al fischio, si è finiti nell’aggressione fisica. Anche questo confermato da una ricerca Istat che nel 2018 ha messo in luce come le situazioni in cui le vittime sono state accarezzate o baciate senza volerlo, sono state subite dal 15,9% delle donne, la maggior parte dei casi da parte di estranei sui mezzi di trasporto pubblici (27,9%). Per alcuni Paesi, lo street harassment è diventato reato. Ad esempio, in Francia, il presidente Macron ha varato nel 2018 una legge che multa, dai 90 ai 1500 euro – a seconda della gravità – chi rivolge dei complimenti non richiesti alle donne incontrate per strada, in quanto il catcalling è molestia sessista che non ha nulla a che fare col flirt consesuale. Per quanto se ne possa parlare sul web, il fenomeno resta ancora ai margini di una riflessione seria e approfondita. Commenti come quelli di Damiano Coccia, meglio noto come “Er Faina” ne sono la dimostrazione lampante. “Per du fischi il cat calling”, ha esordito il paladino dell’anti-politacally correct su Instagram – che in questo caso di “anti” non ha solo il politically correct – in riferimento a quanto denunciato recentemente da Aurora Ramazzotti, figlia del cantante Eros e Michelle Hunziker, che in alcune stories aveva espresso la sua rabbia nell’essere spesso vittima di avances sgradite in strada: “Ci rendiamo conto che nel 2021 succede ancora di frequentare il fenomeno del cat calling?”. Una domanda a cui si è costretti a rispondere positivamente,
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Casi in cui il catcalling si è trasformato in molestia fisica La maggior parte da estranei sui mezzi pubblici (27,9%) Fonte: Istat (2018)
dal momento che nel 2021 siamo costretti a sentire chi ancora minimizza o addirittura nega un fenomeno così diffuso, subìto da moltissime donne. Questo, tra l’altro, significa sminuire la persona stessa che lo subisce. Perché il catcalling affonda le sue radici nella disparità di genere: dire che non esiste significa negare la disparità, fingere che non esista. Sensibilizzare l’opinione pubblica sarebbe allora un primo passo. Puntare sull’educazione. Far capire che l’interazione può anche nascere da una battuta, ma la chiave è capire il contesto, l’approccio adatto, e la persona che abbiamo davanti. Le relazioni necessitano di ascolto. Non si combatte il catcalling insegnando alle donne come reagire, ma insegnando agli uomini come smettere. Mm
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GIULIA SCHIFF:
Le donne che parlano non piacciono a nessuno D I G I O R G I A B O N A M O N E TA
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opo aver vinto il concorso per entrare nell’accademia dell’aeronautica (2018), Giulia Schiff prende il brevetto di pilota. “Brava Giulia” le gridano i compagni, mentre la frustano con un fuscello per 8 minuti. Il “battesimo del volo” lo chiamano, ma sembra più una violenza obbligata che una celebrazione goliardica.
GIULIA SCHIFF DENUNCIA LA VIOLENZA
Ieri è andata in onda, per le Iene, l’intervista a Giulia Schiff. Torniamo così a parlare di un fatto accaduto nel 2018 che coinvolge l’Aeronautica militare e l’accademia di Latina.Si chiama “battesimo del volo” e consiste nell’essere buttato, come rito di passaggio, nella piscina del pinguino. Ma, nel video preso in esame dalla procura di Stato e militare, non ci sono risate e gioia. Schiff singhiozza e ripete “mi fate male”. Qualcuno invece incita a picchiare più forte. Giulia Schiff si dimena tra le braccia dei compagni piloti, mentre questi urlano “brava Giulia”. Frustate, pugni, schiaffi sul sedere e, poco prima di essere gettata in piscina, viene usata come ariete contro l’ala di un aereo. Per tre volte viene caricata e colpisce con la testa il materiale duro. Secondo la Procura militare, gli otto in video, avrebbero offeso il prestigio, l’onore e la dignità di Giulia Schiff, usandole violenza e “cagionandole plurime escoriazioni”. L’avvocato di Schiff, Massimiliano Strampelli, parla di 150-200 frustate, con prognosi di venti giorni e difficoltà persino a camminare.
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LA DENUNCIA DI SCHIFF NON È PIACIUTA
B R AV E
Perché oggi si torna a parlare del caso Giulia Schiff? Espulsa dal corso nel 2018 per “inettitudine militare”, viene reintegrata lo scorso anno dal Consiglio di Stato. Non finisce qui la storia di Giulia purtroppo, che si è vista bocciata per ragioni comportamentali. Caso più unico che raro, Giulia Schiff sarebbe la prima a collezionare rimproveri e richiami per un totale di oltre 60. Un record nella storia dell’aviazione italiana. “Divisa in disordine”, “In piedi dopo il silenzio” e diverse altre sono state le motivazioni dell’allontanamento. «Insofferenza alla disciplina, all’obbedienza, alla subordinazione, al rigore, alla puntualità e allo spirito di sacrificio necessari per intraprendere una carriera militare», conclude il generale Stefano Fort, incaricato di indagare sul caso all’interno dell’Accademia. “Mi hanno reso la vita un inferno, ma non dico nulla perché ho il dovere del silenzio“, spiega Schiff. Ma durante questo periodo non è stata ferma, ha raccolto testimonianze e voci di corridoio. Spuntano fuori, tra gli anonimi intervistati da Le Iene, briefing, riunioni e ordini scritti che minacciavano gli allievi che solidarizzavano con lei.
“CHI VUOLE ZITTIRMI, VUOLE ZITTIRE LE DONNE LIBERE”
Oltre il danno, la beffa. Giulia denuncia i comportamenti nell’accademia, le
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ritorsioni e l’isolamento intorno a lei. «Chi oggi vuole zittirmi vuole zittire tutte le donne libere, libere siano esse in divisa o no. Per questo ne sto pagando ancora le conseguenze». Non è certo la prima, ma si spera sia l’ultima. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, interrogato nel merito, ha risposto con una presa di posizione dura: “Queste immagini mi provocano un senso di disagio, lo dico anche come padre. Qualsiasi comportamento lesivo della dignità personale non può e non deve essere tollerato. Quando si mettono in pratica comportamenti eccessivi, anche rispetto alle manifestazioni di goliardia, questi richiamano fenomeni deprecabili che voglio considerare un retaggio del passato, per il quale non esiste più alcuno spazio nelle Forze Armate. E non a caso è stata proprio l’amministrazione militare, già dal 1° ottobre 2018, a chiedere l’intervento della magistratura. Laddove venissero riscontrate colpe, chiunque abbia sbagliato, ne risponderà”. Sulla bocciatura però non si aggiunge altro. Guerini spiega che: “[..] ritengo però fondamentale tenere separati i due diversi aspetti della vicenda che sono intrinsecamente differenti. Da una parte, c’è un processo per lesioni che vede 8 militari imputati, del quale doverosamente si sta occupando la magistratura e sulle cui decisioni ho sin d’ora totale rispetto. Dall’altra, il mancato superamento di un corso estremamente selettivo”.
Durante il “battesimo del volo” Giulia ha subito tra le 150 e le 200 frustate, con prognosi di venti giorni e difficoltà persino a camminare. Giulia però non si arrende e continua la sua battaglia, anche senza prove a sostegno delle ritorsioni da lei denunciate. Nuove testimonianze infatti fanno pensare a un piano per allontanarla, isolarla e farla desistere dal continuare la scuola. “Se parliamo con te subiamo ritorsioni“, dicono testimoni che vogliono rimanere anonimi.
CRISTOFORETTI CONTRO SCHIFF?
Anche Giulia ha chiesto alle sue colleghe, che hanno dato il consenso al rito, perché avessero accettato. La risposta è stata: “Volevo essere trattata come un uomo”. Il punto forse è proprio questo: per entrare nell’aeronautica bisogna essere uomini, resistere come un uomo, accettare le violenze come un uomo. Samantha Cristoforetti, la prima donna italiana negli equipaggi dell’Agenzia Spaziale Europea, era l’idolo di Giulia. Nell’intervista ammette di essersi sentita tradita dal proprio idolo, quando nel 2019 pubblicò su Twitter la foto del proprio “battesimo del volo”.
Quella perpetrata ai danni di Giulia Schiff è stata una vera e propria violenza, per confermarlo non servono sentenza, ma le sue grida. Voleva che finisse, le stavano facendo male. Non è più un gioco, un rito, un giorno di celebrazione se si urla di dolore. Magari per Samantha Cristoforetti sarà stata un’esperienza migliore, senza pugni, frustate e testate. Questo però non vuol dire che altre donne ne abbiano sofferto, come appunto Giulia. Esiste un video che mostra Giulia Schiff partecipare allo stesso rito insieme ai suoi compagni, ma non come vittima. Come ricorda la stessa Giulia nel video che la vede vittima delle violenze, lei non lo ha picchiato con la stessa forza. Bisogna parlare di “consenso” e rispettare la dignità altrui. In un qualsiasi momento, al primo grido di dolore, il “battesimo del volo” si sarebbe dovuto trasformare in altro: un lancio in piscina e via. Sono gli otto minuti di violenza che mettono disagio e fanno voltare la testa dall’altra parte. Mm
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DAV I D D I D O N AT E L L O :
Tra le nomination anche
quattro registe donne
DI EMILIA MORELLI
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a parte migliore del cinema del 2021 la si deve anche al talento femminile. Sono quattro le registe donne candidate per il miglior film al David di Donatello, il premio più importante del cinema italiano.
CINEMA
CHI SONO LE CANDIDATE?
Emma Dante (Le sorelle Macaluso) e Susanna Nicchiarelli (Miss Marx) sono in lizza per la Miglior regia (l’anno scorso non c’era nessuna donna in gara) e anche le loro opere sono candidate nella categoria Miglior film. Soltanto un’altra volta, nel 2019, c’erano state due donne in gara per la miglior regia: Alice Rohrwacher e Valeria Golino.Ginevra Elkann (Magari) e Alice Filippi (Sul più bello) competono invece nella cinquina dedicata al Miglior regista esordiente, dove le registe donne a vincere, finora, sono state solo Francesca Archibugi, Simona Izzo e Roberta Torre. Nessuna invece, in 66 anni di storia dei David, è mai riuscita a vincere nella categoria Miglior regia. In questa edizione ci sono anche due registe che competono nella sezione documentari. Piera Detassis, presidentessa e direttrice artistica dell’Accademia del cinema italiano, spiega: “Questo è l’anno della regia femminile, sono nominate due registe sia come miglior film che come miglior regia e questo
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fatto si era prodotto solo nel 2019 e vi ricordo che in 66 anni di David solo due volte una donna vinto il miglior film e nessuna ha mai vinto per la regia ci tenevo a ricordare questo dato per dire che comunque stiamo facendo un percorso e i dati precedenti sono abbastanza agghiaccianti per il Paese per l’umanità e per le donne ma noi speriamo di cambiano anche perché quest’anno anche due regie d’esordio sono al femminile, così come due registe sono candidate nella sezione dei film documentari”
LE DONNE NEL CINEMA
I riconoscimenti alle donne nel mondo del cinema valicano i confini nazionali. A confermare il talento femminile è arrivato prima il Golden Globe, con la vittoria di Clohè Zhao, poi gli Academy Awards, con le candidature della stessa Zhao e di Emerald Fenne e adesso anche i nostri David di Donatello.
Al talento non corrisponde però, ancora oggi, un’uguale rappresentazione in termini numerici. Le donne nel mondo audiovisivo e cinematografico scarseggiano in alcuni ruoli e, di conseguenza, risultano meno rappresentate anche durante le premiazioni. Peraltro un’assenza clamorosa non è sfuggita alla critica più attenta Lina Wertmüller, è stata premiata agli Oscar ma mai neppure nominata ai David. Mm
In 66 anni di David solo due volte una donna ha vinto il miglior film e nessuna ha mai vinto per la regia. P I E R A D E TA S S I S P R E S I D E N T E S SA E D I R E T T R I C E D E L L ’ A C C A D E M I A D E L C I N E M A I TA L I A N O
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M O DA
Il corpo delle donne: la moda lancia
gli abiti con il seno DI GIULIA DI MAIO
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l seno fa la sua comparsa su abiti, T-shirt, borse e maglioni. Attenzione: non si parla di profonde scollature, ma di capi di abbigliamento sui quali spuntano le rotondità dei seni grazie a ricami o a pieghe della stoffa. I primi a lanciare la moda sono stati Stella McCartney e Schiaparelli. Rispettivamente il primo gioca con i tessuti valorizzando le curve, mentre il secondo propone camicie bianche con le mammelle disegnate sopra o bottoni d’oro ricamati paralleli, proprio ad altezza seno. I capezzoli esistono nel corpo maschile e in quello femminile, ma sono nelle donne provocano scalpore: lo dimostra la censura di Instagram, che ha sollevato la protesta di molte star. Le donne sono stanche di questa narrazione che riduce i corpi a meri oggetti di piacere: come sempre, la moda le ascolta e “veste” la loro battaglia. La moda decide di mandare un messaggio forte e rivoluzionario: “siamo stufe che il nostro seno sia solo un oggetto di piacere, uno strumento di marketing o il bersaglio della censura di Instagram. Ora vogliamo riprendercelo“. Nel corso degli anni il seno è stato valorizzato o nascosto a seconda dello
spirito del tempo. Ad esempio negli anni Cinquanta la lingerie era rigida e strutturata, tra bustier e “bullet bra” a forma di cono, ma nemmeno quindici anni dopo le femministe sarebbero scese in piazza per bruciare il reggiseno, strumento di tortura nato solo per compiacere lo sguardo maschile. Nel 1966 Yves Saint Laurent firmò la rivoluzione del “nude look”, facendo sfilare una modella con una camicia trasparente infatti sotto non portava nulla. Nel 1984 Jean Paul Gaultier lanciò sul mercato la famosa silhouette delle coppe del seno a cono sui vestiti.
LA MODA DEGLI ABITI CON IL SENO PRESENTE ANCHE A SANREMO 2021
La ribelle Madame, partecipante dell’ultimo Festival, è salita sul palco di Sanremo con un abito, firmato Dior, in paillettes con la forma dei seni e del ventre disegnati sopra, spiegando che lei si sente “madre della sua voce”. Anche Orietta Berti ha portato la nuova tendenza sul palco del Festival più importante d’Italia, con l’abito firmato GCDS con due conchiglie ricamate allusivamente sull’abito scintillante proprio sul décolleté. Mm
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MUSICA
Dieci canzoni che urlano Girl Power! DI CHIARA COZZI
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isti gli avvenimenti degli ultimi anni, l’empowerment femminile è un tema scottante diventato caro a molti e sulle bocche di tutti. Non c’è un settore in cui non si parli di uguaglianza e parità femminile, e la musica di certo non fa eccezione. Nella playlist di oggi vi proponiamo 10 canzoni che urlano “Girl Power!” a pieni polmoni. Buon ascolto! Celebrity Skin HOLE La voce graffiante di Courtney Love urla nel microfono la sua condizione non solo
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di donna, ma anche di rockstar. Nel suo gruppo (quasi) tutto al femminile, la Love sventola nell’aria la bandiera del girl power, cantando di ciò che comunemente ci si aspetta da una musicista del suo calibro (nonché rockstar salvata dalla maledizione per un soffio). Amazzonia MIRIAM AYABA Voce femminile rivelazione di The Voice of Italy 2019, Miriam Ayaba prende in prestito la tradizione tutta femminile delle amazzoni e la canta in chiave contemporanea. Punto fermo: la solidarietà femminile. Cosa vuol dire essere un’amazzone oggi?
I will survive GLORIA GAYNOR Con una delle voci più belle e potenti della storia della musica, Gloria Gaynor rivendica già nel 1978 la propria indipendenza come donna e denuncia una relazione tossica. Un tema decisamente all’avanguardia quarant’anni fa, ma sull’onda delle proteste femministe. Più girl power di così! Man! I feel like a woman SHANIA TWAIN Voglio fare tutto ciò che voglio, e tu non potrai fermarmi! Voglio divertirmi, ballare, sentirmi una donna, perché è così bello! Con una delle canzoni più famose degli anni ’90, Shania Twain aveva un unico scopo: farci ballare e urlare sulle note di un vero e proprio inno girl power. Let’s go, girls! Run the world (Girls) BEYONCÉ Il titolo della canzone parla da sé: a far girare il mondo sono proprio le donne, quelle stesse considerate “freak” non appena rivendicano la propria indipendenza e il loro potere. Saranno anche strane, moderne streghe, ma la loro forza non si può fermare – e questo una Beyoncé lo sa bene. God is a woman ARIANA GRANDE Ariana Grande diventa una dea dell’eros, della seduzione, detta le regole del gioco. Il girl power passa dalla camera da letto, dove la cantante diventa parte attiva, coinvolta e coinvolgente. Dio è una donna, e che donna!
Sisters Are Doin’ It For Themselves EURYTHMICS La splendida voce di Annie Lennox, colonna portante della musica anni ’80, accompagna le note di una canzone fortissima in tutta la sua solidarietà femminile. Le donne devono farcela da sole, perché se è vero che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, dietro una grande donna non c’è nessuno, se non un’altra donna, come Aretha Franklin in questo pezzo. Stronger BRITNEY SPEARS Britney Spears sa bene cosa vuol dire farcela da sola. Dismessi i panni della lolita forzatamente cuciteli addosso a soli 17 anni, decide che è tempo di andare avanti da sola e a testa alta, nonostante nessuno creda in lei. Più forte di ieri ma meno di domani, la strada verso la propria affermazione è senza ostacoli. Girls Just Wanna Have Fun CINDY LAUPER Ma quanto ci fa ballare, ancora oggi, questa canzone? Cindy Lauper sapeva già bene che, su queste note cantate a squarciagola, non avrebbe mai smesso di far divertire le ragazze di ogni epoca. Good As Hell LIZZO Chi c’è più girl power di Lizzo? Con questo invito al volersi bene e a mettere da parte i pensieri (e i ragazzi) negativi, la giornata non può che iniziare per il verso giusto. Come ti senti? Dannatamente bene! Mm
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IN ETIOPIA L’EPIDEMIA È D I V I O L E N ZA S E S S UA L E
Lo stupro è un’arma di guerra D I F R A N C E S C A P E R R O T TA
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uando il 4 novembre il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, ha iniziato la vasta operazione militare nello stato settentrionale del Tigray, dov’è stato proclamato lo stato d’emergenza per 6 mesi, il suo obiettivo era conquistare la leadership del partito al governo della regione, il Fronte di liberazione popolare (Tplf). Lo stesso che, per mesi, aveva sfidato sfacciatamente la sua autorità, fino al presunto attacco contro la base del Comitato settentrionale dell’esercito federale a Makelle, capitale dello Stato, presentato come movente stesso dell’offensiva, dunque una risposta, degenerata – quattro mesi dopo – in un aspro conflitto civile segnato da resoconti di gravi violazioni dei diritti, tra cui massacri, violenze sessuali e “pulizia etnica”.
ETIOPIA: LA GUERRA PAGATA CON LA VITA
Il 4 novembre il signor Abiy aveva usato toni bellicosi e gravi per giustificare l’attacco contro il Tigray, che ospita più di 5milioni di abitanti, per la maggior parte tigrini: le forze di difesa etiopi, disse, hanno l’obiettivo di “salvare il paese” da un governo regionale accusato di aver oltrepassato “la linea rossa”, nonché di “tradimento”. E i leader del Tplf non sono stati da meno perché già il 1 novembre, il presidente Debretsion Gebremichael aveva annunciato: “Se la guerra è imminente, siamo pronti non solo a resistere, ma a vincere”. Una guerra che è, alla fine, stata pagata con
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la vita di migliaia di persone. I numeri filtrano con estrema fatica: si tratta soltanto di stime basate su testimonianze frammentarie perché nell’intera regione è stata bloccata qualsiasi forma di comunicazione, imposta a intermittenza anche in seguito alla conclusione ufficiale del conflitto. Ma quello che fotografano è l’orrore di un’operazione di “annientamento etnico“. Oltre 500mila morti, tra i 4 e i 5 milioni di feriti, 60mila profughi, più fortunati, riusciti a fuggire in tempo nel vicino Sudan. Incalcolabile il numero delle donne stuprate, come sfregio supremo, da parte dei militari invasori. “Centinaia di donne stanno correndo negli ospedali del Tigray nel nord dell’Etiopia per contraccezione di emergenza e farmaci per la prevenzione dell’HIV dopo essere state sistematicamente violentate da soldati eritrei ed etiopi”, scriveva un giornalista del Telepraph su Twitter il 7aprile. Nelle ultime settimane, con l’arrivo di organizzazione internazionali e giornalisti, sono emerse testimonianze agghiaccianti. Interi villaggi sono stati distrutti, case incendiate, civili deportati chissà dove. Milioni di tigrini che non hanno più nulla, neanche medicine per curarsi. Eppure il premier l’ha definita “law enforcement”, un ripristino della legalità.
DALLA “PACE” ALLA GUERRA
Il paradosso che proprio l’uomo premiato con un – ormai sbiadito – Nobel per la pace, nel 2019, abbia
portato la guerra nel suo paese ha fatto molto discutere. Fu l’aver messo fine al conflitto ventennale in Eritrea che gli valse il plauso della comunità internazionale, e l’alleanza dell’Eritrea stessa. Tuttavia, una serie di episodi hanno in realtà messo in evidenza come l’elezione di Abiy a primo ministro nel 2018 e le politiche adottate da allora abbiano messo in crisi gli equilibri politici e le etnie. C’è chi sospetta che l’attacco al Tigray fosse in cantiere da mesi, pianificato proprio per estirpare la dirigenza del Tplf, unico partico che, dopo aver guidato il paese per circa trent’anni, non aveva voluto partecipare al nuovo Partito della Prosperità, voluto dal primo ministro. Un passaggio che ha comportato proprio l’espromissione dei vertici del Tplf da tutti i ruoli governativi che ricoprivano, e la reazione dei tigrini si è fatta sentire, rivendicando una sempre maggiore autonomia dal governo centrale. Inoltre, il governo aveva rinviato le elezioni generali previste per agosto a data da destinarsi, per via della pandemia. Ma il Tplf è andato avanti, vincendo col 98% dei voti, con cui ha rimarcato quello strappo, l’indipendenza di fatto, e accusando il premier di aver utilizzato l’emergenza sanitaria per prorogare illegittimamente il suo mandato. Da lì i rapporti tra il governo centrale e quello locale non hanno fatto che degenerare fino all’escalation militare, in cui la complicità dell’Etiopia con l’Eritrea è stata decisiva. In un certo senso, l’aspra lotta è stata guidata da forze profondamente radicate: controversie sulla terra di lunga data, visioni opposte
sulla futura forma dell’Etiopia e una rivalità con l’Eritrea che risale a decenni fa. Ma i civili, e in particolare le donne, sono quelli che stanno subendo il peso della violenza più inquietante. Il Tplf, nelle prime fasi, ha provato anche a difendersi, a reagire agli attacchi, ma la sproporzione delle forze in campo ha annientato qualsiasi possibile reazione. Il 28 novembre il premier Abiy, dopo aver insediato a Makelle una nuova amministrazione controllata dal Partito della Prosperità, ha dichiarato la fine dell’operazione militare. Dichiarazione solo di facciata, perché a dicembre il governo prometteva ancora 200mila dollari di ricompensa a chi forniva notizie sui dirigenti del TPFL fuggiti a nascondersi tra le montagne. A gennaio, sempre nel più totale black out informativo, è filtrata la notizia che 15 alti dirigenti tigrini erano stati uccisi. Poi sono arrivati i dossier, le denunce delle ong, i reportage di giornalisti coraggiosi che erano riusciti ad entrare nel Tigray. A quel punto l’orrore ha preso forma. E a più di 5 mesi dall’annuncio della fine della guerra, continuano ad emergere testimonianze scioccanti sulle violenze inflitte alla popolazione dalle forze etiope, eritree e da milizie locali nella regione del Tigray, dove secondo giornalisti e attivisti, la violenza sessuale viene usata come arma di guerra su scala “quasi inimmaginabile”. Pamila Pattern, inviata delle Nazioni Unite, si è detta “molto preoccupata”, riferendo di essere entrata in possesso di “notizie inquietanti”: “Varie persone – ha
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riferito nel suo report – sarebbero state costrette a violentare membri della loro stessa famiglia, sotto minaccia di subire a loro volta violenze”. Alcune donne “sarebbero state costrette dai militari a delle prestazioni sessuali in cambio di cibo” e ha citato i dati ottenuti dagli ospedali e dai centri medici, che “hanno indicato un aumento nelle richieste di contraccettivi di emergenza e di test per le infezioni sessualmente trasmissibili, che è ritenuto nella maggior parte dei casi un indicatore di violenze sessuali nei conflitti”.
“CI HANNO DETTO DI NON RESISTERE”
“Questa è pulizia etnica” ha detto una 18enne etiope al New York Times, sopravvissuta a un tentato stupro che le aveva lasciato 7 ferite da arma da fuoco e un braccio amputato: ha raccontato che un soldato etiope aveva fatto irruzione in casa sua, dove viveva insieme al nonno, con il quale il soldato gli aveva ordinato di far sesso. Lui però si rifiutò, e il soldato lo chiuse in cucina dopo avergli sparato ad una gamba, per poi bloccare la ragazza e cercare di violentarla. “Ha detto che avrebbe contato fino a tre, e se non mi fossi tolta i vestiti mi avrebbe ucciso”, ha spiegato la 18enne. Ma il suo è solo uno delle centinaia di racconti che descrivono dettagliatamente gli abusi nel Tigray. Un funzionario delle Nazioni Unite ha rivelato al Consiglio di sicurezza che più di 500 sono le donne che hanno denunciato formalmente violenze sessuali. Nella città di Makelle,
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ogni giorno emergono nuovi casi. “Lo stupro viene usato come arma di guerra”, ha detto Letay Tesfay della Tigray Women’s Association, “Quello che sta succedendo è inimmaginabile”. Uno dei casi più eclatanti è stato quello di una 29enne che, sempre al New York Times, ha raccontato di essere stata legata ad un albero vicino casa sua ad Augula, e aggredita ripetutamente per un periodo di 10 giorni. “Ho perso il conto”, ha detto. Le hanno ucciso anche il figlio di 12 anni. Selam Assefe, un investigatore della polizia che lavora su casi di stupro presso l’Ayder Referral Hospital, ha confermato il racconto della ragazza. “Ci hanno detto di non resistere”, ha detto un’altra delle donne violentate. “Sdraiarsi. Non gridare”. Ma anche se avessero gridato, ha aggiunto, “non c’era nessuno ad ascoltare”. È un’epidemia di violenza sessuale quella in Etiopia, che si aggrava per il collasso sanitario, a causa del quale molte delle vittime che hanno contratto malattie a trasmissione sessuale, compreso l’HIV, non possono curarsi. Mentre la richiesta di aborti e contraccettivi aumenta. Difficile capire cosa accadrà adesso. L’attenzione però deve restare alta, come avverte Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International: “Il ‘post-conflitto’, sempre che di un periodo successivo si possa già parlare, rischia di essere doloroso e incerto, se non si risolverà la gravissima crisi umanitaria in corso, se gli sfollati non potranno tornare alle loro case in condizioni di sicurezza e, soprattutto, se non vi sarà giustizia”. Mm
più di
500 donne
hanno denunciato formalmente violenze sessuali in Etiopia negli ultimi cinque mesi
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Come i Premi Oscar discriminano le donne da oltre 90 anni DI CHIARA COZZI
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on la prima edizione DIECIMILA tenutasi nel 1929, i Premi NOMINATION: Oscar (o Academy QUEL TIMIDO 14% Awards) sono la conquista più ambita Dal 1929, le nomination agli Oscar del mondo del cinema. Questo, se sei sono state oltre diecimila. Il numero è un uomo. L’Academy infatti perpetra davvero folle, ma lo è ancora di più se una non troppo velata misoginia che facciamo una scrematura: se togliamo discrimina di anno in anno le donne del infatti quelle relative ai singoli uomini e settore cinematografico. ai team, ci rendiamo conto che soltanto Nonostante quest’anno sia stata il 14% delle candidature riguarda le sole “rivoluzionata” la tendenza, con 72 donne. Le donne nominate agli Oscar, nomination al femminile, e la categoria dunque, sono poco più di 1400. di Miglior Regista che Ma ancora più ha visto nella rosa dei imbarazzante è il dato nominati due donne relativo alla nomination su cinque (Chloé Zhao come Miglior Regista. Su ed Emerald Fennell), 449 nomination, vediamo il caso più recente di che le donne sono comparse misoginia risale solo soltanto 5 volte. L’unica ad all’edizione del 2020: aver vinto la statuetta, che è Nomination nella stessa categoria una delle più ambite dopo agli Oscar alle appena menzionata, quella per il Miglior Film, è singole donne stata Kathryn Bigelow. infatti, non compariva alcuna donna.
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GLI OSCAR CONTRO LE DONNE: L’INCHIESTA DEL “GUARDIAN”
Proprio l’anno scorso il “Guardian” ha aperto un’inchiesta per mettere nero su bianco dei dati incontestabili. Grazie a questi è stato possibile mostrare che, nonostante si spendano in continuazione belle parole, la parità di genere è ancora lontana. Analizziamo insieme la situazione.
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MIGLIOR FILM: UNA QUESTIONE SPINOSA
La statuetta per il Miglior Film viene comunemente portata a casa dal produttore della pellicola, benché assegnata anche al regista. Fino al 1950 erano tuttavia proprio le case di produzione a ricevere il premio, senza alcuna menzione al regista: una situazione davvero all’avanguardia per i tempi, considerando che non veniva lasciato posto ad alcun divario di genere. Dopo quella data, invece, le cose
cambiano: la statuetta viene assegnata e ritirata dal regista del film. Abbiamo un totale di 379 nomination, e solo in 13 figurano delle donne: nessuna ha mai vinto l’Oscar per il Miglior Film.
AL PEGGIO NON C’È MAI FINE
Se i dati precedenti vi hanno fatto impallidire, frustrare, arrabbiare, aspettate di vedere i prossimi. Gli Oscar relativi alla musica hanno visto un totale di 23 categorie, per 1238 nomination: le donne ricoprono solo l’1,6% di questa cifra. Il dato peggiore, però, è senza dubbio quello per la Miglior Fotografia: su 609 candidature, le donne compaiono una sola volta. Rachel Morrison è stata nominata nel 2018, “alzando” il dato a un critico 0,16%.
LA RAGIONE DEI DATI: IL CAMBIAMENTO PARTA DAL BASSO (E DAI FESTIVAL INDIPENDENTI)
Il motivo di questo forte divario è presto detto: innanzitutto non sono molte le donne registe, ma la ragione vera e propria è da ricercare nei soldi impiegati nella realizzazione di una pellicola. In primis, ci sono ancora forti discriminazioni di genere in ambito salariale: in parole povere, il lavoro di una donna dietro la macchina da presa viene pagato meno rispetto a quello di un uomo.
Inoltre, il discrimine più pesante risiede nelle case di produzione, che decidono quali film finanziare e quali necessariamente escludere: non è un caso che i festival indipendenti pullulino di pellicole girate da donne con budget bassi. Non avendo perciò una major a coprire finanziariamente le spalle e a dirigere le campagne pubblicitarie, va da sé che i film girati da donne non raggiungano il clamore necessario per essere proiettati in sala e visti dal pubblico. Neanche la giuria degli Academy ha perciò modo di visionare questi film, che restano relegati al circuito indipendente senza ricevere il riconoscimento che meritano. A partire dalla prima cerimonia degli Oscar, i dati relativi alle nomination femminili sono rimasti invariati: 93 anni in cui non si è visto neanche un accenno di cambiamento. Questa è l’ennesima discriminazione che affligge il mondo cinematografico (non dimentichiamo infatti le accuse di razzismo). Parlando di discriminazioni di genere, tuttavia, la cosa si fa più complessa: essendo assodato che la maggior parte delle nomination va a persone caucasiche, viene automatico concentrarsi maggiormente sulla vergognosa assenza di rappresentanti di altre etnie. Ecco quindi che la mancanza di figure femminili diventa l’”elefante nella stanza”: quel problema tanto grande e presente, impossibile da non notare, che tuttavia si finge che non esista. Che sia questo l’anno del cambiamento? Mm
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