PORTAMI CON TE

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Stefania Scateni

portami con te

Quattro racconti di amicizia e libertĂ

Illustrazioni Arianna Papini Introduzione Ascanio Celestini

Il Quaderno quadrone



Stefania Scateni

portami con te

Quattro racconti di amicizia e libertĂ Illustrazioni Arianna Papini Introduzione Ascanio Celestini


Se un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo «Se un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo». Lo scrive Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. È una frase che significa tante cose. Per esempio, vuol dire che non basta parlare la stessa lingua per capirci. Per esempio, io non capisco le notizie del bollettino meteorologico. Parlo la stessa lingua del colonnello dell’aeronautica che sta in televisione accanto a una carta geografica, ma non lo capisco. Capisco solo quando vedo la nuvoletta con il disegno della pioggia o il circoletto col sole e roba del genere. Il resto del discorso meteorologico, per me, è un discorso da leone. Due amici si mettono a parlare di fisica e io non li capisco. Parlano la mia stessa lingua, la medesima che parlavano cinque minuti prima quando partecipavo anche io al discorso, quando l’argomento era la porchetta di Ariccia e il vino dei Castelli romani. Perché adesso non li capisco più? Guardo la Gioconda e mi pare di capire tutto solo perché distinguo la figura umana in primo piano dallo sfondo. E invece no, non capisco. Percepisco solo istintivamente la prospettiva aerea e se non approfondisco non riesco a collocare il quadro nel suo contesto storico. Questo succede nella vita. Sono circondato da cose che capisco bene, ma anche da tante altre che capisco poco o niente. Nelle fiabe succede qualcosa di nuovo. Nelle fiabe chiunque apre bocca, parla e si fa capire. Il leone di Esopo parla col topo. Il topo chiede al leone di non mangiarlo e in cambio gli promette riconoscenza e così sarà quando il re della foresta finisce in una trappola e si trova legato a un albero: il topo rode la corda e lo libera. Il leone di Esopo parla la lingua del topo,

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ma anche della zanzara, come accade in un’altra sua fiaba. Nei racconti di Stefania Scateni troviamo gli stessi animali che Esopo immaginava 2500 anni fa. Il leone di Wittgenstein parla con le parole degli umani, ma non lo capiamo, mentre Pablo, il cane di Mirto, abbaia soltanto e si fa capire benissimo. L’anatra Annia è muta, ma l’usignolo Farid la capisce, così come la puledra Quintina sa ascoltare i pensieri di Pino, il bambino cieco, e vuole mostrargli una terra meravigliosa. E Concetta paperina? Lei parla anche col mondo vegetale. Ecco cos’è una fiaba. Non ci serve per capire le cose del mondo, ma per raccontarle e per trasformarle. E nel racconto ci guadagniamo la libertà di dare voce a tutti i pezzetti del mondo. Gli diamo la nostra voce. Facciamo parlare i sassi! Li facciamo parlare con le nostre parole. Parliamo e parliamo e parliamo per tenere accesa questa favella, per l’assalto al cielo che renderà liberi anche quelli che non immaginano cosa sia la libertà. Ascanio Celestini

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Pablo il cane

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’era una volta un cane che non aveva mai visto il mare. Era un cane maschio, robusto e pezzato, pelo corto e faccia allegra. Era sempre vissuto in campagna, e la pozza d'acqua più grande che avesse mai visto nella sua vita era la vaschetta della fontana dove beveva e si rinfrescava d’estate. Non c’era altra acqua nella sua terra, neanche un ruscello, neanche un laghetto... solo pozzanghere dopo le piogge d’autunno e primavera, piccoli specchi che annusava per guardarsi: “Sono io quella faccia, quel muso lì”. Pablo – era questo il suo nome – non aveva amici cani. La sua mamma non l’aveva mai conosciuta. Era arrivato lì, avvolto in un panno, tra le braccia del piccolo Mirto. Mirto giocava con lui, tirava bastoncini e Pablo correva a prenderli e glieli porgeva tra i denti stretti stretti. Oppure andavano insieme a passeggiare nel bosco accanto alla fattoria, a guardare le farfalle e le formiche e a scavare buche nella terra morbida e umida del sottobosco. Pablo non sapeva se fosse davvero felice. Non sapeva cosa si sentiva nella felicità. Sapeva soltanto che amava Mirto e quel pezzetto di terra.

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Però, ora che era diventato grande, ogni tanto lo assaliva – o meglio, lo impregnava – una specie di tristezza (era quella la tristezza?): si fermava d'un tratto e si acciambellava per terra, come fanno i gatti – alla fattoria ce n’erano cinque – davanti al camino quando fuori nevica o piove forte. Forse non era tristezza. Pablo stava lì, acciambellato, quasi un po’ intontito. Il suo cuore si stringeva come una spugna alla quale si toglie l’acqua in eccesso. Forse era nostalgia? E chissà di che


cosa? Forse di un territorio più ampio, forse di amici simili a lui. Pablo era sempre vissuto lì e aveva fatto sempre le stesse cose, annusato gli stessi odori, seguito le tracce delle stesse galline, degli stessi conigli, delle stesse papere. Gli mancava qualcosa, un non so che, indefinito. Sentiva che non era completo, appagato. Certo, Mirto era un amico amorevole, la sbobba era buona e le galline persino simpatiche. Il cielo sopra di lui era quasi sempre sereno, però era troppo lontano, quel blu lassù. Chissà di cosa era fatto, chissà che profumo aveva. Un giorno i genitori di Mirto decisero di fare una gita per festeggiare il suo compleanno. Neanche Mirto conosceva il mare e aveva chiesto come regalo di poterlo vedere. Mirto portò Pablo. I due inseparabili amici scesero dalla macchina e si incamminarono fianco a fianco sulla sabbia. Mirto era eccitato, gli piaceva la spiaggia, si era tolto le scarpe e nascondeva le dita dei piedi tra la sabbia ridendo quando scomparivano inghiottite lentamente dai granelli. Pablo poggiò dapprima le zampe con timore, ma poi sentì una sensazione piacevole, come di abbandono, come quando si metteva a pancia in su per farsi accarezzare da Mirto. Avanzò sorridente (i cani sanno sorridere) al fianco dell'amico. Erano contenti e su di giri, osservando quella distesa d'acqua, viva, in movimento continuo, che si fermava sulla sabbia facendola brillare e tornava indietro, un vai e vieni ipnotico, che Pablo osservava per la prima volta e che ora mangiava con gli occhi. Il suono di quel movimento lo cullava dolcemente, come quando era un cucciolo e Mirto lo teneva tra le braccia. Il mare era come un Mirto grandissimo. Era immenso, non si percepiva la fine, si poteva solo immaginarla. Fissando quella meraviglia, Pablo si sedette sul bagnasciuga e si incantò: vide che il mare all'orizzonte diventava cielo e il cielo diventava mare. In quell’abbraccio di turchese, acqua e aria diventavano ancora più immense e lui desiderò essere

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mare e cielo e desiderò di andare fino all'orizzonte per diventare quell'azzurro chiaro e trasparente e, forse, profumato. “Ma io non so nuotare” pensava Pablo. Si mise in piedi e zampettò avanti e indietro, bagnò le zampe saltellando sul posto, preoccupato e impaziente. Guardò Mirto, che, come lui, era incantato da quell'infinito, e spinse il muso sulla gamba per attirare la sua attenzione. Mirto lo accarezzò e gli disse: «È bellissimo, è così infinito, così vivo, che viene voglia di farne parte. Ma come si fa? Non so nuotare!». Pablo ebbe un tuffo al cuore: anche Mirto voleva abbracciare il mare, ma anche Mirto non sapeva nuotare! Scodinzolò intorno all'amico e guaì con dolcezza. “Che facciamo allora?” si chiese Pablo. «Beato te» sospirò in quel momento Mirto. «Beato te, Pablo, i cani sanno nuotare. Gli umani devono imparare». Pablo spalancò occhi e orecchie: “Davvero so nuotare senza che io lo sappia?”.

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Abbaiò di felicità e si avvicinò all'acqua. Cautamente entrò in mare, le zampe a mollo. Un’onda lo bagnò fino al garrese. Non voleva avere paura, ma il suo cuore batteva veloce come le ali di un colibrì. Avanzò nell'acqua finché il mare gli coprì il muso fino al naso, d'istinto sollevò e piegò le zampe, che iniziarono a muoversi ritmicamente, come per un balletto. Sembrava una magia e invece era reale: Pablo rimaneva a galla e nuotava! Abbaiò ancora più forte per chiamare Mirto che, rimasto in piedi sul bagnasciuga, lo guardava estasiato e lo incitava a continuare: «Bravo Pablo, nuota, nuota!».




Pablo nuotò verso di lui fino a riva. Quando gli fu accanto, abbaiò ancora per invitarlo a seguirlo. Mirto capì – erano amici, no? – e si aggrappò a Pablo, che piano piano entrò in mare, finché arrivò dove non si toccava. Mirto si lasciò andare e si fece trasportare. Pablo zampettava nell’acqua trascinando Mirto tra le onde delicate. Anche il mare collaborava smussando la sua energia, il suo respiro. Pablo nuotava verso l'orizzonte e Mirto rideva e lo seguiva come una barca trainata da un'altra barca e urlava quando l’acqua lo schizzava. Urlava di gioia.

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Annia l'anatra muta

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he senso ha la vita senza il canto e la musica? E perché mi è stata negata la voce? È il grande creatore delle anime piccole che ha voluto togliermela? E perché, nonostante io sia sempre stata senza voce, mi ricordo di aver cantato a lungo? Mi chiamo Annia, l’anatra muta, unica della mia specie in questo angolo dello zoo che ospita gli animali della fattoria. Sto zitta, non emetto suoni, ma vivo per la musica, desidero l'armonia. I miei coinquilini fanno un gran baccano tutto il giorno: il gallo canta impettito a tutte le ore, la pecora bela dolcemente soltanto la mattina presto e ulula per il resto del giorno quasi si trasformasse in lupo, le galline, si sa, fanno ininterrottamente coccodè coccodè coccodè, l’asino raglia, e tra tutti è quello che si avvicina di più al canto. Provate voi ad avere ogni giorno nelle orecchie tutti questi suoni, compresi lo starnazzare delle oche e il grugnito dei maiali. Io potrei cantare, se non fossi nata muta. Potrei farlo perché sento il mio canto nelle orecchie ma, mannaggia, lo sento solo io. Sono sicura che sarei una cantante sopraffina. Però la mia voce non esce, come se avessi il volume spento. Come faccio ad alzare il volume? Dove vado a cercare il mio suono? E come posso chiedere aiuto visto che non ho la voce? Ci vorrebbe un esperto, e potrebbe essere un uccello canterino, saggio e competente. Potrei cercarlo qui nello zoo, che è pieno di uccelli.

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Eccomi qua, davanti al cancello della fattoria. Per fortuna non è molto alto, posso provare a scavalcarlo, non so volare ma faccio bei salti con le mie ali forti. Fatto! Mi metto in cammino: passo davanti al recinto dei rinoceronti, saluto i cammelli e gli orsi, prendo alla larga la residenza dei leoni, delle tigri e del giaguaro, sfioro il muretto delle gazzelle e delle antilopi, circumnavigo il rettilario e raggiungo le giraffe. Mi incanto a guardarle, così alte, così eleganti. Chissà che voce hanno? La più grande si stacca dal gruppo, si avvicina e abbassa il suo lungo collo. Mi guarda. I suoi occhi sono bellissimi e dolci. «Cosa ci fai qui? Ti sei persa?» mi chiede. In effetti mi sono persa. Le rispondo dondolando il capo e nonostante dal mio becco non esca nessun suono lei mi capisce: mi invita a salire sul suo collo e ad aggrapparmi alle sue corna vellutate. E quando raddrizza la testa, oh che spettacolo! Da lassù abbraccio con lo sguardo tutto lo zoo, le gabbie, i sentieri, i laghetti, vedo geometrie, forme, colori. Finalmente i miei occhi individuano un grande reticolato rotondo: la voliera! Lì di sicuro ci sarà l’uccello canterino che sto cercando. Sorrido alla gentile creatura, la giraffa capisce e si abbassa per portarmi a terra. Ora so dove andare. Cammino cammino a zig zag, traballando tra piedi di bimbi e di adulti finché non arrivo alla “città degli uccelli”: quanti! E così diversi tra loro! Colorati, neri, bianchi, piccolissimi, enormi, con gambe lunghissime, cortissime, becchi di tutte le forme e dimensioni. E quante voci! Roche, potenti, gracchianti, dolci, stridule, lievi, ritmate, tambureggianti, sibilanti, armoniche, urlanti, secche come il legno vecchio o morbide come un respiro.

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Ma a chi chiedere? Mi siedo davanti alla grande voliera, resto in ascolto e osservo i movimenti degli uccelli quando si apprestano a cantare: c'è chi allunga il collo, chi apre semplicemente il becco, chi tremola tutto prima di emettere fiato. Tento di imitarli: allungo il collo, apro il becco più che posso e butto fuori il fiato. Ma non succede niente: dalla mia bocca esce solamente un soffio silenzioso. Tremo di paura e di vergogna. Ma mi faccio coraggio e perlustro le altre gabbie in cerca di qualcuno con cui parlare. Gli uccelli notturni stanno dormendo, i fenicotteri riposano silenziosi come cuscini rosa, i predatori inquieti aspettano il tramonto... Stremata e afflitta continuo a cercare, gabbia dopo gabbia, dai pappagalli agli ibis rossi, dalle cornacchie indiane ai pavoni. Finalmente sento una voce, un canto dolce e melodioso che proviene da un albero frondoso. Ma dov'è questa creatura che canta come se pregasse? Nascosto tra le foglie intravedo un piccolo uccello bruno, insignificante come me. “Ehi, ciao!” penso. “Sono Annia, l'anatra muta, perché non ho la voce. Ma vorrei averla, lo desidero tanto! Il tuo canto è meraviglioso e vorrei cantare come te”. L'uccellino mi scruta. «Io sono un usignolo. Davvero vuoi cantare? Perché? Cos'hai da dire agli altri, al mondo?». L’usignolo allora mi sente! È un miracolo!

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Cosa posso offrire agli altri? Già, che cosa? “Non lo so di preciso: forse l'amore per la musica. E la musica farebbe bene a me, e a tutte le creature. E potrei anche insegnare che bisogna credere in noi stessi, essere forti e darsi da fare per essere felici.




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