LA RIBELLE CHIÒ

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Massimo De Nardo

LA RIBELLE CHIĂ’ Illustrazioni Andrea Rivola Introduzione Roberta Passoni

Il Quaderno cartone



Il Quaderno cartone # 4 è di



Massimo De Nardo

LA RIBELLE CHIÃ’ Illustrazioni Andrea Rivola Introduzione Roberta Passoni

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Il diritto di avere un futuro incerto Leggere la storia di Chiò – il piccolo chiodo che improvvisamente, stanco di ricevere martellate in testa, si ribella al suo destino – ha richiamato alla memoria un momento importante nella mia storia di madre. Venticinque anni fa, quando poco più che ventenne ho scoperto di essere diventata mamma di un bambino affetto dalla sindrome Down, ascoltavo medici e specialisti che cercavano di raccontarmi come sarebbe stato mio figlio da grande, cosa avrebbe potuto e cosa non avrebbe potuto fare. Ricordo che di fronte a quelle parole avevo un chiodo fisso: avrei fatto di tutto per garantire a Lorenzo il diritto di avere un futuro incerto pieno di sorprese, come lo hanno tutti i bambini al momento della nascita. Avevo bisogno di persone che mi aiutassero a crescere mio figlio senza ridurre le sue aspettative e senza leggere tutto attraverso gli occhiali della sua patologia. Questo mi ha permesso di vedere sempre e per prima cosa Lorenzo così com’era. Ero convinta, infatti, che mio figlio mi avrebbe stupita. E così è stato. Le sagge forbici Forb affermano: «Difficile essere chiodo senza fare il chiodo. Importante però è fare qualcosa, essere qualcuno anche se qualche cosa nella nostra vita è andata storta». Andrea Canevaro, nel suo libro “Nascere fragili”, pone la stessa questione con altre parole, chiedendosi: Una persona disabile è sempre tale? Questa domanda può essere considerata un po’ sciocca, perché è chiaro che un disabile, in qualsiasi ruolo sia impegnato, è sempre un disabile. È indubbio. Ma deve sempre e solo fare la parte del disabile? Ovvero essere impegnato in una situazione in cui le sue funzioni sono incentrate sulla disabilità? Forse il segreto è nella natura dei nostri sguardi. Il Mister, altro personaggio del libro, dopo vani tentativi di raddrizzare il chiodo Chiò, si domanda: «Che ci fai con un chiodo storto?». Poi si ferma a guardarlo: si accorge che è un chiodo diverso dagli altri e lo mette da parte pensando che comunque a qualcosa sarebbe servito. «A qualcosa servirà, ho detto a me stesso, ma lo dicevo anche a Chiò».

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Quante volte noi educatori riusciamo a fermarci per guardare bambini e ragazzi senza cadere nell’errore della reificazione? Reificare vuol dire rendere concreto ciò che non lo è. A scuola spesso cadiamo nell’errore della reificazione: facciamo indossare ai nostri alunni un abito e pensiamo che quello sia il loro destino. In questo modo trasformiamo in una identità definita ciò che abbiamo potuto osservare in un determinato momento. E invece nostro compito credo stia nell’inventare e costruire situazioni e contesti in cui bambini e ragazzi possano rimettersi in gioco contro ogni fatalità. Dobbiamo provare ad avere uno sguardo un po’ strabico: con un occhio pensare all’oggi e con l’altro puntare al domani. Ma per fare questo dobbiamo cambiare occhiali, punti di vista. Mi viene da dire che è necessario avere uno sguardo creativo capace di osservare, immaginare e inventare. Pensare adulti i ragazzi con disabilità vuol dire coltivare un pensiero caldo che riconosce in loro una prospettiva futura. Vuol dire immaginare, desiderare, aspirare, darsi degli appuntamenti e, insieme, contemporaneamente, preparare le azioni necessarie a facilitare possibili cambiamenti. Cioè prevedere le varie fasi, gestire i tempi, valutare i pro e i contro, comprendere la fattibilità di ciò che progettiamo. L’importante è credere che chi abbiamo davanti è un individuo da interpellare, che ci può stupire. Massimo De Nardo scrive che «Il chiodo Chiò, dolce e ribelle, vuole essere semplicemente diverso da ciò che è. Semplicemente? Purtroppo la realtà è più difficile della fantasia, e se sei diverso tutto diventa più difficile». Mi viene da aggiungere che, proprio perché è vero che tutto diventa più difficile, abbiamo il dovere di incoraggiare la capacità di sognare di tutti i chiodi Chiò che incontriamo. Roberta Passoni

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Chiò Chiò è un chiodo ribelle: non vuole più ricevere dolorose martellate in testa. Beh, il destino dei chiodi è quello, però basta così, per favore.

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Il macchinista teatrale Tutti lo chiamano “il Mister”, con l’articolo davanti. Il Mister di mestiere fa il macchinista teatrale: monta e smonta le scene (le scenografie). Quel pomeriggio doveva montare una parete dipinta con nuvole di varie forme. Un lavoro poco impegnativo, che poteva fare da solo, senza aiutanti. Bisognava inchiodare dei listelli di legno su una tavola di truciolato, sulla quale era dipinta una nuvola. Una tavola una nuvola, a scacchiera. Tante nuvole, come fossero dei quadri appesi in cielo. Il Mister ha preso alcuni chiodi dalla cassetta degli attrezzi. Primo chiodo. Tum tum, il martello lo ha conficcato nel legno con precisione e velocità. Secondo chiodo. Tum tum, con precisione e velocità. Terzo chiodo... con il terzo chiodo ha inizio la storia di Chiò. Il Mister prima dà un colpetto ai chiodi, per conficcarli appena nel legno, e poi due tre colpi ben assestati. Dopo il primo colpo, che non è mai troppo forte, Chiò si è spostata di qualche millimetro, quasi a voler schivare il secondo colpo. Ma non si possono schivare i colpi se resti lì. Il martello l’ha colpita di fianco, piegandole il corpo. Un chiodo storto, se non è troppo storto, si può raddrizzare, però ci vogliono altri colpi in testa e sui fianchi. Che certo fanno molto male. No, grazie. Basta così. La storia di Chiò ce la raccontano alcuni suoi amici utensili, che abitano nella cassetta degli attrezzi.

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Cast Io sono Cast, la cassetta degli attrezzi. Lavoro in teatro e il cast è un gruppo di attori che sono stati scelti per una rappresentazione teatrale o per un film. Cast è una parola inglese e vuol dire “assegnare le parti”. Io sono amica di tutti gli attrezzi. Il mio spazio interno è suddiviso in modo tale da sistemare gli utensili come se avessero un posto preciso, personale. Succede anche che, quando il Mister lavora, gli utensili non stanno sempre a posto. Si mescolano, vanno a finire uno sopra l’altro, e anche uno dentro l’altro. Insomma, una gran confusione. A loro piace, è come una festa da ballo. Gli attrezzi io li chiamo in diversi modi: utensili, arnesi, ferri del mestiere. Quest’ultima parola è abbastanza buffa, perché anche chi lavora senza utilizzare ferri e ferramenta (la maestra, ad esempio) ha i suoi ferri del mestiere. Quando il Mister mi apre, un bel gruppo di utensili inizia a darsi da fare. Ma ci sono utensili che rimangono intere giornate al loro posto, perché non devono fare niente, non è il loro turno di lavoro. Il chiodo Chiò per molto tempo è rimasta in un angolo di uno scompartimento del mio secondo piano, là dove alloggiano gli attrezzi più grandi, come il martello, la tenaglia, il giravite. Mi faceva tenerezza il chiodo Chiò. Così storta, pensavo, ora che non è più un chiodo come tutti gli altri chiodi, che cosa potrà fare?

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Mart Il mio nome è Mart. Di mestiere faccio il martello. Un lavoro duretto, il mio, non c’è che dire. Sono un tipo longilineo e forte. I miei capelli sono acconciati a coda di rondine. Il Mister, il giorno che ho conosciuto Chiò, mi ha fatto scendere con delicatezza sopra quella testolina di chiodo ribelle. Il colpo è stato preciso, il chiodo è entrato nel legno quanto basta per stare dritto, per poi ricevere il colpo vero e proprio. Ma prima di ricevere questo secondo colpo Chiò si è spostata. Io le sono andato sopra. Tum! Ho visto la sua testolina reclinarsi verso il corpo esile, colore ombra d’argento. Il chiodo non era troppo storto e il Mister ha provato a conficcarlo nuovamente. Tum, è partito un colpo un po’ di fianco per raddrizzarlo, ma, ahimè, il chiodo si è piegato di più. Quando succede così, il Mister di solito prova a sistemare il chiodo con dei colpetti sui lati, e c’è speranza che si raddrizzi. Lei no, quel chiodo di nome Chiò si ostinava a non voler entrare, riceveva colpi che ormai erano torture. E si piegava di più, ma non voleva proprio entrare. Un chiodo piegato ad angolo retto non serve a nulla; si tira via e si butta. Il Mister invece – me lo ricordo bene – ha guardato incuriosito quel chiodo. Lo ha preso e lo ha appoggiato sulla tavola di legno. Stava per usarmi per raddrizzarlo, e io già mi sentivo male come fossi pure io un chiodo. Come fossi quel chiodo. Il Mister ha guardato ancora Chiò, poi l’ha riposta nella cassetta degli attrezzi. Chissà cosa avrà pensato, il Mister. Io e Chiò ogni tanto ci incontravamo da quelle parti. Un giorno lei è sparita. Dov’è Chiò? Non si trova. Chissà dove si sarà nascosta.

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Trap Mi chiamo Trap. Sono caciarone e rumoroso. I miei antenati potevano forare le superfici in silenzio. Io invece per girare ho bisogno dell’elettricità. I tempi cambiano. La mia bocca che stringe la punta, ma non la mangia, si chiama mandrino, e per stringerlo bene e poi riaprirlo ci vuole una chiave particolare. Come sai, io faccio buchi. Dentro questi buchi ci vanno i tappi a espansione (quando entrano nel muro si allargano). Sorreggono le cose abbastanza pesanti. Chiodi non ne frequento. Chiò l’ho conosciuta un pomeriggio d’autunno. Il mio mandrino era tutto pieno di segatura, che si era bagnata non so per quale motivo. Gli utensili, ricordalo, vanno sempre tenuti bene, puliti e ordinati al loro posto. Li troverai più facilmente e funzioneranno a lungo. Il Mister ha preso quel chiodo tutto storto e me l’ha passato addosso, dentro e fuori il mandrino. Che sollievo ripulirsi! E che delicatezza quella punta di chiodo, non graffiava assolutamente. Era come uno spazzolino di seta. «Non farai più il chiodo, bellezza, storta come sei, ma sai essere comunque utile» ho detto mentre il mio mandrino si apriva come un fiore che stava sbocciando. Io e Chiò qualche giorno dopo ci siamo di nuovo incontrati. Mi ha fatto capire che si era stancata di essere un chiodo e basta. Tu lo prendi, un chiodo, e, tum tum, ci batti sopra il martello e il chiodo si conficca nel legno o nel muro e starà lì chissà per quanti anni.

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Un chiodo serve, certo che serve, anche se lo pianti una volta e lo lasci lì tutto il tempo che occorre. Serve perché sta lì, tranquillo, a non far cadere le cose o a non far staccare due legni che stanno insieme. Ma lei no, Chiò non ci voleva stare ferma, piantata in un solo punto. Desiderava essere utile anche per altre situazioni. Ma un chiodo che non “chioda” che chiodo è? Aspetta, aspetta, lo so, non esiste il verbo chiodare, è solo un giochetto con le parole. Cosa starà facendo Chiò adesso che non fa più il chiodo? Non lo so, da quella volta non l’ho più incontrata. E mi dispiace, sai, perché mi mancano le sue carezze che non graffiano.

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