Sandra Petrignani
elsina e il grande segreto con illustrazioni di Gianni De Conno
Introduzione di Franco Lorenzoni
Il Quaderno quadrone
Il Quaderno quadrone
Sandra Petrignani
elsina e il grande segreto con illustrazioni di Gianni De Conno Introduzione di Franco Lorenzoni
A Milo e alla nuova sorellina
la bambina che rubava le polpette ai fratelli per darle ai cani randagi Nella sua peregrinazione tra le grandi scrittrici, Sandra Petrignani non poteva non incrociare Elsa Morante. In questa fiaba lieve, tuttavia, non si indaga intorno ai misteri dell’ispirazione letteraria partendo dagli spazi della casa o dai paesaggi abitati da chi scrive, ma si evoca un abitare più profondo che non ci abbandona mai, perché ciò che accade nell’infanzia continua ad abitarci nei modi più imprevisti per tutta la vita. La forma della fiaba nasconde qui una storia di vita realmente vissuta come forse tutte le fiabe, anche le più crudeli e apparentemente irreali, radicate all’origine in corpi e ferite concrete, da cui scaturirono parole passate poi di bocca in bocca. Mostri orribili popolano infatti da sempre il nostro mondo e lo affliggono, come il drago dell’irrealtà evocato da Elsa Morante nel 1965 a proposito della bomba atomica e della televisione, oggetto domestico che, per primo, tolse all’addormentamento della più parte dei bambini la consolazione di una parola viva che narra nel buio, accompagnando il passaggio delicatissimo dalla veglia al sonno. La differenza è che il corpo che è all’origine di questa storia ha un nome e cognome, perché in queste pagine si narra della singolare e sofferta esperienza del vivere la propria infanzia tra una madre e due padri di Elsa Morante bambina, della piccola Elsina, e delle sue passioni visionarie e del suo spirito ribelle. C’è dunque un generoso tentativo di restituire a bambine e bambini
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ciò che di diritto appartiene loro, perché Elsa Morante ha dedicato all’anarchia e alla libertà dell’infanzia pagine memorabili, a partire dal meraviglioso Pazzariello de Il mondo salvato dai ragazzini, che sotto l’ascella aveva i riccetti a forma di stella e dichiarava d’esser nato dallo sposalizio di un’asina con un chicco di grandine. Tanti temi si affollano in queste pagine: la relazione speciale tra una bambina e gli animali randagi e la mancanza di rispetto di troppi adulti verso il talento infantile, a volte esibito senza tener conto della sensibilità di chi lo possiede, insieme alle difficoltà in cui si trovano a volte i bambini di fronte ai guazzabugli creati dalle scelte dei loro genitori. Qui ci sono tre figli, una madre e due padri, condizione sempre più frequente oggi, ma qui vissuta in modo semiclandestino, perché siamo negli anni Venti del secolo scorso. Intorno al grande segreto della bizzarra composizione familiare Elsina si arrovella, ragiona, rivela frammenti ai suoi fratelli e infine cerca di trarne giovamento, a modo suo. Ma c’è forse un altro grande segreto inseguito dall’autrice: quello che porta a domandarci da dove nasca l’ispirazione letteraria. Quali ferite rendano i più sensibili così incapaci di sopportare le sghembature del mondo da lavorare per farne arte, poesia. Auguro alle bambine e ai bambini, che si divertiranno ad ascoltare le stramberie della piccola Elisina, di incuriosirsi tanto al personaggio da andare un giorno a cercare le parole di Elsa grande, grandissima, grazie a questo piccolo dono di Sandra Petrignani. Franco Lorenzoni
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Elsina e il grande segreto
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hi bambine, ehi bambini, sedetevi un po’ intorno a me. C’è una storia che vi voglio raccontare. Vi voglio raccontare di una scrittrice, di quando era piccola. Poi da grande è diventata grande grande, nel senso che ha scritto tanti libri e così belli che molta gente li ha letti dal principio alla fine e tutti nel mondo hanno conosciuto il suo nome. Ma ora io vi voglio raccontare cosa faceva da piccola, perché Elsa, così si chiamava, era una bambina speciale. Mi spiego meglio: non era speciale perché fosse tanto brava e buona e ubbidiente e cose così. Proprio no, tutto il contrario. Era un po’ cattivella, e certe volte era veramente pestifera. Era pestifera perché si sentiva sempre un po’ arrabbiata. Lei non lo sapeva spiegare perché si sentiva arrabbiata. E nemmeno i grandi lo sapevano spiegare. Dicevano: «Come mai questa bambina così sensibile è sempre un po’ arrabbiata? Questa bambina dolcissima con gli animali che con noi, invece, in famiglia, si rivolta come un animaletto ferito.» Infatti Elsa, se vedeva un cane randagio, subito doveva correre ad accarezzarlo, anche se era sporco e puzzava, e subito doveva dargli da mangiare e correva in cucina e apriva la credenza e rubava la carne del pranzo magari, o i biscotti, o quel che trovava. E se le dicevano «Attenta, Elsina, che i cani mordono» lei subito rispondeva alzando le spalle:
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«A me i cani non mi mordono.» Sapeva benissimo che “a me mi” non si dice, ma voleva proprio fare arrabbiare sua madre, che si chiamava Irma Poggibonsi e faceva la maestra. E se le dicevano: «Attenta, Elsina, non li toccare, perché sono malati e puzzano e ti prendi una malattia» lei diceva sdegnata: «Puzzate voi!» Così i cani, quando la vedevano, agitavano felici la coda per dirle «Ciao, come stai?» e le leccavano le manine e mangiavano le polpettine che Elsa rubava in casa. E quando Irma Poggibonsi cercava le polpette e non le trovava e si metteva a gridare «Elsina, hai dato di nuovo il mangiare ai cani?» Elsina faceva una faccia buffa e arrabbiata, ma così arrabbiata e buffa che la madre scoppiava a ridere e, siccome anche lei voleva bene agli animali, soprattutto ai randagi, scoppiava a ridere un’altra volta e annunciava agli altri della famiglia «Anche oggi Elsina ha dato il mangiare ai cani e noi siamo senza mangiare.» E allora i fratellini di Elsa, che si chiamavano Aldo e Marcello, si mettevano a piangere e gridavano contro la madre. «Tu vuoi bene solo a Elsina. A noi non t’importa se non ci dai da mangiare.» «Ma voi mangiate tutti i giorni» li consolava Irma. «I cani mangiano solo quando Elsa trova qualcosa per loro!» E, sapete, non era vero che Aldo e Marcello restavano senza mangiare. Non era mai successo. Magari nel giorno dei cani non mangiavano le polpette, che piacevano tanto a tutti, ma subito Irma Poggibonsi trovava qualcos’altro da mettere in tavola: la pastasciutta, una frittata, del formaggio. Perché non erano ricchi in casa Morante – di cognome si chiamavano così – ma non erano nemmeno poveri poveri e qualcosa
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da mangiare c’era sempre per tutti. Lavorava il padre Augusto, lavorava la mamma Irma e lavorava lo zio, che si chiamava Ciccio Lo Monaco e quando stava da loro, cioè abbastanza spesso, dormiva sul divano in salotto perché altre stanze e altri letti non c’erano in casa Morante. Anche a Elsina piacevano molto le polpette di Irma Poggibonsi, ma lei era fatta così, che se vedeva uno straccione nella via o un cane affamato o un gattino disperso, non poteva, proprio non poteva fare finta di niente e quando un fratello o tutti e due le dicevano «Lavati le mani che puzzano di cane» lei faceva la faccia arrabbiatissima e rispondeva: «Puzzi tu!» e all’altro fratello: «E puzzi anche tu.» «Tu puzzi di più!» rispondevano in coro quelli e non la finivano mai con questa storia delle puzze e poi tutti e tre se le davano di santa ragione e siccome Elsa era la più grande, che quando lei aveva otto anni, per dire, Aldo ne aveva sei e Marcello quattro, succedeva che vinceva sempre lei, anche se lei era una e Aldo e Marcello erano due. Ma Elsa era forte e cacciava urli che facevano paura e Marcellino scappava a nascondersi dietro l’armadio o sotto il letto e così tutte le botte di Elsa se le prendeva il povero Aldo.
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Un giorno Elsina trovò una gattina che, se le toccavi il pancino, faceva subito una pernacchina. Andò da Marcello e gli disse: «Vuoi del profumo? Eccolo qui» e gli accostò al naso la coda della micina stringendole il pancino e quella subito fece la bombardina, e poi Elsa andò anche da Aldo: «Vuoi del profumo? Eccolo qui» e via di nuovo un’altra puzzettina e tutti gridavano e si rincorrevano intorno al tavolo, i fratelli contro Elsina, Elsina contro i fratelli, Irma Poggibonsi contro tutti. E poi arrivarono Augusto e Ciccio e gridarono «Basta, fate silenzio.» E tutti si fermarono e Elsina venne su a domandare: «E perché dobbiamo fare silenzio?» E quelli insieme: «Perché lo dice il papà!» e non si capiva se lo zio Ciccio voleva spalleggiare Augusto o se si era confuso prendendo se stesso per il papà, perché aveva detto «lo dice il papà» proprio come se il papà fosse lui.
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E insomma chi era il papà? Non si capiva tanto bene, visto che le decisioni sui bambini le prendeva più Ciccio Lo Monaco che Augusto Morante, e con i bambini ci giocava di più lui e in fondo i bambini ubbidivano più a Ciccio che ad Augusto. Ma Aldo e Marcello non ci facevano caso e a Elsina in fondo non importava un bel nulla di sapere se a lei era toccato un padre solo o due e chi dei due fosse davvero suo padre.
A Elsina importava diventare una grande scrittrice e scriveva e scriveva e inventava e inventava. Cosa inventava? Le fiabe! Inventava straordinarie avventure di Maghi, Sultani e Gran Capitani. Si affacciava dal ponte e guardava il fiume, che si chiamava Tevere, e si chiama ancora così perché è sempre lì, è il fiume di Roma, e non è celeste e nemmeno blu, è giallo, ed è per questo che i romani dicono che è Biondo. Elsina, veramente, lo vedeva marroncino: «Macché biondo e biondo, è color cacchetta sciolta e puzzolente» pensava. Ma pazienza, era il suo fiume e su quel fiume con l’immaginazione faceva andare le barche, e sulle barche ci metteva streghe e fate e principi e principesse e un signore negro che aveva chiamato signor Negretti, e una bambola di pezza di nome Alba con le sue amiche bambolone e bamboline, e gatti e cani parlanti e tanti altri animali come sull’Arca di Noè. Si parte, si parte signori, distintissimi viaggiatori, cantavano insieme i suoi personaggi. Arriveremo al castello della regina Marmotta e del principe Marmottino, dove c’è un baldacchino, e andavano e andavano sul fiume. Aveva due anni e mezzo Elsina quando compose la prima poesia che cominciava così: Senti mammina, disse Celestina… e continuava più o meno così: Devi farmi un manto d’oro, che raggiungo il mio Tesoro. È il Tesoro un cavaliere, che mi vuole rivedere. Allora Irma Poggibonsi l’aveva issata sul tavolo in mezzo alla stanza e aveva chiamato tutti quelli di casa, e pure i vicini.
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«Sentite sentite che genio è la mia bambina» diceva, e costringeva Elsina a ripetere la canzoncina, finché Elsina non ne poteva più e voleva scendere e si arrabbiava perché non capiva cosa avevano tutti da applaudire e gridare al miracolo. E si era messa a piangere finché le era stato dato un dolcetto insieme a un mucchio di baci e le giurarono che Bambina Prodigio non glielo dicevano più. Ma i grandi fanno le promesse e poi si dimenticano di mantenerle. E questa storia della Bambina Prodigio non era per niente finita lì. Quando cominciò ad andare a scuola, anche la maestra prese subito a dire che lei era una Bambina Prodigio! E la metteva in mezzo alla classe e le faceva recitare le sue poesie. Elsina si sentiva lusingata, però vedeva lampi di odio negli occhi delle compagne. Lei declamava: Lo zio è ritornato. O che gran piacere per me è rivedere lo zio tanto amato e la bambina dell’ultimo banco le faceva marameo con la mano a trombetta. Lei recitava: Leggo scrivo salto canto e mi piace disegnare. Gioco molto ed ogni tanto i miei libri vo a cercare e la compagnuccia del primo banco faceva finta di cascare addormentata.
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Ecco perché Elsina era sempre arrabbiata! In che guaio la mettevano i grandi rendendola antipatica a tutta la classe. Finiva che a ricreazione