Romana Petri
devo scegliere chi sognerà per me Illustrazioni Fabio Delvò Introduzione Massimo De Nardo
Il Quaderno quadrone
Romana Petri
devo scegliere chi sognerà per me Illustrazioni Fabio Delvò Introduzione Massimo De Nardo
il cielo appoggiato al mare Jack è un bambino irrequieto e curioso. Ogni volta che si siede davanti al mare pensa: “Il mare è come me. Non sta mai fermo”. Nelle fresche e nebbiose sere d’estate se ne sta sulla spiaggia fino a tardi. Cerca le avventure più incredibili e subito le trova. Sono lì, nel cielo appoggiato al mare, e nel mare che sostiene il cielo. La fantasia fa così: trasforma l’orizzonte in un atlante geografico, le nuvole in persone, le onde in un transatlantico, la paura in un abbraccio. La fantasia di Jack fa così. Ha solo nove anni, Jack. E parole che incantano. Nei suoi sogni, tutte le notti entra un cane, Buck. Gli racconta le sue zuffe con la lince, con l’orso. Lui li sconfigge sempre. È il più forte, Buck, ma al suo giovane amico dice che c’è sempre qualcuno più forte di noi, e se così non fosse non esisterebbe il coraggio. Romana Petri una sola volta ci dice qual è il cognome di Jack: London. È il cognome del patrigno, un uomo per bene, affettuoso. Quando ha sposato Flora Wellman, la mamma di Jack, è vedovo e con due figlie. Il vero padre di Jack (anche se con lui la parola padre è fuori luogo), un irlandese che si chiamava William e faceva l’astrologo vagabondo, se n’è andato via quasi subito. Le sue stelle erano ingannatrici. Flora Wellman l’ha scoperto tardi, ma poi ci ha sorriso su. Una sola volta il cognome London. Ha fatto bene Romana Petri a chiamarlo Jack e basta, perché qui il protagonista è un bambino di nove anni – che ci è caro – che nel sonno parla con un cane straordinario. Jack si porta appresso i sogni anche durante il giorno, e ha paura che poi i sogni se ne andranno e con loro anche il suo amico a quattro zampe. Questo cane incredibile dovrà scegliere “il ragazzino giusto, aspettare che diventi uomo”: sarà lui a sognare al suo posto. Jack capisce che ce ne sono altri, di bambini, che Buck dovrà cercare. E, infatti, per un po’ il cane sparisce. Questa mancanza è disorientante, Jack non ha più desiderio di nulla, tant’è che decide di non
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continuare la scuola, e vuole mettersi a lavorare. «Per pensare ad altro» dice alla madre. La sua è una delusione, ma anche una illusione. Però Jack non ne conosce la differenza. «Una delusione è una cosa che aspettavamo e non è successa. Un’illusione è una cosa che non è successa perché l’abbiamo immaginata» gli spiega la mamma. Normale, in quei tempi, andare a lavorare che non hai ancora dieci anni. Fa lo strillone, Jack, vende giornali per strada (gli stessi giornali che poi parleranno dei suoi romanzi). La mancanza diventa nostalgia. Siccome la nostalgia è desiderio, ecco che Buck ritorna. Ha scelto chi sognerà per lui. Devo scegliere chi sognerà per me è il primo racconto per ragazzi di Romana Petri. Ha colto perfettamente le intenzioni di un bambino di nove anni, che però è Jack e sarà Jack London. Ha fatto muovere il piccolo protagonista in territori fantastici, che servono da proscenio al futuro scrittore, mescolando con bravura i tempi delle storie reali con quelli del racconto, cucendo il passato al presente e tutti e due al futuro. Questo racconto coinvolge noi lettori anche quando ci sarà da attraversare luoghi costruiti sul mare, strade di grandi città, cieli di notte. Le illustrazioni di Fabio Delvò sono tutte da ingrandire. Ci sarebbe da appenderle alle pareti di una piccola camera, dentro la quale dorme un bambino di nove anni. I sogni, appena ti svegli, te li ritrovi ancora nella testa, e se poi sono belli vorresti trattenerli, e succede pure che per riacchiapparli ti metti di nuovo a dormire. Conviene allora averli lì, appesi ad una parete, davanti agli occhi. Serve a questo la scrittura. Servono a questo le illustrazioni. Ci verrà certo voglia di andarlo a cercare, il piccolo Jack che si è fatto grande scrittore. Massimo De Nardo 3
A Gaia, amica di Osac
devo scegliere chi sognerà per me
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uella sera, dopo cena, Flora Wellman si asciugò le mani sul grembiule dopo aver lavato i piatti. Scostando la tenda della cucina guardò fuori. C’era una serata ventosa a San Francisco. Le nuvole correvano veloci nel cielo e le fecero tornare in mente William, quell’astrologo vagabondo, quell’irlandese che le aveva dato un figlio per scomparire subito dopo dalla sua vita. Ma poi si voltò a guardare John, quel buon coltivatore, vedovo e con due figlie, che l’aveva sposata adottando anche il suo bambino, Jack, che ormai portava il cognome del patrigno: London. Jack era un bambino irrequieto e curioso. Gli piaceva il mare. Appena poteva, usciva di casa e andava a sedersi sulla sabbia, sceglieva l’ultimo punto ancora asciutto, ad almeno una cinquantina di centimetri da dove finivano le onde, e restava lì a guardare il mare, che per lui era un panorama sempre diverso. “Il mare è come me” pensava “non sta mai fermo”. E quando se lo ripeteva a bassa voce si sentiva come trascinato via. Vi è mai capitato? Bisogna chiudere gli occhi e mettersi in ascolto. È il linguaggio del sangue, cambia a seconda di come ci scorre veloce dentro. Per lui era come un motore. Quando sentiva che si accendeva, sapeva bene come andava a finire. A un certo punto partiva un acceleratore che nessuno sembrava aver nemmeno toccato e partiva anche Jack. Veniva spinto lontanissimo dalla forza della sua grande fantasia. Una fantasia avventurosa, come quella di molti altri alla sua età. Ma la sua era anche prodigiosa. Ragazzi, se vi fosse concesso di entrare per un momento nella sua testa, ve lo garantisco, sarebbe come salire sulle montagne russe.
I suoi erano pensieri che gli creavano un gran traffico. Ne cominciava uno e non riusciva mai a finirlo perché gliene arrivava subito un altro che ne prendeva il posto. Era capace di andare avanti così per ore di fronte all’Oceano, soprattutto nelle estati fresche e nebbiose che alle sue fantasie davano ancora più ispirazione. “Vuoi mettere?” diceva tra sé “dalla nebbia di mare può venir fuori qualsiasi cosa”. «Jack!» lo chiamò sua madre quella sera spalancando la finestra. «Jack! Torna a casa, è ora di andare a dormire». Ma la voce le tornava indietro spinta dal controvento. E così Flora dovette mettersi addosso uno scialle e andare a prenderlo. «Siediti un po’ qui con me» le disse Jack guardandola con i suoi occhi di un azzurro chiarissimo, proprio come il mare quando lo domina un cielo senza colore. A Flora piacevano gli occhi di suo figlio, diceva che erano “voraginosi”, perché davvero a guardarli si sentiva come invogliata a farci un tuffo dentro. Ce ne dovevano essere parecchie di cose negli occhi di suo figlio. «Jack, si è alzato troppo vento. Rientriamo». «Ancora un po’» disse lui stringendole la mano. «Guarda quanto futuro, mamma». A Flora Wellman si bagnarono un po’ gli occhi. Mica lo capiva sempre quel suo figliolo. Però la commuoveva. E sapete cosa la commuoveva tanto? Il fatto che fosse un microbo davanti all’universo mondo, proprio come tutti, certo, ma che lui, a parer suo, non solo non lo sapeva, ma non lo avrebbe mai saputo. C’era una forza in quella testolina… «Quanta forza hai qui dentro?» gli chiese accarezzandogli i capelli freschi. «Nella testa non ci sono i muscoli» le rispose Jack. Si alzarono, si scrollarono a vicenda la sabbia dai vestiti e si avviarono verso casa. Flora gli teneva la testa pigiata contro il fianco. Si sentì molto felice e avventurosa. Rientrando pensò: “Accidenti, anche solo
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immaginare di farci un tuffo in quella testa…” e scoppiò a ridere. «Che c’è da ridere?» le chiese John alzando gli occhi dal giornale. «Il vento fresco» rispose lei cominciando a far ridere anche Jack. Madre e figlio avevano gli occhi dello stesso colore. Quella sera, mentre gli rimboccava le coperte, Jack la prese per un braccio e la tirò vicino a sé. «Devo dirti una cosa». «Ti ascolto» rispose lei con gli occhi che le brillavano di curiosità. «Ti ricordi quando non volevo mai andare a dormire?». «Me lo ricordo sì. Certe storie…». «E non ti sei accorta che da un po’ di tempo non ne faccio più?». «Beh, sei cresciuto, Jack. Hai quasi nove anni». «Non c’entra per nulla. È che la notte faccio un sogno». «Sempre lo stesso?». «No, ne faccio diversi. Ma i protagonisti non cambiano mai». «E chi sono?». «Io e un enorme cane». «E com’è?». «Coraggiosissimo. Un eroe, mamma. Con uno come lui non ti può accadere niente». «Lo immagino. Se è grande e forte… Ma ora dormi, eh!». Spense la luce e uscì dalla stanza. Ma tornò subito indietro, aprì la porta e gli chiese: «Gliel’hai dato un nome a questo cane?». «Non gliel’ho dato io. Ce l’ha di suo». «E come si chiama?». «Si chiama Buck».
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A Jack bastò chiudere gli occhi per sentirne subito il fiato caldo. Tutto intorno c’era solo neve. E nel cielo tantissime stelle, che davano alle ombre un colore bluastro. «Cosa ci aspetta stanotte?» gli chiese Jack. «Una lotta con la lince» gli rispose Buck. «Te la mangerai in un boccone». «Tu non sai com’è agile una lince. Alla moglie di Kazan…». «Chi è?». «Un cane amico mio». «E cosa fecero a sua moglie?». «Quando Kazan se ne stava in giro a cercare cibo per lei e i suoi piccoli…». «Come si chiamava lei?». «Lupa Grigia. Ma non interrompermi in continuazione. Insomma, mentre lui era fuori, arrivò una lince affamata che voleva divorare i cuccioli». «E Lupa Grigia?». «Li ha difesi, i suoi cuccioli. La lince non è riuscita a toccarne nessuno». «L’ha uccisa?». «Sì. Ma Lupa Grigia ci ha rimesso gli occhi. È diventata cieca. Avresti dovuto vederli, lei e Kazan. Era lui a guidarla, sai. Quando dovevano saltare un burrone, lo faceva lui per primo. Lei tirava su le orecchie e in questo modo calcolava la lunghezza del salto. E poi gli saltava dietro. Non si è mai sbagliata». «E questa lince che ci aspetta cosa vuole da noi?». «Beh, tu sei ancora un cucciolo…». Jack rabbrividì ma non disse nulla. L’eccitazione era più forte dello spavento. Che nottata avrebbero avuto. E che straordinario cane era Buck. Enorme, forte, un intrepido. “Ecco” pensò “se non avesse già un nome…”. Ma poi scosse la testa. No, non poteva chiamarsi in nessun altro modo.
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