Documentario fotografico sulla psichiatria

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Fotografie di Gin Angri Progetto poetico di Mauro Fogliaresi

Le stagioni del San Martino Documentario fotografico sulla psichiatria


Grafiche Lambro

Amministrazione Provinciale di Como Assessorato alla cultura

Associazione Nazionale Costruttori Edili Como

Fotografie Progetto Redazione Grafica Stampa

Gin Angri Mauro Fogliaresi Giovanna Galeazzi Tomaso Baj Grafiche Lambro

Luoghi Non Comuni

ASL - Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Como

Associazione Nessuno è Perfetto

Grafici Senza Frontiere

Azienda Ospedaliera Sant’Anna - Como

Confederazione Nazionale dell’Artigianato

Ringraziamo: Marina, Claudia, Silvia, Matilde, Pinuccia, Sandro, Andrea, Christiane Colombo, Alberto Bergna, dott.sa Ramponi, dott. Cetti, dott.sa Kauffmann, dott. Mastroeni, Lele Rovelli e Ugo Ambroggio - Studio Aleph, gli amici del Nep. Un ringraziamento particolare ad Angela Corengia e a Grafiche Lambro.

Casa Editrice Marna s.c. Via Santuario, 5 - 23890 Barzago (LC) tel. 031.874415 - fax 031.874417 marna@marna.it www.marna.it

I edizione luglio 2008

© 2008, Casa Editrice Marna


Ai nascosti sempre

e, naturalmente, a Grazia



Le cartelle dell’archivio storico, le immagini dei momenti della chiusura definitiva del manicomio, l’attualità delle comunità sul territorio: queste le tre sezioni di Le stagioni del San Martino. Testimonianze da un luogo di sofferenze senza tempo ed età, un luogo/non luogo, territorio senza confini. Alle emozioni suscitate dalle fotografie di Gin Angri e agli spunti poetici di Mauro Fogliaresi, si aggiungono riflessioni sociologiche, sguardi in prospettiva futura e, soprattutto, i resoconti delle esperienze che in questi lunghi decenni hanno visto convivere ‘matti’ e cittadini della città ‘normale’. Un volume che ci porta in un mondo, un tempo recluso, per restituirci la consapevolezza di un aprirsi verso gli altri ricco e confortante. Le stagioni del San Martino: un libro che mai smetterà di pulsare nella memoria storica, nell’anima sociale e civile di un’intera città. L’editore



Il segno poetico di un’inconsolabile carezza fotografica Alla voce: “Archivio del Manicomio e…” Toccanti testimonianze

Quarantaduemila cartelle riposavano in lunghi corridoi anonimi. Ogni cartella un malato, una storia, un libro, un film dimenticato da raccontare. Passavo a Gin i faldoni sperando di ritrovare le briciole di tanti ‘innocenti Pollicini’ senza sentiero di guarigione: l’idea consolante di un ‘normale’ ritorno a casa. Il segno dovuto di una resurrezione riparatrice. “Un’anima. Ridategli l’anima!” Le mie mani nel voltare di pagina diventavano carezze polverose aggiunte ad altre carezze senza età. Immagini inconsolabili con aura argentata di una sospensione nel tempo dolorosissima. Ad ogni scatto fotografico di Gin si compiva una sorta di respirazione bocca a bocca, di rianimazione in vita. “Il pudore è in quell’istinto fotografico pulito!” mi ripetevo. Cercavo nell’arte di Angri la certezza che non avremmo infranto l’intimità di quel fragilissimo patto del cuore con quelle anime perse in cartelle e cartelle di diagnosi e supplizi. E mentre il fotografo scattava con riguardo: “Le parole, che senso avevano in quell’attimo le parole?” Inadeguate. Che ci faceva un poeta lì? Nessuna poesia avrebbe mai potuto ridare il senso di tanti abbracci mancati, di ambigui ricoveri in odore di miseria, di lettere che ancora aspettavano una partenza… all’insaputa del mittente mai spedite… che risposta mai ci sarebbe stata ora?


“Persino gli acari della polvere tossivano imbarazzati”

In quel corridoio eterno ad aprirsi in faldoni e faldoni come scatole cinesi si chiudeva nel petto l’irrespirabile senso di incolmabili dimenticanze. Io e Gin, poeta e fotografo, eravamo la più aritmica extrasistole in un unico cuore/tango/corridoio straziato violato inconsolabile. In un silenzio così silenzio che… assordante… persino gli acari della polvere tossivano imbarazzati. Storie di traditi e tradimenti. Ancora danzava alla voce ‘tracce di demonologia’ il sospeso delirio di Odette ballerina a Lione finita nel manicomio di Como nel segno del tradimento del suo amante coreografo falso e ingannatore. Gavino dal Gennargentu non contava le pecore per addormentarsi, ma ne rubò una dal gregge del pastore vicino e per questo punito, mandato al fronte del Piave, avendo in odio le armi e la guerra, disertò, e in quella colpa ora riposa, pazzo, senza pace tra le cartelle… le troppe carte dell’ex manicomio San Martino. In quelle cartelle d’archivio in tanto inchiostro intriso di perentorie sentenze, di colpe, di violenze morali e fisiche... l’inchiostro inquisisce…’le macchie’… le macchie… ‘offesa oltraggio pena peccato’... le macchie di… …Aspettando un’immensa carta assorbente di un qualunque, fosse anche l’ultimo, Dio. Mauro Fogliaresi


“Quante parole inutili per recuperare il silenzio�


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“Un silenzio interrotto è come una parola maldetta”


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“Non parlare, stai in silenzio che ti tocco i capelli�


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“Il silenzio è la fine”

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Le frasi dei ‘matti’ dal Laboratorio del Bosco delle Parole Dimenticate “Che senso ha la loro vita se poi vengono dimenticate?”

“Vorrei sognare di contare le pecore per poter dormire”

“Le parole sono uomini sono donne le parole”

“Il silenzio è un modo di fare rumore”

“A San Martino nel bosco delle betulle sulla pelle degli alberi le parole dimenticate urlano silenzio!!”

“La mia mente è come l’usuraio e il suo debitore”

“Quando pensi al silenzio si sta bene quando si va al bar si beve il caffè e il vino”

“Non c’è lamento che possa alleggerire il dolore non c’è urlo che possa svuotare silenzio amore solo il silenzio che parla dal profondo”

“La parola travolge il silenzio e il silenzio avvolge la parola”

“Dio esagera col silenzio l’uomo con la parola”


“Questa terra è silente come il gemito del suo demente”

“Il silenzio è un sogno decomposto”

“Ascolta… il silenzio”

“Per tante parole al vento un minuto di silenzio”

“Il silenzio per me è un grande tesoro che io custodisco nel mio cuore”

“Il silenzio è un nodo al fazzoletto per ricordare le parole più belle. In silenzio camminai per andare a caccia In silenzio sto male ma non dico agli altri la mia sofferenza. In silenzio ascolto i gabbiani In silenzio dormo In silenzio cammino fra le Langhe In silenzio disegno i paesaggi In silenzio cammino fra le strade In silenzio sogno In silenzio dormo e riposo In silenzio ammiro il mare In silenzio dormo e sogno cose bellissime In silenzio pesco A me piace camminare Ammiro Gianni Io credo in Dio”

“La parola è di tutti il silenzio è nero” “Il silenzio è oro - i casinisti” “Il silenzio è un po’ inquietante sintomo di pericolo incombente”

“Dalla A alla Z... il silenzio…”

“Parole dette parole sentite parole ascoltate da un cuore ovattato nella morbida coltre del silenzio”


“Chi parla è ascoltato chi tace è ben voluto”

“Il silenzio è la preistoria dicendo una parola è già una scoperta”

“Vivere in silenzio è ascoltare la voce del dolore”

“Una parola nel mare del silenzio tante parole nel mare del silenzio... una poesia”

“Il lavoro - l’esistenza – l’essere - la fame - la sete - l’avventura - il rifugio - il silenzio è oro l’educazione fisica... Risposta = !??”

“Il silenzio è come il mondo senza vita la parola è come il vento che soffia nel cielo”

“Il silenzio è un mare senza pesci” “Comete parlanti siamo” “Il silenzio è come un fiore senza petali la parola è come una città in festa” “Anche se le nostre presenze non si incontrano che le nostre anime si possano unire al di là di tutto perché libere da ogni vincolo”

“Il silenzio è un esercizio brillante”

“Come Ruvidi Turisti”

“Il silenzio sono gli occhiali la parola è una lente”


“Le parole rincorrono il silenzio e quando lo raggiungono muoiono”

“Sono un legno silenzioso… sssssssttttttttt”

“Il silenzio è una cosa che se te la fai scappare non la riprendi più”

“Il silenzio è come Pisolo la parola è come Brontolo”

“La parola è come un ragno che tesse la sua ragnatela il silenzio è l’ape che ci finisce dentro”

“Il silenzio è scoppiettante quando lo fermi ti sembra di non essere mai stato lì”

“Ho imparato a memoria una parola: taceretaceretaceretaceretaceretaceretacereacerecereerere…”

“Il silenzio è un parlare senza finzioni”

“La pioggia cancella le parole perché vuole essere lei a disturbare il silenzio”

“Il silenzio è come l’orologio che ticchetta, ma il dong è una parola, due dong sono due parole e così via…”


Cenni storici sul San Martino Nel 1857 il sovraffollamento nell’Istituto della Senavra di Milano, unico per tutto il Dominio Lombardo, determinò la necessità di provvedere alla definitiva sistemazione dei malati della provincia di Como. La scelta della località d’ubicazione del nuovo manicomio e l’onere finanziario alimentarono un intenso dibattito. L’Ufficio Tecnico Provinciale propose un tratto di terreno presso Camerlata, compreso tra l’affluente del fiume Aperto, la strada Canturina e quella comunale di Bernate; tale proposta non ebbe seguito, come del resto quella seguente che ne prevedeva la costruzione su terreno annesso all’Ospedale Sant’Anna. Il 15 agosto 1870 fu operata la scelta definitiva: l’area, di circa 300.000 mq, presentava come vantaggio l’altitudine, la presenza di un corso d’acqua perenne, il facile accesso alla strada provinciale per Lecco, il suo quasi isolamento dai centri abitati, la vicinanza della città. Il progetto fu approntato secondo la tipologia a padiglioni, già adottata nella recente realizzazione del Manicomio di Imola e rispondente alle più moderne concezioni della scienza psichiatrica. “Tale istituto si prestava infatti sia all’assistenza che al ricovero e permetteva inoltre condizioni di vita simili a quelle riscontrabili in un piccolo villaggio, con possibilità di lavoro in piccoli opifici o in fattorie agricole, facenti parte esse stesse del complesso manicomiale.“ (F. Gerosa, Malati e malattie nell’ospedale psichiatrico di Como. 1882-1892, Graficop, Como, 1992) Il manicomio era costituito dai nove fabbricati centrali tuttora esistenti. Di tali padiglioni, simmetricamente distribuiti, i tre laterali a destra erano adibiti alla sezione femminile, quelli a sinistra alla sezione maschile; di quelli centrali, nel primo trovavano posto gli uffici, le abitazioni del direttore e dell’economo e la biblioteca, nel secondo la cucina, nel terzo il guardaroba e la lavanderia; i padiglioni erano uniti fra loro per mezzo di portici e tettoie. Il 28 di giugno del 1882, iniziò il trasferimento dei malati dal Civico Ospedale di Como, poi dalla Senavra di Milano; il 31 dicembre dello stesso anno il numero dei ricoverati ammontava a 456 per poi triplicarsi nel corso del cinquantennio successivo. L’aumento progressivo del numero dei malati e le nuove esigenze manicomiali resero necessarie modifiche ai padiglioni esistenti, la costruzione di nuovi padiglioni, l’istituzione di nuovi laboratori e di una colonia agricola. Infatti, oltre alle cure mediche, psicoterapiche, idroterapiche, elettroterapiche, ecc. venne dato impulso all’ergoterapia, ovvero al lavoro come metodologia terapeutica. Nel 1929 i lavoratori si distinguevano nelle seguenti categorie: “cucinieri, addetti alla coniglicoltura, calzettaie, calzolai, cucitrici, carrettieri, dispensieri, fabbri, falegnami, addetti al guardaroba, imbianchini, lavandaie, manovali, muratori, materassai, meccanici, falciatori, ortolani, fornai, addette

alla pollicoltura, sarti, scrivani, stallieri, addetti alla suinicoltura, terrazzieri, addetti alle mansioni interne dei reparti...” Le attività terapeutiche seguirono poi l’evoluzione della dottrina medica. L’istituto continuò ad operare nel dopoguerra fino a quando nel 1978, a seguito della Legge 180, cessò di esistere in quanto ospedale psichiatrico e si aggiunse agli altri presidi sanitari che costituivano l’Unità Socio Sanitaria Locale di Como. Alle soglie del duemila è avvenuta la dimissione degli ultimi degenti. Luigi Fara Associazione Luoghi Non Comuni

L’archivio storico “È impossibile decidere che un certo fatto è storico, mentre un altro merita l’oblio, perché ogni fatto appartiene ad una serie determinata e la sua importanza è valutabile soltanto all’interno della sua serie.“ P. Veyne, Come si scrive la storia “La cartella clinica può essere usata anche come punto di partenza per studiare le relazioni tra individuo, famiglia, società, istituzioni, superando in questa maniera la vicenda deviante/internamento e dando la possibilità di quantificare il malessere sociale, i meccanismi esistenziali, le stratificazioni culturali dei gruppi marginali e delle istituzioni che di loro si occupano con le forme di controllo, di repressione e di terapia. Non si deve infatti dimenticare che spesso la cartella clinica non è soltanto un’annotazione di segni psichiatrici, ma diventa un contenitore di atti e di documenti esterni all’osservazione medica: in essa infatti vengono raccolti gli eventuali atti processuali in cui il paziente è stato, è o dovrà essere coinvolto, le cronache giornalistiche che si sono occupate di lui e, infine, i suoi stessi scritti autografi prodotti in manicomio (lettere, memorie, diari ecc.)“ (P. Sorcinelli, Il quotidiano e i sentimenti. Viaggio nella storia sociale, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 96) Ecco nelle parole che abbiamo appena riportato l’importanza di quella autentica miniera costituita dalle decine, centinaia, migliaia, decine di migliaia di cartelle cliniche, per essere più precisi dalle circa 42.000 cartelle cliniche contenute nell’Archivio storico di quello che inizialmente era il Manicomio provinciale di Como e poi a partire dagli anni ’30 assume la denominazione di Ospedale Psichiatrico Provinciale. Le cartelle sono raccolte in circa 1600 faldoni divisi per uomini dimessi e morti, donne dimesse e morte; anno per anno per oltre un secolo a partire dal 1882, anno dell’apertura del manicomio di Como (i battenti aprirono esattamente il 28 di giugno), fino al 1999 quando se ne vanno dalla collina di San Martino gli ultimi ricoverati dell’ex OPP. Come abbiamo detto si tratta di una vera miniera di storie irriducibili ed irripetibili a qualunque fredda e razionalisti-

ca classificazione psichiatrica, classificazione che pure ha operato indelebilmente sulle anime e sui corpi dell’enorme numero di uomini e di donne che sono passati attraverso il manicomio comasco e i cui segni, recanti l’autorità e ufficialità della scienza, sono rimasti tracciati nelle storie mediche che componevano le cartelle cliniche redatte per ogni paziente; cartelle che si articolavano nelle seguenti diverse sezioni: diagnosi, anamnesi, esame fisico (con i cosiddetti dati antropometrici e le misure craniche e facciali), esami di laboratorio, esame psichico, diario. Al di là delle asettiche classificazioni nosografiche, quello che troviamo nell’Archivio storico del manicomio di Como, per dirla col grande filosofo francese studioso della follia Michel Foucault, “è un’antologia di esistenze. Vite di qualunque linea o di qualunque pagina, delle disgrazie e delle avventure senza nome, rimaste in un pugno di parole. Vite brevi, incontrate per caso nei libri e nei documenti“. (La vita degli uomini infami in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, Vol. 2 1971–1977, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, p. 245) Ricordiamo che la cartella clinica diventa a partire dalla metà dell’800 il documento simbolo della medicalizzazione della follia iniziata dopo la Rivoluzione francese quando nascono in Europa la scienza psichiatrica e l’istituzione manicomiale propriamente detta. In Italia e a Como questo grande processo di istituzionalizzazione/internamento della follia, o meglio della alienazione mentale come veniva chiamata un tempo, si compie alla fine del XIX secolo in concomitanza con il rafforzamento delle strutture dello Stato unitario nato nel 1861. Nel 1882 apre il Manicomio provinciale di Como; in precedenza gli alienati venivano ricoverati in un reparto presso l’Ospedale Sant’Anna e prima ancora presso il manicomio milanese della Senavra, unico in Lombardia. Bisogna considerare che la competenza territoriale del manicomio di San Martino fino alla fine dell’800 includeva un territorio assai vasto che andava dalla Valtellina alla provincia di Bergamo, al Canton Ticino; il territorio di Varese in quell’epoca faceva parte della provincia di Como, ma anche dopo l’istituzione della provincia di Varese nel 1927 per molti anni i malati di mente di quella zona affluiranno a Como. Per queste ragioni il San Martino di Como sarà fin dall’inizio della sua storia uno degli Ospedali Psichiatrici più affollati della Lombardia e d’Italia. La Legge che in Italia regolamenterà la vita dei manicomi fin quasi alla loro chiusura fu approvata nel 1904 su iniziativa del Presidente del Consiglio nonché Ministro dell’Interno Giolitti; questo perché la questione manicomiale rientrava a tutti gli effetti nell’ambito dell’ordine pubblico e solo in modo subordinato riguardava la sfera sanitaria; ricordiamo infatti che l’articolo 1 della legge manicomiale varata all’inizio del ‘900 prevedeva il ricovero coatto per tutte le persone che fossero giudicate “pericolose a sé o agli altri” o di “pubblico scandalo”. Aggiungiamo che la quasi totalità degli internati in manicomio appartenevano alle classi più povere, agli emarginati e agli esclusi, ovvero quelli che un tempo venivano chiamati con la


dicitura di “mentecatti” che possiamo leggere ancora oggi sul dorso dei faldoni più vecchi presenti nell’Archivio storico del Manicomio di San Martino. La legge n° 36/1904, e in particolare il Regolamento n° 615 del 1909 che la completa, stabilivano che ogni manicomio dovesse conservare il fascicolo personale di ciascun malato (la cartella clinica) e un registro nominativo a forma di rubrica alfabetica di tutti i ricoverati; così in ogni manicomio italiano nascevano gli Archivi e gli schedari dei malati come quello che oggi si trova in uno dei padiglioni (esattamente al secondo piano di quello che era il reparto Uomini Agitati) dell’ex O.P.P. di Como. Quando il manicomio era funzionante, l’Archivio era invece collocato nel piano interrato del padiglione antistante, ovvero quello degli Uomini Tranquilli posto alla sinistra della Direzione. Nati per schedare e classificare tutte le donne e gli uomini che varcavano la soglia dei manicomi, oggi gli archivi degli ex O.P.P. sono una fonte insostituibile per tentare di ridare in un certo senso voce a chi come i ‘matti del manicomio’ voce non ha mai avuto e non doveva avere; inoltre lo studio delle cartelle cliniche permette di disporre di una lente assai particolare attraverso cui rileggere la storia (sociale) di oltre un secolo del territorio comasco; questo perché ogni manicomio è stato nel proprio territorio come uno specchio della società di cui era parte integrante. Pensiamo da questo punto di vista all’incremento enorme dei ricoveri manicomiali nel decennio 1960–1970 (in questo ultimo anno si toccò il tetto massimo dei ricoveri nell’O.P.P. di Como con circa 2000 pazienti), in concomitanza col grande flusso di immigrati che arrivarono nel comasco, provenienti dal Veneto e dalle regioni meridionali. Molti dei ricoverati erano emigranti, compresi quelli che venivano rimpatriati per l’insorgere di patologie psichiatriche dall’estero e finivano a San Martino in quanto l’OPP di Como era ospedale di frontiera. Il Direttore dell’OPP dell’epoca, Alberto Masciocchi, arrivò a delineare, in sintonia con alcune correnti della psichiatria dell’epoca, e con riferimento a questo tipo particolare di ricoverati, una vera e propria psicopatologia dell’emigrante. Ritorniamo in conclusione di questa nota a qualche numero, perché se è necessario, come abbiamo detto, cogliere almeno qualcosa della qualità delle molteplici e irripetibili esistenze individuali che hanno popolato il manicomio di Como, come diceva un grande storico francese, per fare storia bisogna innanzitutto saper contare. Per compiere una stima corretta del numero delle persone ricoverate presso l’OPP di Como dalla sua nascita nel 1882 alla sua chiusura definitiva nel 1999 non è possibile sommare il numero degli entrati poiché i ricoveri spesso era più di uno (a volte decine) per la medesima persona nel corso degli anni, pertanto la stima delle persone entrate nell’ OPP non si identifica con la somma totale dei ricoveri. Per fare una stima esatta dunque è necessario riferirsi alle cartelle cliniche; infatti la cartella rimane unica per malato anche nel caso di ripetuti ricoveri; questa viene inserita nell’anno dell’ultima/unica dimissione oppure nell’anno del decesso se avvenuto in

manicomio. Le cartelle sono contenute in circa 1600 faldoni (per l’esattezza 1529 faldoni a cui vanno aggiunti gli 89 faldoni del Reparto Neurologico attivo presso il San Martino dal 1947 al 1973 per le donne e fino al ’74 per gli uomini) divisi per anni; il numero complessivo delle cartelle cliniche contenute in ogni faldone è mediamente di 20/30 secondo la valutazione fatta dalla Società Scripta che ha avviato la catalogazione dell’Archivio storico dell’OPP di Como, comunicata in occasione del Convegno Il San Martino tra memoria e testimonianza: un’evoluzione di spazi e di idee (Villa Olmo, Como, 11 Dicembre 2006). Pertanto il totale delle cartelle cliniche contenute nei faldoni si aggirerebbe attorno ad una cifra di 40.000. Questa sarebbe dunque la stima del numero complessivo dei folli ospitati nel manicomio di S. Martino. Se consideriamo invece il numero progressivo della contabilità generale dei ricoveri quale risulta dai Registri generali degli ingressi divisi per uomini e donne, il numero generale dei ricoveri maschili fino al 31/12/1980 (ufficialmente termine ultimo per nuovi ricoveri in OPP di persone già ricoverate prima dell’approvazione della legge 180, in realtà la Regione Lombardia permetterà ricoveri nella fascia psichiatrica di chi era già stato in OP e nuovi ricoveri nelle fasce non psichiatriche addirittura fino all’inizio degli anni ’90) è pari 31.370, cui vanno aggiunti altri 4.630 relativi al periodo 1967–1974 in cui erano attivi presso la Villa Soldo di Alzate Brianza un Reparto Neuropsichiatrico e uno di Osservazione maschile; per quanto riguarda invece il numero generale dei ricoveri femminili fino al 1980, questo è pari a 25.354. Il totale dei ricoveri dal 1882 al 1980 è dunque pari a 61.354; ora se si tiene conto che numerosi malati hanno subito più di un ricovero in manicomio, possiamo dedurre che sul totale dei ricoveri, circa un terzo di questi ha riguardato persone che avevano subito almeno un precedente ricovero. Aggiungiamo che grazie alla consultazione delle Schede alfabetiche individuali (la scheda è unica per ogni malato indipendentemente dal numero dei ricoveri; tale schedario è parte organica dell’Archivio storico del San Martino) di tutti i malati che sono entrati nell’OPP di Como abbiamo ottenuto la stima di circa 46.000 ricoverati, ed inoltre abbiamo calcolato che il 60% circa dei ricoverati sono uomini e il 40% circa sono donne. Questo ultimo dato, che abbiamo ottenuto attraverso una ricerca sul campo, è più alto di quello ipotizzato precedentemente, ma a noi sembra più realistico perché fondato su una valutazione oggettiva dei dati. L’Archivio storico dell’Ospedale Provinciale Psichiatrico di Como è un patrimonio straordinario dal punto di vista storico ma soprattutto dal punto di vista della memoria di tanta sofferenza e dolore da conservare e far conoscere alle nuove generazioni; per queste ragioni la speranza è che quelle preziose carte siano nel futuro prossimo non solo custodite e conservate come è avvenuto finora, ma anche rese disponibili per lo studio e la ricerca storica, perché solo attraverso il fare storia possiamo comprendere e sentire nostro il passato. Le storie di cui è rimasta traccia nell’Archivio dell’ex O.P.P. di Como

sono storie che è nostro dovere studiare e riportare alla luce perché se non hanno lasciato segno in quella che si ritiene comunemente la grande storia, rappresentano tuttavia un tessuto vivo fatto di esistenze irripetibili senza le quali nessuna storia, grande o piccola, avrebbe senso. Gianfranco Giudice Docente di Filosofia e di Storia; ricercatore

La biblioteca foto 144-150 “Lassù non sembrava nemmeno di essere al manicomio. Entrare in biblioteca era un po’ come dalle monache di clausura: silenzio, ordine e un buon odore di libri vecchi; polvere poca, perché uno giorno sì e uno no una di noi doveva pulire, spolverare e dare una botta di straccio sul piancito di legno. Libri a stufo su tutte le pareti, fino al soffitto. Ai tavoli c’era sempre qualche dottorino che studiava o prendeva appunti, con quelle calligrafie che capivano solo loro. […] C’erano dei libri antichi con la f al posto della s, rilegati in cuoio, addirittura scritti in latino, con delle illustrazioni strane in bianco e nero, belle come i quadri o le stampe nello studio del direttore. […] E poi c’era uno scaffale con tutti i libri e gli studi del Lombroso, quello era fissato, pesava e misurava tutto: il naso, la distanza tra gli occhi, le rughe, le bozze sulla testa, i lineamenti del volto; fortuna che quei tempi erano passati perché io con Lombroso finivo male di sicuro: capirà, una donna giovane coi ricci tutti bianchi, chissà le magagne che mi trovava! E poi i libri di Frigerio, che con gli acquerelli era anche più bravo di Lombroso, e di tutti gli altri direttori che c’erano stati da noi prima e dopo Bonamini: D’Ambrosio, Marinoni, Bellofiore, Birelli–Longhi, ciascuno con le sue idee e le sue fissazioni, che se non stampavano almeno un libro non erano contenti. E poi i libri con le teorie moderne, la psicanalisi di Sigmund Freud, per cui tutto partiva dal sesso: il figlio maschio vuole ammazzare il padre per andare a letto con la madre, la figlia femmina vuole ammazzare la madre per andare a letto col padre, chissà come gli erano venute in mente certe idee.“ (Paolo Teobaldi, Il mio manicomio, edizioni e/o, Roma 2007, pp. 83–85) Ecco una descrizione in termini letterari, ma assolutamente fedele alla realtà storica, della biblioteca di un manicomio italiano del secolo scorso che possiamo prendere come esemplare di quanto esisteva in ogni manicomio costituendone l’anima ispiratrice, perché era nei trattati e nelle riviste di psichiatria che trovava il proprio fondamento il sapere scientifico degli psichiatri. Anche nel manicomio provinciale di Como fin dalla sua nascita nel 1882 fu allestita una biblioteca che nel corso degli anni è arrivata a contenere fino a circa 3600 volumi. Per la vecchia psichiatria clinica di impostazione naturalistica più che i malati contavano le malattie; per questa


ragione compito dello psichiatra in manicomio era soprattutto la classificazione dei ricoverati all’interno delle categorie nosografiche, non tanto la cura e la terapia attenta ai bisogni del singolo malato. Recludere i malati e classificare le malattie era dunque l’essenza stessa di quell’istituzione totale che era il Manicomio poi divenuto Ospedale Psichiatrico. Per questa ragione quando a partire dagli anni ’60 Franco Basaglia si porrà in Italia alla testa del movimento antiistituzionale, il principio dal quale partirà sarà proprio quello di mettere tra parentesi la malattia mentale per porre al centro il malato, i suoi bisogni, i suoi diritti. La Biblioteca del manicomio costituisce pertanto il luogo privilegiato per comprendere quanto del sapere psichiatrico prodotto a livello nazionale ed internazionale (riviste e pubblicazioni scientifiche specifiche, trattati e testi monografici) era stato oggetto di recezione a livello locale; inoltre i testi contenuti nella Biblioteca ci permettono di conoscere la produzione degli psichiatri che hanno operato a Como, sia in termini di scritti di natura più pratica come sono i bollettini che dalla fine dell’800 vengono prodotti dai singoli manicomi della penisola per diffondere anche presso la popolazione la conoscenza e l’utilità sociale del manicomio (istanza pedagogica), sia in termini di contributi di natura sempre più scientifica, anche in relazione all’affermazione delle teorie costituzionaliste e degenerative, legate agli sviluppi anche a livello europeo della neurologia tra fine ‘800 ed inizio ‘900 (“neurologizzazione della psichiatria“). A questo proposito scrivono Luigi Missiroli e Marco Turchi riguardo la Biblioteca del manicomio di Ferrara, ma il discorso si può allargare anche al San Martino di Como: “Si compie, a poco a poco, un sistematico processo di archiviazione, che si traduce poi in occultamento di tutto ciò che proviene dalla voce dei testimoni più immediati, se non anche dai protagonisti, di tante sofferenze, sciagure, ‘scelleratezze’: sono le voci e le parole che oggi potrebbero costituire una diversa traccia di lettura, al di là della ufficialità delle descrizioni e delle trattazioni scientifiche. Anche nelle cartelle cliniche, con la comparsa di giudizi diagnostici sempre più circoscritti, tendono a rarefarsi le notizie, prima copiose, sulla storia del ricoverato. In questo contesto la Biblioteca del manicomio acquista il ruolo definitivo di luogo consacrato ad un sapere ‘disciplinato’ sempre più distante dall’oggetto di sua osservazione.“ (L. Missiroli e M. Turchi, La Biblioteca del Manicomio di Ferrara: cenni storici e prospettive attuali, in Follia, Psichiatria e Società. Istituzioni manicomiali, scienza psichiatrica e classi sociali nell’Italia moderna e contemporanea, a cura di Alberto De Bernardi, Franco Angeli Editore, Milano 1982, pp. 447–448). La Biblioteca del manicomio di San Martino è posta nel padiglione centrale dove avevano sede la Direzione, l’Economato, i Laboratori e gli spazi riservati al personale medico. I libri sono in buone condizioni anche se necessiterebbero di una catalogazione aggiornata perché quella fatta a suo tempo è oramai inservibile. La biblioteca contiene per lo più testi di psichiatria, psicologia, medicina, biolo-

gia e fisiologia; è presente anche qualche testo di filosofia. Non sono invece presenti come accadeva in altri manicomi opere destinate alla lettura da parte dei ricoverati. I più importanti classici della psichiatria e dell’antropologia sono presenti negli scaffali della biblioteca dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Como; in particolare troviamo una copia dell’Uomo delinquente di Cesare Lombroso, il testo base dell’antropologia criminale in Italia alla fine dell’800. [ foto 150] Sono inoltre presenti testi giuridici riguardanti la sanità e il governo dei manicomi e manuali per infermieri. La biblioteca del San Martino è assai fornita di riviste italiane e internazionali di psichiatria, neurologia e medicina. Sono presenti le seguenti collezioni complete e rilegate fino alla chiusura dell’Ospedale Psichiatrico; dopo la chiusura dell’O.P.P. alla fine degli anni ’70 l’aggiornamento delle riviste è proseguito parzialmente solo per alcune riviste negli anni ’80. Ecco le raccolte che troviamo in Biblioteca: Prove Neurologiche, Il Policlinico, Rivista di Patologia Nervosa e Mentale, L’Encephal, La Riforma Medica, Annuale Medico–Psychologique, Archivio di Psichiatria e Antropologia criminale, L’Ospedale Psichiatrico, Neuropsichiatria infantile, Britain Journal of Psychiatry, Excerpta Medica Psychiatry, Rassegna di studi psichiatrici, Rivista Sperimentale di Freniatria, Archivio di Psicologia, Rivista di psichiatria, Rivista di Psicoanalisi, L’Evolution Psychiatrique, Enciclopedie medico–surgical–psychiatric, The American Journal of Psychiatry. Gianfranco Giudice

L’Associazione Luoghi Non Comuni: una sfida culturale di fine secolo tutta da raccontare Gennaio 2000: a Como, l’ex manicomio San Martino ha chiuso. In concomitanza al passaggio epocale avviene la dimissione degli ultimi abitanti. L’Associazione Luoghi Non Comuni in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Sant’Anna ha seguito da vicino l’evento straordinario, partecipando con molteplici iniziative a sostegno di un progetto articolato. Non è stato facile per un sodalizio culturale, nell’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica, porsi da tramite tra la cittadinanza, le urgenze degli operatori e i disagi dei residenti dell’ex OPP (ex degenti che dopo lustri di vita quotidiana all’ospedale psichiatrico si sono visti trasferire da un giorno all’altro nelle sedi dislocate in provincia). Nel fare da cuscinetto sul territorio, nel creare un minimo d’accoglienza (volendo rappresentare quella parte di società civile sensibile a talune tematiche), l’associazione tuttora sostiene con laboratori creativi ed altre animazioni il difficoltoso compito di chi opera nei luoghi alternativi all’ex Ospedale psichiatrico (il rischio è che le nuove co-

munità diventino altri piccoli esclusivi manicomi). Il San Martino rappresenta non solo un secolo di disagi e privazioni o la memoria d’esistenze vissute al limite, ma anche un monito: un’importante riflessione sul futuro dell’altra città, troppo disattenta verso i meno fortunati. La Como del commercio: frenetica negli affari, caotica nel traffico, distratta dall’effimero, deve guardare a questa collina del disonore, e trarre insegnamento da quel luogo costellato d’amari silenzi, di sfrenati pensieri di un diverso relazionarsi. Rispettando le urgenze (nuovo ospedale, campus universitario o altre destinazioni), l’associazione intende salvaguardare il San Martino e il suo parco da ogni avventato intervento. Mauro Fogliaresi Presidente associazione Luoghi Non Comuni

I laboratori al San Martino e dintorni È da anni che Luoghi Non Comuni opera sul territorio comasco con progetti, incontri culturali e laboratori creativi. L’idea della nostra associazione consisteva nel difficile tentativo di unire la cultura al disagio. Si voleva aprire la città alla città, i luoghi ad altri luoghi, le esperienze a un flusso informativo mobile e preciso. I laboratori iniziarono nel 1998 grazie alla collaborazione dell’Agenzia Sociale San Martino. La prima esperienza, della durata di tre mesi per un’ora alla settimana, è stata tenuta da alcuni volontari dell’associazione sotto l’abile regia di Gin Angri (fotografo professionista che da anni lavora su temi quali il disagio e la follia) negli spazi messi a disposizione dall’ex OPP San Martino di Como. [ foto 191, 194] L’idea era complessa: seguire le memorie di un ospedale in via di sparizione attraverso immagini ‘forti’, immagini ‘concrete’ di una situazione umana, sociale, e, in minima parte, ‘politica’. Bisognava provocare un corto circuito nei normali percorsi visivi, nelle atmosfere spesso tragiche di quei luoghi sempre isolati dal resto della città. Non era un intento polemico ma più che altro provocatorio nei confronti di un modo di vedere, capire e, forse, con-prendere la realtà di un ospedale psichiatrico attraverso la macchina fotografica. Era importante svolgere il lavoro con la massima chiarezza e onestà. Per far questo era indispensabile un occhio non allenato, sincero e che, soprattutto, conoscesse questi spazi in prima persona. L’idea si è sviluppata attraverso un percorso terapeutico ove, oltre al lavoro fotografico, si è svolto un impegnativo percorso di laboratorio. L’elemento portante di tutto è stato svolto grazie al gruppo di degenti dell’ospedale stesso. Quindici persone assolutamente a digiuno rispetto al discorso fotografico ma concretamente dentro questi luoghi. Si capisce che il discorso si è svolto su due piani paralleli. Il primo è stato quello della parte più meccanica (l’uso della macchina fotografica, le inquadrature e il tema), il secondo quello interessan-


te della memoria. Sono emersi ricordi, storie, racconti, immagini di esperienze personali e non. L’ospedale, lentamente, prendeva voce e immagine. Ciò che prima era una porta, una chiesa, un grande parco o un corridoio, veniva rivissuto più ludicamente, con una sorta di strana voglia retrospettiva, creativa. Per la prima volta gli abitanti facevano delle cose ascoltabili da tutti; i letti di un secolo di sonni svegli venivano, metaforicamente parlando, portati in città, a vegliare nella parte conosciuta. In concomitanza con un evento musicale e poetico è stata allestita una prima mostra fotografica all’interno dell’ospedale. L’esposizione (che tra l’altro è stata visitata da circa mille persone) è stata poi ripetuta presso la Pinacoteca Civica di Como alla presenza degli ospiti. Importante sottolineare il piccolo catalogo dal titolo Stanze stampato nel 1999. L’anno successivo è stato un anno denso. Tre laboratori. Due di scrittura e uno di scultura. I laboratori di scrittura si sono svolti prima all’interno del CPS di Como e successivamente nell’ex OPP San Martino. [ foto 232-233] Era un problema nuovo e i partecipanti provenivano da varie comunità sparse sul territorio. L’idea era quella del gioco, del ludico, del gioco intelligente che smonta le parole. Che le ricrea. Sono stati dati via via una serie di tracce, esperimenti, rebus e drammatizzazioni e ciascun partecipante poteva dare libero corso alle parole e alle immagini. Vedere il proprio nome nella forma di un acrostico, sentire situazioni ove i nomi e le cose divenivano picaresche situazioni o brevi fulminanti accenni a stati d’animo, è servito a non avere paura. La cosa entusiasmante era vedere gli ospiti (sempre supportati da un operatore) sdrammatizzare storie, ridere e acquistare una minima fiducia grazie al gioco letterario. Forse l’idea primaria dello scrivere è proprio questa, dare forma all’informe che ci spinge, fare luce su qualcosa che ci abita da sempre. È stato poi creato il ‘Bosco delle Parole Dimenticate’. È un piccolo betulleto sulla strada principale del parco. Ai ragazzi è stato dato un tema: il silenzio. Le frasi sono state scritte su reperti casuali ma densi di storia, legni, frammenti di barche, assi di un qualche tavolino ecc. Questi sono stati poi appesi agli alberi (la betulla ricordiamolo era l’albero sacro presso certe popolazioni antiche). È diventato un piccolo luogo protetto, un piccolo presidio dentro il grande organismo architettonico e naturale. Le frasi dialogano con l’ambiente e l’effetto scenografico, semplice e scarno, è un tutt’uno con l’idea che esprime: il silenzio. Il Bosco delle Parole Dimenticate è stato visitato dalle scuole e alcune classi sono state poi invitate ad arricchirlo con nuove frasi. Lo spazio è anche un luogo culturale ove, su appuntamento, si svolgono incontri poetici con scrittori e artisti. Il laboratorio di scultura (tenuto in collaborazione con Scilla Alessandrini da maggio a luglio 2000 per un’ora alla settimana) ha avuto luogo presso la Comunità ‘La Quercia’ all’interno dell’ormai ex OPP. [ foto 225-226] Quindici ragazzi provenienti da varie comunità del territorio, alle prese con l’argilla, la forma, le proprie mani. Ancora una volta la materia. La materia è un abile veicolo, l’argilla

un caso unico. Si plasma, si trasforma e dialoga morbidamente con il corpo. Dopo le iniziali titubanze e sbagli, il tempo è visibilmente rallentato. L’argilla veniva usata con maggiore parsimonia e le sculture venivano create a un ritmo che man mano acquistava in meditazione, riflessività e cura. Visi, ritratti sacri, invenzioni antropomorfiche dal gusto ‘primitivo’ e piccole decorazioni. L’atmosfera generale era di concreta fiducia e ricerca, di consigli, opinioni, prove e controprove. I problemi tecnici venivano lentamente superati e se ne creavano altri. Le sculture sono state poi dipinte accentuando il problema sulla forma trasformata: ciò che è bianco sembra più grande, un semplice segno trasforma ecc. I ragazzi hanno, nella maggior parte, dimostrato un reale interesse. Si pensa, in futuro, di allestire una esposizione sia all’interno del Bosco delle Parole Dimenticate che in altri luoghi. Wolf Testoni Associazione Luoghi Non Comuni

La musica Tutto ha avuto inizio… Parco dell’ex ospedale psichiatrico 21 giugno 1998 concerto dei ‘de Sfroos’ (di nuovo insieme per l’occasione). Momento culminante della tre giorni ‘festa di luna calante’, organizzata dall’agenzia sociale del dipartimento di salute mentale di Como in collaborazione con l’Associazione Luoghi Non Comuni. Il gruppo mezzegrino, guidato da Davide Van De Sfroos Bernasconi (Premio Tenco ormai celebrato cantautore) incantò i mille e più spettatori arrivati da ogni parte del territorio. [ foto 192] E così ‘cittadini qualunque’ (che, forse, non avevano mai varcato la soglia del San Martino) e ‘persone ospiti del nosocomio’ si sono trovate per creare quello che rimarrà uno dei momenti più suggestivi della storia dell’ex ospedale psichiatrico. Durante la serata, un gruppo di degenti è salito sul palco ed ha incominciato, insieme a Davide, celebre per il suo brano Manicomi, a cantare melodie tradizionali (da Una notte che pioveva a Romagna mia) in un concerto unico e irripetibile per intensità e significati. Come Associazione Luoghi Non Comuni abbiamo avvertito il desiderio che gli abitanti di questo luogo avevano espresso… Abbiamo, così, fatto ritorno all’ospedale psichiatrico, nei giorni seguenti il concerto, e alcuni degenti (per la maggior parte quelli che si erano esibiti al concerto) ci chiedevano un’altra festa. La continuità. Abbiamo così deciso di seguire le attività canore, e non solo, di quel nutrito gruppo di cantori. La variegata attività di animazione musicale di Luoghi Non Comuni ebbe così inizio. Alcuni soci e collaboratori dell’associazione decisero (prima della dimissione degli ultimi pazienti) di trovarsi ogni giovedì con gli ospiti del San Martino per suonare e cantare

con loro tutte quelle melodie che non erano solo canzoni, ma parte integrante della loro esperienza, della vita, della memoria… Il nostro non era un lavoro terapeutico, ma solo un modo per stare assieme, creando, nel contempo, interessanti esperimenti musicali. Da questa esperienza è nata tutta una serie di circostanze che hanno portato prima alla nascita di un gruppo musicale, poi a quella di un vero e proprio coretto di degenti che accompagnava il complesso nelle serate concerto. Il gruppo musicale ha preso il nome di ‘Acca Band’. Il 5 gennaio del 1999, gli ‘Acca’ hanno aperto il concerto dei ‘Davide Van de Sfroos band’, presso il centro diurno dell’ex ospedale psichiatrico San Martino (era impressionante vedere gente comune sgomitare per entrare, per guardare con attenzione all’interno in un luogo ove altri sguardi da sempre erano rivolti all’esterno). L’associazione in collaborazione con l’agenzia sociale DSM-Dipartimento di Salute Mentale cominciò a lavorare anche sul territorio. Suonando e cantando per gli ex ospiti del San Martino in varie comunità: ‘Villa Maria’ a Lanzo, ‘Villa San Benedetto Menni’ ad Albese con Cassano, la ‘Comunità Que Serà’ di Sagnino ecc. ...e da lì seguirono una serie di eventi ‘pazzeschi’… Cristiano Stella Associazione Luoghi Non Comuni

Il Bosco delle Parole Dimenticate foto 197-200 Le ‘grandi’ idee nascono dalla fusione fra mente e cuore. Se la mente ha cuore e se il cuore non mente allora la fusione può ritenersi perfetta. Ed è proprio da un giocare con le parole che nasce il ‘Bosco delle Parole Dimenticate’. Tre anni fa, quando ritenni che era arrivato il momento di andare in pensione, ebbi la ‘visionaria’ certezza di dover iniziare un’altra vita. In quel periodo usciva dalla fase embrionale e prendeva consistenza il progetto Luoghi Non Comuni, sognato, ideato e concretizzato da Mauro Fogliaresi. E fu proprio Mauro a chiedermi se me la sentivo di intraprendere un laboratorio di scrittura creativa presso il Centro diurno del CPS di via Vittorio Emanuele a Como. Allievi sarebbero stati malati psichici che frequentavano il Centro. Com’è mia abitudine, agli amici non dico mai di no. In questa mia nuova avventura sarei stato affiancato da Wolf Testoni, un giovane che aveva già avuto simili esperienze, operando in una comunità. E venne il giorno del debutto! L’entrare in contatto con una realtà a me semisconosciuta mise in moto nella mia mente una specie di flashback e mi ricordai delle paure e dei pregiudizi che avevo nei confronti di quelle persone. Ma quando i fogli


bianchi distribuiti cominciarono ad essere percorsi dai loro segnali d’anima, la pellicola del flashback iniziò a bruciare e si polverizzò. L’anno successivo, grazie anche all’intuito e all’intelligenza di Ornella Kauffmann e Tiziana Mason, responsabili della Agenzia sociale/ Dipartimento Salute Mentale, il laboratorio venne tenuto presso l’ex OPP San Martino e allargato ad altre comunità. E a ‘scemare’ (checché ne pensi l’opinione comune) erano, in quelle giornate, solo i fogli bianchi! Di foglio in foglio, di parola in parola si arrivò alla soglia dell’estate, con la prospettiva di chiudere il laboratorio per vacanze. Nel frattempo il San Martino, cominciava inesorabilmente a diventare sempre più un luogo di ombre. E nei prati con l’erba incolta, sui muri feriti da crepe sempre più larghe, sembrava che la parola d’ordine fosse: DIMENTICARE! Il progetto ‘Luoghi Non Comuni’, che in quei giorni acquistava sempre più i connotati di associazione vera e propria, si assumeva l’onere idealistico di fare in modo che la memoria di quei luoghi non venisse spazzata via dall’incuria e dall’indifferenza. Così all’ultimo giorno di laboratorio scatta l’idea! Come stimolazione creativa e letteraria viene dato il tema: Silenzio e Parola. I risultati sono straordinari! Il tutto, poi viene trascritto su tavole di legno con pennarelli indelebili. Le tavole di legno erano state recuperate precedentemente da me in un piccolo cantiere nautico a Laglio, ‘Riva e figli’. Erano pezzi di barche sfasciate e la cosa diventava ancora più poetica, poiché era in atto anche un recupero metaforico di questi mezzi di trasporto e dei pensieri viaggiatori che loro avrebbero imbarcato in un viaggio senza fine. Il luogo scelto come dimora delle parole da non dimenticare fu un betulleto, non lontano dalla chiesetta del manicomio. Se c’è la convinzione che il caso non esiste, allora la scelta della betulla era la più indicata. Infatti questo albero nella simbologia universale rappresenta l’unione fra la terra e il cielo e racchiude in sé il conoscibile e l’inconoscibile. Così, con una preghiera antidolorifica, ognuno di noi affisse ad un albero il proprio pensiero di legno. Nel tardo autunno di quell’anno vi fu anche l’inaugurazione. Alla luce di torce e seguendo il suono di una cornamusa, un corteo di persone partì dall’ingresso del manicomio e si avviò verso il bosco, dove vennero lette tutte le frasi poetiche e ascoltato il silenzio che le circondava. Nel mese di febbraio di quest’anno, poi, è stata una quarta elementare di Monte Olimpino (sez. A e B) a fare visita al Bosco delle Parole Dimenticate. È stato un momento commovente. I bambini hanno colto la ‘religiosità’ del luogo, esprimendola in pensieri estemporanei. Come per magia sono saltate fuori altre tavolette, visto che c’era ancora qualche betulla disoccupata. Il bosco ora è vivo, parla, racconta di un silenzio disarmato, e per raccontarlo usa le voci degli uomini/donne betulle. “In silenzio ascolto la vita”, “Non parlare stai in silenzio che ti tocco i capelli”, “Anche se le nostre parole non s’incontrano, che le nostre anime si possano unire sempre, al di là di tutto, perché

libere da ogni vincolo”, “Essendo senza parole, meglio circondarsi di grandi silenzi”, “Il silenzio è un modo di far rumore”, “Certo che il silenzio è un bel casino”, “Il lavoro - l’esistenza - l’essere - la fame - la sete - l’avventura - il rifugio - il silenzio è oro - l’educazione fisica. Risposta=?” Vito Trombetta Associazione Luoghi Non Comuni

Aneddoti e curiosità Giocare seriamente ad un progetto è un’esperienza aperta. Significa capire che, fra tante possibilità di sviluppo, c’è sempre qualche cosa (un gesto, un pensiero, un’esperienza) che sfugge al nostro controllo. Le capacità creative crescono nell’entusiasmo e nella continua verifica dei mezzi, dei metodi e degli obbiettivi. Usare una matita non è soltanto un modo per tracciare linee, ma, soprattutto, un modo per creare la catena di un continuo rapporto con se stessi. I gesti più liberi si fanno in solitudine. I corsi tenuti negli ultimi anni presso l’ex OPP sono stati arricchiti da azioni inaspettate uscite a macchia d’olio dalle aule. Azioni spesso inspiegabili o sorprendenti ma che segnarono il percorso di nuove letture, interpretazioni. Alcuni esempi. La prima esposizione di fotografie del laboratorio di Gin Angri fu allestita lungo il corridoio dell’Approdo, una particolare sezione dell’ospedale adibita ad Agenzia Sociale. L’allestimento fu semplice e accurato. Le immagini erano puntate su dei grandi pannelli di legno per tutta la lunghezza del percorso. Sotto le fotografie, i titoli e il nome degli autori. Erano immagini allegre, disperate, sospese o crudamente calate in una realtà esistenziale difficile e complessa. Immagini strappate al silenzioso mondo di un manicomio, e i nasi, puntati come occhi sui vetri delle stanze, per la prima volta nella storia del San Martino, rompevano le finestre. L’inaugurazione fu un momento di gioia. Dopo mesi di lavoro i muri parlavano di cose vere, sognanti; immagini vissute di persona dagli stessi fotografi. Muri, maniglie, volti e gesti. La lavanderia, dove per decenni si lavavano lenzuola di interi dormitori, la cucina, la chiesa, con l’abside dipinta da un ricoverato, il prato antistante la chiesa, tutto era passato dentro l’occhio stretto della macchina fotografica. La città, i degenti e i degenti fotografi guardarono le immagini con attenzione, fianco a fianco. Ogni tanto, nel normale mormorio del vernissage (non proprio vernissage, niente cravatte o tartine, ma incontro culturale e umano) ogni tanto si alzava un: “Lo conosco”, “Guarda”, “Ti ricordi”. Gli abitanti dell’ospedale ospitavano la città, arricchendola. Qualche giorno dopo, tornando per un normale controllo, ci ac-

colse un’immagine inconsueta. Su ogni fotografia erano appesi con cura dei fiori. Tutte, una ad una, erano state decorate con lo stesso fiore arancio. Pendevano dai pannelli come immagini diverse. Non fu tanto ‘il fiore’ quanto la matematica ripetitività di quel fiore. Uguali, distanziati lungo un ordine, nel pieno rispetto ritmico dell’esposizione. E sapere dove erano stati presi (il parco intorno è molto grande) non aveva la stessa importanza del perché. Chiunque ne fosse stato l’autore aveva dedicato il suo tempo a qualcosa che conosceva bene. A qualcosa a cui era legato: il manicomio. Ci avvicinò un signore, chiese una sigaretta e parlò della sua barba di cui andava molto fiero. Disse poche cose. Parlò della sua vita, di un suo antico lavoro ai tempi della giovinezza, del fatto che era lì, e dei fiori. Ma non disse mai dove li aveva presi, questioni di rispetto botanico. Un altro avvenimento imprevisto riguarda la città. Sarà normale passeggiare per le vie del centro, tra negozi e vetrine che, immancabilmente, espongono vestiti, vestiti e ancora vestiti. Metà delle vetrine, qui, porta firme, capi, e cambi di stagione a caro prezzo. Ma non è altrettanto normale imbattersi in un gruppo di persone allineate rigidamente contro un muro. Commessa, cassiera e clienti, addossati lungo il marciapiede, e il negozio vuoto. A parte l’allegria sembrava una fucilazione, ma loro erano troppo allegri per essere dei fucilati. Forse una passerella, ma la divisa bianca della donna in prima fila… Erano in posa. In posa per una forzata e allegra foto di gruppo. Un uomo era lì, davanti a loro. Curvo, l’occhio chiuso e la macchina fotografica sull’occhio. Era un degente, uno dei partecipanti al corso. Uscire per le vie della città svaligiando i negozi dai suoi abitanti fu un modo per conoscere, parlare e sicuramente vincere la propria ignoranza. Il corso di scultura fu un’altra esperienza. La creta fu accettata quasi subito e in poche lezioni le dita arrotolarono le prime immagini. Seguiti con attenzione dai loro operatori e dagli organizzatori dello stage, poterono creare, piano piano, sculture, altorilievi e immagini decorative. Alcuni avevano problemi vuoi di relazione vuoi d’altro tipo. Problemi spesso gravi. La creta fu presentata come materiale caldo, duttile e possibile di eventuali ripensamenti. Una ragazza aveva difficoltà di ideazione. Toccava la creta con la punta delle dita. La trattava con cautela. Non la scalfiva mai. E non chiamava. Nessuno. Poteva stare lì, davanti al materiale, in silenzio, solo per accarezzarlo. Il lavoro fu difficile. Bisognava mostrarsi aperti e soprattutto non oppressivi. Riuscì ad abbozzare un viso, a metterci, arrotolando la creta tra le dita, i capelli, e riuscì a dipingerla. Piano piano, a seconda del momento, sembrava più ricettiva. Se la scultura fu importante è certo che il giorno che chiamò col nome la persona responsabile del laboratorio, lo fu ancora di più. Le ultime lezioni furono momenti di piccole conquiste. Wolf Testoni


Manicomio addio

Il parco del San Martino e il suo futuro

I protagonisti del laboratorio fotografico lasciano il San Martino: Alfredo dopo 26 anni, Luigi dopo 17, Agostino 25, Vittorio 30, l’altro Luigi non si ricorda, Ambrogio ha vissuto nell’ex manicomio per più di 32 anni. Angelo il decano del gruppo da 40 anni.

[ foto 195-196, 201]

Alfredo finirà a Mariano. “Non conosco la strada”, racconta disarmato, “e non sono contento di dover andar via”. “Qui almeno sono in mezzo al verde, ai prati, ai fiori, ho tanti amici, le infermiere sono brave… Quando esco vado qui vicino al Bar Villaggio.” Agostino ha lavorato in ferriera per 12 anni. Al San Martino si è trovato subito bene ed è un po’ dispiaciuto di andarsene anche se si avvicinerà a casa: è di Merate ed andrà a Brivio. “Mi piacerebbe tornare qui ogni tanto”, confessa, “ma ci ho il pullman alle 12 e 20.” [ foto 202] Angelo aggiusta gli orologi, ha la passione per la moto, e usando la calcolatrice dopo minuti passati a fare somme, ci confessa che al San Martino vive da più di 40 anni. “Con la mia Aprilia vado in Svizzera, a Brunate, a Rovellasca”, racconta, “qui mi trovo bene e non so ancora dove mi manderanno anche se mi piacerebbe andare a Lourdes ma c’è troppa gente e poi succedono i miracoli… Io ci credo perché gli altri lo dicono.” [ foto 155] Vittorio fa il poeta, in 30 anni si è abituato a stare con gli ammalati. Non sa la sua destinazione, ma a lui piacerebbe (parole sue): “L’Australia, l’ultima terra, la fine del mondo”. A Luigi incontrare il vescovo ha dato una forte emozione perché crede in Dio mentre Alfredo no. Luigi è della Val d’Intelvi, ha una sorella in Svizzera, forse lo manderanno a Dizzasco, ma gli piacerebbe abitare in Piazza Cavour o andare con una Harley Davidson a girare tutti i laghi. “In ansia per il trasferimento?” “Mi tranquillizza solo la fine del mondo.” L’altro Luigi suo omonimo è il playboy Peter Pan del San Martino, vorrebbe fotografare tutte le donne della città (per un terzo ci è riuscito). È un tifoso sfegatato del Como e non potrà più andare nel vicino campetto di calcio a giocare con i bambini e fare l’arbitro. Il suo futuro è in periferia a Sagnino. Nelle vicende di questi amici si racchiude la storia di un intero popolo di dimenticati. Esclusi che a fine secolo, sulla coda della legge 180, da un giorno con l’altro hanno dovuto lasciare abitudini e familiarità. E così due secoli di sofferta storia cittadina venivano cancellati in pochi giorni. A 30 anni di distanza alcuni muri sono crollati, atri mentali, da tempo imperterriti resistono. Mauro Fogliaresi

Ora che una nuova visione del mondo e della malattia ha determinato la chiusura degli OPP, la struttura dell’ex San Martino, con il suo splendido parco, le sue architetture e i suoi ampi spazi, i suoi mille e spesso dolenti ricordi, vorremmo fosse restituita alla memoria della città di Como Il nostro sogno è di farne un polo di azione culturale aperto a tutti e dedicato, caso unico in Lombardia, alla cultura dell’accoglienza del ‘BenEssere’ della persona. Percorrendo lentamente il viale principale del parco sono state evidenziate numerose varietà di essenze vegetali presenti, la maggior parte delle quali ben conservate e di notevole pregio per bellezza, rarità e dimensioni, altre meritevoli di interventi di manutenzione per l’incombenza di rami pericolanti a causa di un’eccessiva ed incontrollata crescita. Tale esuberanza è da attribuire al substrato acido e ricco di humus sul quale le piante si sono sviluppate, poiché sul sedime dell’attuale parco c’era un castagneto, che ha lasciato in eredità un terreno molto fertile. Durante il tragitto sono stati via via descritti numerosi esemplari di cedro, abeti di varie specie, cipressi, magnolie, faggi penduli, tassi, aceri, tigli, platani e nel sottobosco ortensie e bossi; di fronte all’ingresso principale dello stabile, una coppia di platani con curiosi rami a candelabro. Nelle vicinanze si impone superbo al visitatore un maestoso cedro secolare che, secondo la guida, non ha nulla da invidiare a quello presente nel parco di Villa Olmo. Il disegno del parco, non casuale, è ancora chiaramente leggibile nonostante la presenza di piante infestanti o di altre con uno sviluppo disordinato; specifici interventi di manutenzione basterebbero per valorizzare le specie pregiate e monumentali presenti, sapientemente disposte in modo da costituire suggestive quinte cromatiche che attraverso scorci prospettici orientano lo sguardo sulla città e sui rilievi circostanti. L’edificio principale, risalente al 1882, è una struttura in stile neoclassico che richiama quella di Villa Olmo, frutto di uno studio preliminare effettuato da parte di alcuni architetti su quindici nosocomi italiani. Si tratta di quattro corpi di fabbrica uniti al corpo centrale che delimitano due cortili nei quali sostavano i malati. Nel 1905 vennero costruiti altri edifici separati e fra loro simmetrici, chiamati ville. Nel 1910 venne istituita la colonia agricola la cui manutenzione era affidata ai degenti. Nello stesso anno la via Statale per Lecco fu deviata per ampliare il terreno agricolo della colonia. Verosimilmente in quegli anni furono piantumati anche i centenari alberi del parco. Nel 1936 la poco capiente cappella dell’edificio centrale venne

adeguata alle mutate esigenze con la costruzione di una chiesetta in stile decò, collocata nella parte alta dell’azienda agricola. Progettista fu l’architetto Muzio a cui si deve anche l’idea di deviare la strada per Lecco onde formare una grande estensione di prato davanti alla chiesa, quasi a dominare e proteggere contemporaneamente la città. La facciata della chiesa presenta ai lati del portone d’ingresso due grosse colonne decorative che ricordano i templi antichi; di fianco spiccano tre paia di nicchie vuote che creano un movimento di chiaro-scuro, mentre l’interno è a croce greca. Caratteristica dell’edificio è la grande luminosità ottenuta grazie ad ampie vetrate e alla cupola in materiale trasparente: scelta fatta per venire incontro alle esigenze di luce degli ammalati, che potevano essere intimoriti dal buio. L’abside è decorata da un dipinto del pittore comasco Conconi, mentre la balaustra e il pulpito riprendono nella disegno il simbolo della croce greca. All’esterno lo sguardo si perde verso un boschetto situato al margine del pratone antistante: si tratta di salici, ontani, pioppi, frassini, noccioli, tutte piante spontanee che sono cresciute in un grande cratere creato, sembra, dall’esplosione di una bomba caduta in quel punto nell’ultima guerra. Nell’area del San Martino sono compresi anche territori a copertura boschiva. Infatti la zona che alle spalle della chiesetta dei frati Cappuccini di San Giuseppe si estende nelle vicinanze della via Fornace, inerpicandosi verso Lora, è costituita da boschi misti di latifoglie con aree occupate da piante igrofile data la presenza di umidità nel terreno. Le specie più rappresentate sono robinie, castagni superstiti di vecchie colture, querce, e, nelle zone umide, pioppi, aceri, salici ed ontani. Il sottobosco annovera sambuchi, noccioli, buddleje e pungitopo mentre a primavera lo strato erbaceo del bosco si copre di numerose varietà di fiori spontanei. Il suggestivo itinerario ha svelato ai numerosi presenti aspetti paesaggistici, vegetazionali e storico artistici di un lembo di città per anni sconosciuto, un tempo deputato a funzioni di isolamento, oggi meritevole di un rinnovato interesse anche come occasione di relax e di riflessione a due passi dalla città. I pregi derivanti dalla bellezza del luogo e la facile accessibilità, esigono quindi la giusta attenzione ed una adeguata riconversione d’uso per una pubblica fruizione. Luisella Monti e Ambra Garancini Società Ortofloricola Comense e Associazione Iubilantes

Una riflessione sull’area dell’ex OPP Nel giro di un secolo, le nostre città hanno cambiato misura, nulla più è stato fatto a misura d’uomo, a misura di città. È la storia. Il margine di ieri, oggi si perde all’orizzonte. Il margine di ieri non è che un segno nel continuum abitato. Segno che si è perso. Traccia


insignificante. I luoghi di ieri, i luoghi della memoria collettiva, sono ridotti ad uno spazio isotropo, uniforme, fungibile. I toponimi, l‘identità, i nomi dei luoghi, sono stati dimenticati. Ciò che non è stato preso dalla rete stradale, assimilato, innervato, si è fatto invisibile, trasparente alla vista, alla retina, neutro. Pur continuando ad essere lì, fisicamente, nella pietra dei muri che dura, nel dolce declivio verde di prati e di alberi. Un corpo estraneo sigillato sotto vuoto. Incistato. Allora questa è un’operazione chirurgica. Uno scavo archeologico per riportare alla vista ciò che colpevolmente la pelle di un camaleonte ha ricoperto. Questo è un viaggio nel tempo. Colpisce, una volta varcato il cancello, immergersi in una temporalità affatto diversa da quella che regna al di fuori. Un tempo sospeso, rallentato. Un’isola di tempo e non solo di spazio. Una ricchezza. Qualcosa di più di un isola pedonale. Luigi Fara

Dopo il manicomio Alla spinta anti-istituzionale del movimento suscitato da Basaglia contribuì all’inizio il suo orientamento esistenzialista, ma in seguito divenne decisiva quella derivata da una visione sociale della clinica. Credo che proprio questa concezione della clinica della malattia mentale in chiave sociale richieda oggi un aggiornamento. Il ’68 aveva dato delle parole d’ordine per la contestazione delle istituzioni che veicolavano i contenuti di una società ‘disciplinare’ (secondo una terminologia foucaultiana). Si trattava di combattere le istituzioni sociali di impianto ottocentesco. Esse erano fondate sul discorso del padrone, cioè su un modo di affermare l’identità soggettiva in opposizione all’alterità dell’Altro o, più precisamente, alla diversità del godimento dell’Altro (razzismo). Per Basaglia, così come per il movimento di quegli anni, fu una lettura marxista di quella società a individuare il soggetto ‘rivoluzionario’. Oggi viviamo nella società che quel movimento ha contribuito a trasformare. È una società che vive all’insegna della tolleranza, veicolata dall’ideologia del mercato mondiale. Così si esprimono Hardt e Negri ne L’impero (p. 147): “la circolazione, la mobilità, la diversità e le mescolanze sono le sue condizioni di possibilità. Il commercio chiama a raccolta le differenze, e più ce ne sono, meglio è”. Ritengo che anche la classica clinica sociale della malattia mentale resti oggi nell’”orizzonte di una nozione disciplinare, preimperiale, del godimento” (Ibidem). Noi dobbiamo invece fare i conti con un nuovo tipo di segregazione (non più ‘istituzionalizzazione’) del disagio mentale, basato più sulle nosografie statistiche del DSM e sulla pluralizzazione dei ‘disturbi’ che isolano i soggetti in classi di appartenenza, dove vengono spinti ad identificarsi con il loro disturbo (cosa che perlopiù fanno volontieri con l’idea di un auto-aiuto) e a praticare una sorta di automedicazione chimica.

In un simile contesto sociale non mi pare che ci si possa attendere qualcosa da una riforma di legge (anche perchè la 180 continua ad essere una buona legge), si devono invece ritrovare o ricreare le fila di quella trasformazione sociale che Basaglia riteneva essenziale, al di là della legge. Costruire una città che renda possibile la vita al folle e al diverso. Questa esigenza rende di enorme attualità la “Questione preliminare” posta da J. Lacan “ad ogni trattamento possibile della psicosi” (pubblicata negli Scritti nel 1966). Solo oggi se ne coglie appieno l’importanza: si tratta, dice Lacan, di vincere il pregiudizio sociale per cui un comportamento anormale (l’allucinazione, così come il passaggio all’atto) viene automaticamente preso, e quindi trattato, come il segno di un soggetto (pericoloso e quindi da rieducare obbligatoriamente). L’esperienza della psicoanalisi viene a sovvertire la visione sociale della malattia mentale. Essa infatti può dimostrare che i suoi sintomi sono senza soggetto. Non solo: perché un soggetto nasca, venga all’essere lì dove il disturbo si è manifestato, occorre che intervenga un partner capace di entrare in relazione con la rete simbolica, di cui quei fenomeni anormali sono il sedimento, l’effetto di un appello ad un soggetto in potenza, ma precluso nell’atto. Sembra una favola, ma è realtà scientifica: se nel reale sociale quella rete simbolica trova un’incarnazione, un luogo vivente che ne prenda atto, questo diviene l’interlocutore di una soggettività potenziale e assiste all’atto di nascita di un soggetto mai nato. Farsi interlocutori di un soggetto in potenza è il frutto di una sovversione etica, di una decisione e di un atto che non sono riducibili né ad un sapere scientifico, né ad un testo di legge. L’impasse odierna dei servizi psichiatrici, che siano quelli pubblici o quelli sorti nel privato-sociale, testimonia dell’urgenza di questa trasformazione etica. Come rianimare questi servizi, come riabilitarli a quella interlocuzione possibile con il disagio mentale, che sia creativa (poietica) di soggettività nuova? E quindi, diciamolo, di quella nuova forma di amore che tutti stiamo cercando? Vi propongo di leggere i 30 anni della legge 180 alla luce di questa domanda e a questo scopo riporto di seguito alcune riflessioni sul tema della ‘animazione’ in psichiatria che ho svolte in un incontro organizzato dal DSM di Ravenna. Sono il frutto dell’esperienza di qualcuno che ha preso atto della “questione preliminare ad ogni trattamento possibile della psicosi” con cui Lacan, negli anni ’50, aveva sintetizzato il contributo scientifico della psicoanalisi alla pratica psichiatrica. Esso riguarda fondamentalmente ciò che la legge 180 voleva promuovere: il lavoro sul territorio. Se questo, per comune giudizio, non è decollato, è perché comporta un cambiamento della cultura sulla malattia mentale a cui la struttura della psichiatria resiste. L’attribuzione totale della psichiatria alle Aziende ospedaliere in Lombardia ne è un esempio. Le nuove competenze oggi presenti nella società (basti pensare alle migliaia di giovani psicologi ed educatori, alla formazione psicoterapica post-laurea (più di 150 Scuole

riconosciute dal MIUR) non sono minimamente utilizzate ed agiscono in rivoli paralleli, privatistici, del privato-sociale, in progetti legati agli enti locali e via discorrendo. Un altro soggetto sociale nuovo è l’associativismo degli utenti e dei familiari, anch’esso in difficoltà di fronte all’autoritarismo monopolista della ‘psichiatria pubblica’. Prendo dal vocabolario locale il termine di ‘animazione’ proprio per indicare una possibile direzione nuova del lavoro sul territorio, meno medicalizzata e più dialettica rispetto al binario unico che tende a strutturarsi a partire dal reparto ospedaliero (SPDC), quando funziona come unico imbuto delle odierne ‘carriere psichiatriche’ (nuova cronicità). Infatti solo la cultura anti-scientifica di una promessa di guarigione (o di prevenzione) della malattia porta alla cronicità, che è appunto un concetto della cultura medica. Nessuno si sognerebbe di parlare di cronicità a proposito di altre posizioni soggettive di ‘diversamente abili’. Ad esempio nella vicina Svizzera i provvedimenti nel campo della malattia mentale sono considerati di natura sociale, di protezione di cittadini deboli e l’intervento sanitario è considerato eccezionale e viene sorvegliato e seguito da un giudice apposito che chiede ragione di ogni intervento psichiatrico, della sua durata e dei suoi obbiettivi, sottoponendoli a valutazione. Dopo il Manicomio si tratta di passare da una cultura sanitaria ad una cultura della diversità e non di nascondersi dietro il passaggio, puramente nominalistico, da malattia a salute mentale. Carlo Viganò

Che magra consolazione! [ foto 242-247] Da un laboratorio ‘fotografico-poetico’ di Gin Angri e Mauro Fogliaresi presso il Centro di Disturbi Alimentari della Provincia di Como. “Ciò che nell’anima ancora è camera oscura… delinea uno scatto al confine tra corpo e paura” Essere magri o grassi: la vita va comunque stretta. Ho accompagnato Gin Angri, fotografo dall’obiettivo fragile come cristallo di Boemia, in questo cammino d’aure e di corpi immortalati in bilico nel vuoto esistenziale. Come funamboli improvvisati sulle corde di un trapezio di nervi scoperti abbiamo incontrato anime pastello con passi da ballerina sul filo a precipizio e l’ombrellino giusto a fare da contrappeso all’equilibrio esposto al volo del vivere sofferto, incompreso. E se la vita è quel giro di pista trattenuto, nascosto nella maschera triste di un clown, noi abbiamo condiviso un sorriso agrodolce con queste amiche senza età nello specchio effimero del tempo. Abbiamo cercato un tempo diverso, un grandangolo infinito che immortalasse anime senza confini, inconsolabili.


Anoressia? Bulimia?

Nessuno ‘fuorigioco’

Si è voluto alleggerire il peso del mondo in questa punta di compasso che cercava il centro rimato in una comunità di Asso. E in un cerchio familiare si sono trovati prospettive di profonda umanità. Non è stato facile usare la macchina fotografica, emblema del mondo dell’immagine, per accarezzare lo spunto creativo di un corpo non più rivale o nemico. La stessa immagine spesso svilita nel mondo dei media da un’idea di gratificazione solo per ‘il corpo che si mostra senza spirito’ a costi di saldi e ribassi ed altro ancora...

Giocare finalmente da libero è il sogno di ogni ragazzo che è stato imbrigliato da problemi di natura mentale. Calcio, judo, vela, equitazione, escursionismo: sono varie le attività sportive seguite dalla Global Sport Lario, un sodalizio che si occupa di sport come strumento riabilitativo e socializzante. [ foto 234-237]

Ma che dice il poeta atterrando da questo volo solidale? Sara, Monica, Ester, Caterina, Vanessa ecc… ognuna un’età, uno specchio e un sorriso nella rubrica del cuore ad aspettare la conferma di uno scatto d’amore, nell’accettarsi con meno rigore, in un totale armonioso volersi bene… Il mondo fuori e il mondo dentro tratteggiati da un’ombra nobile, elegante e Gin fotografo esile, ed io poeta senza rima, rispettosi, teneramente turbati da tanta terrena disarmata corporeità. Poco sappiamo di diete ferree e vomiti accelerati. Al DCA siamo atterrati (non atterriti) disarmati con una Nikon e una rima nel taschino della giacca. E pensando in umiltà di ‘insegnare’ quanto abbiamo imparato. In fondo ne eravamo certi (e senza l’obbligo di un risconto fotografico). Rose pregiate e lussuose orchidee? Anime lievi come ranuncoli, papaveri, fiordalisi ci hanno arricchito di indimenticabili sorrisi… Mauro Fogliaresi

Attività riabilitative I corsi al computer di ‘Nessuno è perfetto’ In pochi emblematici scatti viene documentato un corso al computer di alcuni soci del ‘Nep’, un’associazione di utenti e operatori del Dipartimento di Salute Mentale particolarmente attenta al mondo della comunicazione. L’apprendimento avanzato dei programmi d’informatica agevola l’avvio di borse lavoro e l’utilizzo di nuove risorse da investire nel mondo del web di Radio Nep. [ foto 248-249]

Anche televisione Un’immagine ricorda il programma televisivo C’è dell’altro!, una trasmissione controcorrente di una tv privata inventata da alcuni ragazzi della Comunità di Ossuccio. Un programma che ha avuto un riscontro di pubblico notevole e che è diventato un’occasione per promuovere in modo giocoso e diverso il tema della malattia mentale. [ foto 250]

La musica dei Viola Psiche Suonano Rock duro nella sala prove dell’ex reparto Tranquille Donne del San Martino. [ foto 238-241] Tomaso Baj Grafici Senza Frontiere

Testimonianza dal reparto [ foto 251-256] Il mio primo ricovero in SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura) è avvenuto nel 2000, un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Sono stato contenuto perché chiedevo il mio avvocato. Gridavo e avevo la gola secca, volevo mi facessero le terapie nel braccio e non nel sedere, per dimostrare che avevo ragione: “le punture sul sedere non lasciano tracce”. Quando mi hanno legato mi scappava la pipì, ricordo bene, è stata una manipolazione del mio essere, “fatemi alzare almeno per la pipì”. Mi hanno messo il catetere, un tubo di gomma collegato ad una sacca con il pene. Io ero tremendamente dispiaciuto per questa cosa. Avevo sete, mi dava da bere un paziente, mio compagno di stanza. Mi ricordo la bocca secchissima. Diciamo che in quel momento lì avevo paura ma anche fiducia nell’infermiere, “siamo in una nazione civile non nelle prigioni civili turche”. Mi ricordo che avevo fatto amicizia con Giovanni, un infermiere che faceva anche i servizi cimiteriali “se stai buono ti slegano”. La violazione era stata un po’ troppa, io non ero violento. Così legato avevo paura anche che qualcuno mi facesse del male, che approfittasse di me e del mio momentaneo essere indifeso. Dicevo: “dove volete che vada”, erano tutti grandi e grossi. Mi hanno legato anche durante l’ultimo TSO. Uscivano tutti, dove volevano che andassi. Il nuovo SPDC è molto bello, si mangia bene ...a parte le persone ricoverate che sporcano tutto. Il medico dovrebbe essere contento del nuovo reparto, si sta bene. Penso si debba lavorare molto sul personale; la psichiatria è da rifare; si fanno cose belle ma il personale è rimasto al vecchio metodo, “violenta la parte psicologica”; le infermiere non sono cattive, sono state abituate così, non hanno capito che le cose stanno cambiando. Mi ha colpito quando il dottore mi disse: “il reparto è aperto, puoi uscire, te ne puoi andare”... comprendo come questi operatori sanitari siano

messi sotto pressione per la violenza che si apprende dai giornali. La mia idea era solo quella di scappare, non esser considerato... l’ultimo rapporto sessuale che ho avuto è stato con una paziente... Anna... “paziente lei e io, ci siamo compresi”. Iniziare un rapporto con una ragazza normale che... Ho preso medicine che mi hanno impedito di avere rapporti, quando ho tolto il risperdal ho avuto la mia possibilità. Il neurolettico non ti fa innamorare. Davvero. Tutti singoli come ramenghi. … C’è la terapia magnetica, ha una sigla SMT, stimolazione magnetica transcranica che interviene tramite dei magneti, noi siamo sensibili al magnetismo e può essere utile per la depressione leggera e per le malattie meno pesanti. C’è un tizio Luciano Muti che ha inventato anni fa nel ‘96 una macchina per calmare. … Andai dal marito della dottoressa, io ero sempre più arrabbiato. Dai test venivo sempre più normale, io ero normale, avevo problemi economici... il fatto è che quando ti fanno il primo TSO tutto poi diventa più facile e routinario per i medici. In primo luogo quando tu hai un TSO e lo vedono tutti anche i vicini di casa, chiamano più facilmente i servizi per allarmi quali suonar le chitarre forte; le persone non parlano più con te, si rivolgono direttamente alle persone che poi verranno a prendermi. Nel mio caso dicevano ai miei genitori e loro poi allo psichiatra. Il primo TSO mi han preso in casa, stavo partendo per l’Umbria, sono arrivati quelli della polizia, nota a me per il fatto che mio padre gridava e mi trattava male e io avevo fatto un esposto. Sono arrivati anche gli operatori sanitari; ero davanti a casa mia e gli dissi: “vai a chiamare la polizia” e loro mi dissero “sono io la polizia”... io volevo andar via. Paolo Ex ospite SPDC

L’animazione in psichiatria Innanzitutto una puntualizzazione: l’animazione è una dimensione essenziale della clinica psichiatrica. Uso la parola clinica perché è una parola che secondo me va un po’ recuperata. La parola ‘clinica’ deriva da Kliné (letto) che vuol dire imparare al letto del malato: dall’ascolto, dalla relazione, dalla presenza del malato, del soggetto nella sua irripetibile particolarità. Una statistica fatta recentemente dal mio amico Andreoli di Ginevra afferma che l’utenza classica affetta da psicosi, quella dei malati che hanno una sorta di questione strutturale e per certi aspetti irreversibile e non per questo non vanno inseriti e pensati in una mira di inserimento sociale, riguarda il 18% dell’utenza del servizio psichiatrico; una fascia che è rimasta stabile fino a prima della legge 180, quando sono stati aperti i manicomi. Negli anni ’50 si era cominciata a inserire un’altra patologia, cosiddetta delle depressioni,


che ha avuto un incremento esponenziale enorme nella popolazione, che ora si è stabilizzata con i farmaci e che concerne circa il 40% della nostra utenza. L’altra parte riguarda la metà dell’utenza attuale, quella che lui chiamava la ‘patologia del controllo delle emozioni’, quella che si manifesta con la modalità della crisi, multifattoriale, di fascia d’età sempre più giovanile, tendenzialmente adolescenziale che si esprime con anoressia, dipendenza, violenza, instabilità dell’umore ecc. Il problema è come articolare il sapere a partire dalla patologia classica psicotica, patologia grave; grave è una parola che a me non piace per niente. È una fascia di soggetti che ha una struttura particolare, rispetto a cui il termine gravità ha più una connotazione sociale di tipo negativo, che non psicopatologica. Sono i classici ‘diversi’ che, non per questo, sono necessariamente da pensarsi nel senso di una gravità o di una pericolosità. Nello studio di Andreoli, questo 18% dei pazienti costa ai servizi quasi il 70% della spesa; questo è un problema che agli organizzatori amministrativi pone dei quesiti: come mai il 18 % della popolazione costa così tanto? Credo che se riusciamo a fare meglio, potremo forse pensare dove sta lo spreco, l’elefantiasi di un sistema di cura rispetto alla patologia. Sicuramente sta nella difficoltà diagnostica iniziale nel separare queste tre fasce di utenza cui sommariamente ho fatto cenno. Trattare il 100% delle persone che passano dai nostri servizi come schizofrenici senza un intervento rapido su una crisi che si può risolvere con una notte di sonno chiamando i parenti o i conviventi, e cercando di capire dal convivente o capendo la contingenza che si è creata nel determinare quella crisi, si risparmierebbero anni e anni di un imbuto psichiatrico che porta tutti verso un modello della psichiatria. Da qualunque parte siano arrivati: dalla droga, da una crisi di violenza, da un tentato suicidio, l’apparato tende a portare tutti in un trattamento eterno, cronicizzante. Su questa considerazione c’è un grosso dispendio d’energie, denaro, sforzi e anche disumanità. Questo come premessa. L’animazione ha una radice storica legata alle malattie strutturali, classiche, quelle che una volta erano da manicomio. Non vi era una diagnosi strutturata, il modello era quello della malattia psicotica. L’animazione in questo campo raccoglieva l’eredità basagliana e andava contro l’istituzionalizzazione di questi malati. Questo è il primo punto. Un altro punto importante è che il cambiamento dell’utenza nei servizi psichiatrici sta modificando la modellizzazione spontanea, inconsapevole, della malattia per ciascun operatore, e nel corso di questo mutamento il riferimento all’animazione diventa più problematico; perché è chiaro che un giovane che è andato in crisi, che ha tentato suicidio perché è stato mollato dalla ragazza, non può avere lo stesso tipo di animazione di uno schizofrenico o di una signora che soffre di attacchi di panico. Ci sono quindi bisogni diversi a fronte della difficoltà di dare una chiara teoria di come si dia l’anima, se si intende l’animazione

come dare l’anima al paziente, di animarlo. Vi propongo di pensare che il problema dell’anima riguardi l’operatore e non il paziente. Così io leggo l’implicazione dell’operatore a livello del suo desiderio soggettivo aldilà delle tecniche e dei modelli di malattia che lui ha. Una quarta connotazione: l’animazione riguarda il partner del paziente. Quello che io chiamerò l’Altro del paziente, chi, come e per quanto tempo sta con lui. Le osservazioni fatte sul tempo dell’animazione, riguardano il fatto che spesso si pensa sia un’attività svolta nel tempo libero. Ma tutti dicono: questi pazienti hanno un tempo libero che dura 24 ore su 24. È strano pensare ad un’attività del tempo libero per persone oppresse dal tempo libero stesso. Ma se riportiamo la parola ‘tempo libero’ a questa dimensione di libertà nell’evolvere del tempo si capisce meglio quale è il punto ove va a colpire l’esperienza dell’animazione; perché il tempo psicotico in realtà non è un tempo libero ma più che occupato, anzi solo occupato, un tempo addirittura blindato. Lo psicotico è in realtà una persona che iper-lavora, fa un doppio lavoro: quello di relazione con l’esterno, per cui cerca di adeguarsi alle nostre aspettative; e quello suo interno che è un lavoro molto impegnativo, anche se enigmatico e poco visibile. Per questo gli psicotici che stanno a letto tutto il giorno mi dicono certe volte: “sono stanchissimo”, e hanno ragione. Un’ulteriore osservazione che ricavo dalle interviste è il lato istituzionale che, di fronte a questi problemi di impatto con un paziente psicotico che deve essere animato, è una dimensione che si distacca nettamente dalla formazione medico-biologica. Quanto più ci si identifica con una formazione tecnico-scientifico operativa che definisce un mansionario specifico, tanto meno si trova disposto e disponibile al tema dell’animazione. Questo non vuol dire che quello dell’animazione debba diventare un tema specialistico, una nuova definizione di ruoli. Stiamo parlando di un tema trasversale rispetto al sapere tecnico-scientifico; è un saperci fare che richiede una preparazione molto elevata, che si impara con il paziente; è il sapere relativo alla relazione che non si fa sui libri. Ultima nota che prelevo dalle interviste è relativa ad una specificità maggiore dell’animazione, cioè che l’animazione riguarda il corpo del paziente, ma anche quello dell’operatore. Il corpo aldilà dell’organismo, al di là della biologia, il corpo che si diverte, che gode. Non è solo un corpo vivo (problema medico), ma è il corpo di un vivente, di qualcuno che però fatica a farlo proprio. L’ipotesi che traggo è che l’animazione sia quell’atto della clinica che di più si avvicina a ciò che corrisponde al tema della guarigione nel campo della salute mentale. Qui il termine guarigione non può essere restituito ad integrum, ma deve essere stabilizzazione soggettiva e un soggetto è stabile solo se diventa creativo, capace di un godimento non autoerotico, non artistico, ma un godimento che passi dall’Altro animato, deve trovare un interlocutore, per cui impara a trovare soddisfazione con un Altro. Vi propongo una definizione di animazione: è ciò che rende l’Altro non inerte ma partner delle soddisfazioni del soggetto ‘malato’. Essere partner con

il paziente in un godimento nuovo, non autistico riguarda il corpo e il discorso, cioè il legame sociale.

Non c’è terapia senza animazione Vediamo di dare qualche connotazione più clinica, precisa alla metodologia dell’animazione. Basaglia riconosceva che il manicomio era stato per tutti gli operatori una grande scuola di vita e si augurava che questo valore venisse mantenuto anche nella vita di tutti giorni dopo l’abolizione del manicomio. Che cos’è questo valore? Cosa s’imparava? S’imparava come può esprimersi lo psicotico che è fuori dal discorso e fuori dalla parola. Come si esprime il suo stile per esternare le emozioni, l’amore, il riconoscimento, che è cosi iperrealistico, e tutto giocato nel reale, fuori dalla finzione della parola. Come diceva già Freud, non è vero che lo psicotico non abbia una capacità di transfert; certo il transfert psicotico non è come quello del nevrotico, che veicola l’angoscia e quindi lo porta a potersi curare con i famosi colloqui o addirittura la psicanalisi. Lo psicotico non ha quel tipo di transfert, quindi non lo si cura con i colloqui, non lo si cura con le parole, ma ha un transfert reale. Pensate come lo psicotico sia legato alle mura che lo racchiudono, in fondo; ma che tipo di transfert ha su questo luogo fisico? C’è materiale per cogliere qual è e come sia massiccia la capacità di transfert di uno psicotico. E abbiamo visto nel lavoro di demanicomializzazione che razza di difficoltà hanno avuto in molti malati a lasciare il luogo dove sono vissuti dieci, quindici, vent’anni; non per un’abitudine animalesca, di addomesticamento, ma per una protezione, per una facilitazione che quei luoghi erano capaci di dare alla loro quotidianità: il ritmo del sonno, della veglia, del nutrimento, delle soddisfazioni. E quindi le difficoltà che si sono incontrate nell’organizzare nuovi percorsi regolati e facilitati dello stesso tipo ma in maniera più evoluta. Pertanto lo psicotico non è fuori dalla relazione, ha un transfert che è tutto nel reale, nelle cose, tutto nell’uso che fa di quelle cose. Ed è un uso particolare che lo psicotico fa del corpo, per cui il godimento è da realizzare fuori del corpo, perché il soggetto non è arrivato ad appropriarsene, a farlo proprio, come se non avesse un corpo proprio. È il caso dello schizofrenico che è fatto di tanti pezzetti, per cui un giorno parla di una mano, poi dopo sono le articolazioni che parlano, ecc… Sono sempre segmenti del corpo in cui si concentra la sua relazione e il suo mondo. E questo è già un primo obiettivo del lavoro di animazione, familiarizzarsi con il proprio corpo che è sostanzialmente estraneo. Allora, vediamo qual è il lavoro che fa lo psicotico, diciamo quando è lasciato a se stesso, senza partner, alienato nel puro reale. Fondamentalmente qui mi appoggio ad un formalismo psicanalitico, così divulgato da poterlo utilizzare fuori da un contesto specialistico. Normalmente, è il discorso a darci un posto nell’esistenza, nella realtà. Quello che appunto Freud chiamava la connessione relazionale, che nominava Edipo. Quindi il padre, la madre, il figlio, la


triangolazione che costruisce un ponte discorsivo, un legame sociale per i godimenti dell’Altro e quelli del soggetto. Il soggetto trova nel legame un posto simbolico, una sua rappresentanza che è il suo valore fallico. Il termine ‘fallo’ si riferisce alla sfera della sessualità, il fallo è una funzione e non un organo, sia per l’uomo che per la donna. È il passaggio dall’organico alla funzione simbolica è ciò che dà un ordine, una legalità alle soddisfazioni umane. Lo psicotico è qualcuno che ha delle difficoltà a raggiungere l’organizzazione edipica e quindi simbolica del proprio corpo. Non è in grado di organizzare la propria ricerca del piacere e il rapporto con se stesso tramite il linguaggio della parola, tramite lo scambio di domande, di doni e di attesa, quello che chiamiamo amore. Si trova fuori discorso, perciò senza la competenza di localizzare un’immagine d’interesse, di adottare le strategie di avvicinamento e poi prevedere la risposta dell’Altro. Questa sfera di organizzazione simbolica è disturbata. Pertanto, la condizione in cui si trova a vivere lo psicotico è, per questo motivo, di difficoltà nell’organizzazione simbolica. Lo psicotico si troverà in una condizione di emarginazione nei confronti di qualunque scambio sociale, e l’interlocutore apparirà come qualcuno che si presenta con il carattere della persecutorietà, dell’enigmaticità, perché il soggetto non riesce ad entrare nel gioco. Il gioco sociale diventa sempre più persecutorio nell’esperienza dello psicotico. E pur accorgendosi di essere fuori dal gioco relazionale, simbolico, si deve difendere dall’Altro, dalla chiamata a giocare. Pensate che ogni relazione umana rischia di far sentire al soggetto un appello, ogni segno che coglie come riferito a sé diventa una chiamata che è persecutoria, sotto forma di voci, allucinazioni, fenomeni di ogni tipo che lo riguardano aldilà di ogni possibilità di creare uno scudo protettivo. Quindi la qualità persecutoria dell’Altro e il congelamento di tutto ciò che è simbolico a partire da questo suo essere estraneo alla produzione del senso, del gioco simbolico. Tutto ciò porta alla prima operazione del lavoro psicotico, che chiamerò di autodifesa. Lo psicotico fa una seconda operazione che io chiamerei di autocostruzione. Questa è l’operazione che dimostra che pure essendo fuori dal discorso, dall’operazione simbolica, egli non è fuori dal linguaggio; pensiamo alla forma più elementare con cui si esprime questa forma di autocostruzione: quei gesti ripetitivi che suppongono una scansione elementare, significante, simbolica, fatta di un più e un meno, in linea con il linguaggio dell’elettronica. Sono movimenti monotoni eppure scandiscono una differenza, come il metronomo che segna il tempo per chi si esercita a suonare uno strumento. Lo psicotico produce così un proprio mondo simbolico, che non comunica con il mondo simbolico con il quale si è trovato a non entrare in connessione, con quella realtà dove non ha trovato un proprio posto. Tutti questi gesti ripetitivi, tutti i giochi con oggetti, tutte le operazioni sia elementari che evolute, danno un senso alla sua esistenza. Sono la costruzione di un mondo simbolico di supplenza, che però gli permette di sopravvivere. Detto questo vediamo allora attraverso quale meccanismo lo psi-

cotico può trovare una sua stabilità, una sua vita integrata con il resto della vita sociale, una sua forma di integrazione. A partire da questi meccanismi egli tenta, fondamentalmente, di creare nell’Altro un ordine pacificante che gli permetta di vivere protetto dalla persecutorietà dell’Altro. Spero che tutto sia chiaro: persecutorietà non intenzionale della società, ma strutturale. Quindi la stabilizzazione dello psicotico avviene attraverso il suo lavoro di togliere la persecutorietà dell’Altro, di introdurre delle regole e far diventare prevedibile la sua partnership. Il manicomio una volta, in questo senso, era scuola di vita perché si proponeva come un laboratorio in cui si producevano spontaneamente tutte queste operazioni. Aveva il valore di un campo di osservazione, certo per chi sapeva osservare. Oggi si richiede molta più attenzione, ci sono tutte queste strutture e il campo di osservazione spesso è il quartiere, la famiglia, il luogo dove vive il soggetto. E noi siamo meno portati ad avere una percezione intera di questi movimenti del soggetto, perché la nostra osservazione è frammentata da ruoli, luoghi, occasioni sociali per cui non abbiamo questa osservazione intera della dinamica del soggetto. Lui si trova a fare questo lavoro da solo. Noi, che siamo il suo Altro, siamo tendenzialmente scissi, frammentati nel fare da partnership del soggetto; quindi per certi aspetti stiamo rendendo più difficile il compito dello psicotico. Il problema non è tanto pensare all’integrazione come un ritorno alla possibilità di comprendere tutta la vita del soggetto, ma quello che prima era realizzato dal luogo di vita del manicomio dovremmo realizzarlo nella nostra testa, deve essere integrato nel nostro modo di concepire la relazione con il paziente. Non c’è bisogno pertanto di ricostruire luoghi, malgrado queste spinte a ritornare sui passi fatti. Il problema è, una volta abolito il luogo fisico dell’integrazione, di ritrovare una integrazione nella relazione con il paziente e relazionarsi con lui tenendo conto di tutta la sua storia. Un altro esempio di spezzettamento della nostra partnership verso il paziente riguarda una schizofrenia funzionale d’intervento; persone che nelle diverse èquipes, ristrutturazione di servizi e cambiamenti di primari, riforme, ecc. hanno cambiato diagnosi e strategie di intervento; discorsi fatti alla famiglia completamente scissi l’uno rispetto a quello precedente. Per cui il soggetto ha dovuto, come ha potuto, integrare questo insieme di programmi fatti su di lui e ha cercato di accontentare tutti questi operatori che si sono susseguiti nella sua esperienza. Per uno psicotico, ricostruire la propria esistenza e accontentare tutte queste persone è un vero problema. Questo per sottolineare una frammentazione che prescinde dalla storia. Le cartelle poi non contengono quasi nulla, i famigliari ad un certo punto mollano e il paziente è quasi sempre l’unica fonte di informazione concreta. Le diagnosi si formano seguendo le mode: schizofrenico, borderline, depresso...; e con farmaci che qualche volta sono dei veri cocktail universali... per anni e anni e poi giunge un altro e cambia la terapia, più precisamente modifica il cocktail. Ora io elencherei rapidamente tre livelli di queste operazioni con

cui il paziente cerca di regolare la propria relazione con l’Altro. Il primo è quello di introdurre nell’Altro una mancanza, decompletare l’Altro: un Altro completo, che ha le risposte a tutto, quello che noi chiamiamo totalitarismo, non gli permette di vivere. Lo psicotico deve creare uno spazio per poter nascere come soggetto. Ed è su questo punto che l’intervento dello psicotico, che cerca di creare un taglio nel partner, finisce per agire, autisticamente, sul proprio corpo. Di qui tutte le automutilazioni; anche la stessa anoressia può pensarsi come un intervento di automutilazione. E poi naturalmente c’è anche la violenza eteroaggressiva. Una seconda operazione è quella di erotizzare una parte del corpo o più frequentemente un’appendice del corpo, un oggetto che può essere un foulard, un tipo di vestito, una divisa, un’insegna che il soggetto si trova come simbolo che lo riconosce e che gli permette di essere riconosciuto dall’Altro. Una bizzarria nel vestirsi o degli oggetti che tiene in tasca. Il terzo lavoro che lo psicotico fa è a livello della costruzione sessuale. Questo è un argomento che spesso nei nostri congressi non è preso in considerazione: la sessualità dei pazienti di cui ci occupiamo. Come egli si costruisce un’identità sessuale a partire da questa difficoltà nello scambio simbolico? È su questo punto che il soggetto tende a costruire un punto di identità, un’identificazione che costituisce il nocciolo o il punto di partenza per tutte le elaborazioni deliranti: costruire un punto di riconoscimento simbolico di sé e di proiezione sul mondo e sulle relazioni possibili con il mondo. Rispetto a questa costruzione, che dà un posto sessuato e simbolico al soggetto e che può essere grandiosa, persecutoria, ecc.., il problema di fare da partner a questo mondo di costruzione delirante è uno dei più delicati. Perché è chiaro che non è sul versante della realtà che si fa fronte a questa costruzione, ma è con una modalità più trasversale che si può accettare, relativizzare e portare a quasi normalità questa costruzione, arrivando a far funzionare il delirio come un fantasma e come una fantasia. A mo’ di conclusione, vorrei accennare a come si può pensare una partnership da parte della istituzione e degli operatori in questo mondo, in questa elaborazione soggettiva. Tutto questo mi serviva per creare la suspence su che cosa possiamo fare e come animare il Servizio che si offre come partner in questo tipo di esperienza. Quindi la funzione del partner, dell’istituzione è quella di rassicurare il soggetto, aiutarlo e accompagnarlo nella costruzione di questa regolazione del suo Altro, di questo ordine che non è stato trovato nei tempi normali. Io credo che si può pensare a due tempi di accompagnamento.Innanzitutto il partner deve farsi un oggetto buono per il paziente; come diceva Winnicott, “una madre sufficientemente buona”. Sufficientemente buona non vuol dire del tutto buona, perché risulterebbe persecutoria. Le madri degli psicotici, per chi ha esperienza nel campo, sa che sono madri troppo buone, hanno preso questo figlio come oggetto e lo hanno invaso con la loro cura, ne hanno fatto l’oggetto sostitutivo per la loro soddisfazione. Comunque, stabilire un buon rapporto vuol dire fondamen-


talmente riuscire ad essere partner di questo lavoro spontaneo che lo psicotico fa, cominciare a coglierne le linee strutturali, capirlo insomma. La famosa scuola di cui parlava Basaglia: entrare in relazione con ciò che lui ha già fatto come autocura e costruire un accompagnamento positivo nell’autocura. Il secondo movimento è quando il partner cambia posto e si pone in una posizione più Altra, si mette dal punto di vista dell’Altro, quindi tendenzialmente dell’Altro sociale e comincia a restituire al paziente ciò che il suo sguardo gli fa vedere. A partire da una posizione sufficientemente buona, quindi di non completezza, di non sapere tutto, può far sì che il paziente cominci a vedersi attraverso l’Altro che ha dimostrato di esserci, di non abbandonarlo e anche di non avere un sapere precostituito su di lui; quindi fa sì che il paziente cominci a vedersi visto dall’Altro in maniera non persecutoria ma può vedere che l’Altro coglie i suoi cambiamenti dell’umore, coglie le sue furie e cerca di decodificare tutti i momenti; quindi un Altro non persecutorio può cominciare a restituire al soggetto qualcosa degli atti che egli stesso compie. Non è mai un’interpretazione. Noi tentiamo di arrivare a capire ciò che ha sentito, quindi ricostruire insieme al paziente questi suoi godimenti interni che non hanno trovato una via di comunicazione. Ecco che questi due movimenti sono il modo con cui il godimento autoerotico, autolesionistico del soggetto può cominciare a passare attraverso l’Altro, tollerare di essere compreso, commentato e partecipato con l’Altro. In questa direzione, qualunque iniziativa è utile in quanto fornisce occasioni non strettamente codificate nel senso medico-biologico. È un tipo di restituzione, di incarico anche nei momenti della cura della pillola, dell’iniezione; qualunque momento può essere un momento di scambio animato. Si può animare la distribuzione delle pillole; anche la visita medica diventa mettersi nell’ottica di quel partner, di una enunciazione soggettiva del soggetto. Carlo Viganò Psichiatra e psicoanalista; docente presso l’Istituto Freudiano di Roma

Un posto per vivere “La cosa importante che abbiamo dimostrato è che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, venti anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi o più chiusi di prima, io questo non lo so, ma, ad ogni modo, noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzare voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro: è che ora si può fare!”(Franco Basaglia, 28 giugno 1979, Conferenze a Rio De Janeiro) Ricorre quest’anno il trentennale della legge 180 di Riforma Psichiatrica che, raccogliendo le istanze di un ampio movimento culturale, politico e tecnico di critica alla istituzione totale come risposta

ai bisogni di salute mentale dei cittadini, ha proposto la chiusura graduale degli ospedali psichiatrici attraverso la costituzione di servizi di comunità diffusi nel territorio. La riforma dell’assistenza psichiatrica nel nostro paese, con il passaggio da un modello basato sull’Ospedale Psichiatrico a un modello basato su servizi nella comunità, ha comportato, tra l’altro, il superamento dell’identificazione del luogo di cura con il luogo di vita. Le persone, che abbiano o non abbiano disturbi mentali, hanno in primo luogo bisogno di ‘un posto per vivere’ e, semplicemente, come tutti, dovrebbero vivere nella comunità. La promozione della salute mentale, tuttavia, incontra ancora ostacoli non facili da superare. Oltre alla scarsità di risorse, la sussistenza di pregiudizi tuttora largamente condivisi e l’insufficiente diffusione delle conoscenze non sempre consentono di elevare a sufficienza la qualità dei servizi che si misura tuttora con il nodo cruciale dell’accessibilità. Lo stigma associato ai disturbi mentali continua ad essere un problema specie negli strati economicamente e culturalmente svantaggiati In questi ultimi anni, emergono tuttavia elementi significativi che contribuiscono a tracciare un confine sempre più preciso tra il vecchio e il nuovo. Gli aspetti di novità vedono l’intreccio tra movimenti culturali e provvedimenti legislativi che raccolgono e rendono cogenti le aspirazioni e le intuizioni maturate dai servizi in una prima lunga fase di pratiche di applicazione dei contenuti della riforma psichiatrica. Si prende atto che il fatto puro e semplice di vivere nella comunità non implica solo il godimento formale dei diritti di cittadinanza, ma richiede. - dal versante degli utenti, la piena consapevolezza della disponibilità di questi diritti; - dal versante della comunità, l’accettazione del malato mental; - dal versante dei servizi, la capacità di porre il rispetto dei valori del singolo utente al centro della propria politica e pratica, riconoscendo che, costruendo sui punti di forza, sulle risorse individuali e sui desideri di ogni persona, ci sono molte e diverse vie per il recupero della salute. Più in generale, si fa strada un approccio preventivo e di promozione della salute: è importante comprendere che la salute mentale può essere promossa anche in presenza di malattie mentali ed al di là del necessario trattamento delle medesime. La promozione del benessere, e di condizioni di equilibrio che includano il sé, gli altri e l’ambiente, non può che comprendere e coinvolgere tutti i cittadini, al di là del trattamento richiesto dagli stati di malattia. In questo senso, la consapevolezza dei determinanti sociali ed economici dei disturbi mentali può aiutare la comunità a capire come cercare di migliorare. Ornella Kauffmann Coordinatrice Programma Innovativo “Una rete per la salute mentale”, Dipartimento Salute Mentale Azienda Ospedaliera Sant’Anna

“Dio esagera col silenzio” foto 199 “Dio esagera col silenzio, l’uomo con la parola” Un cartello inchiodato su un albero. I colori. Una foto bellissima: la scelta dell’inquadratura... La bellezza della foto ci sorprende ma, presto, la nostra immaginazione è attratta da un volto che non appare. Conosciamo i luoghi da cui provengono le immagini fotografiche che abbiamo visto scorrere nel volume. Cerchiamo allora di immaginarci il volto di chi ha scritto quelle parole che ci risultano familiari. Quante volte ci siamo interrogati sul silenzio di Dio? Quante volte ci siamo sentiti sgomenti di fronte al mistero della parola? E l’accostamento tra il silenzio di Dio e il mistero della parola? Un ricoverato forse ha espresso nostri stati d’animo ricorrenti! Uno dei volti segnati di cui c’è ancora traccia negli archivi dell’Ospedale Psichiatrico? Lo vediamo scrivere con due colori diversi: “Dio ESAGERA COL SILENZIO” in nero e “L’UOMO CON LA PAROLA” in bianco. Lo immaginiamo nell’atto di appendere il cartello all’albero scelto. Qualcuno l’avrà aiutato? Siamo tentati di chiedere agli organizzatori dell’evento... “le parole dimenticate” se è possibile risalire all’autore... Torniamo però al presente. Ci domandiamo: è possibile che le foto di questo libro ci consentano una lettura ‘estetica’ dell’esperienza manicomiale e post-manicomiale? Qualcosa che le parole non potrebbero dirci? Un convegno tenuto a Roma qualche anno fa, avente per tema il fallimento del manicomio come luogo di cura, si concluse con una domanda: Come è potuto accadere? Come è potuto accadere che la tensione filantropica che voleva la realizzazione di luoghi di cura abbia così spesso prodotto luoghi di concentrazione senza ritorno? Eterogeneità dei fini? “Unintended consequences”? Conseguenze non intenzionali, come in modo più semplice vengono definite in lingua inglese. Ma, forse di maggiore interesse è la domanda: potrebbe ancora accadere? La legge che ha determinato la chiusura dei manicomi del nostro paese, non è possibile negarlo, è stata una legge brutale; le intenzioni erano buone, come quelle degli utopisti che vollero con forza la realizzazione dei luoghi di cura manicomiali. Molte, troppe, le conseguenze non intenzionali. ‘Malattie degli affetti’ e ‘diritti umani’ avrebbero richiesto meno ‘zelo riformatore’ e maggiore ‘educazione sentimentale’. Ecco che una lettura sentimentale, uno sguardo alle immagini d’archivio può finalmente riproporre un percorso dolce alla cura dei disturbi mentali.


Non meno della cura, la promozione della salute mentale non ammette brutalità. Le buone intenzioni non sono garanzia di coerenza con i fini. La ‘terapia’ è dare voce a chi non è stato ascoltato per troppo tempo. Il nuovo paradigma è mettere le persone che sono, oggi, titolari di diritti, nella condizione di poterli realmente esercitare. Insomma, meno “unintended consequences” attraverso una maggiore attenzione ai percorsi di ‘empowerment’. Antonio Mastroeni Dipartimento di Salute Mentale - Como

Nota Le fotografie sono pubblicate con il consenso dei diretti interessati.

Gin Angri - Fotografo

Mauro Fogliaresi - Poeta

1979 inizia la sua attività di fotografo a Como producendo immagini pubblicitarie, d’architettura e industriali; con lo studio Nodo pubblica il libro Como, guida alla storia, all’arte ed all’attualità 1981.

Ha pubblicato il volume Il comizio degli ombrelli e Il libraio annuvolato ed. Marna, Il cerchio di un addio ed. Dominioni, Ghiaccioli e venti lire ed anche 6 agosto 1945 per la Pulcino Elefante. Sue poesie sono apparse in varie antologie, alcune tradotte in tedesco.

Dal 1982, per dieci anni, lavora in Mozambìco, prima come responsabile del Centro di Formazione Fotografica, ed in seguito come fotografo ed insegnante di fotografia presso l’Istituto di Comunicazione Sociale di Maputo. Nel 1990 cura l’edizione del libro fotografico Karingana wa Karingana, il Mozambico contemporaneo visto dai suoi fotografi ed. COOP. Dal ‘92 con il suo ritorno in Italia collabora con agenzie fotografiche, seguendo temi di carattere sociale e di attualità. Espone i propri lavori in molte mostre collettive ed individuali. Nel 1993 e successivamente nel 1995 realizza reportage dall’ex Jugoslavia. Nel 1999 è in Somalia, a Merka, dove documenta il difficile tentativo di ritorno alla normalità dopo gli anni della guerra civile. Espone questo lavoro nella mostra Somalia un pallone per la pace Con l’associazione Luoghi Non Comuni, documenta, per oltre un anno, nel ‘99, la vita all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Como, e le fasi che hanno portato alla sua definitiva chiusura, pubblicando il libro fotografico L’estate di San Martino con mostra fotografica presso la Pinacoteca di Como. Continua in seguito ad interessarsi del disagio psico-fisico realizzando reportage sull’anoressia e sull’associazione di musicoterapia La Stravaganza. Nel 2006 e l’anno seguente ad Addis Abeba, in Etiopia, effettuata la documentazione delle attività dell’Associazione Il Sole di Como a sostegno dei minori vittime di abusi sessuali, e tiene un laboratorio fotografico per un gruppo di ragazze ospiti del Centro. Dal 2006 segue le attività della Casa dei Risvegli di Bologna per la cura e la riabilitazione di giovani usciti dal coma e in stato postvegetativo. Collabora come fotogiornalista con agenzie fotografiche pubblicando sulla stampa italiana ed estera.

Ha collaborato per anni con gli assessorati alla cultura, politiche giovanili, servizi sociali del comune di Como. Ha organizzato varie mostre d’arte e di fotografia sul tema dell’handicap. Si occupa della pubblicazione di opere legate al mondo dell’emarginazione e del volontariato. Ha scritto per i giornali “Il caffe“, “La Tribuna”, “Il Corriere di Como”. È fondatore e presidente dell’associazione Luoghi Non Comuni.


Finito di stampare nel luglio 2008 da Grafiche Lambro s.r.l. Via Verdi 22036 Erba (CO)


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