Lamberto Aliberti
C’era d’aspettarselo? La storia. Siamo ai primi d’agosto di quest’anno, filtrano indiscrezioni sui passi del governo: la manovra prevede flat tax e reddito di cittadinanza. Pochi giorni dopo vi si aggiunge lo smontaggio della legge Fornero sulle pensioni. Risposta della borsa: lo spread, il divario % del tasso d’interesse dei BTP a 10 anni rispetto agli omologhi tedeschi, salta intorno a 250 punti, quando da anni navigava sui 130. Insomma, per gli investitori nel debito pubblico, le tre manovre congiunte ne raddoppiano quasi il rischio, quando il governo, in particolare, nella figura del Ministro dell’Economia, Tria, si affretta a parlare di “compatibilità tra gli obiettivi di bilancio” già illustrati in Parlamento e l'avvio delle riforme, contenute nel programma di governo, che ha combinato le promesse elettorali di Lega e Cinque Stelle. Passa un mese e mezzo, occupato nella quantificazione della manovra. Focus sul deficit in rapporto al PIL. Si formano due schieramenti nella maggioranza. Si susseguono cifre decisamente fantasiose. Tria si distingue per ancorarsi a un valore accettabile da parte dell’Unione Europea. Il 20 settembre dichiara: "Non firmerò mai un deficit al 2%". Conte, Presidente del Consiglio, cerca di mediare: «Non impicchiamoci ai decimali. – sic - La manovra deve essere coraggiosa, da consentire crescita e sviluppo sostenibile. Ma dobbiamo essere credibili anche rispetto ai mercati, perché li chiamiamo a fare degli investimenti sui titoli di Stato». Non un problema da niente. Finché il 26 settembre il Governo comunica: il rapporto tra deficit e Pil è fissato al 2,4 per cento contro l’1,6, tetto concordato nei vertici con i colleghi dell’Unione Europea, che reagiscono immediatamente con durezza. Passa una settimana di trattative farraginose e quasi sempre interrotte, finchè Tria annuncia il compromesso: 2,4 nel 2019, 2,1 nel 2020 e 1,8 nel 2021. Ne diventerà subito il massimo difensore, anche se i 2 leaders della maggioranza sembrano piuttosto indifferenti su quanto accadrà oltre il prossimo anno. Né si sono placati gli oppositori o si sono convinti i mercati. Lo spread infatti è balzato a 300 e lì rimane con lievi oscillazioni. È quel 2,4 di deficit che turba?
Lamberto Aliberti
Il deficit nella
86000 81000
indebitamento netto
76000
(milioni di euro)
storia. Prendiamolo un po’ da lontano (fonte Eurostat per tutti i dati). A partire dal deficit, calcolato qui come uscite (è la spesa pubblica) meno entrate. In valori assoluti, siamo in discesa dal 2009, se dimentichiamo il
71000 66000 61000 56000 51000 46000 41000 36000 31000 26000 21000 1995
1997
1999
2001
2003
2005
2007
2009
2011
2013
2015
2017
2014. Che peraltro ha segnato anche un’attenuazione della velocità. Dalla punta del 2009 di circa 85 milioni di euro siamo a meno della metà nel 2017, circa 40. Nella sostanza sembra formarsi un semiciclo analogo a quello iniziale.
115000
interessi
110000
(milioni di euro)
105000 100000 95000 90000 85000
80000 75000 70000 65000 1995
1997
1999
2001
2003
2005
2007
2009
2300000
debito
2200000
(milioni di euro)
2100000
2000000 1900000 1800000 1700000 1600000 1500000 1400000 1300000 1200000 1100000 1995
1997
2013
2015
2017
Sul debito incidono anche gli interessi:
Discesa appena interrotta fino al 2004 Seguono ampie oscillazioni, che sembrano segnare il raggiungimento di una soglia Siccome l’indebitamento non si è mai fermato, pur 1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 attenuato, il debito è cresciuto e forse si possono attribuire queste dinamiche agli interessi.
Ed ecco il debito:
2011
Crescita pressoché ininterrotta
Lamberto Aliberti
Che nei primi 20 anni porta quasi esattamente al raddoppio È particolarmente sinistro il fatto che la crescita del debito prosegua appena rallentata anche da quando l’UE (2011-2013) ce l’ha posto sotto controllo. E il PIL?
1775000
PIL
1725000 1675000
Fino alla crisi del 2008 una crescita più che sostanziosa, ben vicina al raddoppio in 12 anni Dopo stasi, con minime oscillazioni Ripresa solo dal 2014, con tassi peraltro molto ridotti rispetto ai precedenti.
(milioni di euro)
1625000
1575000 1525000 1475000 1425000
1375000 1325000 1275000 1225000 1175000 1125000 1075000 1025000 975000
925000 875000 1995
220 210 200 190 180 170 160 150 140 130 120 110 100 90 80 70 60 50 40 30 1995
1997
1999
2001
2003
2005
2007
2009
2011
2013
2015
2017
Per farci un’idea delle dinamiche delle grandezze, che sono l’assillo non solo dell’economia, ma anche della politica del nostro paese, ce le guardiamo insieme facendo 100 il 1995: La crescita maggiore è del debito: (1995=100) più che raddoppio Nonostanti gli indebitamento netto interessi, interessi sostanzialmente stabili debito PIL fino al 2011, quindi in decisa discesa fino al dimezzamento L’apporto del’indebitamento netto è più incerto, da alto a infimo fino al 1997 1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 1999, quindi più che robusto fino al 2009, fatta eccezione del ciclo 2006-2008, coincidente con la crisi mondiale; dal 2009 discesa, che s’attenua, fino quasi a fermarsi, dal 2011 al 2017 Il PIL ha 3 fasi: 1) crescita notevole, non lontana dal raddoppio, fino al 2008; 2) la crisi subito successiva non porta crolli, ma lo ferma fino al 2013; 3) crescita leggera, ma non così impalpabile, come spesso si fa credere, dal 2014.
dinamiche
Lamberto Aliberti 130 128
debito/PIL
126
(%)
A questo punto ci guardiamo i 2 indici che sono sulla bocca di tutti, cominciando dal rapporto debito/PIL:
124 122
120 118 116
114 112 110
108 106 104
102 100 98 96 1995
1997
1999
2001
2003
2005
2007
2009
2011
2013
2015
2017
Pur abbastanza contenuta, discesa dal ’97 al 2004 Quindi triennio di ripresa, molto lenta Dal 2008 al 2015 la grande crescita
Che porta a una stabilizzazione dal '15 al ‘17 Una volta tanto bisogna osservare bene i valori assoluti: 1) siamo da 20 anni oltre quota 100; 2) 30 punti li abbiamo poi aggiunti in 10; 3) proprio nel periodo in cui si concordava il ritorno al 100% La questione dello sviluppo ovvero della crescita del PIL emerge nel modo più chiaro: fino al 2008 contiene discretemente la crescita del debito, dopo esplosione, per fermarsi ad una quota comunque minacciosa, quando la crescita torna.
Ben più complicato è tradurre in regole il rapporto deficit/PIL, il luogo dove sono posti i vincoli dell’Unione Europea:
Gli anni ’90 vedono una discesa ripida, da vette mai più toccate; I primi 2000 crescita, in un momento in cui il PIL aumenta deciso; 2 anni di discesa (2006-2007); La crisi ci riporta a un biennio di forte crescita(2007-2009) 7.4 Arriviamo così 7.2 7.0 a un periodo di 6.8 deficit/PIL 6.6 6.4 (%) contenimento, molto 6.2 6.0 5.8 graduale che da un 5.6 5.4 5.2 5.5% ci porta a un 5.0 4.8 2.3; insomma una 4.6 4.4 4.2 dinamica positiva, 4.0 3.8 3.6 ma gli impegni con 3.4 3.2 3.0 l’UE? 2.8 2.6 Le discussioni sono 2.4 2.2 2.0 cominciate nel 2011, 1.8 1.6 1.4 come sempre un po’ 1995 1997 1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 farraginose e dense di propositi ed ipotesi. Ne stralciamo 2:
Lamberto Aliberti 7.4 7.2 7.0 6.8 6.6 6.4 6.2 6.0 5.8 5.6 5.4 5.2 5.0 4.8 4.6 4.4 4.2 4.0 3.8 3.6 3.4 3.2 3.0 2.8 2.6 2.4 2.2 2.0 1.8 1.6 1.4 1.2 1.0 0.8 0.6 1995
deficit/PIL
La prima è contenuta in un patto storia del 2011; prevede un impegno ue da patto di rientro nel rapporto bilancio più che graduale e lo impegno ue noto possiamo considerare assolto; la seconda è la più citata e viene richiamata, anche se con valori leggermente maggiori – concordati quando? - proprio in questi giorni (2018) dagli 1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 organi comunitari; non c’è dubbio che richiami severi avrebbero dovuto partire ben prima e riguardare anni anche anteriori al 2017, il primo nel mirino; dobbiamo concludere che se questo governo si sente sotto tiro qualche minuscola ragione ce l’ha. (%)
1997
E lo spread? Quali le conseguenze di tutte queste variabili sullla distanza del tasso praticato sui bond a 10 anni rispetto a quelli tedeschi? 3 fasi: 340
300 280 260 240 220 200 180
160 140 120 100 80 60 40 20 1995
Discesa fino al 2006, fino a un (milioni di euro) minimo di una trentina di punti; in sostanza il divario negli interessi coi tedeschi è di uno 0.3%; siamo affidabili quasi come loro; Deciso incrudimento dal 2007 al 2012; attenzione ai valori: da quel 30% 1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 passiamo al 130 circa, per comprare bond italiani prima bastava un rendimento +0.3% ora occorre garantire agli acquirenti un +1.3%; non è poco;
spread
320
1997
Sul 130% ci restiamo, oscillando, dal 2012 al 2017.
In buona sostanza le dinamiche dello spread, fino a un anno fa, ci portano più ombre che luci. Ma cosa sta succedendo nell’anno in corso?
Lamberto Aliberti
Il 1918. L’aggiornamento ufficiale (Eurostat) è fermo al primo trimestre. Dobbiamo lavorare di ipotesi. Il Pil è la grandezza seguita con più attenzione; è recentissimo l’aggiornamento Istat al terzo trimestre, che è anche una sorpresa amara: niente crescita rispetto al trimestre precedente, che porta a una tendenza di +.8% annuale Più o meno lo stesso per le entrate: in crescita, ma in fase di
ridimensionamento Praticamente stabile è stata la spesa pubblica La conseguenza è che l’indebitamento netto (entrate, oggi quasi solo tasse, meno uscite, solo spesa pubblica) è su livelli assoluti decisamente vicini ai minimi storici, visti prima A metterci nei guai è lo spread; fermo per ¾ del 2018, anzi dal 2012, come s’è visto; quale vetta in quest’ultima parte dell’anno? Qui la stima è che si assesti tra i 300 e i 350 punti, con un aumento di quasi l’80%, ma solo per l’archivio, in quanto tutte le ipotesi sono da fare Ovviamente lo spread ricade sul tasso d’interesse, che, pur nel periodo ristretto, riesce a sfiorare il 4% in ragione d’anno, con una variazione oltre il 35% Il debito continua la sua marcia con un salto superiore al 5% Nonostante il debole tasso di variazione del PIL, il suo rapporto con l’indebitamento netto (deficit) va a finire quasi sulla dimensione concordata con l’Unione Europea: 1,8% Conseguente crescita, ovviamente attenuata, ma ancora significativa, nel rapporto debito/PIL, che sale del 4.5% e raggiunge un nuovo record.
Per una visuale di sintesi concentriamoci sulle variazioni annuali:
Lo spread non poteva prendere un’evidenza maggiore;
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La sua ricaduta investe ovviamente gl’interessi Mentre la crescita debole del PIL rende estremamente preoccupante l’andamento del suo rapporto con l’indebitamento netto (deficit/PIL).
Le aspettative nel medio periodo. Il guaio dello spread è che i suoi effetti sono deterministici, sugli interessi che paghiamo, prima di tutto, di lì sul debito, che ci può bruciare ogni opportunità di crescita, penalizzando i consumi delle famiglie, quelli pubblici e le politiche delle imprese. Proviamo perciò qualche misura. Ecco il set di spread che osserveremo: Gli effetti li vedremo anzitutto sugli interessi da pagare, poi sul debito, per finire col rapporto debito/PIL. Un percorso che richiede però l’emersione di altri fattori. Li richiamiamo attraverso la modellizzazione delle variabili strettamente interconnesse, contenuto del nostro modello Espread (e=effetto), che sarà a disposizione di tutti i nostri lettori sul nostro sito. Eccone la struttura nel suo linguaggio formale.
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E ora alcune simulazioni, nell’orizzonte 2027, dove:
Il tasso del bund tedesco è trattato come costante pari all’1,7%; del resto lo è praticamente dal 2014; Le entrate (quasi tutte tasse) e le uscite (la spesa pubblica) sono anch’esse costanti ed uguagliate all’ultimo valore (2018) delle prime (intorno agli 860 miliardi di euro; in questo modo l’effetto sul debito è nullo, perché si azzera l’indebitamento (netto) Lo spread è il nostro input, costante dal 2019, come si è appena visto Sommandosi al bund genera il tasso d’interesse, inevitabilmente costante Gli interessi sono il primo effetto Conseguente il debito che ricade, com’è sua natura, sugli interessi Riecco in sostanza lo spread con la sola addizione del bund. L’effetto sugli interessi passivi costante però non può essere perché determinato anche dal debito, in una relazione esponenziale ben nota, ma che si tende spesso a dimenticare e più di tutti lo fanno i
politici. Li mettiamo a confronto con la spesa pubblica per darcene la dimensione e la minaccia per il debito.
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I valori sono ancora assai lontani, ma lo spread a 450 porta un costo in interessi appena sotto il terzo della spesa pubblica, oltre ai 250 miliardi. Dunque la crescita dello spread porta con sé il rischio di una sterile e dolorosa ricerca di risorse per pagare il debito, altro che perseguire obiettivi di crescita. Pensiamo solo che l’intera spesa sanitaria del nostro paese nel 2017 è stata di circa 153 miliardi di euro. All’interno dei 4 tassi simulati, le distanze tra l’uno e l’altro tendono ad accentuarsi nel tempo, per effetto dell’integrazione col debito: più interessi, più debito, di conseguenza più interessi, a parità di tasso. Insomma, il punto percentuale, che separa i tassi, ricade ingrandito ed è una condizione, esponenziale, di cui non sempre si tiene conto. In termini assoluti, lo spread a 450 ci costa fino a 145 miliardi di euro rispetto a quello recentissimo intorno a 150. Insomma, esattamente la spesa sanitaria già menzionata. Non sarebbe pertanto il caso di comiciare a pensarci? Notare che una differenza significativa e crescente si manifesta già nel 2019. Sono 50 miliardi in più già dove siamo adesso cioè sui 350 di spread e quasi 80 se raggiungessimo quota 450.
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A darci una consapevolezza delle distanze, in tema di interessi, determinate dallo spread, contribuisce il calcolo delle percentuali, dal 2019 al 2027: A 250, ci piazziamo sul 30% e lì restiamo A 350, andiamo poco sotto il
70, ma cresciamo poi fino al 90% A 450, si parte dal 100% per arrivare intorno al 143
E sono tutti soldi da pagare. Non ci saremmo dilungati, se fosse possibile immaginare delle scappatoie diverse dal default, fallimento, se si preferisce. Ovviamente metteremo questi costi nel debito. Che si fa un bel salto in su. Lo abbiamo lasciato a circa 2,4 miliardi nel 2018, senza indebitamento netto: Con lo spread a 150, saremmo a 3
miliardi nel 2025 A 3,100 con lo spread a 250 Oltre i 3,400 con lo spread a 350 A 3,700 con lo spread a 450
È sostenibile questa dinamica. La risposta più avanti. Ma di sicuro dominare lo spread adesso è un must. Che ci induce a cercare di scoprirne le cause.
Lo spread come effetto. Lo spread è una conseguenza. Non c’è dubbio. Di che?
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Stiamo sulla sua definizione: è la misura di un rischio relativo, in realtà la misura di una differenza di rischio fra noi e i tedeschi. Di che cosa? Della probabilità di default del sistema finanziario pubblico. Che il paese non sia in grado di ripagare il suo debito. E? Da noi, in Europa, non è mai successo. Ci si è avvicinati però. Più di tutti con la Grecia. Che è caduta, nel 2011, sotto una specie di amministrazione controllata, in cui i fili economico-finanziari del paese erano in mano a Bruxelles, in cambio di aiuti finanziari (prestiti), erogati fino all’agosto di quest’anno. Risultato? Alla fine del 2017 conti economici più che incoraggianti e un’economia in espansione su diversi piani. L’avanzo nei primi nove mesi del 2017 è stato del 2,2%, superiore all’1.75% imposto dall’Ue. Il Pil, cresciuto dell’1,9% nel 2017, si prevede toccherà il 2,5% nel 2018. Ma, dietro alla situazione macroeconomica, si cela una realtà tragica. Rispetto all’anno precedente alla grande crisi, il potere d’acquisto della popolazione greca è calato di circa il 29%, una concausa dovuta a differenti fattori, riconducibili ad una maggiore tassazione sui redditi medi, tagli alle pensioni superiori ai 3.000 euro e una disoccupazione, che ha toccato livelli più elevati di quelli del 2011, dal 23% dei lavoratori adulti al 40% dei giovani. Il 22,2% dei greci ha vere e proprie difficoltà a soddisfare i bisogni di prima necessità. Il pagamento delle bollette, del riscaldamento o del mutuo si sono trasformati in vere e proprie sfide. Moltissime famiglie non sono aggrappate che al reddito di un parente prossimo, nella più larga parte dei casi la pensione. Dunque la grande sconfitta è la popolazione. Che certamente reagirà sul piano elettorale, favorendo partiti populisti ed estremisti, come la storia recente di gran parte dell’Europa ha dato dimostrazione. Potremmo addirittura pensare che nel nostro potere politico si annidino sacche orientate all’abbandono dell’Europa e dell’Euro. Ne parleremo in altri indagini, per ora stiamo sui mezzi di controllo dello spread, cominciando con l’individuarli. Possiamo partire da qualcosa di diverso del rapporto tra debito, e indebitamento, col PIL? No, perché non c’è nulla, che ci testimoni meglio la capacità di ripagare le nostre obbligazioni. Li osserviamo ponendoli a 100 e confrontandoli con lo
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spread. Constatiamo subito che le dinamiche dello spread non assomigliano troppo a quelle del rapporto deficit/PIL, per un andamento spesso interrotto e spesso contrario. D’altro canto stiamo su un orizzonte annuale, di medio-lungo periodo, quindi in contrasto con un rapporto tipicamente di breve. Ed in effetti il rapporto debito/PIL, più profilato sul lungo termine, mostra una forma più intonata con lo spread, seppure a grandi linee. Riprova statistica. Come? Facciamo finta che il rapporto tra debito/PIL generi lo spread. In altre parole, facciamone emergere il grado di correlazione, quanto i valori della variabile dipendente (nel caso, lo spread) corrispondano (siano determinati) da quelli dell’indipendente (nel caso, il rapporto debito/PIL). La forma del rapporto di dipendenza la scegliamo noi. Partiamo dalle 3 relazioni più semplici. Se si eccettua il periodo 1995-1998, le 3 curve (lo spread teorico) risultano piuttosto approssimate rispetto allo spread della storia. Visivamente non abbiamo però elementi per sceglierne una. Dobbiamo passare all’analisi statistica propria, che consiste nella valorizzazione dello scostamento medio fra i dati teorici e quelli storici. Eccolo: Le 3 interpolanti sono senza dubbio molto vicine, ma la logaritmica, che reagisce men che proporzionalmente si fa preferire Il margine d’errore, 11,04%, non è piccolo. Ma per gli scopi di questo studio è più che sufficiente. Quindi rinunciamo a cercare altre relazioni, per fermarci sulle
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singole inadeguatezze di correlazione: La zona che disturba di più è il 2006-2009, tempo di crisi, trascorso e dimenticato; ci torneremo solo in caso di necessità (nuova crisi) Grande corrispondenza fino al 2012 E, in termini dinamici, anche dopo Ma un grande scostamente verticale? Vogliamo tentare di ricuperarlo,
dandogli un senso? Che del resto ci potrebbe far comodo per spiegare le piccole oscillazioni di anno in anno. È il Quantitative Easing, varato dal meritorio Mario Draghi, presidente della BCE. Nato nel 2015, ma annunciato l’anno prima, corregge le dinamiche della curva logaritmica. Fatto salvo il 2018. Ma anche qui una spiegazione si può trovare: per la prima volta i nostri rapporti con la UE sono diventati astiosi e polemici. Soprattutto si sono incancreniti sulla pretesa di un’autonomia nella gestione del deficit, che forse cela intenzioni di uscita dall’Eurozona, quando non è assolutamente una novità il mancato rispetto dei vincoli. Per dirne una, come si è visto, il 2017 ha chiuso su un deficit/PIL appena sotto il 2,4%, contro un impegno di 0,8. In un modo o nell’altro, ci siamo messi in un guado, senza averne proprio tutti i torti. Che ci porta il futuro? Le alternative sono certo
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numerose, ma un minimo di esplorazione la vogliamo fare. Allo scopo ecco il modello Spread che impiegheremo.
Il modello Spread.
La novità, rispetto al modello precedente, è l’emersione (resa endogena) dello spread, determinato anzitutto dal rapporto debito/PIL, dipendenza non rappresentabile attraverso le 4 operazioni, occorre una funzione. Vi incidono poi il Quantitative Easing, l’acquisto da parte della BCE dei bond, che evidentemente ne fa abbassare il prezzo. E anche fattori psicologici, che riassumiamo nelle baruffe tuttora in corso da parte del nostro governo e la UE. Il PIL lo mettiamo in dipendenza di entrate (inversa, essendo tutta tassazione, che deprimono consumi e investimenti), uscite, cioè spesa pubblica (diretta), e altri fattori economici. Entrate e spesa pubblica, con segni opposti, generano l’indebitamento. Ma è nelle rete l’aspetto più interessante. Lo spread è al centro di un doppio anello di retroazione, insomma, per due volte concorre a condizionare se stesso. Un piacevole spettacolo per matematici? Non solo, anche una condizione di dinamica di estremo impatto, perché, se il suo livello si alza, la spinta ad un’ulteriore crescita si rende fortissima, quindi recuperarne il dominio diventa un’impresa improba, condizionata, in ultima analisi, dalla tempestività dell’intervento correttivo. La soglia in questione è intorno a 400. E ci siamo già arrivati con l’ultimo governo Berlusconi. Solo che in quel caso subentrò
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Monti con le sue amarissime medicine e riuscì a richiamare i buoi scappati. Ora? C’è il rischio di arrivarci. Nel caso, riusciremo anche a sottrarci?
Impiego del modello Spread. Tre simulazioni con orizzonte temporale 2019-2014, per darne esempio. La prima è praticamente un must in questi casi: prolunga nel futuro l’input, le variabili esogene, ciascuna secondo la propria tendenza, espressa da una retta nell’orizzonte 2013-2018. La seconda tenta di rispondere alle aspettative e alle volontà dell’attuale governo: crescita nella spesa pubblica e, si spera, nel PIL. Rapporto deficit/PIL sul 2.4%. La terza assume dal 2020 una crisi economica mondiale, con effetto principale di depressione del PIL. Su questa base gli inputs (variabili esogene del modello): 1. Come si sa, le entrate vengono pressoché interamente da tassazione. La tendenza è di crescita senza sorprese, mentre nel programma di governo ci si è assunti l’impegno di un contenimento rigoroso, come abbiamo rappresentato, anche se nelle dichiarazioni si va spesso tuttora al di là, si parla di riduzione della pressione fiscale, che troverebbe la sua prima manifestazione nella flat tax, relativamente all’imposta sul reddito. Riduzione che ci sembra scontata nell’ipotesi di una crisi mondiale. Nel caso, però non sarebbero in questione le aliquote, come vorrebbe fare il governo, ma il reddito e tutte le grandezze ad esso riportabili, com’è avvenuto nella crisi del 2008. 2. La spesa pubblica tendenziale è la combinazione di un periodo di crescita contenuta, 2013-2016, seguito da un’impennata, 2017-2019, che produce un anno (2019) di stasi, se non leggera diminuzione, invero poco credibile, ma accettato per rigore logico, seguito da crescita ininterrotta con pendenza, cioè velocità, vicina a quella delle uscite. A cambiare le carte in tavola è il governo, che ha qui la sua focale (reddito
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di cittadinanza, nuovo regime pensioni, ecc). quindi salto notevole nel 2019, aggiustamento nel 2020 e mantenimento successivo. Con la crisi mondiale, dal 2020, inevitabilmente tutto s’inverte: 2 anni all’ingiù, un anno di pausa, tipico di questi casi, quindi giù ancora più velocemente, fino al 2023, quando la crisi sembra essere finita. 3. Nel PIL non entrano solo le entrate e le uscite, anzi non è che vi pesino molto, per una sua stima, se non proprio corretta, almeno plausibile. Sono fattori svariati, come i consumi delle famiglie, gli investimenti delle imprese, l’import e l’export, che, secondo noi hanno a che fare con la situazione economica generale. Per questo li calcoliamo come tendenza anche nell’ipotesi “governo”, mentre li facciamo decisamente retrocedere nel caso di crisi mondiale. 4. Ricordiamo che il quantitative easing (QE), nel nostro caso, si riferisce all’aquisto di bond (Buoni del Tesoro e tutto il resto) da parte della BCE.
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Operazione che Draghi ha annunciato di chiudere alla fine di quest’anno. Ce ne facciamo carico nell’ipotesi “governo” mentre l’assumiamo graduale nell’ipotesi “tendenziali”, ma la stimiamo non solo ripresa, ma anche irrobustita in “crisi mondiale” 5. E possono mancare fattori psicologico-politici in questo scenario? Il nostro governo, proprio in occasione della manovra, ha cominciato a baruffare con l’UE. L’inasprimento dei rapporti è una causa, anche se non la prima, della fuga di compratori di bond. Quindi arriva a incidere sullo spread per effetto degli anelli di retroazione appena visti. Quanto al futuro abbiamo supposto che la condizione di rissa si mantenga inalterata nell’ipotesi “governo”, si assorba in quella “tendenziali”, cessi subito in “crisi mondo” 6. Ricordiamo che lo spread misura la differenza di rendimento tra i BTP italiani e i Bund tedeschi a 10 anni. Stimarla per questi ultimi è perciò fondamentale per il calcolo dei nostri interessi sul debito pubblico da pagare. Dopo 4 anni di discesa, pari quasi esattamente a un punto, il bund mostra da quest’anno qualche segnale di ripresa. Ma applicandovi la tendenza emerge un’ulteriore riduzione nell’orizzonte previsivo. L’alternativa di stabilizzazione, ritenuta la più probabile, l’inseriamo nell’ipotesi di governo. In caso di crisi mondiale è invece giocoforza una crescita, che, a nostro parere, dovrebbe aumentare il rendimento dei bund un po’ di più di mezzo punto e poi tornare a scendere. Ce ne siamo convinti osservando gli effetti della crisi del 2008, che ha procato una piccola
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impennata (ma i tassi erano allora parecchio più alti, oltre il doppio) seguita da ridimensionamento. 7. Per chiudere l’input ricordiamo che si è dovuto collegare il rapporto debito/PIL con lo spread attraverso una funzione. L’analisi statistica dei dati storici suggeriva la logaritmica col minimo margine d’errore. Nel modello invece abbiamo applicato una retta, per non correre dietro a un rigore di output, inottenibile, per l’estrema sintesi del modello e nel contempo evitare sorprese, tipiche di una condizione di scarso dettaglio. Ora gli effetti, a partire dalla nostra variabile centrale. 1. Salvo una pausa nel 2019, sempre in crescita: minore nel caso delle tendenziali, piuttosto robusta, se il governo fa prevalere il proprio programma, decisamente paurosa in caso di crisi mondiale. In ogni caso le soglie raggiunte sono assai minacciose. La prima certo meno, perché raggiunge fra 6 anni la posizione di questi giorni. Molto le altre due, che sfondano quota 400, dalla quale, come si diceva, è molto più facile partire per la tangente e arrivare al default, piuttosto che ridimensionarsi. 2. Cominciamo a leggere che cosa c’è dietro allo spread. Di quantitative easing e di rapporti governo italiano/UE si è già parlato. Ci resta il rapporto debito/PIL collegato allo spread dalla funzione appena vista. Stavolta le differenze non sono nella forma delle curve, ma esclusivamente nelle differenti pendenze. E questo fatto ci dice qualcosa: ci dice che questo rapporto sembra ineluttabilmente destinato a crescere,
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insomma ci fa suonare le campane a morte. Ovviamente le 3 curve hanno dinamiche diverse, in sostanza diverse politiche hanno effetti più pronunciati o meno, ma sempre uguali nella sostanza. Perché? Dobbiamo esaminare anzitutto se il rapporto cresce perché cresce il numeratore (il debito) o perché diminuisce il denominatore (il PIL). 3. Prima vogliamo però osservare l’altro indice centrale del sistema. In 2 casi il rapporto deficit/PIL tende addirittura a diminuire, sia pure con una velocità estremamente contenuta. E notiamo che in tutte e due siamo su soglie (2.35% nelle tendenze e 2.55% nel governo) che certamente farebbero infuriare l’UE, ma che non sono neanche così scandalose, come molti personaggi al potere sostengono, e sembra anche che se compiacciano. Del resto possiamo osservare che al di sotto ci siamo andati una sola volta. Un colpo mortale comunque potrebbe assestarci la crisi mondiale. 4. Risaliamo al deficit, senza stupirci che la forma complessiva sia ben poco diversa dalla predente, se non per la stabilità delle due prime ipotesi, segno che il PIL è stimato in risalita, visto che il rapporto si
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alleggerisce. Men che mai poi stupisce il distacco in peggio del deficit e le sue dinamiche in caso di crisi mondiale. 5. Il deficit è certamente un fattore primario del debito, ma forse sarebbe meglio dire che lo era molto tempo fa, perché già nel 2018 era cresciuto, rispetto all’anno precedente, all’incirca di 150 mila milioni di euro e la velocità della sua marcia continua a crescere, separando l’ipotesi tendenziale dalle altre due. 6. Ma ecco l’anello di retroazione: il debito cresce per se stesso, genera interessi che lo aumentano e ne sono a propria volta aumentati. E, se già la cifra è consistente oggi, osserviamo come si gonfi nel futuro, a tre diverse velocità, nello stesso ordine del debito, ma non nella stessa distribuzione 7. È il tasso d’interesse l’elemento cardine, differenziato nei tre casi. Effetto di spread per larga parte del percorso e molti anni a venire. Dalla svolta in basso nel 2019, alla ripresa: debole, un mezzo punto, come tendenza, forte, un 50% in più, se passa la linea del governo,
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ancora maggiore, in una crisi mondiale. 8. Il PIL a chiudere: in aumento, leggero, con tassi annuali intorno all’1,30%, giudicati da tutti insoddisfacenti, ma per noi al contrario forse alquanto sovrastimati. Nel caso di crisi una discesa drastica, del resto l’ipotesi è proprio fondata sulla recessione economica. In conclusione: tempi comunque duri ci aspettano. E la variabile chiave è forse lo spread, col rimpianto di averlo fatto crescere, in prevalenza, per dichiarazioni non solo improvvide, ma forse anche senza nessun seguito, neanche nella contrapposizione. Tornare indietro è però denso di rischi, nonché impopolare e ben poco fattibile. Possiamo forse solo aggirare il problema del debito e degli interessi da pagare rimettendo in moto la crescita, nella misura, quanto meno, dei beati anni ’90, fino alla crisi del 2008. Ma quali mezzi abbiamo ora? È quanto cercheremo di scoprire col prossimo modello. Lamberto Aliberti 31 ottobre 2018