I racconti di monumenti aperti 2010

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I Racconti di Monumenti Aperti

Passato presente

di Massimiliano Medda

A quaranta metri da terra di Mario Gelardi

Sartorio

di Enrico Pau

Sikitikis

Direzione artistica colonne sonore live

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SOMMARIO

Gli occhi sulla cittĂ

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Sikitikis

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Passato presente

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A quaranta metri da terra

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Sartorio

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Francesco Abate

Direzione artistica colonne sonore live

di Massimiliano Medda

I Racconti di Monumenti Aperti Secondo Quaderno

Š Associazione Culturale Imago Mundi 2010 a cura di _Giuseppe Murru coordinamento scrittori _Francesco Abate progetto grafico e impaginazione _MangioDesign fotografie dei monumenti e di pagina 6 e 8 _Manuel Putzolu illustrazioni e ricerca iconografica _Tiziana Martucci e Manuel Putzolu stampa e allestimento _Arti Grafiche Pisano

di Mario Gelardi

di Enrico Pau


Gli occhi sulla

città

Il punto d’osservazione cambia, si modifica perché possa delineare uno stacco di sensibilità e vedute significativo rispetto all’anno passato. Nella prima edizione de “I racconti di monumenti aperti” erano stati tre scrittori “puri” a raccontare Cagliari. A loro era stato dato il compito di scovare fra le pietre degli edifici storici il respiro, l’alito, di nuove storie. Marcello Fois, Michela Murgia e Gianluca Floris. Allora era prevalso uno sguardo straniero, quello di Marcello e Michela che fra i colli e gli stagni di questa città non sono nati e per questo sono stati capaci di osservarla con il filtro di chi ha dovuto fare i conti con la Grande Matrona per questioni di vicinato, di confine. A differenza di Gianluca, voce di figlio ora amato ora respinto con la forza e la passione che solo i luoghi dove siamo nati ci sanno riservare. Per questa seconda tappa il criterio è stato rovesciato, insieme alla razza degli osservatori chiamati a raccolta. Due cagliaritani d’anima e carne, un terzo che da queste parti c’è capitato per caso e c’è tornato per amore. Tre uomini di scena e scrittura. Enrico Pau, regista e molto di più, Massimiliano Medda, attore e tanto altro ancora, e Mario Geraldi, regista e scrittore. Uo-

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

di Francesco Abate

mini di parola e uomini di scrittura. Mario Geraldi è napoletano. La voglia di far raccontare secondo la sua emotività un angolo della vecchia Cagliari è nato forte col crescere di un pensiero indelebile che segnerà anche le prossime edizioni di questo volume. Cagliari è città fatta di mille comunità che oltre il suo porto hanno trovato nei secoli sede dei loro affari o delle loro passioni. Piemontesi, genovesi, romani, veneti, persino svizzeri. Basta sfogliare le pagine di un vecchio elenco telefonico per avere la sensazione netta che i cognomi che lo compongono non sono certo di origine isolana.

Per questa seconda tappa il criterio è stato rovesciato, insieme alla razza degli osservatori chiamati a raccolta. Due cagliaritani d’anima e carne, un terzo che da queste parti c’è capitato per caso e c’è tornato per amore.

SECONDO QUADERNO

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Questa è una città d’approdo che spesso si è rivelata di non ripartenza ma di dolce e definitivo rifugio.

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Questa è una città d’approdo che spesso si è rivelata di non ripartenza ma di dolce e definitivo rifugio. Una delle comunità che più ha segnato il destino di un paesone con mire metropolitane è quella napoletana. È sufficiente osservare le insegne dei negozi storici di filati e tessuti del quartiere Marina, e le loro intestazioni, per capire, al di là di nuovi odi calcistici, da quanto tempo esiste questo incancellabile intreccio. Lo stesso cognome di chi scrive è una chiara testimonianza. Forse non è un caso che la chiesa che da piazza Plebiscito osserva il porto di Napoli sia intestata allo stesso santo della chiesa di via Roma che protegge i naviganti cagliaritani, San Francesco da Paola. Mario, come è scritto nella sua nota biografica, è il regista che ha modulato e portato in scena insieme a Roberto Saviano la versione teatrale di “Gomorra”, con Enrico e Massimiliano condivide la confidenza con lo scricchiolìo dei legni del palcoscenico. Ed è questa matrice comune che rende unita questa nuova squadra giunta a raccontare i monumenti di Cagliari attraverso visioni narrative e sceniche. In questo volume resta la traccia del loro racconto che, ancora di più che nella stagione passata, è stato spartito di una rappresentazione nei giorni della manifestazione. Per chi non c’era aiuterà ad immaginare, per chi c’era servirà a non far sfuggire dalla memoria il ricordo. Magari il riprendere vita di uno scultore (per opera di Enrico Pau) che ha visto la sua gloria e il suo declino fra i viali del cimitero monumentale di Bonaria. Servirà a rievocare la passeg-

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giata di attori, musicisti, pubblico fra i silenzi del campo santo dove riposano i nostri avi e la loro memoria. Che è memoria e radice di questa comunità. Questo libretto sarà prezioso per ritrovare la faccia di un barbiere che nel carcere di Buoncammino ha speso un’intera carriera e che nella chiesetta di San Lorenzo, a fianco alle

Direzione artistica delle colonne sonore originali dei racconti: SIKITIKIS

mura della prigione, ha trovato espressione nel volto di Massimilano Medda. Sono pagine, queste, che ci porteranno a guardare con il naso all’insù, più che mai, la Torre dell’Elefante per capire se ancora ci sono asserragliati gli operai disperati e senza lavoro di Mario Gelardi.

Accompagnano il racconto

PASSATO PRESENTE THE BANAL HOUSE

Simone Sedda: chitarra Daniele Fantini: chitarra Eugenio Aresu: percussioni (è quel momento in cui si smette di cercare di forzare la serratura di casa convinti di aver perso le chiavi mentre semplicemente le avevi in tasca). Accompagnano il racconto

A QUARANTA METRI DA TERRA SIKITIKIS BRAIN DEPT Laboratorio di sperimentazione e produzione di musica e suoni per cinema, letteratura e teatro. Nasce nel 2000, parallelamente al progetto di musica pop denominato SIKITIKIS. Il “Dipartimento Cervello” si è specializzato nella rielaborazione di musica per il cinema, nella sonorizzazione live di immagini tratte da film d’epoca, nella realizzazione di colonne sonore originali per cinema, reading di letteratura, piece teatrali. Dopo aver realizzato decine di produzioni in tutta Italia, nel 2009 realizzano le sonorizzazioni per la prima edizione di Monumenti in Musica. Per il cinema hanno realizzato la colonna sonora di Jimmy Della Collina di Enrico Pau e la rivisitazione del classico della canzone italiana “Cuore Matto” per il film Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli che vinse il premio “controcampo italiano” alla 66^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Accompagnano il racconto

SARTORIO VANVERA E QUELLO Lì

Vanvera: chitarra e voce Quello Lì: sassofono (Quando pensava di aver perso il respiro. Vanvera musica Pau con una minima marching band. chitarra e sax. Sax e chitarra. Il resto lo si vivrà in quel regno di non vita che si suppone sia un cimitero. Ma la musica ci sarà).

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

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PASSATO PRESENTE

MASSIMILIANO MEDDA

Passato

presente

di Massimiliano Medda

- Prego, il signore è servito. La sfumatura è di suo gradimento? - chiese Danilo mostrandogli la nuca allo specchio. - Ma ita ses, pighendi po culu? E se non andasse bene cosa fai, me li riattacchi? - rispose Luciano, che quel giorno non era sicuramente di buonumore. - Di te non ho capito se sei così o se ti piace prendere in giro - continuò Luciano guardandosi allo specchio.

Chiesa di San Lorenzo, Buoncammino

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

- Il signore non ha gradito il mio taglio? Se vuole può cambiare parrucchiere, io non mi offendo! - Tocca ringrazia che sei l’unico che sa tagliare bene i capelli in questo posto, altrimenti avresti già fatto la fine di Pibitziri - Luciano gli lanciò un pacchetto di sigarette. - Le fumerò alla tua salute - disse Danilo poggiandole sul tavolino che fungeva da piano di

lavoro. Luciano si infilò il suo cappellino, lo salutò e si avviò verso l’uscita della sala, presidiata da due guardie che leggevano un quotidiano, annoiate. - Beh, mi fate uscire o deppu puresci innoi? - Piscedda, il ragazzo ha fretta… - disse il più anziano delle guardie - Cosa aspetti? Apri la porta che deve uscire. - Sì, fra sei anni - disse l’altro, e ridendo prese in consegna il ragazzo per condurlo al parlatorio. - Chi è il prossimo? - chiese Danilo, che nel frattempo raccoglieva i ciuffi biondi del cliente appena uscito. - Ci dovrei essere io - disse un ragazzo con lo sguardo spento e spaventato di chi è entrato in carcere per la prima volta. - Ci sono io - urlò dal fondo della sala uno che

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MASSIMILIANO MEDDA

non era abituato ad aspettare. Danilo lo guardò e capì subito di che personaggio si trattava: età, quarant’anni. Origine, slava. Appena entrato ma sicuramente non alla prima esperienza carceraria, canottiera nera con in evidenza un fisico modellato da palestra, corpo tappezzato di tatuaggi vecchio stile, misti a nomi di alcune fidanzate e probabilmente dell’intero parentado, capelli lunghi e imprigionati in un elastico che un tempo doveva essere bianco e la barba incolta di chi ha deciso di non puntare tutto sull’immagine. Si sedette sulla poltrona con un giornaletto in mano e l’unica parola che biascicò fu: - Muoviti! Danilo odiava i prepotenti e gli attaccabrighe e con loro diventava pignolo: - Scusa, prima di farti il taglio, ti dovresti lavare i capelli, è la regola. - I capelli sono a posto, fammi la barba. - Io non faccio barbe. - Tu non fai la barba?! - No, non ne faccio. - E che cazzo di barbiere sei se non fai la barba? - Sono uno che taglia i capelli e non fa barbe - rispose in modo seccato guardandolo dritto negli occhi. - Tu la barba me la fai, e adesso - continuava lo slavo che nel frattempo si era alzato in piedi. Danilo aprì il cassetto, tolse un rasoio di quelli usa e getta e lo porse al cliente: - Tieni, questo è un omaggio della ditta, io barba non ne faccio, arrangiati da solo.

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Le guardie che stavano osservando la scena si avvicinarono per evitare che la discussione potesse degenerare. Lo slavo strappò il rasoio dalle mani di Danilo e lanciandoglielo addosso proseguì: - Tienila perché la barba me la farai tu. Io non ho fretta, ci rivediamo - e si diresse verso l’uscita sotto lo sguardo annoiato degli altri detenuti che aspettavano il loro turno. Queste forme di prepotenza erano all’ordine del giorno all’interno del carcere e nessuno ci faceva più caso, ma a Danilo quella reazione esagerata non faceva prevedere nulla di buono. - Te lo dicevo, ma perché mettere a fare il barbiere uno che non sa fare le barbe? - commentava ad alta voce Piscedda, la guardia più giovane, che con Danilo non aveva un buon rapporto e non faceva altro che provocarlo. - Io le barbe le so fare, ma non ne voglio fare, è diverso - rispose Danilo in modo arrogante. - Tu con me non devi usare quel tono, ricordati che tu sei il mio uccellino in gabbia e io quello che ti dà da mangiare. - Tu a me non hai mai dato da mangiare e mai me ne darai, sono io che stando qui ne do a te. Danilo sapeva che questa discussione gli avrebbe portato solo problemi. - Piscedda, vai e prenditi un caffè - disse la guardia più anziana cercando di bloccare sul nascere quel litigio. Danilo guardò con disprezzo la guardia uscire e poi riprese il suo lavoro. - Vieni, siediti - disse al ragazzo che aveva preferito non rivendicare il suo posto - Chi sei? - gli

chiese: con i novellini assumeva un ruolo protettivo. - Sono Luca, e devo scontare due anni. Luca non aveva l’aspetto del delinquente, dava l’impressione di uno che si era cacciato nei guai, il classico ragazzo senza palle che cercando di mettersi in evidenza con azioni illegali si ritrovava dentro un’auto della polizia con un biglietto di sola andata per il carcere più vicino. In questi quindici anni di detenzione ne aveva visto di tutti i tipi: ragazzi che attraversavano il corridoio con lo sguardo da duro per poi scoppiare a piangere appena dentro la cella, altri che entravano bravi ragazzi e uscivano delinquenti della peggior specie e altri ancora che impiegavano parecchi mesi per capire quello che gli era successo. Luca assomigliava alla terza categoria. Quando Danilo gli diede la mano per presentarsi, notò quel tremolio tipico di chi ha paura e gli tornò alla mente l’immagine della sua paura la sera che per la prima volta era entrato in carcere: il portone che si apriva, le scale, un altro portone, le foto, le dita sporche d’inchiostro, lui nudo davanti alle guardie che lo perquisivano, la cella da dividere con tre sconosciuti che lo

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guardavano senza chiedergli nulla, la notte insonne pregando che non arrivasse mai il giorno che avrebbe urlato al mondo la sua colpa. - Per me è la prima volta… - proseguì il ragazzo sedendosi nello sgabello che fungeva da poltrona. - Non preoccuparti, con il tempo ti abituerai lo incoraggiò s’abogau, personaggio di spicco all’interno del carcere, in apparenza un simpatico signore vicino ai sessanta, ma che era stato la mente geniale di tante rapine effettuate in giro per l’Italia da alcune bande di malavitosi. S’abogau godeva di rispetto sia dalle guardie che dai carcerati, era uno che era sempre rimasto in contatto con certi ambienti e per questo era meglio

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non pestargli i piedi. Il soprannome gli era stato affibbiato in gioventù dopo che era stato condannato per aver difeso, fingendosi un avvocato, tre loschi individui: era riuscito a farli assolvere grazie a un’arringa che si era chiusa con un prolungato applauso dei presenti. - O s’abogau, si ricorda la sua prima volta? - gli urlò Vai col vento, un anziano detenuto che si trovava in carcere da tempo memorabile a cui era stato affibbiato l’ergastolo per alcuni omicidi e sequestri di persona. - Che anno era, il ’52? - La prima volta che mi arrestarono? Era il 1949, avevo neanche vent’anni, rapina a mano armata in una gioielleria del Corso, la pistola era giocattolo, l’avevo rubata da Bolla, quel negozio che c’era in via Manno. Mi avrebbero dovuto dare sei mesi, ma per colpa di un avvocato balossu e presuntuoso mi sono beccato tre anni di galera. Allora ho detto “Ah, è cosi?”. Ho passato i tre anni di condanna studiando a memoria codici e libri di legge e ho imparato talmente tanto che certi avvocati vengono da me a chiedere consigli e strategie da usare! - Allora la prossima volta che mi càssano mi difende lei? incalzò Vai col vento. - A te? Quando esci tu sarai così vecchio che altro che avvocato: avrai bisogno dell’assistente geriatrico! Poi, rivolgendosi al ragazzo - O lollò,

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non preoccuparti, all’inizio è sempre difficile, ma rispetta e sarai rispettato, e tu, o su barberi, muoviti a finire il taglio che mi devi far bello: stasera ho un appuntamento galante, devo andare al night. - Posso venire anch’io? – chiese, tenendogli il gioco, Via col vento. - Hai l’abito da sera? - tagliò corto s’abogau. - No. - E allora non puoi venire, peggio per te, vorrà dire che dovrò sacrificarmi io con due signorine. - Lo vedi - disse sottovoce Danilo al suo giovane cliente - tu metti un barbiere che lavora e dei clienti che aspettano e se chiudi gli occhi puoi immaginarti di essere nel più famoso salone di Parigi o di Londra… ma forse è meglio se te lo immagini di Cagliari, anche perché la parlata di questi in sottofondo non è sicuramente londinese. Il ragazzo sorrise e per un momento chiuse gli occhi cercando un po’ di libertà, ma il nero più totale gli nascondeva ogni pensiero positivo: era ancora troppo scosso per cercare di evadere con la fantasia. - Fatto! Penso che vadano bene così - disse Danilo togliendogli il telo di dosso. - Sì, grazie - rispose educatamente Luca - mi hanno detto che le devo dare cinque euro. - Per oggi lascia, il primo taglio lo offro sempre io, fai conto che stai partendo a fare il militare. Quella era una regola del suo salone, agli amici che dovevano partire per il servizio di leva non faceva mai pagare e lo stesso aveva pensato di

fare in carcere con i nuovi entrati, come una sorta di benvenuto. - Grazie - rispose, e prendendo confidenza chiese - Ma Pibitziri che fine ha fatto? - Era il barbiere che c’era prima di me, non era tanto bravo: ha tagliato un pezzo d’orecchio alla persona sbagliata e gli hanno spaccato le mani calpestandogliele durante l’ora d’aria. Dura la vita per i barbieri nel carcere! - E perché lei non fa la barba? - continuò Luca mentre si spolverava la maglia con una vecchia spazzola cercando di eliminare alcuni capelli. Danilo lo guardò diventando rosso in viso. - Ricordati e non dimenticartelo mai che se vuoi sopravvivere in questo mondo non devi mai fare due domande alla stessa persona, mai! Ora vai e passa a trovarmi quando vuoi. Il ragazzo abbassò il capo e si diresse verso l’uscita, poi girandosi gli chiese: - A me piacerebbe imparare, quando ero militare qualche taglio l’ho fatto, ma era più facile con il rasoio elettrico… Se posso aiutarti… - Se hai voglia e se te lo permettono, io ti posso insegnare. Hai due mesi di tempo per imparare: se ci riesci, bene, se non ci riesci… - E se non riesco? - Lo dovrai fare per forza perché io esco e poi sono cavoli tuoi: qui i clienti sono molto esigenti. Due mesi di tempo lo separavano dalla libertà, ma Danilo ormai non contava più le ore e i giorni. Quello era diventato il suo mondo, quello stanzino umido e grigio era il suo salone, i detenuti erano i suoi clienti e la cella tre per tre, la sua casa. Quella era la sua vita, che fretta

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c’era di andar via? E poi cosa avrebbe trovato all’esterno dopo quindici lunghi anni? E come l’avrebbero accolto i parenti e gli amici? Erano questi i pensieri che lo accompagnavano nella ripetitività di quelle giornate sempre uguali. - Beh, hai finito per oggi? Possiamo andare? - gli disse la guardia mentre lui fissava lo specchio. - Ancora un minuto e andiamo - chiese Danilo. Lui chiudeva sempre la sua giornata lavorativa fissando la sua immagine allo specchio, l’aveva sempre fatto, anche nel suo salone, uno dei saloni storici di Cagliari, come storica era la sua famiglia: i Tuveri, una generazione di barbieri. “Tu da grande farai il barbiere, perché barbiere era tuo nonno e barbiere era tuo padre” gli ripeteva sempre la madre, e a forza di sentirselo ripetere decise che quello sarebbe stato il suo futuro. Lui era cresciuto in quel salone: quando era bambino faceva i compiti velocemente per stare nel salone con il padre. A lui piaceva vedere i clienti entrare con i capelli disordinati e con la barba lunga e uscire sbarbati e ben pettinati, in un tema aveva persino scritto che suo padre era un mago che trasformava i brutti in belli. A lui piaceva aprire e odorare la brillantina, spruzzarsi quel dopobarba dalla fragranza dolciastra e un po’ nauseante. Ricordava il profumo del talco e le tante mance dei clienti che apprezzavano la sua spazzolata, tanto che il padre l’aveva soprannominato Danileddu spazzola. Si incominciava sempre così, dopo un primo periodo dedicato alla ramazza si passava alla spazzola, che doveva essere veloce, precisa e

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mai insistente, e solo dopo questa gavetta si potevano prendere in mano forbici e rasoio. La prima volta che fece un taglio di capelli fu il giorno del suo quindicesimo compleanno. La cavia fu il nonno, che a fine taglio si complimentò con il nipote per poi chiedere a suo figlio di nascosto di sistemarglieli perché si vergognava a uscire in quelle condizioni. Ma se con i tagli aveva dovuto faticare, la sua vera specialità era la barba: la sua mano ferma e decisa fece in breve tempo il giro dei clienti, che lo preferivano al padre più esperto. Danilo di questo andava orgoglioso e il padre si fingeva geloso ma poi si complimentava e si vantava di avere un figlio con quelle qualità. Suo padre... che vide piangere come un bambino nella sala d’aspetto del carcere. Danilo non lo fece parlare, gli disse “Non piangere, non sono morto, un giorno ti spiegherò, e vi prego non scrivetemi e non venite mai più a trovarmi, io non mi farò vedere”. E così fece, le prime volte che venne la guardia a chiamarlo, e così fece, non rispondendo a nessuna lettera. Lui aveva deciso che per poter sopravvivere in

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

quel mondo così diverso dalla realtà non doveva avere rapporti con l’esterno; quella era una battaglia che lui doveva vincere da solo e il minimo contatto con i parenti gli avrebbe complicato la vita. La sua nuova vita. - Oh, domani, mi raccomando, li fai anche a me, che domenica si sposa mio figlio. La guardia lo distolse dai suoi pensieri. - Chi, il carabiniere? - chiese Danilo in tono confidenziale. - No, il finanziere, Sergio. Il carabiniere... si sono lasciati, lui l’ha lasciata, sicuramente ha trovato un’altra. Gliel’ho detto, “se continui cosi tu rimani solo, ormai alla tua età... E più vai avanti e più è difficile”. Io mi sono sposato a diciannove anni, e non ci ho pensato due volte. A Danilo piaceva parlare con tziu Murgia, la guardia più anziana che fra qualche mese sarebbe andata in pensione. - Dopo quarant’anni mi rilasciano, ho scontato la mia pena - diceva in tono scherzoso, come a sottolineare che in carcere si passava più tempo che in famiglia, doppio e triplo turno erano all’ordine del giorno, la mancanza di personale ti obbligava a questi ritmi di lavoro e a volte dopo ventiquattro ore trascorse dentro non capivi chi era la guardia o il detenuto. Tziu Murgia con Danilo aveva legato dal primo giorno, l’aveva preso in simpatia per quell’aria da bravo ragazzo e per l’educazione che difficilmente si trova all’interno di quelle quattro mura, dove le buone maniere vengono lasciate all’ingresso insieme agli effetti personali. Danilo sapeva stare con le persone, una vita a contatto con i clienti l’aveva aiutato a conosce-

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MASSIMILIANO MEDDA

re il genere umano, a capire il loro carattere e ad adeguarsi per non scontentare nessuno, e così aveva fatto in carcere. Il fatto poi che fosse un bravo parrucchiere gli aveva concesso, dopo diversi anni di detenzione, dei privilegi, come una piccola cella per conto suo e la possibilità di guadagnare soldi, cosa che a molte guardie, soprattutto a Piscedda, non era mai andata giù. - Mi raccomando, domani sera in chiusura mi fai una bella sfumatura, non troppo alta - disse tziu Murgia indicando con la mano l’altezza del taglio. - Stia tranquillo, sarà il più bello della festa. - Apri bene gli occhi, il tipo della lametta non mi piace, evitalo e cerca di non rispondere a Piscedda. Fra due mesi te ne vai, evita i casini. - Stia tranquillo, seguirò il suo consiglio. Quelle sere trascorse a tagliare capelli in compagnia erano i suoi momenti di libertà e di normalità, ma poi si rientrava in cella e l’attraversare quel corridoio del terzo braccio gli ricordava lo zoo, dove lui amava passeggiare da bambino con sua madre. Gabbie una di fronte all’altra, all’interno bestie rinchiuse, svogliate e rassegnate ma pericolose, a cui non bisognava avvicinarsi troppo. In cella aveva la televisione ma non la guardava quasi mai, i telegiornali con tutte quelle notizie non appartenevano al suo mondo attuale, ascoltava la radio, che riusciva a farlo viaggiare con la fantasia. Quella notte non riuscì a dormire: il battibecco con lo slavo e con la guardia gli avevano tolto quella serenità che lui cercava in modo maniacale.

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L’indomani, durante l’ora d’aria, incontrò Luca, che gli spiegò di aver inoltrato la domanda per poter stare con lui in barberia. Incontrò anche lo slavo, che fumava poggiato alla parete. Come lo vide passare sputò nella sua direzione. Danilo evitò di guardarlo e quello gli disse qualcosa nella sua lingua incomprensibile ma che dal tono e dal disprezzo con cui venivano pronunciate non dovevano sicuramente essere parole di pace e di amore. Quella fu la prima di una serie di provocazioni che Danilo dovette subire. Ogni giorno lo slavo passava in barberia e pretendeva il taglio della barba, durante il pranzo il vassoio pieno dello slavo cadeva puntualmente addosso a Danilo, che evitava di reagire, sotto lo sguardo divertito del resto dei detenuti. Ma per fortuna i giorni passavano veloci, dopo due settimane sarebbe uscito. Luca era diventato il suo assistente e imparava velocemente, il lavoro gli piaceva e i clienti, dopo la prima settimana di diffidenza dovuta ad alcuni tagli sbagliati che stavano per

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

PASSATO PRESENTE

costare alcune ossa rotte al giovane apprendista, incominciavano a fidarsi. - Ehi Danilo, oggi è arrivato il giorno che incominci a respirare - gli disse tziu Murgia. - Oggi sarà il tuo primo giorno da solo - disse Danilo a Luca. - Come da solo, e tu? - domandò impaurito Luca. - Oggi mi portano a passeggiare, mi hanno concesso di fare un giro per la città, fa parte del programma di reinserimento o come cavolo lo chiamano loro, quindi mi raccomando fatti onore, ci vediamo più tardi. - Non preoccuparti - gli disse Luca - la metà degli incassi è per te.

Dopo quindici anni Danilo lasciò per qualche ora il carcere. L’aveva fatto altre due volte durante il processo, ma era passato tanto tempo. Quando la macchina superò il cancello del carcere, si attaccò al finestrino come fanno i bambini la prima volta che viaggiano in aereo, curiosi di vedere il mondo dall’alto. Lui osservava tutto, le persone, i luoghi, e tutto gli sembrava bello e nuovo ma allo stesso tempo aveva paura di quel mondo da cui era rimasto lontano per tanto tempo e che non conosceva più. Quando la macchina si fermò al semaforo vide due sposi che si facevano immortalare per il loro album di famiglia. Il suo pensiero fu subito per Margherita, sua moglie. Non pensa-

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va a lei da anni ma quell’immagine gli riportò alla memoria il giorno del loro matrimonio, un matrimonio voluto dopo appena due mesi di passione travolgente. Si erano conosciuti allo stadio, entrambi tifosi del Cagliari, entrambi seduti nelle poltroncine d’onore. Lei era in compagnia del suo fidanzato e lui con degli amici, erano seduti uno accanto all’altra e il contatto delle loro braccia fece scattare quella scintilla che i più banali chiamano colpo di fulmine. Lei era bella, mora, con le labbra carnose, sempre sorridente e sicura di sé, la classica donna difficile da conquistare. Indossava una maglia aderente che metteva in bella mostra il fisico prosperoso e sodo di chi ama fare sport. La mano di Danilo le sfiorò la coscia, lei se ne accorse, sorrise e con la sua mano contraccambiò il suo gesto. Restarono in quella situazione di imba-

razzo per tutto il primo tempo poi per fortuna, nella ripresa del gioco, il Cagliari segnò e lei, dopo aver abbracciato il suo ragazzo, gli venne addosso e lo travolse con tutta la passione dei suoi vent’anni, il suo profumo e quell’abbraccio furono una scossa che gli fece perdere il controllo. Prese una penna e scrisse sopra i suoi jeans «Seguimi». Lei lesse il messaggio e gli sfiorò la mano. Lui si alzò e l’aspettò nel corridoio tra i due anelli dello stadio. Lei non tardò ad arrivare e senza dirsi niente si abbracciarono e si baciarono come spinti da una passione che non avevano mai provato prima. Si ritrovarono nei bagni dello stadio e fecero l’amore in modo selvaggio come si vede nei film, e quando lei scappò lui restò solo in quel bagno squallido e maleodorante che con lei vicino sembrava l’alcova più accogliente.

Dopo due mesi stavano di fronte a un annoiato assessore del Comune a promettersi amore e fedeltà eterna. Lei gli aveva scritto diverse lettere che lui non aprì mai: le teneva, insieme a tutte quelle che parenti e amici gli mandarono negli anni, dentro una piccola scatola di latta, non aveva mai avuto il coraggio di leggerle ma neanche di

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

buttarle, forse un giorno l’avrebbe fatto, forse quando fosse uscito. La macchina passò anche davanti al suo salone che ora era diventato uno dei tanti negozi di abbigliamento cinese che aveva invaso i quartieri del centro storico. Il rientro in carcere non lo spaventò: quello era il suo mondo e domani l’avrebbe dovuto abbandonare, e questo non lo rendeva tranquillo, si sarebbe dovuto riabituare. Rientrando in cella passò davanti alla sua barberia e, vedendola vuota, incominciò a preoccuparsi. Tziu Murgia gli venne incontro e gli sussurrò sottovoce - Vattene in cella, poi passo io. Danilo sempre più agitato seguì il consiglio della guardia e nervosamente incominciò a fare zapping con il telecomando. Passarono pochi minuti e tziu Murgia aprì la porta della sua cella e se la rinchiuse alle spalle. - Cosa è successo a Luca? - È in ospedale, trauma cranico, è sotto osservazione. L’hanno trovato nelle docce con la testa spaccata e un occhio che rischia di perdere. Nessuno ha visto niente. - Lo slavo… è quel bastardo. Credo anch’io. Stamattina è passato in barberia e quando non ti ha visto ha incominciato a bestemmiare, era convinto che tu fossi uscito. - Pezzo di merda, sicuramente l’ha colpito alle spalle. - Tu stattene buono in cella, domani te ne vai. Evita di uscire domani mattina per l’ora d’aria, ti metteresti nei guai. Io ti saluto adesso, sto

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MASSIMILIANO MEDDA

smontando e domani non ci sono. Ci vedremo sicuramente fuori da questo posto. Danilo lo abbracciò e lo ringraziò per averlo aiutato a trascorrere con un po’ di serenità quei quindici anni. Quando tziu Murgia uscì e richiuse la porta, una sensazione di abbandono lo fece precipitare in un abisso. Si sdraiò nella branda e incominciò a fissare quel soffitto che per anni era stato il suo, quei rumori, i passi delle guardie, il rumore delle chiavi, i colpi di tosse nel silenzio e quelle luci... Cominciò a pensare a quello che avrebbe fatto e detto rientrando a casa l’indomani e ripassando quel copione che in tanti lunghi anni aveva preparato si addormentò. Riaprì gli occhi dopo che un violento pugno gli aveva spaccato il naso. Intontito e spaventato come un pugile prossimo al ko si sedette di colpo sul letto, non fece in tempo a proferire parola che un altro macigno gli chiuse definitivamente l’occhio destro. Davanti a lui era comparso misteriosamente lo slavo con un rasoio in mano: quello doveva essere il regalo d’addio di Piscedda che aveva aspettato quindici anni per vendicarsi di quell’arrogante e privilegiato barbiere. - Che cazzo vuoi? - gli chiese Danilo. - Sono venuto per la barba - gli disse sorridendo lo slavo. - Vai a farti fottere, io barba non ne faccio - rispose Danilo pulendosi con il lenzuolo il sangue che gli colava dal naso. Lo slavo lo afferrò per i

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capelli, lo trascinò ai suoi piedi e con il piede incominciò a premergli la testa sul pavimento. - Ho detto che tu mi devi fare la barba, hai capito? - Ho capito - rispose non sentendosi più l’orecchio attaccato alla testa. Solo allora lo slavo mollò la presa e faticosamente Danilo incominciò ad alzarsi. Lui non era di quelli capaci di usare le mani: anche da ragazzino, pur vivendo in un quartiere dove per sopravvivere era necessario saper dare due pugni e qualche calcio in faccia, aveva sempre evitato, e l’unica volta che aveva cercato di partire qualcuno, come si usava dire in quei tempi, si era ritrovato per terra in balia di un piede che l’aveva scambiato per un pallone da calcio. Ora era inginocchiato per terra con lo slavo alle sue spalle che lo guardava con aria compiaciuta. Danilo pensò a quei giorni trascorsi in gabbia, a Luca con la testa spaccata, alle raccomandazioni di tziu Murgia, alla prepotenza dello slavo e, prima che questi potesse capire quello che gli stava succedendo, Danilo lo colpì con una testata all’indietro proprio sulle palle. Lo slavo incredulo si inchinò istintivamente e Danilo lo colpì con lo sgabello in ferro che faceva parte dello scarno arredamento. Lo slavo giaceva per terra privo di conoscenza, sicuramente non si aspettava una reazione simile.

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

PASSATO PRESENTE

Danilo gli strappò il rasoio dalle mani, glielo poggiò sulla gola e cominciò a premere finché non vide uscire sangue. Lui, uno dei migliori barbieri di Cagliari, che con i clienti era sempre stato attento e premuroso, “guai a tagliare un cliente, un cliente che esce dal salone con un piccolo taglio non rientra più” gli ripeteva tutti i giorni suo padre quando decise di affidargli il rasoio. E lui mai aveva tagliato un cliente, solo quel sabato di quindici anni fa, quando Federico, un suo amico fraterno, era entrato con il suo solito sorrisetto ammiccante. - Ciao bello, cosa hai? Ti vedo un po’ spento, dovresti farti una bella vacanza alle Maldive, tu lavori troppo. - E tu troppo poco - gli rispose Danilo, che non aveva voglia. Federico incassò e sorrise: - Oggi fammi anche la barba che più tardi ho un appuntamento con la cavallona. - Vi vedete anche oggi, quindi. - Fosse per lei mi vorrebbe tutti i giorni, ci siamo visti l’altra sera… - incominciò a raccontare Federico mentre il pennello gonfio di schiuma gli insaponava il viso - La prima cosa che ha fatto si è sollevata la gonna e mi ha fatto vedere che era senza mutande… te l’ho detto che lei non le usa mai. - È vero, me l’hai già detto. - disse Danilo mentre affilava la lama - E mi hai anche detto come si chiama, la cavallona? - No - disse Federico cambiando tono di voce, io i nomi non li faccio mai, sono un signore. -Bravo, questo ti fa onore - rispose l’amico, che

incominciava a tagliare dalla basetta in giù. - E mi hai detto se per caso è sposata? - incalzò Danilo, che con la lama scendeva lungo la guancia. Federico si fece pensieroso ma senza farsi vedere titubante rispose: - Sì, è sposata… Ma perché oggi sei così curioso? - E dopo una pausa cercò di cambiare argomento: - Parliamo del Cagliari: hai visto come sta giocando meglio? È bastato quel nuovo acquisto... - Non me ne frega un cazzo del Cagliari - lo zittì Danilo con la lama appoggiata sulla gola. - Ma stai attento, cosa mi vuoi tagliare, oggi? Non ti riconosco! - fece Federico con lo sguardo terrorizzato. - Io invece ti ho riconosciuto l’altro giorno al Poetto dentro quella Mercedes bianca tu e la cavallona… La colpa è la tua, mi hai sempre parlato in modo così esauriente di quella ragazza che me la sono persino sognata, volevo vederla, ero curioso e quando l’ho vista ho notato che è molto simile a Margherita… la mia Margherita, la stessa che ho portato due anni fa all’altare, ti ricordi? In quell’altare c’eri anche tu, il mio migliore amico, il mio testimone! - Smettila Danilo, non fare cazzate, ti posso spiegare tutto, io… non volevo. - Lo so, ti capisco, è stata lei a insistere, ti posso credere, lei è sempre stata una che non si accontenta, ma tu, caro amico mio, che oltre a fare i tuoi porci comodi venivi pure a raccontarmi i minimi particolari, perché mi hai fatto questo? Danilo aveva incominciato a premere la lama sul collo.

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MASSIMILIANO MEDDA

- Noi che eravamo amici… Ormai Federico non riusciva ad emettere un suono, era come paralizzato, il sangue incominciava a scendere lungo il collo e il telo bianco improvvisamente divenne rosso. Danilo non si fermava, guardava la scena allo specchio e gli sembrava una delle tante scene viste al cinema durante quei film dell’orrore di cui lui era appassionato. La sua mano premeva sul collo dell’amico che a un certo punto non reagì più. Solo allora Danilo fece cadere dalla mano il rasoio e si guardò allo specchio consapevole, con quel gesto, di aver rovinato la sua vita. Lui era un assassino, lo era per tutti, per il giudice che lo condannò, per i giornali che pubblicarono la sua foto sorridente in tutte le prime pagine, per i telegiornali che lo inquadrarono mentre usciva dalla questura con le manette ai polsi, lo era per tutte quelle trasmissioni che frugarono nella sua vita e nella vita di quelli che lo avevano visto anche per una volta, ma lo era soprattutto per i suoi familiari e per tutte quelle persone che gli volevano bene. Lui, un assassino che per quindici anni aveva cercato di liberarsi di quel marchio indelebile e quando pensava di essersene liberato si ritrovava con una lama in mano e un bastardo, uno che poteva tranquillamente ammazzare e poi lasciare fuori dalla sua porta come un sacco di spazzatura, nessuno l’avrebbe potuto incolpare. Le guardie avrebbero detto che si trattava di suicidio… come spiegare a un giudice che un carcerato durante la notte passeggia in giro per le celle? Danilo lo guardò, come un padre che veglia su un figlio, e lasciò che la sua mano

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andasse da sola per fare giustizia. L’indomani mattina quando si svegliò, nonostante tutti avessero sentito, nessuno commentò le urla e i rumori della notte appena trascorsa. Danilo si alzò, andò a lavarsi, si fece la barba e decise di fare un salto nel cortile per salutare quel mondo che di lì a poco avrebbe definitivamente lasciato. Il momento dell’addio è sempre molto toccante, anche se ti trovi in carcere. Non fece in tempo a mettere un piede nel cortile che subito fu abbracciato da alcuni detenuti che lo stavano aspettando, salutò e rivolse l’ultimo sguardo verso l’uscita, dove lo slavo sbarbato e completamente rasato fumava appoggiato alla solita parete. Quando gli passò vicino non sputò come faceva di solito e non disse nulla, lo guardò e a Danilo quello sguardo parve un saluto che l’accompagnò nel tragitto che lo conduceva nel suo vecchio mondo.

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

PASSATO A CIELO PRESENTE APERTO

Massimiliano Medda

Autore, attore e regista teatrale cagliaritano, ha esordito nel 1986 fondando la compagnia teatrale Lapola, dal nome dell’antico quartiere di Marina dove sono nati e cresciuti cinque componenti del gruppo. Nel 1990 ha firmato lo spettacolo Speriamo che venga qualcuno, primo di una serie di successi che hanno regalato fama all’intera compagnia: Lapola show (1991, in tournée nell’isola), Ricercati vivi o morti (1992), L’importante è montarsi la testa (1993). E’ stata quindi la volta degli spettacoli Stiamo lavorando per noi (1994), Cambiando l’ordine degli attori il risultato non cambia (1995), Okkupazione (1996), Lapola si scrive tutto attaccato (1997), Finealmente (1999). Nel ‘96 realizza la trasmissione Okkupazione su Videolina. Nel ‘98 realizza la trasmissione televisiva Vico Lapola già vi…collegate. Nel novembre del 1999 è stato il narratore nella fiaba musicale Pierino e il lupo di Prokofiev, prodotta dal Teatro Lirico di Cagliari. Nel febbraio 2000 ha interpretato il ruolo di Frosh nell’opera Il Pipistrello di Johann Strauss jr. prodotta dal Teatro Lirico di Cagliari. Nel 2002 è stata la voce narrante nell’opera Il brutto anatroccolo di Pau e Tanchis con l’orchestra Jazz di Sassari diretta dal maestro Giorgio Gaslini. Nel 2003 è l’ideatore ed il conduttore della trasmissione televisiva Come il calcio sui maccheroni. Nel 2006 interpreta il ruolo dell’educatore nel film di Enrico Pau dal titolo Jimmy della collina. Nel marzo 2007 ha iniziato le riprese del film di Enrico Pitzianti dal titolo Tutto torna. Nel dicembre 2008 è l’ideatore ed il conduttore della trasmissione televisiva in onda sull’emittente Videolina Lapola sciò che va in onda tuttora tutti i lunedì alle ore 21.

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MARIO GELARDI

A QUARANTA METRI DA TERRA

A quaranta metri

da terra A dieci metri da terra, il sole ti martella in testa, ti secca la pelle lasciandoti chiazze come di sale. Il sole a venti metri da terra ti scava solchi in viso e, ad ogni solco, ad ogni ruga, trasforma i giorni in mesi. In piedi su un asse, a trenta metri da terra, il sole è come la lama di un coltello che lascia piccoli tagli senza mai andare a fondo, come un’interminabile tortura cinese.

di Mario Gelardi

Erano in quattro, in piedi sul limite estremo della Torre dell’Elefante. Sotto di loro qualche centinaio di persone li guardava con gli occhi in su: madri, figli, amici, curiosi, due camionette della polizia e una macchina con la sirena sopra, tre giornalisti di cui una di una televisione locale, due cani randagi di cui uno zoppicante. Dalla sommità della torre, i quattro uomini guardavano il cielo limpido e chiaro da sembrare una cupola di vetro. Guardavano il mare, da cui due di loro erano giunti.

A quaranta metri da terra, il sole rimbalza sulle pietre bianche di calcare, il sudore è come olio caldo che frigge la pelle.

Torre dell’Elefante

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

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MARIO GELARDI

A QUARANTA METRI DA TERRA

Le voci lì su arrivavano rarefatte, solo una si arrampicava forte e metallica, quella dell’ispettore di polizia Casu che, armato di un megafono, diceva qualcosa di scontato e prevedibile. Era difficile distinguere le parole ma non c’erano dubbi che erano appelli che li invitavano a scendere. La notizia che i quattro uomini erano saliti in cima alla torre era corsa veloce in tutta la città, era arrivata sulle scrivanie delle redazioni dei giornali e delle televisioni locali. Anche i vecchi fuori dal Circolo bocciofilo e i ragazzi all’angolo nord del Bastione Santa Croce avevano dato un cenno di interesse, interesse non sufficiente però a farli muovere dalla loro posizione.

dell’impresa, contro i sindacati, contro chi doveva vigilare sulla sicurezza del cantiere. Se la sarebbe presa indistintamente con tutti, perché la colpa della morte di suo marito non poteva essere addossata ad una sola persona e forse, se fosse stato ancora vivo, avrebbe urlato la sua rabbia anche verso lui. Ora era lì a guardare Franco che come suo marito aveva lasciato Napoli e la Tirrenia, per mettere radici e non stare più ammollo. Antonia stringeva un fazzoletto tra le mani e ogni tanto si asciugava il sudore dalla fronte. Tutto quel caldo, tutto quel sole le faceva gonfiare le caviglie. L’estate sarda, bella e vigliacca, almeno per lei. «Scennite, scennite abbascio».

Non era la prima notizia di quel tipo che circolava in quei giorni, ormai accadeva in molte fabbriche che gli operai fossero costretti a barricarsi all’interno dei luoghi di lavoro per ottenere i propri diritti o per evitare di perdere l’impiego. La notizia rischiava di non essere più “notizia”, di non avere quella connotazione di novità, caratteristica indispensabile per essere pubblicata. Perché la consuetudine è priva di interesse, almeno per un giornalista.

Un’idea chiara di cosa avrebbero fatto lassù e quando sarebbero scesi, i quattro operai, non l’avevano. Sapevano solo di voler parlare con qualcuno. Qualcuno che li rassicurasse sul loro futuro, che si prendesse la responsabilità di decidere per loro o di chiedere semplicemente scusa per la mancanza dell’osservazione delle norme di sicurezza, per la cassa integrazione in cui entravano ed uscivano da cinque anni, per gli stipendi saltati e gli straordinari non pagati. Marco, il figlio di Franco, un mese prima era caduto da un’impalcatura. Il ragazzo non aveva le scarpe di sicurezza o l’elmetto e stava in cima al ponteggio senza cavo di sicurezza. Marco ora era in ospedale senza copertura previdenziale perché lavorava in nero. Lui almeno si era salvato, il marito di Antonia invece era morto nel silenzio di tutti.

«Scennite, scennite abbascio». Antonia aveva il torcicollo a furia di guardare in su. Forse, se avesse avuto le forze, ci sarebbe salita anche lei lì sopra e dall’alto avrebbe iniziato a strillare la sua rabbia contro tutti, contro i capi

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Franco aveva sempre visto gli ispettori del lavoro come dei rompicoglioni, gente che faceva chiudere i cantieri e mandava gli operai per strada. Lui aveva lavorato per quarant’anni e non gli era accaduto niente né sul traghetto né nei cantieri, “basta stare attenti” aveva sempre pensato. Ora lo sapeva che non bastava stare attenti e che a volte capita che sei troppo stanco per poter controllare tutto, capita che metti un piede in fallo e capita che non trovi l’appoggio giusto e che precipiti da quaranta metri. Questa volta era toccato a suo figlio, questa volta non poteva far finta di niente, spostare il corpo del collega, dell’amico più in là, e continuare a lavorare. Questa volta lo schizzo di calce lo aveva colpito in pieno. I quattro uomini si guardavano l’un l’altro senza parlare, forse non erano davvero consapevoli del meccanismo mediatico in cui erano entrati, ma sapevano che quando si muove la televisione, vuol dire che finalmente hai l’attenzione di qualcuno e questo qualcuno non può far finta di niente. Sarebbe arrivato il prefetto, il sindaco, magari un assessore regionale, uno di quelli che si fanno chiamare onorevole, e loro avrebbero potuto fare le loro richieste. Marco era in un letto d’ospedale con un collare che gli teneva la testa alta, di fianco la sua ragazza Anna gli stringeva la mano. Insieme guardavano le immagini di un telegiornale locale. Quello nello schermo era suo padre. Suo padre che gli aveva sempre detto di star zitto e lavorare, suo padre dal volto scuro, la barba

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MARIO GELARDI

ispida e i denti rovinati prima dal mare e poi dalla calce. Suo padre a quaranta metri da terra. Marco si chiedeva dove avesse trovato il coraggio di compiere quel gesto, il coraggio della disperazione si disse. Aveva provato a chiamare suo padre, ma aveva trovato il cellulare spento, non era nemmeno certo che l’uomo lo avesse con sé. Sudava freddo e l’ingessatura alla gamba sembrava stringersi sempre di più, come se il suo corpo si stesse gonfiando. L’ispettore Casu continuava ad urlare, ora la sua voce era più leggibile, diceva che presto sarebbe arrivato il direttore dell’azienda per parlare con loro. Il capocantiere Ribicchesu, la faccia come una pattadese, afferrò il megafono e gridò agli operai di non fare stupidaggini e di scendere fino a che erano in tempo. - In tempo per cosa? - gridò un giovane che afferrò in malo modo il megafono - Ragazzi siamo tutti con voi. Ci fu un parapiglia, la gente iniziò a spingersi, qualcuno cercò di gettare in terra il megafono. La polizia fu costretta ad intervenire e a separare la folla. - Non creiamo disordini, state tranquilli. L’ispettore Casu riacquistò il comando del megafono ma non con altrettanta efficacia quello della folla che, più o meno a voce alta, cominciò ad insultarlo. Ormai c’era gente dappertutto e chi non aveva trovato posto sul Bastione di Santa Croce, sugli scalini di San Giuseppe, lungo via Università,

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ora si faceva spazio sulla terrazza del Ghetto degli ebrei.

A QUARANTA METRI DA TERRA

Quattro dita.

I “ragazzi” sorrisero, nessuno di loro ricordava né di aspetto, né di età un giovane. Erano tutti muratori da molti anni con i segni del lavoro sul corpo. Uno di loro, Quattro dita lo chiamavano, aveva perso il pollice della mano sinistra, schiacciato da un carico pesante. Il padrone gli aveva detto che se non lo denunciava, se si stava zitto, lo avrebbe tenuto a lavorare. Quattro dita accettò subito pensando che la pensione di invalidità per un pollice perso sarebbe stata ben poca cosa e i guai di una denuncia, invece, sarebbero stati enormi per lui e la sua famiglia.

Marco continuava a chiedere alla sua ragazza di chiamare suo padre al cellulare, Anna continuava a ripetere che il padre non rispondeva. Franco aveva perseguitato il suo capo per mesi per convincerlo ad assumere suo figlio, l’uomo continuava a ripetergli che la situazione non era buona ma alla fine assunse Marco con una serie di contratti a termine. A Marco quel lavoro non piaceva, non gli piacevano i suoi colleghi e soprattutto non gli piaceva quella stanchezza a fine giornata che non gli permetteva di fare nulla se non dormire. La sua giovinezza era finita, sommersa dalla calce e segnata dai calli sulle mani.

- Ma secondo voi quanto dura tutta sta storia? Fu la prima domanda di Tonino che di solito stava zitto. In effetti chi poteva rispondere seriamente a quella domanda? Tonino, secco secco come era, non ci dormiva più la notte. Pensava a sua moglie, ai due bambini e pensava che secco secco da sembrar malato, nessuno gli avrebbe dato un lavoro. Tonino passava la notte a guardare il lampadario del soffitto della camera da letto a cercare una soluzione. Sua moglie, quando si svegliava di notte e lo vedeva così, con gli occhi fissi al soffito, cercava di destarlo: - Oh Tonì, che hai? - Niente, dormi. La moglie si voltava dall’altra parte senza però riuscire a prendere sonno. Ora Tonino era sul tetto insieme a Franco e a

Non una nuvola si contrapponeva tra loro e il sole che sembrava come puntare chiodi nella testa dei quattro uomini. Chiesero dell’acqua e la ottennero, ma da parte della ditta ancora nessun segnale. Forse non li prendevano sul serio, pensò Franco, quelli non sono luoghi in cui le persone fanno questi colpi di testa. Quando avevano deciso quell’azione simbolica ma definitiva, si erano fatti coraggio un po’ l’un l’altro, come un unico corpo che ha bisogno di ogni organo per vivere. In fondo ognuno aveva una sua motivazione, qualcosa che li aveva portati a non poter star zitti più, la fine del loro lavoro sembrava davvero inesorabile.

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

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MARIO GELARDI

- Ma da quanto tempo stiamo qua sopra? - Saranno quasi sei ore? Il sole stava tramontando alle spalle dei quattro uomini, una nave stava lasciando il porto, lanciando il fischio tipico. “Mannaggia il giorno che mi sono licenziato dalla Tirrenia”, disse tra i denti Franco. Finalmente si decise ad accendere il telefono e parlò con suo figlio. Marco gli chiese di scendere, lo fece con insistenza e convinzione. Raccontò a suo padre che aveva sentito in televisione che la loro ditta era fallita e che l’amministratore era sparito. Franco pensò che era una scusa, un modo per convincerlo a scendere. Ormai si stava facendo sera e i quattro avevano fame. Il più giovane di loro, uno slavo di trentadue anni continuava a lamentarsi. Lo Slavo, come lo chiamavano tutti, aveva seguito gli altri fin lassù perché sperava che questa azione dimostrativa lo potesse aiutare a ricevere il permesso di soggiorno che anche quest’anno gli era stato rifiutato. Era entrato in Italia illegalmente e altrettanto illegalmente era riuscito a far entrare sua moglie e i bambini. Avevano preso un monolocale ai margini della città, trenta metri quadrati con angolo cottura e bagno solo con lavandino e tazza. Dopo due giorni che sei sotto il sole i capelli diventano secchi e duri come la stoppa. Il sole ti brucia come fa la calce viva quando ti schizza addosso.

all’ispettore Casu il permesso di farglieli avere. Quello non disse niente, si limitò ad annuire mentre un agente accendeva i fari dell’auto perché iniziava a fare buio. Si sentivano come dei marinai sulla torretta di guardia, in attesa di avvistare la terra, ma il confine invece di avvicinarsi, sembrava allontanarsi. Cercavano di far passare il tempo, di solito parlavano di calcio, del Cagliari. Ogni tanto qualcuno li chiamava da sotto, gli urlava il solito «siamo con voi». Lo Slavo aveva visto il comunismo reale, l’odio raziale e religioso, aveva visto la guerra ed ora vedeva l’Italia a quaranta metri da terra.

Antonia era stanchissima, voleva andare a casa a preparare dei panini per gli uomini. Chiese

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A QUARANTA METRI DA TERRA

Il secondo giorno, finì. Il terzo giorno, mentre stava bevendo un sorso di vino, Quattro dita si sentì male, crollò sulle gambe toccandosi il cuore. Gli altri tre sbiancarono e iniziarono a chiamare aiuto. Per fortuna il cellulare di Tonino dava ancora segni di vita, così poterono chiamare i soccorsi. La cosa richiamò l’attenzione di un po’ di gente, compresa quella del sindaco. Il quotidiano locale riportò la notizia della visita del primo cittadino ai quattro lavoratori, l’articolo era corredato di una foto in cui l’uomo era vicino a dei sacchi di cemento. Il sindaco dichiarò alla stampa che stava progettando un tavolo di concertazione per risolvere i problemi della ditta e dei quattro lavoratori, ma «a causa del boicottaggio dell’opposizione», i tempi si stavano allungando. Il capo dell’opposizione in consiglio comunale, dal canto suo, dichiarò ad una radio locale che «la situazione della ditta era la conseguenza di una politica del lavoro degenerata in una serie di…», eccetera eccetera. La televisione quel giorno non aveva parlato dei muratori, c’era stata un’inondazione in un paese del nord Italia e la protezione civile era impegnata nel tentativo di salvare una famiglia che era rimasta intrappolata sotto le macerie della propria abitazione. Tutta l’attenzione mediatica era assorbita da quella tragedia «che si sarebbe potuta evitare». Gli uomini si lavavano con le bottiglie d’acqua,

ma la puzza acida di sudore asciugato sui vestiti investiva l’aria. Per quanto cercassero di bere, il processo di disidratazione era iniziato e la loro pelle era come quella che lasciano i serpenti quando fanno la muta. L’odore di urina era attorno a loro mischiata a quella della calce incrostata sui loro vestiti. Passavano gran parte della giornata seduti per terra, sempre più in silenzio e stanchi, videro tramontare il terzo giorno.

Il quarto giorno l’ispettore Casu decise di far arrivare ai quattro operai dei giornali in cui si parlava del fallimento della loro ditta. Aveva capito che le sue parole non sarebbero servite a dissuadere gli uomini e che soprattutto

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MARIO GELARDI

quella situazione non sembrava avere una via di uscita. Aveva chiesto più volte alla ditta di inviare qualcuno a parlare coi dipendenti, ma l’azienda era praticamente fallita. Tonino leggeva il giornale, issato su con una corda, ad alta voce scandendo le parole per fare in modo che anche Lo Slavo capisse. Lo sconforto si dipinse sul viso dei tre, sconforto che li fece piombare in un profondo silenzio. Tonino lanciò il giornale giù, le pagine si aprirono come le ali di un aliante e arrivarono a terra sparpagliate. Il volo riempì di entusiasmo l’ispettore Casu, era un segnale chiaro che i tre uomini erano ormai sfiduciati. Antonia, a causa di una sciatalgia, quel giorno non poté inerpicarsi sin sotto la Torre. Il bastione contava pochi curiosi mentre i vecchi al circolo bocciofilo avevano ripreso ad occuparsi solo delle loro bocce. Il quarto giorno finì, mentre l’aria iniziò a caricarsi d’umidità. Lo Slavo tossì a lungo la notte del quarto giorno. Il quinto giorno iniziò per gli uomini alle cinque del mattino, quando una pioggerellina incessante e gradualmente in aumento, iniziò a bagnarli. Uno scroscio estivo. Lo Slavo tossiva. All’inizio trovarono quasi piacevole quella doccia minima, poi decisero di scendere di un piano, per potersi proteggere sotto la parvenza di un tetto. Scendere di un piano. Che non era come ar-

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rendersi. Lo Slavo tossiva. Sotto di loro solo la macchina della polizia con un agente dentro che sonnecchiava. Lo Slavo tossiva, una tosse maligna e persistente. Alla fine del quinto giorno Lo Slavo finì all’ospedale di fronte, dedicato a San Giovanni di Dio, uno che di poveri e disgraziati come lui se ne intendeva. Il sesto giorno Tonino si svegliò presto perché Franco aveva russato tutta la notte, tanto che lui non era riuscito a dormire. Gli occhi gli friggevano e i muscoli sottili e lunghi sembravano tirargli le ossa. Franco non si svegliava e Tonino pensava come faceva quando era nel letto con sua moglie e restava ad occhi aperti tutta la notte. L’ansia che lo assaliva a quel pensiero lo agitava, non riusciva a stare fermo, sudava, si sentiva come febbricitante anche se in realtà il suo corpo era freddo, quasi gelido. «Tutto inutile, è stato tutto inutile» pensò. Si guardò attorno, Franco dormiva ancora, si avvicinò alle vecchie mura che avevano assistito inermi ad ogni tipo d’invasione ed iniziò la sua discesa verso la terra. Il sesto giorno Tonino tornò a casa da sua moglie e dai suoi figli. Quando Marco seppe che suo padre era rimasto solo sulla Torre, decise che era arrivato il momento di lasciare l’ospedale.

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

A QUARANTA METRI DA TERRA

Firmò un modulo in cui si prendeva la responsabilità della sua azione e si fece portare una vecchia sedia a rotelle di una zia. Anna lo accompagnò sotto la Torre. In auto rimasero zitti, solo il suono della radio che trasmetteva canzoni italiane degli anni Sessanta. Il poliziotto che era rimasto di guardia gli si avvicinò. Marco disse solo: - Quello lassù è mio padre e io voglio farlo scendere. Il poliziotto tornò all’auto di servizio e portò un megafono al ragazzo. - Fallo venir giù che non ce la faccio più nemmeno io - disse il giovane poliziotto. Anna fece scendere il fidanzato dall’auto e lo aiutò a sedersi sulla sedia a rotelle. Marco arrivò sulla terrazza del Ghetto. Quando accese il megafono partì un fischio che fece volar via tutti gli uccelli dagli alberi vicini. Marco chiamò il padre, lo dovette fare almeno tre volte prima che l’uomo si affacciasse. Quando lo vide la voce si ruppe. - Papà sono Marco. Marco iniziò a parlare, parlò con parole di figlio, le uniche che sembravano sensate in quel momento, parlò per quasi dieci minuti, alla fine dei quali Franco scese dall’impalcatura. Scese di piano in piano, prima lentamente, poi con più forza e ansia, pronto a riabbracciare suo figlio. Vederlo lì sotto, stringerlo a sé, era l’unico motivo davvero valido per lasciare la sua lotta. Franco pensava che da soli non si va da nessuna parte e che se ti prendi la responsabi-

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MARIO GELARDI

A QUARANTA METRI DA TERRA

lità di comandare una battaglia, se nessuno ti segue sei solo come Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento. Quella volta però i mulini non erano i padroni della ditta, ma i suoi compagni, i suoi colleghi di lavoro, quelli che lo avevano lasciato solo. Lì sulla Torre dell’Elefante. La ditta fallì. Franco, Tonino e Quattro dita andarono prima in cassa integrazione, poi Franco in prepensionamento. Quattro dita iniziò a lavorare per il negozio del cognato e Tonino trovò un posto in una ditta di pomodori, come stagionale. Lo Slavo considerato un clandestino, fu rispedito con la sua famiglia al suo paese. Pare che in ogni storia ci sia sempre qualcuno destinato a soffrire più degli altri.

Mario Gelardi

Giuseppe Miale di mauro

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Mario Gelardi, autore e regista teatrale. Premio Olimpici del Teatro come miglior novità italiana per Gomorra scritto con Roberto Saviano. Premio Enriquez per il teatro di impegno civile. Premio Girulà 2007, come miglior autore e Premio Ustica per il teatro 2005 per Quattro scritto con Giuseppe Miale di Mauro. E’ stato tra gli autori selezionati per il Premio Extra Candoni 2005. Finalista del Premio Riccione 2005 con Becchini, scritto con Giuseppe Miale di Mauro. Premio Fersen per la drammaturgia con La vita come prima, scritto con Giuseppe Miale di Mauro. Premio Flaiano 2002 con Malamadre, testo attualmente in scena a Praga con il titolo di Zlomatka. E’ direttore artistico della rassegna Teatri della legalità. Ha curato l’antologia La Ferita, racconti per le vittime innocenti di camorra, edito da Ad est dell’equatore. Diplomatosi, come attore, all’accademia teatrale del Teatro Bellini. Tra le sue interpretazioni, Guappo di cartone di Viviani, regia di C. Cerciello, e Allegretto… perbene ma non troppo di Ugo Chiti, regia di Enrico M. La Manna. E’ tra gli interpreti principali di Gomorra, regia di Mario Gelardi. E’ stato fra gli autori selezionati per il Premio Extra Candoni 2005, finalista del premio Riccione 2005 con Becchini, scritto con Mario Gelardi. Premio Fersen per la drammaturgia con La vita come prima scritto con Mario Gelardi. Premio Ustica (sez. Premio Scenario) per Quattro. Due sue racconti fanno parte dell’antologia La Ferita.

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GIANLUCA FLORIS ENRICO PAU

SARTORIO

Sartorio Era primavera, aveva piovuto tutta la mattina e dalla pianura intorno alla città, arrivavano con il vento profumi di fiori sconosciuti. Inebrianti. La vita urlava. La natura aveva iniziato la sua danza sensuale, quella dei pollini che si intrecciano, dei corpi caldi che si mischiano nel solito gioco della vita. Dentro la testa di Sartorio non c’era spazio per quei profumi, né per la primavera, i suoi pensieri non riuscivano a liberarsi dalla ragnatela di un’insopportabile angoscia che lo aveva colpito senza essere annunciata da nulla. Aveva cercato, passeggiando, un senso a quella inquietudine che, nel primo pomeriggio, lo aveva costretto a uscire in fretta dal suo studio, quasi a fuggirne. Camminando dentro gli stretti viottoli della città alta, immerso nel silenzio di quelle stradine deserte, fu attratto dalle pietre bugnate di calcare di un nobile palazzo. Pensò allora che la sua vita era come quelle pietre. Sembravano candide, ma solo da lontano, erano invece polverose, frastagliate, ferite dal vento e dalla pioggia. Quegli enormi blocchi di calcare non erano lì per tenere il peso del palazzo, non erano necessari, creavano solo un effetto scenografico.

Cimitero di Bonaria

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

di Enrico Pau

Non era forse così il suo lavoro di scultore di monumenti funebri? Monumenti vani, sterili, costretti in uno spazio dove si va per piangere e commuoversi, ma non per le sculture, semplici accessori del dolore. Anche la sua vita era ferita. Dal sogno della gloria, dell’eternità. Tutto era rimasto sogno. Sentì che non c’era più tempo, era intrappolato fra le stradine di questa città che non ricordava più neanche come fosse entrata nel suo destino. Ricordava solo il suo primo viaggio in nave per arrivare a Cagliari, sperduto porto di un sud fino ad allora solo immaginato. Lontano, troppo lontano da Boccioleto Valsesia, dal suo Piemonte. Due giorni di tempesta, di onde altissime, su un bastimento di legno che scricchiolava, stretto nella morsa di quell’energia liquida che un maestrale gelido rinforzava ora dopo ora. Aveva temuto di scomparire per sempre. Inghiottito da quelle onde. Allora, la prima volta, ebbe paura. Gridò forte nella notte buia, maledisse il momento in cui aveva deciso quel viaggio. Si guardò nello specchio della piccola cabina. Al lume di una candela vide i suoi occhi rossi. Si fece paura e pensò che si era perduto in mezzo

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a quel mare sconfinato. Nel sonno agitato di quella notte sognò lo studio milanese del suo maestro Odoardo Tabacchi. Una luce soave entrava dalle ampie vetrate illuminando delle statue che nel sogno erano solenni e scabre, niente a che fare con quelle reali del suo maestro, piene di svolazzi, fatti per sorprendere subito, al primo sguardo, committenti di bocca buona. Le vetrate davano su un giardino pieno di piante che gli sembrarono altissime e minacciose come quelle di una giungla misteriosa. La luce si fece all’improvviso cupa, come se il cielo che non si riusciva a vedere sopra i rami fitti fitti, si fosse improvvisamente coperto di nubi oscure, cariche di tempesta. Si vide. Si riconobbe. Era dall’altra parte della vetrata, immerso in quella natura inquieta. Come in uno specchio, notò i vestiti che aveva indosso. Stranamente trasandati. Lui che anche nel suo studio non rinunciava mai a una certa eleganza. I suoi baffetti solitamente perfetti, appuntiti, si erano perduti in una barba folta. Quell’uomo dall’altra parte dei vetri lo salutò con un gesto della mano pieno di malinconia, gli sembrò un richiamo. Era lui. Ma così diverso. Lo invitava ad entrare in quella giungla. Lo chiamava dall’altra parte dello specchio, dove la natura era inquieta, piena di sinistri presagi, però stranamente affascinante. Si spaventò e si svegliò di colpo scoprendo che le onde ora scuotevano la nave con una violenza che sembrava la punizione di un dio rabbioso. Scultore. Si era abituato a quella parola. L’aveva anche amata, per quella parola aveva studiato

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e sofferto. A Roma era stato ancora scultore, ancor prima quando passava le serate nello studio di Tabacchi pieno a tutte le ore di donne eleganti, di gente fine: scrittori, poeti, mercanti. Era stato scultore anche a Cagliari all’inizio, per poco tempo, quando lo guardavano ancora con gli occhi curiosi della novità, circondato per un tempo troppo fragile dall’aura, presto svanita, dell’artista straniero. Ormai dopo tanti anni l’arte con le sue opere non c’entrava più tanto. Confezionare quel cordoglio di pietra era solo una questione di prezzo: dipendeva dalle possibilità delle famiglie. Opere di prima, seconda e terza classe. Preventivi, freddi elenchi di cifre, che Sartorio sottoponeva ai suoi clienti. Il nome dello scalpellino, la sua abilità, incidevano sul costo di quei blocchi di marmo che bisognava liberare dal loro silenzio geometrico. Per le famiglie più importanti era egli stesso a scolpire, altrimenti, il più delle volte, il suo lavoro era fatto di incontri e di disegni su carta, al massimo di qualche bozzetto di gesso. Circondare di pietra il dolore della gente, dargli una forma, un’eleganza, un languore alla moda, nient’altro. Il suo destino? L’oblio. Lo stesso dei morti prima o poi. Perso per sempre, come le sue statue, consumate dal tempo, dal vento, dalla pioggia, dimenticate, come i nomi dei defunti fra i viali di un cimitero di provincia, fra i viali del cimitero di una città che guardava il mare dall’alto: con diffidenza, come un confine invalicabile, un fossato liquido pieno di rancore. Cagliari, a guardarla da lontano, dal ponte della nave, gli era sembrata dolcissima, distesa

com’era sopra i colli, adagiata nel suo biancore mattutino, cristallino e calcareo. Così la città lo accolse la prima volta, dopo quel suo lungo viaggio all’arrivo in porto, ma poi entrandovi dentro scoprì che la polvere copriva tutto. Le strade erano piene di un fango che sporcò subito i suoi begli stivali. Intorno al porto c’erano solo case basse, malsane e umide, che traspiravano l’odore della muffa. Dalle piccole finestre di quelle che gli sembrarono più grotte che abitazioni, si affacciavano vecchie dal viso grinzoso, indurito dalla miseria. Nella strada giocavano ragazzini esili la cui carnagione ingiallita e gli occhi troppo grandi e opachi, rivelavano una qualche malattia, un morbo terribile e sconosciuto. Nelle vie del centro, vicino al suo albergo passeggiavano persone all’apparenza eleganti, alla moda, che gli parvero però ostili e diffidenti. Nel suo vagare smarrito camminava col solito passo leggero e sinuoso. Cominciò a frequentare i caffè, non avevano nulla di quelli alla moda che aveva frequentato a Milano, Torino o a Roma, città dove era diventato uomo e artista, e le donne, che aveva sempre amato sorprendere e sedurre, qui non riuscivano neanche a guardarlo negli occhi. Un peccato che forse era troppo grande per essere perdonato nei confessionali delle tante chiese che invece, scoprì presto, erano sempre affollate. Anche i teatri si riempivano per le opere liriche, quelle più famose, più facili, e sentì subito che non contava la musica, il canto, era solo un rito sociale, come la messa la domenica, bisognava

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esserci. Cominciò così a frequentare i teatri, non mancava a nessuna opera, acquistò il posto in un palchetto, partecipò anch’egli a quella cerimonia laica, anche se non aveva mai amato troppo l’opera, lo fece per avvicinarsi al cuore della città per entrare nelle grazie dei suoi borghesi che nei teatri pieni si illudevano di vivere come a Milano o come a Roma. Capì col tempo che la città diffidava della bellezza e dell’arte, e quindi degli artisti. Perché la bellezza, per quei cagliaritani, era come le opere d’arte, non era necessaria perché non si mangia e non si indossa. Dopo qualche tempo si accorse che le vecchie si segnavano al suo passaggio, biascicando invocazioni gutturali come quelle di un rosario livido e pieno di paura. Lui era quello che viveva nei cimiteri, che viveva della morte, chiuso nel suo studio a pochi passi dal cimitero di Bonaria. I borghesi, più educati, i primi tempi lo avevano degnato di qualche attenzione, ma poi negli anni anche loro al vederlo erano a disagio e frettolosi. Quando lo incrociavano per strada, salutavano veloci, fuggendo verso falsi impegni, pregando in cuor loro di non doverlo chiamare per qualche monumento. Ma alla fine tutti muoiono prima o poi, e anche i più restii dovevano cercare lo scultore piemontese, lo straniero che fra le famiglie dei commercianti era diventato popolare per una statua che in città aveva commosso tutti. Commosso, spaventato, impietosito, ma anche attratto, perché la morte si sa, spaventa, ma anche attrae. La morte di Efisino Devoto lasciò la città attonita: la sua era una famiglia molto

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SARTORIO IL DUELLO

FOTOGRAFIA DI MARCO ALBERTO DESOGUS - “BONARIA. IL CIMITERO MONUMENTALE DI CAGLIARI” - EDIZIONI TAM TAM

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conosciuta e rispettata. Nel monumento funebre il bambino appariva addormentato come abbandonato a un sonno ristoratore su una seggiola, con in mano un giocattolo di legno e in basso sul piedistallo la scritta: “Cattivo! Perché non ti risvegli?!”. La scritta fu un’idea di Sartorio ed ebbe molto più successo della statua stessa che in poco tempo però si impolverò, dimenticata per sempre nella cappella di famiglia, perché anche ai genitori di Efisino il destino non lasciò troppi anni per piangerlo. Nelle case dei morti, Sartorio arrivava sempre dopo l’ultimo respiro. Quando ormai non c’era più il tempo, perché il tempo dopo la morte è come un giocattolo rotto, come un vecchio orologio che non si può più aggiustare. Rimangono solo i vivi a calcolare i minuti, le ore, i giorni, per potersi separare dal dolore, per seppellirlo per sempre nel fondo della memoria,

dove non fa più male. Quei corpi ormai erano immobili, rigidi, nelle case, negli ospedali nelle lugubri camere ardenti. Intorno solo pianti, urla, lacrime, disperazione. Oppure il silenzio. Voci sommesse, invocazioni ritmate, cantilenanti, in quella strana lingua del luogo che non aveva mai capito. La sera nella sua stanza non riusciva a togliersi di dosso l’odore acre dei fiori passiti, dei profumi usati per coprire l’olezzo della morte. Per Sartorio il marmo aveva ormai solo quella forma, la forma di quel dolore, di quei corpi composti nei gesti finali. Niente più vita. Solo morte. Occhi chiusi, per sempre. Visi che il marmo rendeva ancora più freddi. Gli chiedevano, i parenti, di restituire una scintilla, un’illusione della vita vera. Oppure di fissare per sempre i corpi nell’ultima posa teatrale della morte, fra i veli, le loro trasparenze. Quelle opere serviva-

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no a raccontare a tutti quanto avevano patito i morti, quanto avevano sofferto i vivi. Teste reclinate, velluti immaginari, trine, merletti. Illusionismi pietrosi, imitazioni dell’eleganza dei vivi di un tempo, simbolo del loro status terrestre, da tramandare, da fissare per un’eternità vaga e ambigua, come la morte, con tutti i suoi segreti. Intorno a lui i parenti giacevano nelle pose goffe del cordoglio, così gli apparvero sempre di più col tempo, con l’abitudine. Figurine attonite e smarrite di una deposizione che non aveva niente di sacro, con lo sguardo incredulo che si ha davanti al trapasso, davanti a quella soglia oscura, a quella porta segreta che nessuno vorrebbe aprire. Francesca Warzee era morta d’estate. Non si dovrebbe mai morire d’estate. Aveva pensato così, entrando nella casa elegante nel centro della città, dove fu accolto dall’odore dei fiori che il caldo aveva fatto appassire in fretta. Era tutto in decomposizione. La chimica dei corpi e dei vegetali aveva iniziato il suo lavorio invisibile. Svaporavano insieme la carne e le fibre. I fluidi marcivano. Pensò che bisognava fare in fretta. Osservò il corpo della donna appoggiato lievemente sul letto di morte. Si sgomentò al pensiero che tutta quella bellezza sarebbe stata inutile sottoterra. Con quel caldo, sarebbe durata ancora pochi giorni. Il silenzio nella casa era profondo, eppure in tutte le stanze c’erano capannelli di persone. Sembravano tutti imprigionati in un dolore che non riusciva ad esprimersi. Tolse dalla sua borsa di cuoio un taccuino, prese la sua matita e cominciò a disegnare quel volto pallido, scavato dal dolore.

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Non aveva ancora idea di come sarebbe stato quel monumento funebre, voleva solo fissare i lineamenti, rendersi conto delle proporzioni di quel corpo che stava davanti a lui vestito di un lino bianco impreziosito da trini e merletti, coperto da un lenzuolo anch’esso di un candore abbagliante. Fu attratto da un respiro fragilissimo, impercettibile che arrivava alle sue spalle da un punto imprecisato della stanza. Si voltò e vide seduto su una sedia, composto come uno scolaretto, un bambino. Il viso era dello stesso pallore di quello della morta, segno della stanchezza di chi aveva vegliato tutta la notte. Sembrava abbandonato in quella stanza al suo dolore dagli altri parenti, sembrava che

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nessuno volesse rispondere alla sua domanda, quella che era fissata nei suoi occhi larghi e profondi, nella bella bocca, nelle due labbra le cui linee sottili erano strette in una morsa di dolore, di rabbia e di stupore. Smise di disegnare e dovette uscire da quella stanza il più in fretta possibile, spaventato da quegli occhi apparsi nel buio, da quella domanda a cui non poteva rispondere. La morte era sempre stata con lui e così fu anche nel suo ultimo viaggio da Terranova a Civitavecchia, sul vecchio piroscafo. Tornava a casa forse per sempre. Questa volta il mare era piatto senza onde, non fece sogni minacciosi, si guardò nello specchio della cabina e

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non vide niente, quel niente però lo sgomentò. Le onde allora, la prima volta, lo avevano fatto sentire stranamente vivo. Ora si guardava nello specchio e pensò al suo monumento funebre, come sarebbe stato? Chi lo avrebbe scolpito? Uscì sul ponte, nel cielo la luna piena illuminava il mare vastissimo, infinito. Guardò dall’alto quel fluido in movimento e gli sembrò di vedere in quello specchio enorme d’acqua riflessa la sua immagine, quella che aveva visto nel sogno

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tanti anni prima, era lui ma diverso, sembrava felice, si chiamava come allora con un gesto della mano. L’acqua gli sembrò ancora calda per essere il 19 settembre, vide la luna grande, vide anche il nome della nave, “Tocra”, divenire sempre più piccolo, le poche luci del piroscafo scomparivano all’orizzonte, non urlò, sentì una strana, inspiegabile felicità, si sentì libero, per sempre.

Enrico Pau

Enrico Pau vive e lavora a Cagliari dove insegna italiano nelle scuole superiori. Nel suo passato ci sono la radio, per Rai Sardegna, e il teatro. Nel suo presente una collaborazione con le pagine culturali de “La Nuova Sardegna” e il cinema, la sua grande passione. Il suo ultimo lungometraggio “Jimmy della Collina” è stato premiato, fra gli altri, ai festival di Locarno, Giffoni, Mons e Villerupt. Il suo documentario “L’anatema di Aquilino”, dedicato al poeta cagliaritano Aquilino Cannas, ha ricevuto il Premio Dessì, “Voci sul mare”, ritratto poetico della sua città, è stato premiato al Festival “Libero Bizzarri”.

Ringraziamenti ad Alessandro De Roma per il suo editing affettuoso a Concettina Ghisu per le sue preziose informazioni sul lavoro e sulla vita di Giuseppe Sartorio

La fotografia di Enrico Pau è di Marco Alberto Desogus

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COMUNE DI CAGLIARI

PROVINCIA DI CAGLIARI

CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA

coordinamento della rete

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