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El bronzin di Italo Cunei Si tratta del classico paiolo per la polenta dei bragozzanti lussingrandesi e quindi dei chioggiotti in generale. Era un recipiente da cucina, di matrice gallica, originariamente in rame a forma di fondo tondo, con manico arcuato e mobile, che si appendeva al gancio della catena del camino. È questa la sua descrizione pescata nel mio antico ma ancora assai valido vocabolario di italiano dei tempi andati, che mi consente tuttavia di sbizzarrirmi con la fantasia ricordando, in primis, la catena del fogoler di nonna Eleonora, allungabile od accorciabile in base alle dimensioni delle pentole, scalando oppure recuperando uno o più anelli della catena. Anche questi, tutti, rigorosamente, biscottati dalla fiamma eterna cui furono esposti vita natural durante. Come le anime dell’inferno alle quali, tra non molto, sicuramente io mi assocerò per solidarietà verso gli antichi amici colà già residenti, mio fratello Mario compreso. E qui, naturalmente, qui mi affretto a toccare ferro. Per tutti. Il nostro bronzìn, come facilmente intuibile, era un affare di bronzo, una lega di rame e stagno che possiede un alto potere di conduzione del calore. Il quale, pertanto, si distribuisce ovunque in modo uniforme nel recipiente. Per cui la polenta ivi cucinata, specie se di farina gialla a grana grossa e rivoltata sapientemente dalla “mescola”, vi si cuoceva in modo uniforme rendendo la polenta particolarmente buona perché cotta a puntino in ogni sua parte. E qui non voglio soffermarmi sulla “mescola” della polenta di mamma Maria che, dopo qualche marachella da bambino, me la vedevo minacciosamente roteare sulla testa a significare una dura punizione in arrivo; ora, invece, qui, mi preme di continuare con il bronzìn, o meglio, con le scaglie abbrustolite di polenta che si formavano sul fondo e sulle pareti di questo essenziale recipiente della nostra infanzia. Per le quali, le scaglie, assai spesso litigavo con Mario, pace all’anima sua. Precisamente: non quelle del fondo del bronzin che riuscivano piuttosto bruciacchiate perché esposte all’azione diretta della fiamma e perciò poco invitanti; quanto quelle che si formavano lateralmente, dove la fiamma del fogoler vi scivolava di sfuggita rendendole bell’e croccanti, tenere e sottili, dorate direi quasi, nei confronti delle quali i più raffinati cracker attuali, ad esempio, oggi si troverebbero a disagio! L’interno del bronzìn, dove si mescolava la polenta, era liscio e lucido per l’uso; non così esternamente perché i depositi carboniosi della combustione delle sbizze di
pino penetravano assai profondamente nelle porosità del metallo; e qui tenacemente vi si depositavano incrostando quelle infinitesime porosità; e in modo tale che poi assolutamente era impossibile rimuoverle. E neppure con il più energico procedimento di pulitura disponibile: lì restava quel carbone ed il bronzìn diventava sempre più nero, e così continuava sino alla fine dei secoli. Del resto, ripensandoci bene, anche noi medesimi a Lussino, durante la nostra infanzia e prima giovinezza, fummo esposti ad un analogo procedimento di, chiamiamolo così, salificazione. E mi riferisco, questa volta, all’ambiente saturo di sali del nostro paese dove crescemmo in simbiosi con il mare e quel fenomeno atmosferico, piuttosto caratteristico delle nostre parti, che noi conosciamo con il nome di bora. E mi spiegherò meglio, un po’ alla larga, qui di seguito. I professoroni di Vienna alla fine dell’Ottocento, dopo accurati studi ambientali sulla nostra isola, dichiararono che Lussingrande si dimostrava molto favorevole per la cura dello iodio e del sodio, e quindi particolarmente adatto agli ammalati di polmoni. Qui sorse perciò un ospizio marino, molto frequentato fino all’ultima guerra, quando, come tutte le altre cose più notevoli, cadde in disuso con l’arrivo dei barbari. Questo per quanto riguarda la scienza: nella realtà dei fatti, per essere d’accordo con quegli insigni professori austriaci, vi consiglierei di riguardarvi quella famosa fotografia della bora del 1939 dove si vede la scogliera di Velestiene battuta dalla mareggiata sollevata dal vento. Naturalmente, dalla medesima fotografia non è possibile sentire il ruggito della bora, però si scorgono benissimo i suoi effetti, i quali si materializzano in quella nube di aerosol marino che ricopre la scogliera e si diffonde ben all’interno della nostra isola. Noi respirammo quell’aerosol zeppo di iodio e sodio sin dai primissimi nostri vagiti. E, in aggiunta, qui soltanto accenno ai cavalloni che la bora scaraventava contro gli scogli sotto casa nostra alla Cappelletta, i cui spruzzi riuscivano ad incrostare in breve i vetri delle nostre finestre rivolte alla marina (anzi, delle doppie finestre di cui poche case di Lussingrande allora potevano vantarsi). E ciò con una spessa lastra di sale che rendeva assolutamente opache le finestre stesse, fin che durava la bora. La nostra pelle, come la superficie esterna del bronzìn rispetto al carbonio, fu poi ulteriormente impregnata da quei sali marini nelle lunghissime e persistenti nuotate