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Ricordi di guerra e del dopoguerra di Lina Miserocchi Visitando un agriturismo, ho visto, tra gli altri animali, un gruppetto di capre bianco-nere che mi hanno ricordato quelle due che mia madre aveva comprato in tempo di guerra per avere un po’ di latte e fare un po’ di formaggio. Il mio compito era quello di portarle a pascolare, al guinzaglio, come cani, in qualche radura verso Cigale. A causa dei bombardamenti, andavamo a dormire a Lussingrande, a piedi, per tornare il mattino dopo a Lussinpiccolo, a prendere il pane razionato e fare la fila per un po’ di carne o un po’ di pesce, se un qualche ardito s’era azzardato a uscire in barca, perché era facile che un’imbarcazione in movimento potesse essere mitragliata. Una mattina, lungo la via del ritorno a Lussinpiccolo, incontrammo una donna alla quale chiedemmo se sapesse dove fossero cadute le bombe che avevamo sentito rintronare nel corso della notte. Rispose di non saperlo esattamente ma aveva sentito dire da mio fratello Toni, che dormiva nella cantina della nostra casa, che avrebbe mangiato arrosto di capra. Mia madre si mise a piangere e ci affrettammo per vedere l’accaduto: l’orto non esisteva più, centrato dalla bomba. Sul muro della casa, oltre alle schegge, c’erano le impronte delle due capre, spiaccicate dallo spostamento d’aria. Mio fratello si era affrettato a raccogliere l’utilizzabile, seppellendo il resto affinché mia madre non ne vedesse lo scempio. La mamma cucinò, piangendo senza singhiozzi, poi si mise a tavola con noi. Ma erano altri i problemi da risolvere. La casa era divenuta inagibile, essendo crollata tutta la scala e pure il tetto era in parte scoperchiato. Occorreva raccogliere l’indispensabile e trovare un’altra sistemazione. Il consiglio comunale ci venne in aiuto, dandoci la chiave della villa di Velopin che era disabitata dopo la morte dei proprietari. Vi ci trasferimmo subito, compresa mia sorella con i suoi bambini, evitando così il faticoso via vai per Lussingrande. Ogni mattina qualcuno di noi andava in Piazza a prendere il pane razionato, a fare la fila per un po’ di carne o di pesce. Mio padre era riuscito a trovare due orti abbandonati che subito ripristinò. Vivemmo così fino alla fine della guerra. Ma per noi italiani ci furono tante altre difficoltà. Con l’occupazione dell’Istria e delle Isole da parte degli slavi,
iniziò immediatamente una persecuzione che ci costrinse ad un doloroso esodo e fummo in 350.000 a dover cantare:” Oh mia patria sì bella e perduta!”
A Lussino, dopo l’8 settembre 1943
Il giorno dopo l’annuncio dell’armistizio, la valle di Lussinpiccolo si riempì di navi e di barche, provenienti dalla Dalmazia, occupata ormai dalle forze titine. Era il porto più vicino ancora italiano. Quando arrivò la notizia che a Lussingrande erano sbarcati dei militari, non ben definiti, in un battibaleno la valle si svuotò; se ne andò anche il comando italiano che non poteva ricevere ordini. Eravamo alle mercé dei nuovi venuti: era un drappello di Cetnici, soldati fedeli al re di Jugoslavia che avrebbe voluto chiedere asilo all’Italia, perché inseguito dai partigiani di Tito. Si ritrovarono, invece, padroni del campo e avevano trovato cibo e armi. Ma presto dopo una breve sparatoria, furono circondati dai Titini e fatti prigionieri, messi in colonna e avviati verso Lussingrande. Vedendoli, mi venne in mente la poesia “ La spigolatrice di Sapri” che diceva: “Erano trecento, eran giovani e forti e sono morti…un giovin camminava innanzi a loro; mi feci ardita e, presolo per mano, gli domandai: ‘ dove vai bel capitano?’” Pensai, ma io non avevo bisogno di chiedere niente perché sapevo già che andavano incontro alla morte. Si seppe infatti che erano stati imbarcati su di un peschereccio, portati al largo, poi mitragliati e gettati in mare. Uno di loro si salvò, raggiunse a nuoto la riva e rimase a lungo alla macchia nutrendosi di erbe e di bacche , finché non vide arrivare i tedeschi. Allora si presentò chiedendo di lavorare. Fu mandato dalla Pia “Masciòn”, il cui marito si era diretto con la barca verso l’Italia. Questa lo tenne per un po’, poi lo riconsegnò ai tedeschi e di lui non si seppe più nulla. I tedeschi non furono particolarmente severi con la popolazione che combatteva una dura battaglia per la sopravvivenza, poiché il cibo era scarso e razionato. Aspettavamo con ansia la fine della guerra, sperando tornasse la normalità ma per noi Italiani d’Istria non ci fu più normalità, ci fu solo una tale ostilità da costringerci a un esodo doloroso.
Foto Alberto Giovannini