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Quadrimestre 45 - pagina 47

Autunno di Estella Scarpa Ragusin Non è autunno il nostro ricco di messi; non vi crescono né frumento, né grano turco dalle grosse pannocchie che ci danno la polenta, nutrimento principale dei pescatori. Andavo ogni venerdì a bordo di un battello da pesca; era fermo alla riva ed i pescatori mi offrivano un bel piatto di polenta fumante condita col pesce poco prima pescato e da loro stessi cotto; era condito con l’olio delle nostre olive. Com’era bella la vita! Idilliaca, rustica, pastorale. C’era poi la vendemmia, una piccola vendemmia, povera tra tanti sassi, poca pioggia e poca terra; non ci si poteva aspettare di più. Il 15 agosto, il più ricco contadino offriva alla Madonna i primi grappoli di uva matura che, assieme ad un arco di mirto, adornavano l’architrave della piccola Chiesa. Tra uno sfolgorio di luci e di candele accese incominciava a snodarsi la processione che uscita dalla Chiesa, faceva il giro della piccola piazza antistante, tutta imbandierata e piena di folla devota. Noi piccoli guardavamo quei grappoli, che erano per noi intoccabili. Era l’uso a Lussino che durante quel giorno nessuno andasse in campagna a cogliere l’uva, e guai se qualcuno osava staccare un fico dalla pianta. Per assaggiare l’uva novella bisognava pazientemente aspettare il giorno dopo. Con la piccola vendemmia ogni famiglia aveva il suo vino, ma poco e non bastava al fabbisogno di tutto l’anno. Al resto del vino provvedevano le barche che dalla Dalmazia ci portavano l’Opollo e da Sansego il nettare color rubino. Verso la fine dell’autunno c’era un movimento nuovo, una preparazione strana: corse in campagna, ritorni, racconti, speranze. Incominciava il raccolto delle olive. Uomini, donne, padroni e padroncini con sacchi e cesti si recavano al lavoro. Il raccolto durava dagli otto ai dieci giorni. E tutti alla sera tornavano col loro carico, più o meno pesante, in testa. Ed anch’io portai il mio cesto ricolmo. Dopo qualche giorno si portavano le olive al mulino. Assistevamo tutti al lavoro. Otto, dieci uomini, con le mani appoggiate ad un braccio di legno a raggiera, fissato su di un palo, giravano intorno, mentre le pale si muovevano nelle vasche di pietra schiacciando così le olive, che venivano rovesciate dentro dalle donne. Gli uomini erano scuri, sudati, lucidi, sembrava che anche da essi dovesse secernere quell’olio dorato, limpido, buono. Il nostro più grande divertimento era andare al mulino: gli uomini cantavano una loro cantilena; noi fanciulli intorno, cantavamo per gioco.

Finita la macinazione, l’olio veniva portato a casa con brente che servivano anche da misura, e versato nelle pile scavate nella pietra viva, o in grandi giare di terracotta, dalla pancia gonfia: pile o giare che duravano nelle case per più di cento anni. Infine ogni padrone preparava una festa. Invitati erano contadini e facchini che avevano preso parte al lavoro, parenti ed amici. Il vino abbondante, il pane arrostito nel forno di casa, i maccheroni o i fusi, la carne gustosa, il pesce e le “fritole” lussignane, leggere, dolci. Il tutto condito con l’olio nuovo. Questa festa veniva chiamata “canata”. Per molti anni ho creduto che la parola fosse di origine esotica, ma poi leggendo D’Annunzio la ritrovai. Una parola dunque italiana che dall’Abruzzo era giunta a Lussino. Ora tutto è finito. Si avvicina l’inverno. Le donne si ritirano in casa, e alla sera si riuniscono e lavorano a maglia, fanno pizzi e ricami. O vita santa e beata! Semplice e pur tanto felice! da “Quadretti Lirici” Tipografia Fortuna – Trieste 1952